Marracash e l’incomunicabilità: l’Uomo, la Società e il Vuoto Contemporaneo

L’arte, quando è profonda, si manifesta come una riflessione sul tempo in cui nasce e sulle tensioni che lo attraversano. Negli ultimi tre album di Marracash (Persona, Noi, loro, gli altri ed È finita la pace), il rapper milanese ha costruito un percorso concettuale che non è solo autobiografico, ma si allarga a una visione esistenziale e politica della società contemporanea. Questo trittico musicale, nelle sue tematiche e nella sua costruzione narrativa, trova una corrispondenza sorprendente con la Trilogia dell’Incomunicabilità di Michelangelo Antonioni (L’avventura, La notte, L’eclisse), ma anche con film come Persona di Ingmar Bergman.

Persona: la frattura dell’io

L’album Persona (2019) è un’opera-manifesto, in cui Marracash scompone il proprio io come fosse un personaggio pirandelliano o un uomo immerso in un dramma esistenziale alla Bergman. Il titolo stesso rimanda al concetto di persona come maschera, un tema centrale nel cinema di Bergman, e in particolare nel suo film Persona (1966), dove il confine tra sé e l’altro si sfalda fino a diventare indistinguibile.

Non sono come te. Non mi sento come te. Sono Suor Alma, sono qui solo per aiutarti. Non sono Elisabet Vogler. Tu sei Elisabet Vogler.

In Persona, Marracash affronta questa crisi attraverso i titoli delle canzoni, che rimandano a parti del corpo, quasi a suggerire un tentativo di ricomporre un’identità fratturata. Il racconto si fa profondamente intimo: si parla di successo, depressione, amore tossico e della percezione pubblica di sé.

Non so se è amore o manipolazione
Desiderio od ossessione
Se pigrizia o depressione
Che finisca per favore, che esaurisca la ragione

Il parallelismo calza a pennello con il film di Bergman, dove la protagonista, un’attrice che smette improvvisamente di parlare, si sdoppia nella sua infermiera, fino a fondersi con lei. Allo stesso modo, Marracash esplora la sua identità artistica e umana, smascherando le contraddizioni tra ciò che è davvero e l’immagine che gli altri hanno di lui. Il risultato è un’opera che riflette sul tema dell’identità personale nel mondo dello spettacolo e oltre.

Noi, loro, gli altri: il senso di estraneità

Il secondo capitolo, Noi, loro, gli altri (2021), sposta il focus dall’individuo alla società, dalla dimensione personale a quella collettiva. Marracash ragiona su come la realtà esterna influenzi l’identità, analizzando il divario tra noi (chi sente di appartenere a una comunità), loro (l’élite o il potere) e gli altri (gli emarginati, gli esclusi).

Questo discorso trova un parallelo perfetto con la Trilogia dell’Incomunicabilità di Antonioni, in particolare con L’eclisse (1962), film che mostra il progressivo svuotamento emotivo dei personaggi, incapaci di trovare un senso nel mondo moderno.

Così come nel film, anche nell’album di Marracash domina un senso di disillusione: il successo e il potere non colmano il vuoto, mentre la società è sempre più frammentata.

Volevo davvero questo? Tutta la vita che ci penso (Dubbi)

Nel brano Dubbi, ad esempio, si avverte l’angoscia di una realtà in cui le divisioni sociali ed economiche rendono impossibile la comunicazione tra le classi, esattamente come i personaggi di Antonioni che, pur parlando, non riescono davvero a comprendersi.

Chissà perché si fanno tante domande? Io credo che non bisogna conoscersi per volersi bene. E poi, forse, non bisogna volersi bene.

Il finale di L’eclisse, con la dissolvenza su strade deserte e lampioni che si accendono, suggerisce un mondo privo di significato, e lo stesso si può dire per l’album di Marracash, che lascia più domande che risposte.

È finita la pace: il collasso dell’illusione

Con È finita la pace (2024), Marracash completa il percorso spostando il focus sul presente: la pace interiore e sociale è ormai perduta. L’album non parla più solo della crisi dell’individuo (Persona) o delle strutture che lo circondano (Noi, loro, gli altri), ma dell’impossibilità di ristabilire un equilibrio. Il titolo stesso suggerisce un punto di non ritorno, un’irreversibilità della crisi.

In questa fase, il parallelo cinematografico potrebbe essere con La notte (1961) di Antonioni, dove il rapporto tra i protagonisti (una coppia in crisi) riflette un malessere esistenziale più ampio.

Se stasera ho voglia di morire, è perché non ti amo più. Sono disperata per questo. Vorrei essere già vecchia per averti dedicato tutta la mia vita. Vorrei non esistere più, perché non posso più amarti.

Anche Marracash affronta il tema della fine delle illusioni: le relazioni affettive sono logorate, il sistema è irrecuperabile, il tempo non porta redenzione.

Escono di casa uno straccio, senza neanche un abbraccio, con il cuore d’intralcio quelli come me.

Un altro parallelo interessante è con Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini (1975), in cui il potere e la violenza diventano l’unica legge. È finita la pace sembra suggerire che la realtà attuale, tra guerre, disuguaglianze e alienazione, è diventata un luogo in cui non si può più trovare una via d’uscita.

