Misstress America: quando si ha paura di diventare grandi

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Tracy (Lola Kirke) si è appena trasferita a New York per frequentare il college, la vita dello studente nella grande mela non è quello che immaginava, soprattutto nel relazionarsi con i compagni di corso. Sua madre si sta per risposare e le propone di chiamare la figlia del suo futuro marito , la quale abita a New York da tempo. Così ha inizio questa simbiosi fra Tracy e Brooke (Greta Gerwig) , questa donna che incarna l’anima newyorkese : dinamica, entusiasta e fortemente logorroica ai limiti dell’egocentrismo.

Tracy si fa rapire dallo stile di vita di Brooke, che vive la vita “come ogni giovane donna che vuole impiegare bene la propria giovinezza dovrebbe”  ed inoltre la ispira per il racconto che deve scrivere per entrare a far parte di un circolo letterario estremamente esclusivo del college.

Brooke sta per aprire un ristorante, ma il sogno si spezza quando il fidanzato greco la lascia e deve trovare nuovi investitori. Dietro suggerimento di Tracy parte verso Greenwich, Connetticut “dove vivono i ricchi” accompagnata dal compagno di classe di Tracy Tony (Matthew Shear) e dalla sua fidanzata possessiva e paranoica, per andare a chiedere un prestito all’ex migliore amica e al marito.

 

Mistress America potrebbe venire definita una screwball comedy  ma in realtà non evoca il piacere leggero di quel genere, ricorda più il Woody Allen di “Harry a pezzi” ma le cui battute taglienti non sostengono tutto il film.

Brooke è ben incarnata da Greta Gerwig, il personaggio è fuori dai modelli odierni e ricorda alcune delle donne alleniane , il fascino e la bravura della Gerwig è tale che rende Brooke amabile anche quando si comporta volontariamente da naif.

 

La sceneggiatura è scritta a quattro mani da Noah Baumbach e la sua compagna Greta Gerwig, ci sono reminiscenze dei loro precedenti lavori “Frances Ha”  e “Giovani si diventa”, è una commedia piacevole sulle differenze di età e le conseguenti dissonanze ed assonanze, sul desiderio di seguire i propri desideri, quasi a pretenderli, ferendo chi ci sta vicino.

La difficoltà di accettare di essere adulti, le proprie responsabilità e la necessità di avere un posto nel mondo confluiscono nella frase detta da Brooke ,riferendosi a Tracy, al chiaroveggente “Non è così più giovane di me, 10-12 anni, siamo praticamente coetanee!”.

Se la sceneggiatura non è delle più intriganti , vale la pena vederlo per l’interpretazione di Greta Gerwig la quale si pone fra le migliori attrici della sua generazione soprattutto per la naturale indole comica.

Arianna De Arcangelis

Veloce Come Il Vento: Adrenalina e Sensibilità nell’ultimo film di Matteo Rovere

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«Disperati veri si è rimasti in pochi», dice Loris, nell’ultimo film di Matteo Rovere Veloce come il vento, viaggio a tavoletta nel mondo del campionato italiano GT e delle corse clandestine, in sala dal 7 aprile.

E se la disperazione predomina da anni in Italia, tra registi e spettatori, Veloce come il vento, insieme ad altri titoli come Lo chiamavano Jeeg Robot, Suburra o Non essere cattivo, sembra illuminare il fondo di quel vaso di Pandora rimasto aperto dagli anni ’80, in un 2016 insolitamente felice. Sì perché negli anni ’80 inizia forse un gap tra il cinema italiano e quello internazionale, in cui gli Stati Uniti la facevano e la fanno tutt’ora da padrone, grazie all’arrivo della computer grafica e degli effetti speciali ad alto budget.

 

Rovere centra in pieno il problema e affonda le mani, con determinazione e (metaforica) disperazione, nelle risorse, rimaste neglette ma non per questo prive di forza ed impatto visivo(un po’ come la vecchia auto da corsa di Loris), e che appartenevano al nostro cinema di genere, nello specifico quello dei “film di macchine”. Se l’espressione – alquanto infelice, invero – vi fa pensare solo all’ennesimo Fast and Furious o, andando a ritroso nel tempo, a Driver – l’imprendibile, allora dovreste dare un’occhiata a Le Mans – Scorciatoia per l’inferno, Speed Driver e Velocità massima (solo per citarne alcuni), tutti film italiani e tutti, tra i più e meno riusciti, appartenenti al filone in cui Rovere ha deciso, per dichiarata passione personale, di lanciarsi.

 

La trama, vagamente ispirata alla vera storia del pilota Carlo Capone, vede la giovane pilota Giulia (un’esordiente e promettente Matilda de Angelis), gareggiare nel campionato GT per mantenere la casa di famiglia, dopo l’abbandono da parte della madre e la morte del padre. La situazione, già precaria, è complicata dal ritorno del fratello maggiore di Giulia, Loris (Stefano Accorsi), ex pilota tossicodipendente abbandonato a se stesso, che decide di aiutarla.

 

Rovere è qui alle prese con un film completamente diverso dai suoi precedenti, basato su un soggetto verso cui nutre un interesse innegabile, sensibile al fascino del soggetto macchina nelle sue forme, rumori, colori, movimenti. Il rumore e l’immagine diventano di fatti vitali, in un film sulle corse automobilistiche: il montaggio sonoro è eseguito in maniera impeccabile, mentre l’occhio cinematografico del regista mostra un apprezzamento quasi voyeuristico per il rallenty, in svariate inquadrature, che però non mirano alla spettacolarità volgare viziosa americana di una sequenza, quanto piuttosto alla poesia del particolare, al piacere puro di contemplare la ghiaia smossa dagli pneumatici, evitando perciò la morbosità. L’uso dell’effetto digitale rimane marginale, tirato fuori alla sola occorrenza.

Piccole cose, insomma. Nugae di stile, che pure sono parte di una ricetta fatta di ingredienti che funzionano, come le musiche di Andrea Farri (già collaboratore di Rovere), tappeto elettronico sotto impalcatura indie rock, che accompagnano una sceneggiatura atta a fondere (parole del regista) la sensibilità di un dramma familiare ed il rombo dei motori, riuscendovi con perfetta armonia.

