Milazzo film festival 2025: tra cinema, musica e teatro

Il Milazzo Film Festival si è appena concluso, ma anche quest’anno ha regalato grandi emozioni a tutti gli appassionati di cinema e non, grazie a un intenso programma ricco di ospiti di spessore.

La diciannovesima edizione del festival è iniziata il 5 Marzo,  caratterizzata da un connubio di cinema, musica e teatro in un evento coinvolgente. La kermesse si è aperta con uno spettacolo dell’attore e regista Sergio Rubini ed è proseguita con un gran numero di proiezioni di ogni genere. Il pubblico ha potuto assistere ai cortometraggi in concorso poi premiati, ai corti di repertorio provenienti direttamente dal Museo Nazionale del Cinema di Torino, che hanno mostrato al pubblico la Sicilia di una volta. Inoltre, sono state effettuate le grandi proiezioni, come L’uomo nero di Sergio Rubini, L’arminuta di Giuseppe Bonito, il docufilm Pino Daniele – Nero a metà di Marco Spagnoli e tanti altri.

Milazzo Film Festival
I presentatori del Milazzo Film Fest intervistano Sergio Rubini. Ph: Marco Castiglia

Tra gli ospiti hanno presenziato personaggi come Vanessa Scalera, il regista Marco Tullio Giordana, di cui il festival ha proiettato alcuni film come Lea e La vita accanto. Presente anche Sonia Bergamasco che, in questa occasione, ha presentato il suo ultimo libro Un corpo per due e il docufilm che l’ha vista alla regia, Duse.

Tra incontri con le scuole, conferenze e consegne di premi,  il festival ha mantenuto alta l’attenzione fino alla sua conclusione, avvenuta il 9 Marzo con l’ultima proiezione, Familia di Francesco Costabile, alla quale ha preso parte anche il giovane Francesco Gheghi, anch’egli ospite della manifestazione.

Anche quest’anno, il Milazzo Film Festival ha confermato il suo valore e, al pari delle edizioni precedenti, è stato in grado di suscitare grandi emozioni.


Marco Castiglia

 

Milazzo Film Fest 2025: Familia

Familia è un film del 2024 diretto da Francesco Costabile, tratto dall’autobiografia di Luigi Celeste  Non sarà sempre così.  La pellicola si propone di raccontare una storia realmente accaduta.

I cerotti non servono

Familia è la storia di una famiglia che parla di violenza, non solo domestica, ma soprattutto psicologica. Luigi Celeste (Francesco Gheghi) e Alessandro (Marco Cicalese) sono fratelli e, da tempo, insieme alla madre Licia Licino (Barbara Ronchi), subiscono gli abusi del padre, Franco (Francesco Di Leva). Il film non si limita alle tematiche disfunzionali, ma esplora nel complesso il trauma psicologico dei personaggi. La brutalità è sempre presente, trattata come un dato di fatto, una realtà con cui i protagonisti devono convivere. Un aspetto interessante, che riguarda il modo in cui le cicatrici non sono solo personali, ma anche familiari. La famiglia stessa diventa simbolo di prigionia emotiva. La continua ricerca di una riconciliazione, spesso impossibile, simboleggia il conflitto tra la necessità di perdonare e quella di proteggersi dal dolore.

familia
fonte: cinetecadibologna.it

Tormento angosciante di un ombra

Francesco Gheghi, giovanissimo vincitore del Premio Orizzonti per la miglior interpretazione maschile, nel ruolo di Luigi Celeste, offre una performance notevole, riuscendo a interpretare un personaggio complesso e tormentato grazie alla sua capacità di passare da momenti di fragilità a momenti di forza. A mano a mano che la trama si sviluppa, l’inevitabilità di sentirsi parte integrante della narrazione diventa progressivamente più evidente. La regia di Francesco Costabile è sobria e incisiva: le inquadrature sono infatti strette, e i primi piani, silenziosi ma efficaci, tanto da smascherare quanto la figura di Luigi sia destinata a essere tormentata da quell’ombra buia rappresentata dal padre. Un circolo vizioso che segue solo un obiettivo irraggiungibile, giustificato dalla manipolazione e dalla dipendenza emotiva, il perdono.

frame trailer. Fonte: youtube.com

Scolpiti dalla violenza

L’amore è paradossale in un contesto del genere: inconcepibile e masochista, ma c’è. Compare a starnuti per tutta una serie di meccanismi di negazione e distorsione della realtà. Punto centrale è la lotta interiore della persona abusata, che spesso oscilla tra l’amore e la paura, tra il desiderio di cambiare la situazione e l’incapacità di farlo, bloccata dalla manipolazione emotiva e dalla dipendenza psicologica. Licia (Barbara Ronchi) cede alle fasi di ‘’luna di miele’’, sperando quasi in un cambiamento che, chiaramente, non arriva. La bravura di Barbara Ronchi nelle vesti di Licia mostra quanto lei rappresenti un territorio ferito, segnato da cicatrici che non raccontano solo colpi fisici, ma anche l’erosione silenziosa della dignità. Una critica alla giustizia che arriva sempre troppo tardi e talvolta complice, accetta, tollera e rallenta il processo che si alterna.

Fonte: framedmagazine.it

Dentro le mura, oltre il silenzio

Una famiglia tormentata dal fatto di non riuscire a diventare tale, ogni tentativo di pacificazione è vano. Francesco Costabile lo sa bene e, evitando infatti moralismi e semplificazioni, il film diventa quasi claustrofobico, trattiene ed esplode solo alla fine. Questi legami asfissianti, che non sanno sfuggire alla prigione emotiva, diventano frutto di ulteriore violenza.

Una storia che sviscera i meccanismi dell’abuso, ma anche a esplorare come la società, la famiglia e la comunità tendano a fare finta di nulla o a giustificare comportamenti violenti. La regia cattura la bellezza struggente della solitudine delle vittime, in cui la violenza si insinua lentamente, come un veleno silenzioso che consuma tutto dall’interno. La macchina da presa si fa sempre più piccola, più intima, come se ogni inquadratura fosse un atto di comprensione o denuncia.

In un’epoca in cui si parla molto di diritti e di giustizia, Familia apre uno spazio di riflessione su quanto sia fondamentale non solo riconoscere l’abuso, ma anche prevenirlo, educare e intervenire tempestivamente. Una piaga sociale che spesso rimane nascosta e che, in un film del genere, viene trattata senza cadere nei sensazionalismi o nella banalità dei cliché. Un’opera dallo sguardo sincero, che porta alla luce una realtà cruda e invita a riconoscere come alcune dinamiche siano così radicate da sembrare normali.

 

Asia Origlia

Milazzo Film Fest 2025: L’Arminuta

L’Arminuta è un film del 2021 diretto da Giuseppe Bonito, tratto dall’omonimo romanzo di Donatella Di Pietrantonio, vincitore del Premio Campiello 2017. Il film ha inoltre ottenuto un David di Donatello per la miglior sceneggiatura non originale, uno per il miglior film (2021) e un Nastro d’Argento.