Marracash

Marra Stadi 25: Messina attende il King del Rap

È l’artista delle sfide, dei record e delle ambizioni sempre più alte. Marracash non smette mai di superarsi, conquistando pubblico e critica con ogni nuovo traguardo. Dopo aver vinto la Targa Tenco e creato un festival unico per il rap italiano, è pronto a scrivere un’altra pagina di storia: con MARRA STADI 2025, sarà il primo rapper a portare un intero tour nei grandi stadi italiani.

Anche la Sicilia sarà protagonista di questo evento straordinario. Il 5 luglio 2025, Messina accoglierà la tappa imperdibile del tour allo Stadio San Filippo – Franco Scoglio, pronta a trasformarsi in un’arena di pura energia.

L’evento è organizzato da Puntoeacapo, in collaborazione con il Comune di Messina, sotto la guida del Sindaco Federico Basile, e l’Assessorato agli Spettacoli e Grandi Eventi Cittadini, rappresentato da Massimo Finocchiaro.

Gaetano Aspa

Taormina Film Festival 71 – Bardot

Durante la prima giornata della 71esima edizione del Taormina Film Festival (10 Giugno) è stato proiettato Bardot, il documentario su una vera e propria icona del cinema, Brigitte Bardot. L’opera biografica, presentata in anteprima mondiale alla 78esima edizione del Festival di Cannes, racconta, con il supporto della stessa Brigitte, non solo la diva di fama internazionale ma, soprattutto, la donna dentro e fuori l’inquadratura (un connubio perfetto con il tema scelto da Tiziana Rocca quest’anno per il TFF, ovvero “Le donne, non le dive”).

Il fenomeno B.B.

Il 19 maggio al Cinéma de la Plage del Festival di Cannes, nella sezione Un Certain Regard, viene presentato Bardot, il documentario biografico sulla vita Brigitte Bardot diretto da Alain Berliner (premio Golden Globe e BAFTA per Ma vie en rose del 1997), prodotto da Julien Loeffler, James Kermack e James Barton-Steel (Featuristic Films), in collaborazione con Nicolas Bary (TimpelPictures).

Classe 1934, appare per la prima volta sullo schermo nel 1952, a soli 18 anni, con il film Le Trou Normand  di Jean Boyer. Il 1956 è l’anno della svolta: quell’anno, infatti, Et Dieu… créa la femme di Roger Vadim (suo primo marito) la fa diventare una vera sex symbol di fama internazionale (diventando anche oggetto di studio per gli/le intellettuali). Da quel momento in poi, la sua carriera in Francia cambia inevitabilmente: rivoluziona completamente la moda di quegli anni rompendo gli schemi, diventando così un simbolo per l’industria e per l’opinione pubblica. Visto il nascere del fenomeno,  è stato coniato il termine non ufficiale Bardolâtrie, concepito per ritrarre la fama e la venerazione del pubblico per la divina Bardot.

È il cinema francese ad accendere i riflettori su di lei come su nessuna prima di allora: viene diretta da registi di spessore come Jean-Luc Godard ne Il Disprezzo (Le Meprìs), tratto dal romanzo di Alberto Moravia, in cui recita insieme all’attore Michel Piccoli nel 1963. Nel 1961, invece, la si vede protagonista nel film di Henri-Georges Clouzot, La verità (Le verité), pellicola per la quale riceverà, in seguito, il David di Donatello come miglior attrice straniera.

 

Fonte: Cineuropa
Fonte: Cineuropa

 

Il lato oscuro della fama

Le dive, si sa, stanno sotto i riflettori, ma mai del tutto al riparo dalle loro ombre. Il documentario si concentra anche sul lato oscuro della fama di Brigitte, come il tentato suicidio del settembre 1960 o l’attenzione mediatica particolarmente accesa dopo l’annuncio della sua gravidanza. Questi episodi ci fanno capire come l’artista, trasformato in icona, perde a poco a poco il diritto alla fragilità. La fama è per molti/e artisti/e un’arma a doppio taglio: da un lato il successo, dall’altro la sensazione di sentirsi in gabbia. Lei stessa, d’altronde, ha definito la fama una “malattia sociale”.

 

Brigitte oltre la Bardot

Il documentario è come se ci mostrasse due facce della stessa medaglia: Brigitte e La Bardot. Nel 1969 registra la canzone “Je t’aime moi non plus” insieme Serge Gainsbourg (di cui poi uscirà un film nel 1976).

Ci mostra anche un altra veste di Brigitte, ovvero quella di attivista: si fece portavoce nella lotta contro i maltrattamenti sugli animali (diventando peraltro anche vegetariana). Nel 1986 mette in piedi la Fondazione Brigitte Bardot per il Benessere e la Protezione degli Animali e per finanziarla, decise di  vendere i suoi gioielli e i suoi effetti personali. Decise di sostenere anche la protezione di Sea Shepherd (organizzazione senza scopo di lucro che si occupa della salvaguardia della fauna ittica) per proteggere gli animali marini.