Il personaggio di Accorsi è decisamente il punto forte della sceneggiatura, raffigurando un’idea di tossicodipendente lontana dallo stereotipo, una combinazione di realismo sporco e stoner comedy che il pubblico italiano ha potuto vedere raramente, finora. L’attore bolognese si è calato perfettamente nella parte, libero di arricchire il personaggio con regionalismi emiliani spinti e, diete drasticamente hollywoodiane a parte, ha espresso al meglio momenti già promettenti sulla carta, come quelli che lo vedono in cortile con la sorella o in vasca da bagno con la fidanzata – anch’essa tossicodipendente – intento a sciogliere o complicare i nodi della sgangherata matassa familiare; momenti che rendono proprio quella vasca da bagno e quel cortile riconducibili, in qualche modo, da una parte a Paura e delirio a Las Vegas, in cui un lisergico Benicio del Toro delirava con Johnny Depp nel bagno di una camera d’hotel, dall’altra ai letti fassbinderiani, luoghi di riflessione e confronto intimo.

 

Veloce come il vento risulta dunque l’opera più riuscita di Matteo Rovere, presentando una formula che non ha solo gli ottani come carta vincente e che è già pronta per essere esportata nelle sale straniere. Un piccolo successo, squisitamente italiano, in grado di farsi apprezzare anche dai non amanti dei motori (come, del resto, chi scrive).

 

 

Andrea Donato

”Seconda Primavera” di Francesco Calogero: intervista al regista

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Francesco Calogero è nato a Messina nel 1957 ed è uno dei registi che potremmo annoverare nell’ambito underground del cinema italiano, quello cioè che risulta ad oggi più vivo, più interessante e più intenso della sua controparte mainstream, colpevole di avere invece affossato un’industria e un’arte prima valide a livello internazionale.

Il 4 febbraio 2016, a sedici anni dall’ultimo lungometraggio Metronotte, è uscito nelle sale Seconda Primavera, toccante sesta prova della sensibilità da cui la filmografia di Calogero è attraversata. Stato, pochi mesi fa, nelle sale, Seconda Primavera racconta, nell’arco di sei stagioni, le storie incrociate di quattro personaggi, ciascuno rappresentativo di una diversa età della vita.

 

Lo abbiamo intervistato per via telematica per parlare con lui di Seconda Primavera e di cinema.

 

  1. Come nasce l’idea per Seconda Primavera?

 

Credo che tutto sia partito da una visita casuale alla villa che costituisce il set principale del film, in un plumbeo giorno d’autunno. Quel giardino, di cui avevo apprezzato la magnificenza in estate o in primavera, si presentava ostile, il suolo cosparso di foglie secche, i rovi cresciuti a dismisura, quasi a voler impedire l’ingresso ai visitatori, sferzati dal vento e dalla pioggia. In una villa lontana dal centro abitato, a rischio isolamento perché raggiungibile solo attraverso una strada sterrata sulla riva del mare, pronto a inghiottirla, è piacevole stare solo nella bella stagione: col cattivo tempo i suoi occupanti possono passare giorni rinchiusi dentro, in perenne stato di esasperazione. Ho provato a immaginare come potessero cambiare i rapporti tra alcuni personaggi, stagione dopo stagione, confinati in una casa piccola come quella, in una situazione in cui è stata data più importanza al giardino, alla vita all’aria aperta. Da lì, tra vita vissuta e numi tutelari di turno, è cominciata la consueta stratificazione: voci diverse alla Thomas Stearns Eliot, potrei dire, sottolineando così quanto io gli debba in termini distruttura sinfonica, o per le associazioni di temi e simboli. L’inizio dei Quattro quartetti sembra offrirci anche lo scenario, lo specchio d’acqua dove si alzano i fiori del loto alla luce del sole, ed il celebre giardino delle rose, quello a cui si accede attraverso la porta che non abbiamo mai aperto: in Seconda primavera è testimone di un abbraccio, dopo un divertito inseguimento, che nasconde il reciproco turbamento di Andrea e Hikma (due dei personaggi principali). Lo raccontiamo già nel manifesto del film, in cui la grafica Katia Donato rende brillantemente tali temi.

 

  1. Nel tuo film c’è tanto (buon) gusto per la citazione. Non solo T. S. Eliot, come riferisci adesso, ma anche Philip K. Dick, e poi Shakespeare e Bellini… e soprattutto, è impossibile vedere il personaggio di Hikma (interpretata da Desirée Noferini) senza pensare a La donna che visse due volte.Da cosa è derivato il bisogno di questi riferimenti?

 