Biglietto solo andata

Il titolo, che in dialetto abruzzese significa “la ritornata”, si riferisce alla protagonista: una ragazzina che viene “restituita” alla sua famiglia biologica dopo aver vissuto per molti anni con quella adottiva. Catapultata in una realtà diversa da quella che viveva prima, l’Arminuta (Sofia Fiore) vive così il dramma della separazione e, di conseguenza, quello di una crisi d’identità.

Il tema della famiglia è dunque al centro, ma non nella sua rappresentazione ideale, bensì come un insieme di relazioni complicate, che non sempre offrono amore incondizionato, ma piuttosto fratture e incomprensioni.

Visualizzato senza risposta

La sua crescita si realizza più nel vuoto lasciato da un affetto mancante che nella ricerca di un amore che la completi. L’Arminuta è costretta a fare i conti con una mancanza di risposta da parte delle persone da cui dovrebbe aspettarsi accoglienza e calore; questo è proprio il cuore pulsante della sua lotta interiore.

Film in cui l’amore viene offerto a singhiozzo e in modo distaccato, l’Arminuta quindi diventa simbolo di una generazione che cresce in un mondo dove le relazioni non sono più così semplici, laddove l’amore non è scontato e il legame di sangue non sempre garantisce connessione emotiva. L’incapacità di essere amati in modo semplice diventa, paradossalmente, una spinta per la protagonista a cercare di trovare un equilibrio dentro di sé.

L'Arminuta
Vanessa Scalera e Sofia Fiore in una scena del film. Fonte: https://www.anonimacinefili.it/wp-content/uploads/2021/10/larminuta-2.jpg

Quando l’amore diventa conflitto

Complesso è il rapporto con la madre, che non è né materna né affettuosa, semplicemente non sa come amarla. Non la respinge di fatto intenzionalmente, ma non sembra vedere l’Arminuta come una figlia.

Metaforicamente parlando, è come se la madre fosse un muro, non cattivo, ma pur sempre un muro. La sua casa, per quanto priva di affetto, resta sempre casa sua, e lei è, per quanto difficile da accettare, sua figlia.

Vanessa Scalera, grazie alla sua performance, restituisce al personaggio realtà e intensità; la sua interpretazione non è mai eccessivamente melodrammatica, ma piuttosto contenuta da qualsiasi tipo di sentimentalismo, fatta di piccole sfumature, in cui emerge la fatica di una madre che ha vissuto una vita difficile e che non ha gli strumenti emotivi per accogliere la figlia che le è stata restituita.

Scalera evita un’interpretazione troppo didascalica della madre “dura” e “insensibile”, ma semplicemente su una figura che è incapace di esprimere l’affetto che, forse, prova.

Vivere oltre il dolore

L’Arminuta è un film che non tenta di trovare una soluzione: grida incompletezza, perdita e resilienza. Non ci sono facili risposte o chiusure emotive.

Tra i personaggi, tra l’altro, quella che sembra essere la più equilibrata nel contesto in cui vive è Adriana (Carlotta De Leonardis), sorella dell’Arminuta. Adriana è pragmatica, ha accettato la sua realtà familiare e, anche se non manifesta apertamente affetto, è molto più radicata nella quotidianità, sembra disillusa e rassegnata alla sua condizione, non mostra particolare entusiasmo, ma ha imparato a vivere con quello che ha, senza aspettative di cambiamenti. A modo suo, è quella che riesce a restituire ciò che si avvicina di più all’amore all’Arminuta, senza troppe frasi fatte, ma solo attraverso gesti significativi.

Sofia Fiore e Carlotta de Leonardis. Fonte: pad.mymovies.it

Un ritorno che spezza senza ricomporre

Il film offre una critica al concetto tradizionale di famiglia perfetta e all’incapacità di trovare empatia e comunicazione. Una storia commovente, cruda e con uno sguardo realistico.

Un viaggio interiore ed emotivo che esplora il difficile cammino della protagonista, che piano piano si sforza di cercare risposte e ottenere quelle più amare. La crescita personale dell’Arminuta, pur segnato da frustrazioni, è un percorso tortuoso ma che volge a un’accettazione senza più illusioni di trovare una felicità esterna.

 

Asia Origlia

Tutto pronto per il Milazzo Film Festival 2025

Ci siamo! E’ giunto il momento… Sta per arrivare l’undicesima edizione del Milazzo Film Festival.

L’evento milazzese si terrà al teatro Trifiletti e verrà inaugurato la sera del 5 Marzo. Proseguirà nei giorni successivi, dal 6 al 9 marzo, quando si terrà la giornata conclusiva del Festival.

Numerosi ospiti di rilievo arricchiranno la manifestazione: l’attore e regista Sergio Rubini, le attrici Sonia Bergamasco e Vanessa Scalera, il regista Marco Tullio Giordana, il giovanissimo attore Francesco Gheghi, recentemente visto in Familia e protagonista di Mani Nude, in uscita nelle sale il 27 marzo.  Saranno presenti anche  lo scenografo Marco Dentici e l’autrice televisiva e regista Anna Carlucci.

Un’edizione piuttosto promettente

Quest’anno il programma si presenta ricco, e i direttori artistici Caterina Taricano e Mario Sesti hanno curato una serie di appuntamenti che ruotano attorno alla proiezione dei cortometraggi e lungometraggi in concorso, alla presenza di attori e registi di grande rilievo, oltre a incontri, premiazioni e approfondimenti sul mondo del cinema.

Antonio Napoli, uno degli organizzatori, descrive sinteticamente il Festival con queste parole:

Tanti ospiti, nuovi partner, tante novità e un programma ricco di appuntamenti. Il mio grazie va a tutti quelli che ogni anno ci sostengono, in modo particolare agli sponsor e alle scuole che, in modi diversi, parteciperanno all’evento.

Fonte:milazzofilmfestival.it

Il programma del Milazzo Film Festival

Il Festival milazzese prenderà il via mercoledì 5 marzo alle 21:00, con Sud, lo spettacolo di Sergio Rubini, accompagnato dalle musiche originali di Michele Fazio. Questo evento rappresenterà l’anteprima della rassegna mamertina,  che proseguirà da giovedì 6 a domenica 9 marzo. Il Festival offrirà l’ingresso gratuito a tutti gli eventi, che includeranno proiezioni, incontri con gli artisti e premiazioni.

Giovedì 6 Marzo

A partire da giovedì, tutte le mattine saranno dedicate agli incontri tra gli studenti delle scuole medie e superiori e la Attorstudio School. Dalle 15 si susseguiranno diversi eventi, tra cui la presentazione della Stanza Del Mare e della Sostenibilità Ambientale e il Concorso Internazionale di Cortometraggi. Seguirà un incontro con Sergio Rubini e poi la proiezione del suo film L’Uomo Nero (Italia, 2009).  In seguito, ci sarà l’incontro con Anna Carlucci e la proiezione del suo documentario La vita tra le mani (Italia, 2024).  La giornata si concluderà alle 21:00 con la proiezione di alcuni lungometraggi in concorso.