Bardot
Fonte: IMDb 

Un icona rivoluzionaria e misteriosa

Bardot, attraverso le preziosissime immagini di repertorio, della famiglia, testimonianze di alcuni personaggi noti (come la performer di fama mondiale Marina Abramovich o la supermodella Naomi Campbell) e amici/che dell’attrice, ci descrive due ritratti della diva: Brigitte e la Bardot, la donna davanti e dietro la macchina da presa (quella stessa macchina che l’ha fatta diventare iconica e che all’età di 39 anni ha deciso di lasciare). La partecipazione attiva della stessa B.B., inoltre, rende questo documentario qualcosa di unico. Come del resto ha affermato Berliner:

“L’icona che è Brigitte Bardot rimane un mistero. Oggi dovrebbe essere considerata una femminista, un’anticonformista, un’anticipatrice dei suoi tempi. Ma ai suoi tempi era incompresa, ribelle e in contrasto con le rigide idee di ciò che una donna dovrebbe essere…”

 

 

Rosanna Bonfiglio

Taormina Film Festival 71 – Ballerina

In questo festival tutto al femminile, a chiudere la prima serata è proprio lo spin-off  Ballerina della saga di John Wick, con protagonista Ana De Armas, che incarna perfettamente lo spirito dell’evento.

Rabbia piena di grazia

La storia di Eve Macarro (Ana De Armas), giovane ballerina di danza classica cresciuta nel contesto della Ruska Roma, la stessa che ha formato John Wick (Keanu Reeves), conquista in maniera seducente la macchina da presa, attraverso la brutalità stilistica delle coreografie. A Eve non è stato insegnato  solo a danzare dalla direttrice (Anjelica Huston), ma anche ad uccidere. Infatti, più la trama procede, più la sua danza si trasforma in una sinfonia di vendetta. Lo schema narrativo è ben preciso e richiama la saga madre John Wick, il cui filo conduttore è lo stesso: trauma familiare, addestramento e resa dei conti. Tuttavia, la protagonista di questo revenge movie non è il ripiego del Baba Yaga, bensì una rappresentazione alternativa, forse più femminile ed elegante, di rabbia e sofferenza.

Baller
Ana de Armas in Ballerina.

L’ultimo Ballo

Una pellicola che fonde bellezza, poesia e rancore e che, nonostante il legame con la saga di John Wick, riesce a mantenere la propria indipendenza. Alcuni personaggi sembrano un po’ abbozzati, quasi accennati, ma il contesto generale e le dinamiche di forza e violenza coinvolgono e, in parte, quasi manipolano lo spettatore. Questo, tuttavia, non compromette l’efficacia complessiva del film. Eve, addestrata come ballerina e assassina, cresce con il desiderio di vendetta e tenta di scoprire chi sia il colpevole delle sue sofferenze. Per tutta la durata della pellicola, sembra che non ci sia un momento in cui Eve non sferri dei colpi.

Alla regia di Len Wiseman si affianca la supervisione di Chad Stahelski , il che si traduce in un effetto visivo e narrativo a metà tra balletto e combattimento, tra opera lirica e thriller moderno. La vendetta di Eveè chirurgica, serve a ricucire una ferita, nutrita da anni di addestramento. Non è solo una resa di conti ma una sorta di riconquista della propria identità.

Ballerina

Amici della stessa battaglia

Ana De Armas offre una prova intensa ma anche emotivamente trattenuta. Non è e non vuole essere una nuova ”Wick”, nonostante condivida lo stesso universo narrativo, non ne replica il modello. Quella di John è una vendetta più intima, alimentata dal lutto per la moglie e la perdita del cane, che scatena la furia cieca di un uomo ormai disperato per la sofferenza che sembra colpirlo fino all’osso. Eve, invece, ha una parte più profonda e strutturale: è figlia di quel mondo, ne fa parte, ma non esplode. Wick è un ex di tutto quel sistema, ed è  proprio la sua fuga che lo rende una leggenda.

Nel complesso, la storia mostra qualche debolezza durante il primo atto e si appoggia su clichè già visti, ma recupera nella seconda metà grazie all’aiuto di climax suggestivi. Rimanendo coerente con l’universo ”wickiano”, Balleria lo declina al femminile rimanendo coerente, e lo trasforma in un percorso di liberazione. Un mondo che trasforma il corpo in armi e le emozioni in debolezze, riformulando il tema della vendetta in chiave esistenziale e femminile.

 

Asia Origlia

Lilo & Stitch (2025): più Live-Action così, Disney!

Un live-action tratto dal classico Disney divertente ed emozionante che trova un compromesso con la modernità, riuscendo a conversare lo spirito del cartone. Da vedere! Voto UvM: 4/5

Lilo & Stitch” è un film del 2025 diretto da Dean Fleischer Camp. Nel cast sono presenti Maia Kealoha, Sydney Elizabeth Agudong, Chris Sanders (che presta la voce a Stitch nella versione originale, come nella versione animata), Zach Galifianakis, ecc. È il Remake In Live-Action di “Lilo & Stitch”, l’omonimo film d’animazione uscito nel 2002.

Trama

Una solitaria bambina hawaiana di nome Lilo (Maia Kealoha), sorellina della giovane Nani (Sydney Elizabeth Agudong), stringe un forte legame di amicizia con un alieno, l’esperimento 626 di nome Stitch, credendo si tratti di un cane ma che in realtà è stato creato dallo strambo scienziato Jumba Jookiba per essere un’arma di distruzione planetaria ed è giunto sulla Terra per sfuggire al suo controllo. Ora Stitch dovrà vedersela sia con gli umani che con gli alieni che lo inseguono, ma la permanenza sulla Terra e la compagnia della sua famiglia adottiva lo aiuteranno a scoprire il valore dell’amicizia e della famiglia.