Non è un vero e proprio bisogno, ma forse solo un desiderio di conforto, necessario per vincere le insicurezze che ti assalgono nel corso della tua ricerca: ti aiuta molto avvertire certe assonanze, rendersi conto che già qualcuno prima di te si è soffermato allo stesso modo sul medesimo dettaglio. Del resto, chi pensa di star creando qualcosa di inedito e rivoluzionario, è un illuso: i grandi libri sono stati scritti, e i grandi detti sono stati pronunciati. Per quanto riguarda Shakespeare, la vicenda del Sogno ci mostra anch’essa coppie che si scompongono e ricompongono, e un andirivieni tra città e campagna. Se seguiamo la suggestione di alcuni critici, e lo guardiamo dal punto di vista di Hikma, questo movimento dalla corte di Atene alla foresta rappresenta il passaggio dall’istintività giovanile alla razionalità della vita adulta: Seconda primavera non è soltanto la storia di una senilità, intesa in senso sveviano, ma anche un coming-of-age movie. In realtà tutto il Sogno, con i suoi continui richiami alla trasformazione – vedi quel che accade a Puck e Bottom, non a caso presenti entrambi nelle due scene esplicitamente citate nel film – rappresenta un’allegoria delle metamorfosi che avvengono nella vita di ognuno: dunque il discorso riguarda anche Andrea, e i ripetuti cambiamenti della sua vita nel teatro del suo giardino, piccola foresta incantata… E come il Sogno, anche Seconda primavera è una storia d’amore in tutte le sue forme, in cui si spazia da un sentimento irrazionale a quello frutto di calcolo; dall’amore platonico, in qualche misura rispettoso delle convenzioni sociali, a quello infedele, disgregatore di equilibri. In questo senso Riccardo è ora costruttore, ora sabotatore di una razionalità in perenne conflitto con la sua parte più oscura. Se si vuol leggere la vicenda in chiave psicoanalitica, c’è infatti un’ulteriore corrispondenza con il Sogno: laddove i due luoghi nei quali si svolge quella storia, la corte di Atene e la foresta, diventano per noi la città con tutte le sue pastoie giornaliere, dove bisogna rispettare le leggi (anche quelle edilizie), e dunque è la ragione a comandare (il Super-Io); e in opposizione c’è il giardino, l’Es, il nostro lato oscuro, la parte subconscia e irrazionale, il luogo notturno e magico dove a regnare sono i desideri e gli istinti. Tutti i personaggi della commedia, allo spuntar del sole, affermano di aver sognato: e in qualche modo lo fa anche Hikma, che sembra voler rinnegare la sua esperienza d’amore in quella notte (chiedendosi, “Forse ero sonnambula”). La citazione belliniana parte da qui, ma non solo. Quando ho messo in scena La sonnambula, alcuni anni fa, già meditando su Seconda primavera, avevo appuntato l’attenzione sul pericoloso percorso finale di Amina, imposto dal libretto, un camminamento alto e infido che da noi era diventato un ponte mobile. Ma prima di allora, ritrovare sul nostro set un ponte simile aveva fatto sì che mi imponessi di utilizzarlo a scopi narrativi. Parliamo di un elemento largamente simbolico: basti pensare all’etimo della parola “pontifex”, i sacerdoti sono coloro che costruiscono il ponte, che aiutano il passaggio tra la terra dei vivi e il regno dei morti. L’idea forte c’era già, il ponte era stato chiesto all’architetto Andrea dalla moglie Sofia, dopo la scoperta quasi casuale della terrazza, da quel giorno diventata il suo regno: così ho immaginato Andrea impossibilitato a tornare in quello spazio, a cui è legato da troppi ricordi dolorosi. Ammesso che non sia soltanto una sua immaginazione, ci riuscirà solo nel finale, come attratto da Sofia, ma anche commosso e suggestionato dal percorso rischioso di Amina, che sta ammirando a teatro. Anche l’eroina belliniana vive una condizione di revenante, quando il conte Rodolfo si turba nel rivedere nei suoi occhi quelli della donna profondamente amata nel passato. In realtà il tema dell’eterno ritorno è certamente più decadente e tardoromantico, e anche più anglosassone – pensiamo, per dire, a tanti personaggi di Edgar Allan Poe – rispetto al milieu in cui agivano il librettista Felice Romani e lo stesso Bellini. La verità è che un libretto dalla genesi tormentata aveva costretto il conte ad atteggiamenti contraddittori: così, caduta l’ipotesi che la fanciulla potesse essere sua figlia, non restava che accettare l’idea del Doppelgänger. E quando Amina, in stato di sonnambulismo, praticamente gli si offre, il conte resiste: insomma, anche lì la soppressione del sentimento erotico, vuoi per la situazione, vuoi per la notevole differenza d’età, vuoi soprattutto per quell’impressionante somiglianza che turba e blocca… Già, siamo giunti a Hitchcock. Ovviamente è un paragone che temo: Vertigo (La donna che visse due volte) è uno dei film più importanti della storia del cinema. In realtà, considerati i punti di contatto tra le due storie, mi sono limitato a mandare leggeri segnali, giocando sul filo dell’ironia. Parlando prima di camminamenti a rischio, di altezze, di equilibri precari, ho già fatto riferimento al tema dell’acrofobia, centrale nell’intrigo hitchcockiano. E così di seguito, mi è venuto naturale chiamare Scottie – utilizzando dunque il nomignolo del personaggio di James Stewart nel film – il nostro Jack Russell Terrier, scelto perché abile a scavare buche nel giardino: un aggancio al delirio di Riccardo, che nota il disappunto di Andrea per l’azione del cagnetto, e lo sospetta di aver occultato il cadavere della moglie (e dunque di temere un’eventuale involontaria riesumazione), infilando una suggestione simile nella revisione del suo romanzo. Se il racconto di un animale che rivela la presenza di un cadavere fa nuovamente pensare a Poe e al suo Gatto nero, in realtà qui ritorniamo alla Terra desolata, al monito rivolto a Stetson – che è un uomo d’affari della City misteriosamente associato alla battaglia navale di Mylae (cioè Capo Milazzo, un luogo molto vicino al nostro set di Acqualadroni) – a badare al cane che vorrebbe dissotterrare il cadavere da lui seppellito in giardino. Anche se il racconto fatto dal cane è verosimilmente rubato da Riccardo a Roog, il primo racconto che Philip K. Dick riuscì a vendere, ispirato dall’animale posseduto dal suo vicino… Tornando a Hitchcock, mi è sembrato pertinente chiamare “La moda che visse due volte” il negozio di abiti vintage appartenuti a Sofia: lo intravediamo nella foto custodita nel baule. Ma certamente i vestiti dell’una che finiscono addosso all’altra è un riferimento non da poco, e la scena dello chignon una citazione diretta, anche se con una netta differenza temporale: Kim Novak/Judy oppone una piccola resistenza a James Stewart sulla richiesta di raccogliere i capelli in uno chignon, esattamente come faceva la defunta Madeleine, perché teme che la macchinazione sia scoperta, ma poi rientra in bagno, e lo accontenta; Hikma si rifiuta recisamente, quasi a muso duro, anche lei impaurita dal fatto che Andrea la stia troppo pericolosamente assimilando a Sofia, ma poi ci pensa su, e la sera dopo decide di sfoggiarlo durante la cena, sente di doverglielo… Andrea appare poi inizialmente depresso perché si sente anche lui responsabile della morte della moglie, e da lì affetto da una sorta di necrofilia “per fedeltà”: esattamente come Scottie Ferguson “vuole andare a letto con una morta” (Hitch dixit). Lo stesso regista chiama “sesso psicologico” questo desiderio di ricreare un’immagine sessuale impossibile: è il sottile crinale su abbiamo deciso di far camminare il personaggio di Andrea, preparando il film con Claudio Botosso, che lo interpreta in maniera assai partecipata. Per quanto riguarda i sensi di colpa, il tormento per il ricordo di Sofia lo avvicina anche al personaggio di Laurence Olivier in Rebecca, la prima moglie, giusto per restare su Hitchcock. Anche per quel sospetto di omicidio che Riccardo getta su di lui…

 

  1. Personalmente ho sempre trovato difficile inquadrare la tua filmografia come quella di un cineasta di genere o d’essai. Alla luce dei dibattiti sulla validità di queste etichette, dobbiamo pensare ad un tuo rifiuto di esse, oppure pensi di farne parte?