Venerdì 7 marzo

Dalle 15 continuerà il Concorso Internazionale di Cortometraggi, seguito dalla proiezione di altri lungometraggi. Successivamente, si terrà l’incontro con Vanessa Scalera, a cui seguirà la proiezione del film Lea (Italia, 2015), diretto da Marco Tullio Giordana e con la Scalera nel ruolo della protagonista. L’attrice riceverà l’Acting Award, dopodiché verrà proiettato il film L’Arminuta (Italia, 2021) di Giuseppe Bonito.

Sabato 8 marzo

A partire dalle 9:30, si terrà la presentazione dei panel tematici e i saluti del sindaco di Milazzo, Pippo Midili. I vari panel saranno dedicati ai seguenti temi:

  • Cinema e Intelligenza Artificiale
  • la Rivoluzione nel Mondo della Celluloide
  • Cineturismo, con la presentazione del libro Cineturismo in Sicilia – luoghi e paesaggi di Enrico Nicosia (ed. Kalos) e l’intervento di Giovanna Giulia Zavettieri dell’Università di Roma Tor Vergata
  • EcoMuseo 2.0

Alle 15 riprenderà il Concorso Internazionale di Cortometraggi, seguito dalla proiezione di altri lungometraggi. Successivamente, si terrà  l’incontro con Sonia Bergamasco e la presentazione del suo libro Un corpo per tutti. A seguire, verrà proiettato  Duse – The Greatest (Italia, 2025), diretto dalla stessa Bergamasco, che riceverà l’Acting Award. La serata proseguirà con la proiezione del film La Vita Accanto (Italia, 2024) di Marco Tullio Giordana.

Domenica 9 marzo

A partire dalle 9:30, riprenderà il Concorso Internazionale di Lungometraggi e, nel pomeriggio, saranno proiettate alcune opere fuori concorso.

Alle 18, dopo la premiazione dei lungometraggi, verrà consegnato il premio Il Racconto della Voce ai giornalisti Massimo Sebastiani (Ansa), autore del podcast La parola della settimana, e Pablo Trincia, autore dei podcast Veleno, Dove nessuno guarda e E poi il silenzio. Il disastro di Rigopiano.

In serata, si terrà l’incontro con l’attore Francesco Gheghi, che riceverà il premio A Star Is Born. A seguire, verrà proiettato il film Familia (Italia, 2024) di Francesco Costabile, in cui Gheghi fa parte del cast.

Fonte: milazzofilmfestival.it

Le partnership

Anche per questa edizione si rinnova la partnership con Inail Sicilia, che assegnerà il premio Inail – La dignità del lavoro al miglior cortometraggio realizzato da giovani autori under 35 sul tema del lavoro e della sicurezza.

Confermata anche la collaborazione con l’Istituto Renato Guttuso, diretto dalla preside Delfina Guidaldi. Come ogni anno, gli studenti del Liceo Artistico, sotto la guida delle docenti Angela Caprino e Gabriella La Fauci, realizzeranno le scenografie dell’evento. Inoltre,  un gruppo di giovani fotografi, coordinato da Maria Grazia Pagano,  immortalerà i momenti più significativi del Festival.

La novità di quest’anno è la partecipazione degli studenti dell’Istituto Alberghiero che, grazie all’impegno del professore Gaetano Previti e dei suoi colleghi, offriranno una Colazione a km 0  nella mattinata di sabato 8 Marzo, in collaborazione con aziende locali come il Sikè, l’azienda di Daniela Virgona e Pagnotta è salute.

Insomma, anche quest’anno il Milazzo Film Festival si conferma un appuntamento molto interessante e variegato, capace di coniugare cinema, formazione e valorizzazione del territorio, consolidando il suo ruolo di punto di riferimento culturale.

Un evento da non perdere.

 

Giorgio Maria Aloi

Il mondo perde David Lynch, ma la sua arte rimarrà immortale

 

Ci lascia a 78 anni David Lynch, una delle menti più geniali del panorama artistico degli ultimi 50 anni. Era malato di enfisema polmonare.

Una personalità riservata ma al contempo ribelle e immensamente creativa. Nell’arco della sua vita è stato regista, pittore, attore, sceneggiatore, montatore, produttore, scenografo, cantante, compositore, designer. Lascia 5 figli e la moglie Emily Stofle.

David Lynch nel 2006. Immagine Brunopress.

Il sogno dell’artista

Nasce a Missoula, in Montana, nel 1946. Fin da giovane sogna di diventare un’artista, ed inizia, infatti, la sua carriera lavorativa come pittore. Dopo essere stato licenziato da un negozio di cornici presso cui lavorava decide di viaggiare in Europa per studiare. Il viaggio però dura soli 15 giorni, dopo i quali Lynch torna negli Stati Uniti e da lì comincia la sua carriera da regista con la realizzazione di alcuni cortometraggi sperimentali, tra cui il fantastico The Alphabet (1968).

Gli albori del cinema di David Lynch

Il regista comincia a lavorare al suo primo lungometraggio nel 1971, ma, per mancanza di budget, la pellicola viene portata a termine solo nel 1977: l’indimenticabile Eraserhead – La mente che cancella, che, tra l’altro, fu definito da Stanley Kubrick come il suo film preferito.

Già dal suo primo film Lynch scandisce bene quelle che sarebbero state le caratteristiche del suo stile che diverrà inconfondibile: l’atmosfera cupa, il disagio, il sogno che si interseca con la realtà, l’inconscio.

La sua carriera prosegue nel 1980 con The Elephant Man, un drammatico ritratto di un “rigetto” della società, che lo rende acclamato e popolare tra critica e pubblico.

Dopo il fallimento, per via della produzione, del suo primo ed ultimo progetto ad alto budget, Dune (1984), darà vita allo splendido Velluto Blu (1986) in cui prenderà parte anche la sua musa dell’epoca, Isabella Rossellini.

David Lynch e Anthony Hopkins sul set di The Elephant Man (1980). Produzione: Paramount Pictures.

Twin Peaks e la rivoluzione della serialità

Nel 1990 David Lynch, insieme a Mark Frost, rivoluziona per sempre il mondo della Serie TV, facendo in modo che queste diventassero un nuovo strumento per raccontare storie impegnate, andando contro a quelle che erano le mode di quegli anni e che facevano sottovalutare il potenziale della serialità. Adesso chiunque, dagli Stati Uniti all’Italia, conosceva il caso dell’omicidio di Laura Palmer, interpretata da Sheryl Lee, e tutti si sentivano degli investigatori insieme all’agente Cooper, interpretato da Kyle MacLachlan, probabilmente l’attore che fu più caro al regista.