 

Il fenomeno dei live-action Disney, tra alti e bassi

La Disney continua a realizzare Live-Action tratti dai suoi Classici, che hanno segnato l’infanzia (e non solo quella) di tante generazioni. Le nuove versioni non hanno soddisfatto pienamente il pubblico, arrivando anche a sfiorare il pregiudizio. Questo ha anche creato una sorta di paradosso: se sono completamente identici, non hanno molto senso. Qualora invece, risultino totalmente diversi dagli originali, non hanno senso ugualmente. Però, ci sono due aspetti oggettivi: i classici animati resteranno un passo avanti ed è giusto che i remake abbiano una propria impronta.

Se si realizza un remake, si cerca sempre di riproporre quella storia ma non verrà mai completamente identico all’originale. Ma è giusto così, perché chi realizza un film è sempre un autore e deve sempre lasciare una propria impronta. La differenza sta nel modus operandi adottato e non è vero che tutti i remake sono fatti allo stesso modo. Alcuni sono riusciti bene (es. Aladdin nel 2019); altri hanno diviso l’opinione pubblico (es. La Sirenetta nel 2023); altri hanno puntato sull’approfondimento di alcuni personaggi (Mufasa); altri sono stati un disastro (il recente Biancaneve). Adesso, è il turno di un remake su uno de i Classici Disney più amati di tutti i tempi: Lilo & Stitch.

Lilo & Stitch. Fonte: Cineocchio

 

Più live-action come Lilo e Stitch

Dopo la visione di questo remake, si può constatare che si ha davanti uno dei live-action Disney più carini e più riusciti di questo filone. Se si conosce a memoria il cartone animato del 2002, il remake non deluderà e farà anche salire la nostalgia ai fan di lunga data. Oppure, se i probabili nuovi fan si vedono direttamente il Live-Action senza aver visto la versione precedente, dopo avranno sicuramente voglia di recuperarlo. Ancora meglio, se si è proprio scettici nei confronti dei Live-Action in generale, questo di “Lilo & Stitch” (2025) ha tutte le carte in tavola per far abbattere il scetticismo di alcune persone diffidenti.

“Lilo & Stitch” è il Live-Action giusto per far ricredere su questo e dimostrare anche ai più scettici che se si mette passione ed impegno, il risultato può essere solo sorprendente. Fa esattamente quello che pochissimi Live-Action sono riusciti a fare finora, senza rincorrere la nostalgia ma addirittura venire incontro ad essa e abbracciarla forte. E’ un film fatto proprio da chi adora il cartone e trova un compromesso con ogni generazione, risvegliando il bambino interiore alle vecchie generazioni e attirando i bimbi e i ragazzini di oggi.

Stitch
Fonte: comingsoon

Lilo e Stitch e co. hanno sempre lo stesso carisma

“Lilo & Stitch” è uno dei Classici Disney più amati di tutti i tempi e ci vorrebbe una lunga lista per elencare le motivazioni, ma ci si sofferma sui più importanti. Appartiene ad una delle epoche d’oro della Disney, dove le storie divertivano ed emozionavano (ancora oggi). C’era anche lo spazio per dei bei messaggi, sempre attuali, e la possibilità di scoprire ed affezionarsi a dei personaggi divenuti iconici, nel tempo. “Lilo & Stitch” non è da meno, anzi è uno di quelli che riescono bene nell’impresa.

Lilo è una bambina stramba, ma in realtà è molto dolce e ha tanto amore da dare e sente il bisogno di riceverne, a sua volta. Sente molto la solitudine e soffre molto la perdita dei genitori. Dall’altra parte, c’è Stitch, un alieno tanto selvaggio quanto coccoloso, che scappa dai suoi creatori e cerca di sopravvivere e trovare una propria dimensione. Inizialmente, pensa che la soluzione sia un altro luogo fisico ma in realtà la sua dimensione è metaforico e una casa con le persone che ama e che lo amano, a sua volta.

Imparerà ad essere più umano degli uomini stessi e a conoscere i sentimenti. Lilo e Stitch sono completamente diversi solo nell’involucro, ma in realtà entrambi sono più simili di quanto sembrano e vogliono solo essere accettati. Questo rende la loro amicizia completa e unica e in questo remake, è pure più approfondita rispetto alla versione di “Lilo & Stitch” uscita nel 2002. C’è anche un’altra grande protagonista verso cui provare empatia: Nami, la sorella maggiore di Lilo che ha messo da parte sé stessa per lei. Una ragazza che lotta contro tutti e soprattutto, contro la paura di perdere anche Lilo, visto la dipartita dei suoi genitori.