Parlare di cineasta d’essai mi suona strano… in fondo, i miei film non sono così estremi, di quelli che piacciono solo ai critici o ai selezionatori dei festival. Anzi, direi che sono addirittura più contento, rispetto alla lettura delle recensioni favorevoli, quando percepisco chiaramente l’emozione provocata nel pubblico delle sale. E per fortuna è accaduto spesso, soprattutto con quest’ultimo film. Se parliamo di generi, l’ambito in cui mi muovo è sempre quello del dramedy, la commedia drammatica, a volte più carica di toni foschi, come accade in Seconda primavera, in altre circostanze più incline alla leggerezza. Un termine che mi fa pensare al mio primo film professionale, La gentilezza del tocco, il cui titolo fu spesso storpiato: erano gli anni della celebre Insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera. A questo proposito, ricordo che quando scrisse la prefazione al volume che racchiudeva le mie prime tre sceneggiature – si chiamava appunto anch’esso La gentilezza del tocco, fu pubblicato da Sellerio nel 1994 – Enrico Ghezzi definì i miei film “polizieschi del cuore”. Io mi ci ritrovo, mi accorgo che continuo a scrivere storie in cui il tema della quest, lievemente avvolta nel mistero (come avviene anche in Seconda primavera), è solo un pretesto per un’analisi amorosa, ed esistenziale lato sensu. Uno dei cineasti che ammiro maggiormente,l’americano John Cassavetes, dichiarava in un’intervista che nessuno può vivere senza filosofia. Ma lui attribuiva al termine filosofia un’accezione… come posso dire, rovesciata. L’amore per la saggezza, secondo l’etimo greco, era diventato per lui anche la sapienza, lo studio dell’amore. Come dire, ogni cineasta non può girare film senza analizzare l’amore. Ecco, direi che il mio genere – sempre senza mai perdere di vista il contesto sociale in cui si muovono i personaggi – sono i film filosofici d’amore.

 

  1. Un’ultima domanda.Seconda Primavera è uscito in un anno particolarmente prolifico per il cinema italiano. Oltre ai film di autori già affermati, come Sorrentino o Tornatore, l’opera ultima del compianto Claudio Caligari, Non essere cattivo, sono arrivati nelle sale giovani registi come Gabriele Mainetti ed il suo Lo chiamavano Jeeg Robot, premiato ai David di Donatello e Matteo Rovere, al suo terzo film con Veloce come il vento, che sembrerebbero promettere bene, in un panorama cinematografico da tempo artisticamente sterile. Hai dei nomi, tra i giovani registi nostrani, in cui riponi speranze concrete per risollevare le sorti del cinema nostrano?

 

Ovviamente per me non ha senso qui citare nomi fin troppo conosciuti. Io ripongo speranza nei giovani cineasti che si allontanano dal mainstream, spinti da un’ispirazione autentica, senza mirare ad épater le bourgeois, come si diceva un tempo, ma assumendosi dei rischi, e accettando la loro marginalità nei confronti di un sistema marcio – vedi quel che è successo al succitato Caligari, osteggiato in vita e celebrato solo dopo morto – come il nostro. Se faccio i nomi dei gemelli De Serio, o di Michelangelo Frammartino, sono certo che al grosso pubblico dicano poco, e questo racconta bene come sia irrimediabilmente compromessa la situazione italiana…

 

 

 

 

Angelo Scuderi e Andrea Donato

10 INCREDIBILI SCUSE PER NON STUDIARE

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Non importa quanti anni tu abbia. Non importa se davanti hai un manuale scritto da filosofi tedeschi depressi che parlano di quanto tu sia inutile o un sussidiario delle medie con cui puoi studiare geografia, storia e educazione civica senza capire nulla (mamma mia quanto sono vecchio). L’unica cosa che conta è trovare una scusa plausibile (o anche no) per chiudere quel libro e fare altro. E credetemi, ragazzi e ragazze, avete di fronte uno che procrastina l’impossibile. Per farvi un esempio… in questo momento dovrei tipo studiare ma preferisco scrivere questo articolo. Bene. E allora ecco le 10 migliori scuse per non studiare.

#1 YouTube. Chiunque abbia, almeno una volta nella vita, aperto un video su YouTube mentre stava studiando sa di cosa parlo. In un primo momento sei lì a guardare l’ultima intervista di Hannah Arendt per sentirti una persona super acculturata e l’attimo dopo stai guardando un corso online per imparare a ballare il tango. Maledetti suggerimenti.

#2 Faccende domestiche. Ebbene sì, per non studiare faremmo proprio di tutto. Anche lavare quei piatti sporchi che stagnano nel lavandino dallo scorso Natale ed hanno uno spirito natalizio ancora vivo e vegeto.

#3 Candy Crush & co. Personalmente non sono un amante di questi “giochini drogosi per smartphone che ti risucchiano lentamente e inesorabilmente l’anima” (termine scientifico, ndr). Tuttavia non posso non ammettere che una delle scuse migliori per non studiare è decidere fare una partitina di 5 minutini. Salvo poi trovarsi 3 ore dopo non solo ad aver finito tutte le vite del gioco ma anche la tua vita, ergo una giornata di studio.

#4 Serie Tv e Film. Ecco forse questa è la mia preferita. Questa scusa colpisce 1 studente su 3 (statistiche inventante da me) ed è una delle più efficaci e deleterie. Perché dovrei buttare la mia vita su quel mattone, che per convenzione chiameremo libro di diritto, quando potrei spararmi una maratona di Law & Order o guardare un bel film come Il Caso Thomas Crawford? Ah come dici? Civil Law e Common Law? Ah l’America ha un sistema giuridico diverso da quello italiano e quindi non imparerò niente guardando quella roba di Hollywood? Ok.