Nel 1992 Lynch non accontenta i fan e mostra gli avvenimenti precedenti a quelli della serie, invece che quelli successivi al finale, nel film Twin Peaks – Fuoco cammina con me. La sua scelta, tanto criticata, dà vita ad un capolavoro. 

Laura Palmer (Sheryl Lee) in una scena di Twin Peaks. Produzione: Lynch/Frost Productions.

“Ci rivedremo tra 25 anni”

25 anni dopo l’uscita della prima serie, Lynch inizierà la produzione della terza ed ultima stagione di Twin Peaks, che è l’ultima grande opera realizzata dal regista.

La seconda parte della filmografia

Dopo il successo di Twin Peaks, nel 1990 vince la Palma d’Oro per il miglior film a Cannes grazie al suo cult Cuore Selvaggio.

Nel 1999 si discosterà dal suo stile per dare vita a Una storia vera, un drammatico road movie su un anziano in cerca del fratello malato.

 Il picco massimo della sua carriera dal punto di vista dei lungometraggi, però, arriva con la sua “Trilogia dell’Onirico”, tre film sconnessi tra di loro ma che hanno molte caratteristiche in comune: Strade Perdute (1997), Mulholland Drive (2001) e Inland Empire – L’impero della Mente (2006).

Tutti e tre i film ci fanno viaggiare tra il sogno (o l’incubo) e la realtà, basandosi sul tema del doppio e mostrando la parte più inconscia dei personaggi. Lynch mette in scena il suo stile onirico inconfondibile e sopraffino, rendendo i suoi capolavori inimitabili e dal valore artistico inestimabile.

David Lynch: un artista a 360 gradi

Ovviamente David Lynch è maggiormente conosciuto per la sua carriera da regista, tralasciando però come la vena artistica lo abbia portato a non fermarsi lì. Lynch, infatti, oltre ad aver realizzato 10 film, circa 60 cortometraggi e 3 stagioni di Serie TV si è occupato di molto altro: ha realizzato diversi quadri, che rimandano al suo stile cinematografico; in ambito musicale ha prodotto e cantato in 4 album, oltre ad aver collaborato ad alcune colonne sonore per i suoi film insieme al maestro Angelo Badalamenti. Ha poi scritto 5 libri e nell’ultima parte della sua vita si è dedicato anche all’interior design.

Scena tratta dal documentario David Lynch: The Art Life (2016). Produzione: Duck Diver Films.

Un ultimo addio al Maestro

É doveroso rendere omaggio a tutto ciò che David Lynch ha realizzato in ambito artistico, a tutte le parole spese nelle sue interviste e nei suoi interventi pubblici. Lynch ha sempre cercato di fare in modo che le sue parole fossero personali e allo stesso tempo potessero essere condivise da chi ne avesse bisogno.

Parlava spesso della ricerca delle idee, che definiva “grandi pesci” che dobbiamo cercare di pescare, per quanto difficile sia, e del processo creativo che ne deriva. Discuteva frequentemente del confronto di artisti e non con la salute mentale, di come il troppo stress e la demotivazione non faccia bene alla creatività e motivava i giovani sognatori a cercare di combattere e superare le proprie paure e insicurezze, di guardare sempre, come diceva lui, “la ciambella, non il buco”.

 In tutto il mondo tante persone, come me, l’hanno sempre visto come una sorta di mentore, come un idolo e un’ispirazione.

Ha rotto regole per crearne di nuove, è andato contro il mercato hollywoodiano provando a sbeffeggiarlo e criticarlo quando possibile. Ha sempre cercato di portare avanti ciò che lui stesso voleva davvero, mettendo in secondo piano i problemi di comprensibilità e digeribilità richiesti dall’industria e dallo spettatore, ed infine, ciò lo ha premiato in quanto artista.

Se ne va uno dei più grandi di tutti i tempi, che ha lasciato un patrimonio immortale al mondo. Un artista tanto importante che rimarrebbe indimenticabile anche se si bruciasse tutto ciò che ha mai realizzato.

 

Alessio Bombaci

Stalker: lo specchio della nostra anima

 

"Stalker" di Tarkovskij è elegante connubio tra cinema, filosofia e teologia
“Stalker” di Tarkovskij è elegante connubio tra cinema, filosofia e teologia   – Voto UVM: 5/5

Ispirato vagamente dal romanzo “Picnic sul ciglio della strada” dei fratelli  Strugackij, Stalker risulta essere il film anti-fantascientifico per eccellenza: imbastendo un lungometraggio  pacato, riflessivo ed esistenzialista, Andrej Tarkovskij ci regala un’alternativa di stampo sovietico al cinema sci-fi americano, imbottito di azione e spesso magniloquente.

Prodotto dalla Mosfil’m (1979) e distribuito in Italia dalla C.I.D.I.F., è attualmente disponibile su Youtube integralmente sia in lingua originale con i sottotitoli in inglese, sia nella versione doppiata in italiano.

Lo scrittore di Stalker
“Lo scrittore” (Anatolij Solonicyn). “Stalker” (1979) di Andrej Tarkovskij.

LA TRAMA

In un imprecisato luogo dell’est Europa, un intellettuale ed uno scienziato decidono di avventurarsi in un sito protetto e difeso dall’esercito, la cosiddetta “Zona”, poiché si pensa che al suo interno ci sia una “Stanza” miracolosa che ha il potere di realizzare il desiderio di chiunque entri al suo interno: si rivolgono dunque, ad uno “stalker”, ovvero un’esperto della “Zona” che durante il film li aiuterà a superare le insidie e le trappole sovrannaturali che costituiscono il pericolo principale della suddetta area.

UNA FANTASCIENZA ATIPICA

Uno dei principi narrativi più attenzionati e misinterpretato da registi e sceneggiatori nell’ultimo secolo, è la cosiddetta “Pistola di Cechov”; il drammaturgo russo sovente consigliava ai propri allievi di eliminare dai loro lavori qualsiasi elemento futile ai fini della narrazione, riassumendo il concetto nell’iconica frase: «Non si dovrebbe mettere un fucile carico sul palco se non sparerà. È sbagliato fare promesse che non si vuole mantenere.»

Questo è ciò che contraddistingue Stalker da qualsiasi altro film fantascientifico: Tarkovskij ci promette una pellicola frenetica, nella quale i nostri protagonisti dovranno superare eroicamente le insidie nascoste nella pericolosa “Zona”, ed alla fine ottenere il loro meritato premio, come nei più classici dei romanzi o poemi epici.