Fonte: Nerdface.it

“Ohana” significa “Famiglia”. Lo spirito di Lilo e Stitch resta intatto

“Lilo & Stitch” è una storia che bilancia divertimento e dramma, lasciando spazio anche per la tenerezza. Ma la cosa importante sta nell’insegnamento del valore dell’amicizia e della famiglia, dell’accettazione e dell’emarginazione, a prescindere se si è umani o alieni. Il remake ripropone tutto questo, senza cascare nella superficialità e rimanendo nella semplicità. Trova il giusto compromesso con la modernità e ha delle sottili differenze che non stonano. Ma tralasciando quelle, la nuova versione conserva comunque la trama e lo spirito del film. I puristi potrebbero storcere il naso su queste differenze, ma il remake ha sempre una sua impronta e non è detto che alcuni elementi presenti nel cartone animato avrebbero funzionato allo stesso modo in live-action. Però, si sta parlando di differenze così poco importanti e la storia resta sempre la stessa, ossia divertente e commovente.

Il messaggio è sempre lo stesso e ci sta riproporre le stesse tematiche affrontate nella versione di “Lilo & Stitch” del 2002, oggi più che mai in una società che sembra che abbia dimenticato il valore di tali tematiche. E’ un film per famiglie è quello giusto per riproporle, con un linguaggio semplice, divertente e commovente. Anche perché, parte tutto da esse.

Ohana significa famiglia e nessuno viene abbandonato o dimenticato.

Un altro punto a favore nel remake sta nel cast, che comprende attori risultati adatti per i personaggi umani e il personaggio di Stitch risulta sempre coccoloso e tenero. La colonna sonora è praticamente la stessa, ma la CGI non è curatissima per gli alieni comprimari come lo è stata per Stitch, ma per alcuni di loro si è trovata una soluzione alternativa (rientra tra le differenze che non stonano) per non ricorrere troppo ad essa.

Da vedere assolutamente in sala.

 

Giorgio Maria Aloi

The Last of Us: sulle orme di un capolavoro

La seconda stagione di The last of us conferma il successo della prima stagione, mantenendo standard di qualità altissimi e una trama ancora più coinvolgente. Voto UVM: 5/5

Dopo l’incredibile successo della prima stagione, The Last of Us torna con un secondo atto devastante che alza l’asticella, frammenta il cuore e invita a un nuovo tipo di empatia. La seconda stagione di The Last of Us ha debuttato su HBO il 13 aprile 2025 e in Italia su Sky Atlantic il 14 aprile. Composta da sette episodi, questa stagione adatterà la prima parte del videogioco The Last of Us Part II.

  1. 1 -“Se mai dovessi perderti, perderei me stesso
  2. 2-Ritorno a Jackson
  3. 3-Regia ambiziosa, scrittura lenta
  4. 4-I personaggi
  5. 5-Un’opera matura

 

“Se mai dovessi perderti, perderei anche me stesso”

Nel lontano 2020, nel bel mezzo della pandemia da COVID 19, arrivava negli scaffali di tutto il mondo The Last of Us Part II. Bastarono poche settimane ai videogiocatori per capire di essere davanti a un titolo di rara bellezza, il cui comparto narrativo oltre che grafico erano destinati a settare gli standard videoludici delle generazioni successive. Dal focus sulla paternità e l’amore in un mondo post-apocalittico si passa a un’indagine dolorosa sul trauma, sulla perdita, sulla vendetta e su quella linea sottile tra giustizia e ossessione.

Poi, nel 2023, quando HBO ha trasformato il primo The Last of Us da videogioco a serie TV, ci siamo chiesti tutti se sarebbe stata l’ennesima trasposizione videoludica senz’anima o qualcosa di più. La risposta è arrivata chiara: non solo era un capolavoro, ma riusciva a raccontare il dolore, la speranza e l’umanità come il prodotto originale. Un miracolo di adattamento che ha convinto sia chi aveva giocato che chi non aveva mai preso in mano un controller.

Ecco perché la seconda stagione portava sulle spalle un peso enorme. Doveva confermare il successo della prima stagione, ma anche osare: trasporre e dare nuovo respiro a un videogioco ancora più complesso e pressocché perfetto, in grado di devastare emotivamente il giocatore dopo ogni svolta narrativa. E per buona parte, riesce in questa impresa. Ma non senza spigoli.

Ritorno a Jackson

La stagione si apre con un salto temporale di circa cinque anni. Joel (Pedro Pascal) ed Ellie (Bella Ramsey) vivono nella comunità di Jackson, apparentemente al sicuro. Il rapporto tra i due protagonisti sembra essersi incrinato: la bugia con cui Joel ha chiuso la prima stagione pesa come una pietra sul loro rapporto, ma ancora non sappiamo se la verità sia saltata fuori in questo arco temporale. Inoltre Ellie, ora diciannovenne, è in cerca della propria identità e di una via d’uscita dal dolore dopo i traumi della prima stagione.

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Ellie (Bella Ramsey) in The last of us – © HBO

A complicare il quadro arriva Abby (Kaitlyn Dever), una giovane donna che sembra avere un conto in sospeso con Joel. Da qui parte un intreccio narrativo cupo e spietato, fatto di, perdita e trasformazione: una spirale di violenza e di vendetta. Chi ha giocato The Last of Us Part II sa cosa aspettarsi, ma la serie riesce comunque a sorprendere, arricchendo alcune dinamiche e introducendo nuovi volti rispetto alla prima stagione, come Dina (Isabela Merced) e Jesse (Young Mazino), che rendono più densa la rete emotiva di Ellie.