#5 Fissare il vuoto. Non ne sono sicuro ma questo potrebbe essere un ottimo sport olimpico. Più che una scusa questo è uno stile di vita. Perché sì, tu che stai leggendo e pensi a tutte le volte che hai fissato il vuoto piuttosto che studiare, hai un po’ la testa tra le nuvole. Ma non ti preoccupare non è un dramma. Perché buttare sangue su uno sporco libro quando posso fissare un punto non definito e pensare a come risolvere i misteri della vita? Ah e anche a pensare cosa può esserci di buono per cena. È importante.

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#6 La conta delle pagine. E a proposito di sport olimpici come non menzionare “La conta delle pagine”. Di fronte a un libro di 500 pagine le cose da fare sono due: o ti metti a contare le pagine e programmare di leggerne un tot al giorno per arrivare preparato al giorno dell’esame o inizi a strapparle in preda ad una crisi di nervi sperando che così diminuiscano. Comunicazione di servizio: entrambe le soluzioni non sono valide.

#7 Gruppi studio. L’uomo per natura è spinto a vivere in comunità. Lo studente disperato non fa differenza. I gruppi studio possono essere un ottimo modo per imparare in compagnia tutti allegri e felici, ma nella vita vera sono una delle migliori scuse per non studiare. Perché quando vi riunite tu e i tuoi compagni di studio per discutere di quale sia tra il pensare e il volere la facoltà della mente più nobile (e sembrate un circolo di taglio e cucito), alla fine vi ritroverete a parlare di Emily Ratajkowski (tratto da una triste storia vera).

#8 Il Calcetto. Non ho sbagliato a scrivere Calcetto con la C maiuscola. Eh no, perché qui siamo di fronte ad una signora scusa. Anche lo studente più diligente manderebbe all’aria un pomeriggio di studio per una partita a Calcetto. Il Calcetto è un momento unico nella settimana dello studente che ha l’opportunità di chiudere i libri e svagarsi un po’. Peccato che l’impegno, a livello di tempo, non si limiti all’ora e mezza di partita: 2 giorni servono per prenotare il campo e cercare uomini validi per giocare, 1 giorno per capire che uomini validi non ce ne sono ed è meglio ripiegare sull’amico grassottello che ha il tocco di Ronaldinho,1 giorno per la partita (sì, un giorno intero per entrare in clima serve) e, infine, 3 giorni per riprenderti dai dolori che dalla partita derivano e per capire che sei vecchio. Ed un’altra settimana è passata.

#9 Fare i compiti degli altri. Questa scusa colpisce soprattutto chi ha un fratello o cugino più piccolo. Non posso che comprendere tali individui. Dopo che passi ore e ore su un libro di anatomia, che personalmente mi farebbe rigettare il pranzo di Pasqua, e arriva il tuo bel cuginetto con i compiti di matematica da fare che consistono nel fare delle difficilissime divisioni in colonna, capisci che è il momento di mollare anatomia e buttarti ad aiutarlo per diventare il suo eroe e sentirti realizzato per un pomeriggio. Tranne quando deve fare l’analisi grammaticale. Quella mi secco a farla anche ora.

#10 UniVersoMe. Ma naturalmente la scusa migliore, se non anche la più bella, è quella di perdersi nel sito di UniVersoMe (ammicco, ammicco). Perché solo su UniVersoMe potrai imparare tante cose belle e leggere articoli stupendi come questo che ho scritto io (ammicco, ammicco e lancio sguardo che incute sicurezza). Per poi non parlare della stupenda Radio di UniVersoMe che ti terrà compagnia proprio nel momento in cui decidi di aprire il libro (alzo le sopracciglia in segno di figaggine e intanto ammicco). Cosa aspetti allora? Posa quel libro che proprio non vuole sapere di entrare nella tua bella testolina e scegli il divertimento di UniVersoMe.

Nicola Ripepi

La “pazza gioia” di Paolo Virzì: la vulnerabilità incontenibile della felicità

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L’oblio dei ricordi che riaffiorano nella memoria frammentata e nella quotidianità dolorosa di due donne. Il desiderio travolgente di scappare dagli spettri del passato e da un’esistenza che si riesce a contenere a fatica. Può il disagio della sofferenza psichica accordarsi con i vessilli della felicità? L’ultimo film di Paolo Virzì, nelle sale da martedì 17 maggio, è il punto di contatto tra universi che spesso entrano in collisione, al cinema come nella vita: la “normalità” della sanità mentale e l’instabilità dei deviati e degli ultimi.
Il nuovo lavoro del regista livornese, d’origine siciliana per parte paterna, scritto con la collaborazione di Francesca Archibugi, una brillante commedia drammatica on the road che mette insieme divertimento intelligente a momenti genuini di commozione, ha raccolto ben quindici minuti applausi nella sezione Quinzaine des realizateurs del Festival di Cannes e un successo al botteghino già nei primissimi giorni di programmazione sugli schermi. Come lo stesso Paolo Virzì ha dichiarato durante un’intervista proprio in occasione della presentazione al festival la vicenda racconta una storia di follia che parla del forte legame di amicizia, o meglio della “relazione affettiva tempestosa”, tra due figure femminili dalla vita complicata in un turbine di ribellione alle regole imposte.
Dopo la Brianza del Capitale umano, torna ancora ad essere protagonista il paesaggio della Toscana. Nella campagna pistoiese si trova Villa Biondi, immersa nei fasti di un antico casolare, gestita dai servizi sociali e dal personale medico psichiatrico, e trasformata in una comunità terapeutica che accoglie donne ritenute socialmente pericolose in custodia giudiziaria. E’ in questo luogo che si incrociano per caso gli sguardi di Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi, già nel Capitale umano e vincitrice di tre David di Donatello) e di Donatella (Micaela Ramazzotti, a fianco di Paolo Virzì in Tutta la vita davanti e ne La prima cosa bella), donne dal carattere differente ma dai tratti psicopatologici ugualmente profondamente segnati: esuberante, mitomane, loquace, la prima è scossa dall’arrivo in comunità di Donatella, ragazza fragile e silenziosa che ascolta senza sosta dalle cuffiette del cellulare la canzone Senza Fine di Gino Paoli. L’incontro le porterà a ritrovarsi in una circostanza fortuita che provocherà una fuga verso un altrove non pianificato; così seguiranno una serie di accadimenti tragicomici e rocamboleschi, l’incontro con dei personaggi che metteranno in discussione il concetto di normalità psichica, il furto di un auto, il giro notturno nella movida, e infine l’avvicinamento coraggioso alle ombre passato: il legame affettivo impetuoso che scaturirà proprio grazie alla diversità si concretizzerà in un esortazione ad andare avanti nonostante il buio interiore e gli errori commessi.
I personaggi di Paolo Virzì sono delle figure complesse indagate nella loro interezza umana e psichica, senza nessuno spazio lasciato alla facile impronta macchiettistica. Nel cast accanto alle attrici professioniste non a caso, sono state selezionate delle pazienti dei centri del dipartimento di salute mentale della Ausl, che è arduo distinguere dalle altre attrici. L’introspezione della sensibilità femminile è uno degli aspetti più riusciti. Le due donne appaiono in misura diversa alienate dalla realtà e allontanate dai loro affetti. Il percorso alla ricerca della normalità, se di normalità si può parlare in quel “manicomio a cielo aperto che è l’Italia”, sarà un lento risalire fuori dall’acqua, come nell’incidente che ha coinvolto Donatella e il figlioletto Elia. Il mare che può inghiottire ma anche fare da palcoscenico agli spruzzi e alle risate di una ritrovata ma sempre incerta e mai ferma serenità, rappresentata dalla toccante scena finale in Versilia.
Il delicato tema del disagio mentale, ancora molto spesso tabù in Italia, è trattato senza arrivare a conclusioni affrettate e a giudizi lapidari: gli operatori sanitari sono figure allo stesso modo convincenti e reali. Ma è nell’oscillazione tra l’euforia e l’amarezza che si incunea l’emotività delle protagoniste che coinvolge il senso della fugace possibilità di vivere la pazza gioia. Per citare la scrittrice Mignon McLaughlin: “molte cose possono farti infelice per settimane; poche possono portare un giorno intero di felicità”. 
Eulalia Cambria