Eppure le promesse non vengono mantenute; l’unica scena movimentata è la fuga dalle forze armate (che assomiglia più ad una partita a scacchi che ad un vero inseguimento) e i personaggi sono accomunati da un’aura di miserevolezza che si amplifica ad ogni estenuante lamentela, ad ogni insicurezza che viene rivelata man mano che i tre si addentrano nella “Zona” (ed è in questo che forse Stalker si avvicina maggiormente ad un’opera di Cechov).

lo stalker di "Stalker"
Lo “Stalker” (Aleksandr Kajdanovskij). “Stalker” (1979) di Andrej Tarkovskij.

IL MIRACOLO DELLA “ZONA”

L’ambientazione di Stalker è una stupenda metafora che riassume già nei primi minuti ciò che diventerà palese solo nelle battute finali: Tarkovskij descrive una realtà sospesa nel tempo, fatiscente ed immersa in uno stato catatonico, che il regista ci restituisce magistralmente impiegando uno sciatto seppiato (ricordando visivamente il cinema espressionista tedesco dei primi anni ’20) che infetta l’inquadratura come un virus, sottolineando lo stato di estrema apatia di ogni essere umano che vediamo a schermo.

È solamente grazie ai paesaggi pittoreschi della “Zona” (un misto di Russia, Estonia e Tagikistan) che la pellicola riacquista il colore e riesce ad esprimere le sue piene potenzialità: nonostante la sua natura soprannaturale, essa non è altro che la personificazione della vita stessa.

D’altronde è lo stesso Tarkovskij ad affermare stizzito di aver fatto di tutto per rendere palese questo concetto; coloro che entrano nella zona spesso non si rendono conto di cosa stia veramente accadendo, possono proseguire con un incosciente moto rettilineo uniforme verso la meta e non trovare alcun pericolo, oppure farsi sopraffare dalle paranoie,  perdersi e vagare all’infinito per poi scoprire di aver semplicemente girato in tondo per tutto il tempo.

 

La prova del "Tritacarne" in Stalker
La prova più insidiosa, il “Tritacarne”. “Stalker” di Andrej Tarkovskij.

I VIAGGIATORI

Ciascuno dei tre protagonisti rappresenta una visione diversa della realtà, spesso conflittuale l’una con l’altra. Il regista, inoltre, evita volontariamente di rivelare i loro nomi per rendere più universali i concetti che esprimeranno durante la pellicola; essi non sono soltanto degli individui, bensì degli archetipi.

Lo scrittore è un intellettuale disilluso da tutto, fatto a pezzi ed incattivito dalla società che lui stesso ancora cerca ardentemente di impressionare; ciò che cerca è l’ispirazione, ma non sa neanche lui di cosa sia composta, né tantomeno come si trovi. Il suo viaggio appare più come un costante tentativo di suicidio, un barattare la propria vita nella speranza di poter trovare finalmente l’appagamento, anche nella morte.

Il professore è uno scienziato scettico, fermamente convinto che la ragione sia la risposta a tutto e che la scienza sia la panacea per tutti i mali; infatti anch’egli intraprende il viaggio con un impreciso obiettivo, ma l’esperienza della “Zona” lo cambierà radicalmente.

                                                                                        E LO STAKER

Lo stalker è la rappresentazione di un fedele appassionato, devoto visceralmente alla “Zona”: per lui non c’è altro, nel momento stesso in cui ritorna al mondo esterno si sente svuotato del suo vero senso nella vita.

Egli istruisce i suoi due compagni nelle vie della “Zona”, esattamente come il suo maestro (il famigerato “Porcospino”) aveva fatto con lui; la sua conoscenza dei segreti della “Zona” si manifesta nei piccoli gesti, quasi dei riti che egli compie per evitare le trappole, per trovare la strada corretta, persino per ingraziarsi la buona volontà della “Zona”, come se fosse un dio che li giudica costantemente.

Egli non ha mai espresso il suo desiderio, conscio dell’avvertimento del suo maestro: sarebbe come spiegare un trucco di magia dopo averlo eseguito, o rivelare il mistero di Dio ad un fedele. Ecco perché viene definito “stalker”: si limita ad osservare e a traghettare gli altri verso qualcosa che non potrà mai raggiungere, e in questo trova la propria felicità.

Aurelio Mittoro

Natale e Cinema: 7 pellicole a tema natalizio da Riscoprire

Manca ormai sempre meno al Natale e tra alberi addobbati, regali incartati e città illuminate, le serate film a tema natalizio non mancano mai. Sono infatti centinaia i film di Natale capaci di farci ridere, di farci emozionare e di farci sognare. Raggrupparli tutti è impossibile, ma abbiamo provato a fare una piccola guida per chi è in cerca di una pellicola in grado di trasmettere la magia del Natale inserendo anche alcuni film forse un po’ dimenticati. Da un capolavoro di Tim Burton con un giovane Johnny Depp, ad una action-comedy natalizia con Arnold Schwarzenegger fino ad arrivare a Carol, la struggente pellicola con Cate Blanchett.

1. The Family Man (2000)

Jack, Nicolas Cage, è un uomo d’affari pronto a lavorare anche a Natale per fare soldi. Nessuna famiglia, nessun amore, solo soldi e pochi scrupoli. Ma Jack non è stato sempre così, un tempo amava Kate (Tea Leoni), ma quella vita e quel possibile futuro è ormai perduto. Ma un fantasma, di dickensiana memoria, appare a Jack e gli farà vivere la vita che avrebbe potuto avere se avesse scelto Kate mostrandogli che oltre ai soldi e al successo c’è molto di più: c’è l’amore.

The Family Man Regia: Brett Ratner Distribuzione: Medusa Film Film di Natale
The Family Man. Regia: Brett Ratner. Distribuzione: Medusa Film.

2. Una promessa è una promessa (1996)

Arnold Schwarzenegger dopo aver sconfitto un Predator e aver affrontato Skynet per salvare l’umanità dai Terminator si trova ad affrontare la sfida più dura: essere un papà a Natale. Howard è infatti un papà distratto, gli affari lo tengono lontano da casa sia con il corpo che con la mente. Vuole quindi sfruttare il Natale per farsi perdonare dal figlio regalandogli il modellino di Turbo Man, l’eroe televisivo più amato dai bambini. La ricerca del modellino sarà più difficile del previsto, ma la promessa fatta al figlio Jamie vale più di ogni altra cosa.

3. Jack Frost (1998)

Il Natale è per tutti un momento di gioia e felicità, ma purtroppo non è sempre così ed è proprio quello che racconta Jack Frost. Jack (Micheal Keaton) è un musicista che ama la sua famiglia, ma che spesso per lavoro affronta lunghe trasferte. Un giorno mentre è di ritorno a casa dal lavoro, perde la vita in un incidente stradale.  Un anno dopo, arrivato il Natale, Charlie figlio di Jack costruisce un pupazzo di neve nel quale si trasferirà l’anima del padre scomparso l’anno prima.

Jack FrostRegia: Troy MillerDistribuzione: Warner Bros. Pictures
Jack Frost Regia: Troy Miller. Distribuzione: Warner Bros. Pictures.