Regia ambiziosa, scrittura lenta

La regia è affidata a un team di nomi importanti e si muove con sicurezza tra grandi spazi aperti e momenti intimi, claustrofobici. In particolare si citano Neil Druckmann e Craig Mazin, anche autori di questa serie tv. La fotografia cattura una desolazione mai estetizzata: è sporca, viva, dolorosa. Gli effetti visivi, il montaggio e la colonna sonora del maestro Gustavo Santaolalla (sempre dosata con sapienza e con picchi grandiosi) contribuiscono a creare un’atmosfera che stringe lo stomaco e non lo lascia mai davvero andare.

Dal punto di vista narrativo, la scelta di dilazionare l’azione per approfondire i personaggi è audace e apprezzabile. Ma ha un prezzo: l’intensità emotiva che nel videogioco veniva scolpita con brutalità chirurgica qui si diluisce, lasciando in alcuni momenti una sensazione di sospensione che non tutti ameranno. Non è quindi da considerarsi quindi un difetto, però certamente rappresenta una criticità per una fetta di telespettatori.

I personaggi

Nella prima stagione molti avevano storto il naso di fronte alla scelta di Bella Ramsey. Certamente è impossibile non riconoscerle una prova attoriale di buon livello. Non manca chi fa notare la poca somiglianza fisica con la controparte videoludica. E’ pur vero che la differenza di età e maturità che il personaggio di Ellie dovrebbe mostrare in questa seconda stagione rispetto alla prima non si percepisce fino in fondo. Non mancano poi alcune differenze nella caratterizzazione: la Ellie di Bella Ramsey è più abrasiva e carica di rabbia, forse eccessivamente.

Accanto a lei, Kaitlyn Dever incarna una Abby tormentata, intensa, con un dolore sempre pronto a esplodere. Il loro scontro – metaforico e letterale – è uno dei cardini emotivi della stagione. Abbiamo fiducia che la serie sviluppi ulteriormente questo personaggio, essendo uno dei più controversi e affascinanti della storia videoludica recente.

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Abby (Kaitlyn Dever) in The last of us – © HBO

Pur meno presente, Pedro Pascal continua a essere un gigante silenzioso: il suo Joel riesce a emozionarci tanto nei silenzi quanto nei dialoghi.

Un’opera matura

La seconda stagione di The Last of Us non cerca scorciatoie. Prende tempo, approfondisce, cesella i rapporti. A volte questo toglie forza all’impatto emotivo, ma alza il livello della scrittura e dell’interpretazione.

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Isabela Merced e Bella Ramsey in una foto dal set di The last of us – © HBO

Le scelte registiche e produttive mantengono un livello altissimo. La narrazione, pur frammentata, riesce a tenere insieme i fili grazie a una solida coerenza tematica.

Manca ancora un pezzo – questa è solo la prima metà della storia raccontata in  The Last of Us Part II – ma se il buongiorno si vede dal mattino, la terza stagione avrà tutte le carte in regola per chiudere il cerchio e lasciare un segno profondo.

Si riserva per il futuro un approfondimento dedicato a questo dualismo tra Ellie ed Abby, ma nel frattempo noi celebriamo la prima trasposizione videoludica ad aver finalmente messo d’accordo tutti.

Pietro Minissale

Thunderbolts*: un viaggio Marvel tra le emozioni umane

La Marvel potrebbe aver creato uno dei film migliori dopo Endgame Voto UVM: 4/5

 

La quinta fase dell’universo cinematografico della Marvel si conclude con il film giusto al momento giusto. Dopo molti bassi e pochi alti, Thunderbolts* regala ai fan una storia in pieno stile Marvel (quello che funziona fino ad End Game) portando sul grande schermo tematiche tanto importanti quanto difficili da affrontare in un cinecomic. E occhio alle scene post credit, fondamentali per il futruro del MCU!

Un’ultima missione prima di cambiare vita

Yelena Belova, sorella della compianta Natasha Romanoff, passa la vita ad eseguire missioni clandestine per conto dell’ex direttrice della CIA Valentina Allegra de Fontaine. Le sue giornate sembrano non avere uno scopo reale, e tutto ciò che prova è solo una grande apatia che cerca di annegare nell’alcol e nel lavoro. Un giorno, dopo una visita a Red Guardian suo padre putativo, decide di abbandonare la vita da agente segreto per dedicarsi alle pubbliche relazioni. Prima di ritirarsi però, decide di svolgere un’ultima missione per conto di Valentina.

La missione si rivela essere presto una trappola e la Vedova si ritrova bloccata in un edificio con gli altri agenti che hanno lavorato per Valentina: U.S Agent, Taskmaster e Ghost. Nell’edificio c’è anche un ragazzo che soffre di amnesia di nome Bob. Bob non sembra avere alcun superpotere ma, quando tocca gli altri fa rivivere loro alcuni di momenti più traumatici delle loro vite. Ben presto gli agenti di Valentina si troveranno a dover lottare per la propria vita e per quella dell’intero pianeta contro un’oscura minaccia.