Dormo o son desto?

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“Dormo o son desto?”, un recente studio ci spiega cosa succede al nostro cervello quando siamo lontani dal nostro letto.

“Se cambi cuscino, non riesci a dormire”, con questo detto Giapponese, Yuka Sasaki commenta i risultati dell’ultimo studio datato Aprile 2016, portato avanti insieme ad altri collaboratori della Brown University di Providence. Scientificamente noto come “effetto prima-notte” è quel fenomeno che ci porta a riposare male la prima sera trascorsa in un letto diverso da quello della nostra stanza.

Sarà capitato più o meno a tutti, dopo una notte trascorsa nel letto di una camera di hotel o di casa di un amico, di risvegliarsi un po’ intontiti e alquanto stanchi. L’obiettivo di questo team di scienziati era proprio quello di individuarne le cause e perciò hanno deciso di sottoporre 35 volontari a un esperimento consistente nel far trascorrere loro delle notti in laboratorio, al fine di monitorarne l’attività cerebrale. Tramite l’utilizzo di tecniche avanzate di elettro-magneto encelofalografia e di risonanza magnetica ad alta risoluzione, effettivamente qualcosa è venuto a galla. Durante tutte le ripetizioni dell’esperimento, infatti, si è apprezzata una continua attivazione di un particolare network dell’emisfero sinistro, nel corso della prima fase del sonno profondo, definito a “onde lente” e non riscontrabile invece nell’emisfero controlaterale. I ricercatori hanno inoltre evidenziato una maggiore responsività dell’emisfero sinistro a stimoli uditivi esterni rispetto al destro.

Dallo studio non è emersa una sostanziale asimmetria di attività cerebrale nelle altre fasi del sonno; ma soprattutto lo stesso network neuronale, che la prima notte era apparso significativamente più attivo nell’emisfero sinistro, a partire dalla seconda notte passata in laboratorio da parte dei volontari, non presentava alcuna differenza fra le due controparti. Il lavoro lascia ampi margini di ricerca, anche perché le analisi sono state effettuate considerando soltanto una fase del sonno e nei confronti di soli quattro networks cerebrali. Non è quindi da escludere che l’emisfero sinistro possa lavorare in alternanza con il destro, così come che altri circuiti nervosi siano particolarmente attivi durante la notte.

Questa scoperta, tuttavia, deve lasciarci a bocca aperta fino a un certo punto. Non siamo gli unici in natura a “vigilare” durante le ore notturne: infatti, il “Sonno Uniemisferico Alternato”, così è definita questa peculiare capacità cerebrale, anche se con le dovute differenze,  è già stata evidenziata in altre specie, delfini e balene innanzitutto, oltre che in alcuni volatili.

Quello evidenziato dalla Brown University potrebbe, quindi, essere un residuo dei tanti meccanismi di adattamento della specie che la natura ha messo in atto durante l’evoluzione. Il processo descritto, operato da queste specie, ha il fine di proteggere, di tenere in allerta l’animale anche durante le ore notturne, pronto a difendersi dall’assalto di eventuali predatori o di pericoli di varia natura. Il nostro organismo fa più o meno la stessa cosa: riconosce come potenziale pericolo una stanza, un letto o anche un cuscino diverso dal nostro, con l’obiettivo di prepararci a situazioni poco piacevoli ma rappresentando, soprattutto per chi viaggia spesso per lavoro, un disturbo a volte anche non poco fastidioso.

“Ma il cervello umano è molto flessibile e si adatta facilmente” ha aggiunto Yuka Sasaki, c’è  da contarci, quindi, che l’evoluzione, in un futuro non tanto lontano, possa risparmiarci questo spiacevole “effetto prima-notte”.

 

                                                                                                                                                   Andrea Visalli

Legends of tomorrow. Una scommessa vinta !

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Siete amanti delle serie sui supereroi ma avete già esaurito tutte le stagioni di Arrow e The Flash? Ecco, Legends of tomorrow è proprio quello che fa per voi.

Questa serie, i cui protagonisti sono tratti da eroi secondari e villains delle due serie sopracitate, è partita come una sfida, in quanto, essendo ben otto i protagonisti, si rischiava di fare molta confusione e di non riuscire a ottenere l’interesse del pubblico. Eppure, sebbene con alti e bassi, questo mito è stato sfatato tanto che la serie sarà riconfermata per una seconda stagione.