4. Edward mani di forbice (1991)

Tim Burton crea una favola dark natalizia, una favola sull’inclusività dove però manca il lieto fine. Edward (Jonny Depp) è una creatura nata dalla visione di un inventore, è un ragazzo con le forbici al posto delle mani che vive ormai da solo dopo la morte del suo creatore. L’incontro con una rappresentante di cosmetici lo porterà a cercarsi di integrare nella società grazie alla sua bravura come parrucchiere, ma come Einstein insegna “è più facile scindere un atomo che abolire un pregiudizio” e le differenze con le persone “normali” diventeranno un ostacolo difficile da superare.

5. Carol (2014)

Nel Natale del 1952, in un’America omofoba che vede l’omosessualità come una grave malattia mentale, scoppia l’amore tra Carol (Kate Blanchett) e Therese (Rooney Mara). Le due donne cercheranno di ignorare i pregiudizi e l’odio sociale per vivere un amore forte seppur proibito in un lungo e gelido inverno. Un film potente, che affronta tematiche necessarie e che ci ricorda che l’amore è sempre e comunque amore.

6. A Christmas Carol (2009)

La favola natalizia di Charles Dickens riproposta sul grande schermo sotto forma di film d’animazione con protagonista Jim Carrey grazie all’uso del Performance Capture. Ebenezer Scrooge (Jim Carrey), un vecchio strozzino, è un uomo avido che allontana quelle poche persone che ancora gli vogliono bene. Non conosce la magia del Natale ed è interessato solo a stesso. Ma la notte di Natale, la visita di tre fantasmi, quelli del Natale passato, del Natale presente e del Natale futuro gli faranno capire il vero significato del Natale e che non è mai troppo tardi per amare gli altri.

A Christmas Carol Regia: Robert Zemeckis Distribuzione: Walt Disney Studios Motion Pictures
A Christmas Carol Regia: Robert Zemeckis. Distribuzione: Walt Disney Studios Motion Pictures.

7. Krampus – Natale non è sempre Natale (2015)

Chiudiamo questa lista con un film natalizio un po’ diverso. Stiamo parlando di Krampus, un horror che unisce brividi alla magia del Natale. Un antico demone del Natale prende di mira la famiglia di Max, un bambino che ha voltato le spalle al Natale. L’unico modo che hanno Max e la sua famiglia per sconfiggere Krampus è quella di tornare ad essere uniti e disposti a mettere da parte gli attriti per amore del bene altrui.

 

 

Francesco Pio Magazzù

Amici Miei: ridere a denti stretti

 

Un monumento alla commedia all’italiana, una ricerca continua della serenità che nasconde un’amarezza senza fine . Voto UVM: 5/5

 Amici Miei rappresenta uno dei punti più alti della commedia all’italiana, la descrizione di una realtà sociale splendidamente nostrana del quale esso stesso è finito per diventare un pilastro indiscusso.

Uno spaccato dell’Italia di metà anni ’70, alle prese con le conseguenze del boom economico del decennio precedente, le rivolte proletarie ed una profonda instabilità politica: di queste problematiche si possono percepire degli echi che saltuariamente si riverberano nelle vite dei personaggi, le cui vicissitudini rappresentano la parte fondante della pellicola.

Prodotto e distribuito dalla Cineriz, per la regia di Mario Monicelli, soggetto di Pietro Germi e musiche di Carlo Rustichelli.

Un momento iconico di "Amici Miei"
La prima iterazione della “supercazzora brematurata” del Conte Mascetti. “Amici Miei” (1975) di Mario Monicelli.

LA TRAMA

Firenze, anni ’70: un gruppo di 5 amici affiatatissimi sulla cinquantina combatte la noia architettando scherzi ai poveri malcapitati che gli si parano davanti.

La trama, apparentemente scarna ed inconsistente, rappresenta il vero punto di forza della pellicola: non solo l’assenza di indicazioni stringenti permette agli attori di elevare la loro interpretazione e di renderla più personale, ma conferisce alle scene un’atmosfera più spontanea e ritmata, in maniera non dissimile da quello che avveniva nella “commedia dell’arte” a teatro (tutt’ora la base della moderna “commedia all’italiana” che vediamo al cinema o in Tv).

Non a caso i personaggi appaiono più come delle maschere, con una personalità in parte stereotipata ma anche iconica ed immediatamente riconoscibile: il barista Guido Necchi (Duilio Del Prete), il nobile decaduto Raffaello Mascetti (Ugo Tognazzi), l’architetto Rambaldo Melandri (Gastone Moschin), il capo redattore Giorgio Perozzi (Philippe Noirete il professor Alfeo Sassaroli (Adolfo Celi), l’ultimo arrivato del gruppo.

LA STORIA PRODUTTIVA E LA “TOSCANITÀ”

La realizzazione della pellicola fu indubbiamente tribolata: il progetto fu inizialmente ideato da Pietro Germi, regista di capolavori quali “Divorzio all’Italiana” e “Sedotta e abbandonata”, il quale curò soggetto e sceneggiatura ma dovette rinunciare alla regia a causa dei problemi di salute che nel 1974 lo porteranno alla morte; il testimone passò a Mario Monicelli, il quale si limitò ad attuare alcuni cambiamenti funzionali, coadiuvato dall’aiuto di Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi e Tullio Pinelli.

Furono proprio questi ultimi due a suggerire di spostare l’ambientazione da Bologna, com’era originariamente previsto, a Firenze: di fatti questa modifica si rivelò fondamentale, in quanto riuscì a far emergere una comicità tipica toscana, un umorismo situazionale crudele ed immediato, spietato verso il prossimo e tendente al botta e risposta, ma anche una forma primordiale di “tormentone” che avrebbe poi fatto le fortune della televisione italiana a partire dagli anni ’80.

I cinque protagonisti di "Amici Miei"
La comitiva che architetta la prossima “zingarata”. “Amici Miei” di Mario Monicelli.

IL VALORE CULTURALE DELLA “SUPERCAZZOLA” 

L’impatto che ebbe la pellicola sul pubblico italiano fu immediatamente positivo: la semplicità dell’intreccio, basato su dinamiche quotidiane capitate un po’ a tutti, ma anche la regia invisibile di Monicelli, che in maniera quasi voyeuristica si intrufola nelle vite dei personaggi per raccontarci dei loro drammi e delle loro gioie, riuscirono a coinvolgere gli spettatori al punto tale da entrare a far parte della lingua parlata.

Che si dica “supercazzora” come originariamente pensata da Tognazzi, o “supercazzola” com’è arrivata alle nostre orecchie, ha poca importanza: le battute di “Amici Miei” sono ideate, scritte e recitate con una carica ilare spaventosa, come se fossero degli aforismi legati intrinsecamente alle scene in cui vengono pronunciate ma allo stesso tempo dei tormentoni da poter estrapolare e riutilizzare a piacimento per stemperare la situazione.