Thunderbolts* Regia: Jake Schreier Distribuzione: Walt Disney Studios Motion Pictures
Thunderbolts* Regia: Jake Schreier Distribuzione: Walt Disney Studios Motion Pictures

 

Thunderbolts* è una storia di antieroi

Ciò che il regista Jake Schreier mette in scena con Thunderbolts*, è una storia di antieroi. Yelena, U.S Agent, Ghost, Red Guardian, il Soldato di Inverno e Bob/Sentry hanno tutti in comune un passato burrascoso. Tra chi è stata cresciuta come assassina, chi si è macchiato le mani del sangue di innocenti e chi ha passato la vita a servire il proprio paese per poi essere dimenticato non c’è spazio per veri eroi. E anche Bob/Sentry, ha passato la vita tra l’abuso di droghe e abusi emotivi che lo hanno inevitabilmente segnato. Nessuno è acclamato dalla folla e nessuno ha grandi poteri: sono solo esseri umani armati di pistola e superforza che ogni giorno cercano di affrontare sé stessi e i propri demoni.

 

Un racconto audace ma in pieno stile Marvel

Jake Schreier realizza una delle migliori pellicole dell’universo cinematografico Marvel del post End Game e, per farlo torna al passato. Niente multiverso, niente salti temporali e niente storie di origini. Thunderbolts* al contrario, riprende quella formula rodata del film corale che ha fatto la fortuna di Avengers e de I Guardiani della Galassia. Il regista riprende la stessa struttura vincente dei film di James Gunn e dei fratelli Russo con tanto di omaggi alle loro opere, dirigendo una pellicola dove le interazioni tra i personaggi sono alla base del funzionamento della storia.

Nonostante il dichiarato tono più serio della pellicola, non manca l’umorismo in pieno stile Marvel. A sorreggere la linea comica della pellicola è il Red Guardian di David Harbour, personaggio al quale non mancano anche i momenti di profonda riflessione. Schreier alla rodata formula Marvel aggiunge con audacia, una profonda riflessione sull’animo umano in parte simile a quella vista in Guardiani della Galassia Volume 3.

Thunderbolts* Regia: Jake Schreier Distribuzione: Walt Disney Studios Motion Pictures
Thunderbolts* Regia: Jake Schreier Distribuzione: Walt Disney Studios Motion Pictures

L’unione fa la forza

Il più grande pregio di Thunderbolts* è quello di raccontare la storia più umana di tutte. La pellicola di Jake Schreier sfrutta i supereroi, o meglio gli antieroi e Bob, per raccontare l’esistenza dell’animo umano e dei suoi demoni. Solitudine, depressione, alcolismo, vergogna e inadeguatezza sono raccontate attraverso gli antieroi protagonisti della pellicola. Ognuno di noi, chi più chi meno, come i membri dei Thunderbolts, a volte sente un vuoto interiore che alcune volte sembra avere la meglio. Ma allo stesso modo di come i Thunderbolts devono unire le proprie forze per superare gli ostacoli sul loro cammino, da certe situazioni si esce solo con l’aiuto di chi ci è vicino. Un abbraccio può essere il vero superpotere per sconfiggere quel vuoto che a volte ci attanaglia. In fin dei conti, questa pellicola della Marvel altro non è che una storia degli esseri umani dietro la maschera da eroe.

 

Thunderbolts*, un cast centrato guidato da Florence Pugh

La nuova squadra di antieroi trova nel cast uno dei suoi punti di forza. Torna Sebastian Stan nei panni di Backy, con un’interpretazione forse un po’ troppo mono espressiva. Florence Pugh regala un’interpretazione solida e convincente, che consacra ulteriormente l’attrice inglese anche nei ruoli d’azione. David Harbour (Red Guardian) e Wyatt Russell (U.S Agent) si trovano perfettamente a loro agio nel ruolo del super soldato pieno di rimorsi e, Julia Louis-Dreyfus riprende in maniera convincente il ruolo di Valentina Allegra de Fontaine. Bill Pullman, figlio d’arte come anche Wyatt Russell, interpreta un ottimo Bob/Sentry che tornerà nelle prossime pellicole del MCU già dal prossimo Avengers.

Francesco Pio Magazzù

 

Giorgio Poi- Schegge: frammenti sonori di un’anima in evoluzione

Giorgio Poi
Schegge non è un album facile, ma è necessario per chi ha ancora voglia di ascoltare davvero, senza saltare tracce, senza cercare solo il ritornello. Un album che non ti consola, ma ti capisce. E a volte basta quello. Voto UVM: 4/5

Nel panorama dell’indie italiano, Giorgio Poi è sempre stato un equilibrista raffinato, un autore capace di camminare sul filo che separa l’introspezione dalla leggerezza, la melodia pop dall’inquietudine sottile. Con Schegge, il suo nuovo album, sembra aver lasciato cadere quel filo per frantumarlo, e raccoglierne poi i pezzi più taglienti e lucenti. Il risultato è un disco che non chiede di essere capito, ma attraversato.