Ma andiamo un po’ a conoscere chi sono questi eroi, anzi queste “leggende”. Sara Lance/White Canary, l’emblema  dell’anti-eroina, combattuta tra la sua sete di sangue ed il desiderio di aiutare il prossimo; Ray Palmer/Atom, geniale scienziato desideroso di avere un nome in questo mondo; Kendra Suanders&Carter Hall/Hawkgirl&Hawkman, due antichi amanti con un leggero problema con la reincarnazione (starete a vedere!); Martin Stein e Jefferson Jackson, i due componenti di Firestorm spesso in conflitto per la loro differenza d’età e infine, a mio avviso i più adorabili; Leonard Start&Mick Rory/Capitan Cold&Heat Wave due astuti criminali che scopriranno il loro lato eroico. Questo gruppo eterogeneo di supereroi è stato reclutato da Rip Hunter, signore del tempo, per viaggiare attraverso varie epoche e impedire al tiranno Vandal Savage di radere al suolo l’intera umanità .

Legends of Tomorrow, piace proprio perché sdogana il classico concetto di eroe, protagonista assoluto ed invincibile , dando spazio anche al lato comico e al lato umano di questi otto personaggi, di cui seguirete i dubbi, le paure, lo spirito di sacrificio e la conseguente crescita nel corso della stagione. È un serie consigliata a un pubblico medio, che vuole vedere scene d’azione ben realizzate ma che non disdegna nemmeno la parte sentimentale.
E voi quale leggenda sceglierete?

Edvige Attivissimo

Civil War, tutto il dolore per un’amicizia distrutta… e Spiderman

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Succede, spesso, che due persone abbiano un incomprensione. Si può litigare, urlare, allontanarsi e nei casi più estremi arrivare alle mani. I motivi per litigare possono essere molteplici: cause esterne alla coppia, cause interne, incomprensioni o fraintendimenti.  Se sei un supereroe con la capacità di distruggere tutto e litighi con un altro supereroe che ha la stessa capacità, beh forse non finirà proprio bene. Sicuramente, sia per quanto riguarda i supereroi che per quanto riguarda le persone normali, tornare ad essere “amici come prima” è dura. Una cosa è sicura: da un litigio si può o uscirne più forti o non uscirne mai.

Captain America: Civil War si presenta proprio così. Un grosso litigio, una grossa incomprensione che non si sa come andrà a finire. Il film, che dovrebbe rappresentare il terzo della saga di Captain America, risulta essere un sequel dei film degli Avengers. I protagonisti assoluti sono Captain America e Iron Man ma il team degli Avengers è quasi al completo. Questo perché non ci troviamo semplicemente all’ennesimo sequel, ma al primo film che inaugura ufficialmente la terza fase cinematografica del Marvel Cinematic Universe. Infatti gli studios, di proprietà della Disney, ci hanno abituato nel corso degli anni a seguire con ansia tutti i film in uscita in quanto tutti collegati tra loro. Una grande scelta di marketing.

Proprio a proposito del marketing di casa Marvel quello che ha preceduto il film parlava piuttosto chiaro: #teamcap o #teamironman, tu da che parte stai? L’intento è stato subito quello di far schierare il pubblico. Sì, proprio come se tu fossi l’amico di una coppia che sta per disfarsi e sei tenuto a scegliere da che parte stare. Questa idea è stata assolutamente vincente facendo scatenare sul web le due fazioni contro, come se si stesse veramente combattendo una guerra civile. Però, fra tutte le guerre, questo tipo di contesa è quella che lascia di più l’amaro in bocca. Siamo sempre stati abituati a vedere i film con i supereroi che combattono il male. Nella guerra civile il male è difficile da identificare, quasi non c’è. Quando vedi due amici che lottano fino alla morte quello che desideri con tutto il cuore è che smettano di lottare e che torni tutto come prima. Ma non torna mai tutto come prima. Ripeto: ottima scelta di marketing, Marvel. Ci troviamo, così, inermi davanti a questa lotta. Le fazioni si sfaldano. Chi tifava per Iron Man o chi tifava per Captain America non ha più importanza: ci importa che tutto finisca.

Non si rimane indifferenti ad un film del genere. Rimaniamo travolti da una trama che prende così una svolta inaspettata e grazie anche al consolidamento e all’introduzione di nuovi personaggi. Molto convincente Black Panther che nel corso della pellicola sembra essere l’ago della bilancia della situazione. Per non parlare dell’entrata in scena mozzafiato. Però c’è da dire che tutti gli occhi erano puntati sul nuovo Spider-Man. Tom Holland, che interpreta il “bimbo-ragno”, si è dimostrato perfetto per la parte. In tutte le scene in cui è presente riesce a strappare un sorriso. È divertentissimo. Bello (magari da approfondire nel film di Spiderman che uscirà nel 2017) il rapporto con Tony Stark che diventa per lui come una figura paterna. Il loro primo incontro ci dà da subito l’impressione che con loro due non ci annoieremo facilmente anche grazie al grande feeling che sembrano avere Tom Holland e Robert Downey Jr.

Per i fan Marvel questo film rappresenta una spaccatura non da poco. I film che seguiranno saranno sicuramente molto interessanti. Ancora una volta la Marvel è riuscita a darci un valido motivo per continuare a guardare i suoi prodotti. Questo rende MOLTO felici loro ma anche a noi non dispiace.

Nicola Ripepi

Vinyl: l’epoca d’oro del rock secondo Mick Jagger e Martin Scorsese

 

La New York degli astri nascenti del punk e del rock and roll, gli ultimi bagliori di Elvis e della Factory di Andy Warhol, la vita notturna a Greenwich Village con David Bowie e i Velvet Underground, i concerti elitari della esordiente musica disco afroamericana, innovativa e destinata a un ruolo di primo piano negli anni a venire: l’epoca felice in cui l’industria discografica e le major che controllavano il mercato musicale erano all’apice del loro ingranaggio e le vendite dei vinili schizzavano come i giri infuocati della puntina sul piatto del giradischi. La fine degli anni ’60 e il principio degli anni ’70 rappresentano un periodo cruciale nella storia della musica; il rock di maniera si avviava ad estinguersi riducendosi a comparire tuttalpiù sulle copertine imbolsite di alcuni dischi in occasione delle compilation natalizie, mentre band come i New York Dolls mandavano in estasi il pubblico e venivano trasmesse nelle radio fuori dai confini americani.