LE “ZINGARATE” COME RISPOSTA ALLA NOIA BORGHESE

Secondo il filosofo francese Blaise Pascal (1623-1662) dinanzi ai problemi fondamentali, esistenziali, come quello riguardante il senso della vita, l’uomo reagisce abbandonandosi al divertissement (“distrazione”, “diversione”, “divertimento”), termine filosofico con il quale si indica il complesso di occupazioni, relazioni, intrattenimenti quotidiani e sociali: attraverso il lavoro ed il divertimento l’uomo rifugge dalla propria infelicità e dalle questioni più annose.

In una società in cui né il lavoro né la famiglia riescono a togliere all’individuo quel senso di ansia, quell’insoddisfazione che affligge persino il dottor Sassaroli, che secondo una scala di valori borghesi dovrebbe essere il più realizzato dei 5, non rimane altro che l’amicizia: è così che i nostri protagonisti, con una presa di coscienza quasi pirandelliana sull’ipocrisia e sull’insensatezza della società, decidono a loro volta di affrontare la vita in maniera surreale ed insensata, compiendo scherzi demenziali e lanciandosi di punto in bianco in avventure grottesche per sfuggire all’estenuante normalità delle loro giornate.

Anche nel dolore permane questo atteggiamento folle di costante derisione di tutto e tutti; persino di fronte alla morte gli amici cercano di rinchiudersi in una dimensione comica, pur di allontanare ciò che non riescono a sopportare, ed è questo a renderli squisitamente umani.

 

Un estratto da "Amici Miei"
L’inganno dei “marsigliesi” ai danni del povero Righi (Bernard Blier). “Amici Miei” (1975) di Mario Monicelli.

L’EREDITÀ DI AMICI MIEI

Ciò che distingue i fasti della commedia all’italiana dai cinepanettoni più scadenti, che hanno lentamente invaso il cinema italiano a partire dal primo “Vacanze di Natale” (1983) dei fratelli Vanzina, è l’attitudine dell’autore verso i propri personaggi.

Mentre in questi ultimi si tende a glorificare i protagonisti, portando in trionfo personaggi arrivisti ed amorali, in “Amici Miei” la rappresentazione dell’uomo medio che ci regala Germi non è mai positiva: le “zingarate” perpetrate dai nostri eroi non sono altro che il costante promemoria di come ogni tanto abbiamo anche noi bisogno di gioire delle disgrazie altrui.

Per questo la risata scaturita dal film a primo impatto inizia sempre di più ad assomigliare ad una smorfia pessimista man mano che riguardiamo le varie scene iconiche della trilogia: i personaggi li percepiamo vicino a noi perché sono bastardi esattamente come lo siamo noi, e non c’è alcuna redenzione.

Ma almeno, loro ne sono consapevoli.

 

Aurelio Mittoro

 

 

Ma che Natale sarebbe senza un film al cinema?

Tutti i film di Natale, perfino i cinepanettoni, rappresentano la storia, più o meno divertente, più o meno banale, della ciclica riscoperta di un senso della comunità, puntualmente smarrito nel corso dell’anno appena trascorso. Ma c’è una cosa che rende speciale tutti i film di questo periodo: l’importanza resa alla famiglia, dentro lo schermo e fuori. Da Topolino e la magia del Natale (1999) al peggiore fra i cinepanettoni sono sempre gli affetti ad ergersi protagonisti. Scalda i cuori la storia di Topolino costretto a vendere la sua armonica a bocca, strumento a lui molto caro, per permettersi di fare un regalo alla sua amata Minni che, per amore di Topolino, farà esattamente la stessa cosa vendendo il suo orologio.

Frame di “Topolino e la magia del Natale” (1999). Fonte: Disney+

Tra i film più comunemente riprodotti in questo periodo dell’anno troviamo poi The Family Stone – La neve nel cuore (2005) che ritrae gli scontri di una famiglia per lo più media, ma mostra agli spettatori che i litigi possono essere superati e che l’armonia è un traguardo sempre possibile quando ci si vuole davvero bene. Un altro classico esempio è il film natalizio britannico del 2003 Love Actually. Il film segue le vite di otto coppie a Londra e riporta agli spettatori il tema perenne del romanticismo e delle prove da superare nelle relazioni. E come dimenticare, sulla stessa linea di quest’ultimo, cult come L’amore non va in vacanza o Capodanno a New York pronti a ricordarci l’importanza che i legami ricoprono nelle nostre vite, altrimenti infinitamente vuote. Nel secondo, un film corale del 2011 con Robert De Niro, Michelle Pfeiffer, Halle Berry e Jon Bon Jovi, sono tante le storie raccontate, anche se la più struggente è senz’altro quella dell’infermiera Aimee che, terminato il turno lavorativo, si collega al computer dell’ospedale con il fidanzato, un militare in missione lontano da New York, per “festeggiare” insieme l’arrivo del nuovo anno. È in momenti come questo che ci rendiamo davvero conto di quanto sia importante avere accanto le persone amate. E se il senso di queste piccole storie siamo capaci di coglierlo tutti, un po’ meno evidente è l’importanza che la sala cinematografica ricopre in questo periodo dell’anno. Guardare il film in sala si sa, fa parte di quella famosa “esperienza cinematografica” di cui parlano tutti i critici. Ma è durante queste feste che la sala diventa un vero e proprio “rifugio” di condivisione per le famiglie. Poco importa il film scelto, l’importante è guardarlo insieme, che sia un cinepanettone o un film di guerre stellari!

Sebbene il Natale sia una festa cristiana, la maggior parte dei film sulle vacanze non è religiosa nel senso più tradizionale del termine. Sempre più di rado si fa menzione della storia di Gesù e dell’ambientazione biblica della sua nascita. Come scrive John Mundy, esperto di studi sui media, in un saggio del 2008, “Christmas and the Movies”:

«I film di Hollywood continuano a costruire il Natale come una realtà alternativa».

Questi film creano mondi sullo schermo, accendendo emozioni positive e offrendo allo stesso tempo qualche risata. I rituali delle vacanze sono come le candele su una torta: non sembra un vero compleanno se non ne hai almeno una. Per alcuni, potrebbe essere passare del tempo con la propria famiglia, scambiarsi i regali con gli amici, indossare il proprio maglione preferito o fare l’ennesimo rewatch degli episodi a tema natalizio di quella serie che non ci stancherà mai, – come per “L’ospite inatteso”, l’episodio natalizio della quarta stagione di Mad Men, ormai un cult nel genere.

Frame di “Mad Men” (S4E2). Distribuzione: Weiner Bros.

Ma per molti, il rituale perfetto è proprio quello di guardare un buon film di Natale. Può essere da soli, con gli amici o con la famiglia, ma vedere dei film a tema per due o tre giorni di vacanza mette tutti di buon umore e ci ricorda dell’importanza di una vita vissuta nel pieno degli affetti, dell’amore e dei valori autentici, circondati dalle persone a cui teniamo, almeno finché ne avremo l’occasione.