Tutto questo e molto altro raccontano – o vorrebbero raccontare – le 10 puntate che compongono la prima serie di Vinyl, trasmesse in Italia su SkyAtlantic. L’obiettivo è senza dubbio ambizioso e non privo di rischi. Del resto quando l’ideatore della serie è l’interprete più famoso di quella generazione, ovvero Mick Jagger, e i registi e produttori sono Martin Scorsese e Terence Winter, il progetto non può che accendere grandi aspettative. Se poi il personaggio protagonista di fantasia è uno degli addetti ai lavori che si muovono con maggiore disinvoltura tra le opportunità e le insidie di questo ambiente fatto di statistiche commerciali e passione genuina, le possibilità di offrire una narrazione esaustiva accattivante di quegli anni sono servite.

Richie Finestra (l’attore di origine italiana Bobby Cannavale) è il presidente dell’American Century Records. L’industria musicale e i contatti con gli artisti, la ricerca dei gruppi da immettere sul mercato e costruire in alcuni casi a tavolino seguendo un’estetica mirata, costituiscono gli obiettivi dell’etichetta. Il precipizio della crisi finanziaria che potrebbe portare al licenziamento coatto degli impiegati e persino alla chiusura dell’American Century Records costringe nel corso degli episodi Richie Finestra e i suoi più stretti collaboratori a manovre politiche azzardate che vanno dalla proposta di vendita a un colosso tedesco, la Polygram, al coinvolgimento di esponenti senza scrupoli della mafia locale. Fa da sfondo la vita privata “normale” delle persone che gravitano intorno agli uffici: quella di Devon (Olivia Wilde), musa e modella di Andy Warhol prima di diventare la moglie di Richie, e di Jamie C. Vine (Juno Temple), giovane segretaria dell’etichetta che nutre aspirazioni come talent scout e che riesce a scritturare i Nasty Bits. Gli elementi originali di Vinyl sono presentati attraverso un filtro che descrive l’ascesa e il declino dei miti e che fa intravedere la condizione personale di fragilità nascosta dietro i riflettori. Le incursioni curatissime nel mondo della musica dei primi anni ‘70, con una colonna sonora ricca di canzoni che spaziano dai Led Zeppelin agli Slade fino ai cantanti blues, e la cura scrupolosa per la scenografia, il vestiario e la fotografia, contrastano con alcuni difetti nella sceneggiatura, che risulta a volte calante e non in grado di tenere alta l’attenzione dello spettatore con una trama ben strutturata in tutti gli episodi. Ci aspettiamo che queste carenze vengano colmate a partire dalla prossima stagione. Nel frattempo l’attesa è comunque abbondantemente ripagata grazie a un tuffo nel passato che nelle sue note e nei suoi colori sgargianti ci riporta con nostalgia agli anni migliori dell’industria culturale.

Eulalia Cambria

 

 

“Fai bei sogni” di Massimo Gramellini

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“ Preferiamo ignorarla, la verità. Per non soffrire. Per non guarire. Perché altrimenti diventeremmo quello che abbiamo paura di essere: completamente vivi.”

Il pensiero della morte è uno di quei fardelli che ci portiamo dietro per tutta la vita. Si cerca sempre di relegarla nel più profondo dei nostri cassetti del cuore, si prova a nasconderla sotto una pila di avvenimenti ed emozioni vissute. Più volte tentiamo di esorcizzarla purificandoci con una serie di riti di fede. Ma lei è sempre lì, pronta a venir fuori dalla sua prigione dell’anima, per segnare alcuni dei momenti più tragici e difficili della nostra vita lasciando cicatrici che difficilmente vanno via.

La storia di Massimo, narrata in prima persona in questo romanzo autobiografico, inizia proprio alla fine di quella della sua amata madre. È la mattina del 31 Dicembre 1969  e i suoi sogni da bambino innocente di nove anni sono interrotti bruscamente dall’urlo del padre che è appena venuto a conoscenza della morte della moglie, la mamma del fanciullo che osserva sgomento la scena dalla porta della sua cameretta, ancora intontito dalla quantità di informazioni, miste ai postumi della dormita, che gli stanno pervenendo.

Questo avvenimento segnerà un repentino cambiamento nella vita del giovane torinese, che alternerà momenti di solitudine e moderata autocommiserazione, a momenti di tenui gioie donategli dai brevi amori giovanili, dalla scrittura e dalla sua squadra del cuore, il Torino.

La storia è narrata in maniera lineare, attraverso un lungo flashback che si interrompe negli ultimi capitoli, con forti spunti ironici che accompagnano tutte le fasi della vita del protagonista: dagli anni delle scuole medie passati a difendersi dai bulli e a rinnegare la morte della madre, al periodo Universitario, in cui il demone della sua infanzia, che lo scrittore denomina Belfagor, lo priva di emozioni,  passioni e sentimenti per evitargli ulteriori delusioni che la vita potrebbe propinargli; fino ai primi anni da giornalista e inviato vissuti nel limbo tra amore e frustrazione, gioie e delusioni.

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“Camminavo sulle punte e le guardavo di continuo, perché non ero capace di alzare gli occhi al cielo. Avevo le mie ragioni. Il cielo mi faceva paura. E anche la terra.”

Il rapporto con il padre sarà un nodo cruciale nella storia, caratterizzato da pallidi momenti di vicinanza e brusche liti che porteranno più volte lo scrittore a sferrare decise staffilate nei confronti dell’autoritario genitore. Il tutto si risolverà nelle pagine finali in cui Massimo, ormai grande, riceverà una busta sigillata da quarant’anni nella quale si nasconde il più sconcertante dei segreti che lascerà ogni lettore stupefatto.

Con questo libro, Massimo Gramellini, ci apre le porte più remote della sua anima e ci permette di toccare con mano le ferite che gli sono state inferte, ma anche di vivere i numerosi successi che la  vita gli ha riservato, tutto in maniera semplice e ironica, ma allo stesso tempo profonda e diretta al cuore.

È una lettura consigliata per tutti coloro che, nonostante la scomparsa di un qualcosa o un qualcuno a loro caro, hanno il coraggio di andare avanti e di combattere i propri demoni interiori, proprio come Massimo con Belfagor. Ma è anche un libro per tutti coloro che hanno perso la speranza nella vita, affinché possano riprendere a guardare il cielo tenendo i piedi ben saldi a terra.

Giorgio Muzzupappa