*Articolo pubblicato il 19/12/2024 sull’inserto Noi Magazine di Gazzetta del Sud

Domenico Leonello
Caposervizio UniVersoMe

Giurato numero 2, il potente addio di Clint Eastwood al cinema

Giurato numero 2 l’ultima pellicola del 94enne Clint Eastwood, è un’ode al grande cinema e una profonda riflessione sul concetto di giustizia. L’addio alla regia di uno dei più grandi registi di sempre.

Giurato numero 2 l’ultima pellicola del 94enne Clint Eastwood, è un’ode al grande cinema e una profonda riflessione sul concetto di giustizia., – Voto UVM: 5/5

Chi è il giurato Numero 2?

Justin Kemp, un futuro papà con un passato da alcolista, è convocato come giurato in quello che sembra essere il processo con il più facile dei verdetti. Un omicidio, quello della giovane Kendall Carter, che non ha alcun segreto. La vittima sembrerebbe essere stata picchiata e gettata in un burrone dopo una violenta discussione con il suo ragazzo, un ex membro pentito di una gang di quartiere. Non sembra esserci alcun ragionevole dubbio per i 12 giurati fin quando Justin, il giurato numero 2, si rende conto che il colpevole della morte della giovane Kendall è proprio lui. La tragedia, avvenuta un anno prima, è frutto di un tragico incidente sotto la pioggia dove ad essere urtata dalla macchina di Justin non è un cervo ma la povera Kendall.

Giurato numero 2 Regia: Clint Eastwood Distribuzione: Gotham Group, Malpaso Productions

Un dilemma morale 

Il giurato numero 2, un giovane in procinto di diventare padre, si trova di fronte al più grande dilemma morale della sua vita. Confessare scagionando l’imputato, dovendo però rinunciare alla sua vita visto anche il passato da alcolista, o mantenere il segreto ma condannare un innocente all’ergastolo? È questo il dilemma che muove la pellicola, l’ennesima pellicola dove Clint Eastwood affronta temi morali e lo fa con il punto di vista della persona comune. Se in “Million Dollar Baby” Clint rifletteva sul senso della vita chiedendosi e chiedendoci con grande coraggio quale fosse la cosa giusta da fare, in Giurato Numero 2 è il significato stesso di giustizia ad essere messo in discussione.

Le riflessioni morali trovano forza nelle immagini di Giurato Numero 2

Nessun elemento è lasciato al caso, ogni immagine ha un significato che va oltre a ciò che vediamo e che contribuisce a rendere la pellicola un’ode al grande cinema. La prima scena ritrae la dea Bendata Themis, dea della giustizia che brandisce in una mano una spada e nell’altra una bilancia, seguita dall’immagine di una donna anch’essa bendata ma questa volta guidata da un uomo. Justin che viene lasciato al buio dalla moglie che spegne la luce, i flashback che ci mostrano chiaramente i punti di vista oggettivi e soggettivi di quello che è successo nella notte della morte della giovane Kendall. Sono tutte immagini pregne di significato che trasmettono allo spettatore enormi spunti di riflessione celati proprio sotto il nostro sguardo a volte distratto.

Giurato numero 2, quando la giustizia è soprattutto umana

Una delle riflessioni più importanti del film è quella sul concetto di giustizia. Il sistema giudiziario americano, prevede la presenza di una giuria che deve valutare se esiste o meno il ragionevole dubbio che l’imputato non sia colpevole. Ed è nella costruzione della giuria che Clint Eastwood mette in discussione la giustizia umana. I 12 membri, Justin compreso, appartengono a ceti e categorie sociali diversi. C’è chi dà più importanza al ruolo in sé più che all’esito del processo, c’è chi non vede l’ora di tornare a casa, chi condanna a priori l’imputato per il suo passato nelle gang e chi si pone il ragionevole dubbio perché non convinto del tutto dalle prove mostrate dall’accusa. Ed è in questo mix sociale e psicologico magistralmente descritto dal Eastwood che Justin, il giurato numero 2, tenta di convincere gli altri giurati dell’esistenza del “ragionevole dubbio”.

La giustizia è bendata, ma spesso lo sono anche le persone

Clint ancora una volta, come già fatto in “Mystic River” e “Flag of our Fathers”, mette in dubbio la capacità di giudizio umana. E questo non lo vediamo solo con la giuria. Il pubblico ministero sotto elezioni che ha bisogno di chiudere velocemente il caso, la polizia che si accontenta della prima spiegazione plausibile, l’opinione pubblica che vuole un colpevole sono esempi emblematici di quanto la giustizia possa essere vittima della miopia umana. Lo stesso Justin, egoisticamente, non agisce per la salvezza dell’innocente ma quanto per trovare un modo di convivere con i suoi sensi di colpa. Ad essere bendate quindi sono anche le persone, le quali però non indossano una benda per essere imparziali ma per scegliere più o meno volutamente cosa non vedere.

Una profonda riflessione sulla giustizia

Se in “Richard Jwell” il protagonista cerca di dimostrare di essere innocente, ricercando una coincidenza tra giustizia dei tribunali e sociale, in Giurato Numero 2 la giustizia è astratta e si scinde come un atomo inesorabilmente. A quanti interessa davvero che sia fatta giustizia? D’altronde l’imputato ha un passato violento e Justin è solo un padre di famiglia vittima di una serie di tristi coincidenze. Ed è qui che c’è la vera riflessione del film, ciò che è giusto non sempre coincide con la verità e la giustizia dei tribunali non sempre coincide con la giustizia sociale. Giurato numero 2 è un film che riflette sulle scelte, sulla giustizia con un finale duro ma che vede il trionfo della cosa giusta da fare, qualsiasi sia il suo prezzo anche contro la nostra volontà.

Giurato numero 2 Regia: Clint Eastwood Distribuzione: Gotham Group, Malpaso Productions
Giurato numero 2 Regia: Clint Eastwood Distribuzione: Gotham Group, Malpaso Productions

Un cast stellare diretto magistralmente

Il cast di Giurato Numero 2 vanta attori del calibro di Toni Colette (pubblico ministero), J.K Simmons con un ruolo piccolo ma interpretato con tutta la potenza di questo attore e Nicholas Hoult nei panni di Justin e Zoey Deutch che interpreta la moglie. Il film è diretto magistralmente da un 94enne Clint Eastwood che ha ormai raggiunto l’olimpo dei registi di Hollywood. Una pellicola lucida, che non si perde mai e con un comparto tecnico perfetto. Clint Eastwood lascia probabilmente il cinema con l’ennesima opera potente che investe lo spettatore di emozioni contrastanti e che lasciano un segno indelebile e quella domanda ormai ricorrente: Cosa avrei fatto io al suo posto?

 

Francesco Pio Magazzù