Un viaggio tra le tracce

Il titolo non è casuale: Schegge è davvero un insieme di frammenti non disordinati, piuttosto pagine strappate da un diario con gli angoli bruciacchiati, ancora pieni di verità. Ogni canzone è un microcosmo, una fenditura nel tempo in cui Giorgio fa passare la luce delle sue emozioni: l’ironia, la malinconia, la paura della fine e l’incanto delle piccole cose. Il suono si è evoluto, più stratificato, più ampio, ma mai sovraccarico. C’è un’eleganza sottile nella produzione, che unisce tastiere spaziali a ritmiche leggere, e una voce sempre vicina, sussurrata, come se stesse cantando solo per te.  L’album racconta questo tempo rallentato, questa sospensione emotiva che rende Schegge un’opera coerente: non un concept album, ma una mappa emotiva tracciata con delicatezza. I testi, come sempre, sono ellittici, pieni di immagini spiazzanti e quotidiane (“Il bottone è sbagliato in un’asola”, “Sfogliavo i tuoi capelli con le mani”).

   

Schegge: frammenti di un tempo sospeso

L’album si apre con giochi di gambe, brano dove l’ironia incontra la sensualità. È una canzone sull’attrazione e sulla goffaggine che accompagna l’intimità. I riferimenti stilistici vanno dal funk leggero anni ’70 al cantautorato indie italiano contemporaneo. L’arrangiamento è sinuoso, con un basso quasi parlante. La frase “Sulle tue gambe batte un sole che mi fa morire” ha la forza ambigua di una carezza sotto una luce al neon.

Una ballata liquida e rarefatta che scivola sotto pelle come un sogno d’estate dimenticato, Nelle tue piscine affonda in un immaginario acquatico per raccontare lo smarrimento identitario, ma senza mai alzare la voce. Le piscine diventano qui metafora ambigua — rifugio e prigione, specchio e abisso — di una ricerca di sé che non approda mai a una riva definitiva. È la dolcezza inquieta di chi si perde senza volersi davvero ritrovare.

 La scrittura di Giorgio Poi — che già nei dischi precedenti giocava con le immagini e la sospensione del senso — qui si fa ancora più ellittica, rarefatta, frammentaria. Non è un caso che  Uomini contro insetti, brano che sembra una lunga visione allucinata, tra critiche ecologiche, surrealismo urbano e umori pasoliniani. Il tono è dimesso, ma le immagini sono visionarie: “Mi hai lasciato sulle labbra il rosso dell’alchermes, e il tuo herpes”.

 

Il titolo, enigmatico e quasi scientifico, evoca una soglia oltre la quale la vita — e forse anche l’amore — non può più sopravvivere. Non c’è vita sopra i 3000 Kelvin è un brano che fonde inquietudine cosmica e tenerezza domestica, dove la fisica del calore si trasforma in metafora affettiva: il cuore, quando arde troppo, rischia di non sentire più. Il verso chiave, «Metti un orecchio sul mio petto / e all’improvviso hai capito tutto», ricorda da vicino la poetica di Lucio Dalla — quella capacità di condensare la vertigine dell’amore in un gesto minimo, quotidiano, quasi infantile.

Nel paesaggio emotivo del disco, Les jeux sont faits rappresenta il momento della resa elegante, dell’abbandono lucido, in cui la perdita diventa anche una forma di maturazione. La melodia è rarefatta, trattenuta, come se ogni nota esitasse prima di cadere, mentre il testo affonda in una forma di confessione trattenuta, in cui la voce sembra parlare tanto a un altro quanto a sé stesso. L’introspezione si carica di una dolce rassegnazione, che richiama certi finali felliniani: tutto è già accaduto, e non resta che guardarlo scorrere come un film che conosciamo a memoria.

Estetica della frantumazione

Già la title track, schegge, colpisce per economia espressiva: un minuto e mezzo che è dichiarazione poetica e gesto zen. Qui ogni canzone è un frammento che non vuole ricomporsi: è la bellezza dell’incompiuto.

Tutta la terra finisce in mare è invece un picco emotivo. La canzone osserva la vita dall’alto, come se cercasse un punto di fuga nel dolore. C’è qui un’intimità che non si chiude in sé, ma si espande, ricordando certe pagine di Lettere a un amico lontano di Franco Arminio, o i lunghi campi larghi del cinema di Alice Rohrwacher: la lentezza come forma di rispetto, la distanza come dichiarazione d’amore.

 

Un aggettivo, un verbo, una parola, probabilmente il brano chiave dell’album, sembra dialogare a distanza con Cara di Dalla. Lì c’era la costruzione progressiva del desiderio; qui, l’addio diventa un esercizio di grammatica, in cui ogni strumento è punteggiatura e la voce diventa silenzio. Un addio scritto “nell’attimo esatto in cui accade”, come dice lo stesso Poi.

Chiude il disco delle barche e i transatlantici, brano che potrebbe essere scambiato per una novella di Buzzati musicata da Battiato. Protagonista è la metafora del viaggio, del trasloco interiore, dell’andarsene senza clamore. La leggerezza qui non è evasione, ma scelta consapevole. È il punto d’approdo dopo una navigazione incerta.

Conclusioni

Con Schegge, Giorgio Poi non rivoluziona se stesso, ma affina la sua poetica. È un disco che non si consuma, ma si lascia abitare. Non è per chi cerca canzoni da canticchiare, è per chi ha ancora voglia di perdersi nei dettagli, negli echi, negli spigoli. In un’epoca che ci vuole sempre interi e performanti, lui ci ricorda che anche le schegge possono riflettere la luce.

Gaetano Aspa

“La casa degli sguardi”: Luca Zingaretti per la prima volta alla regia

“La casa degli sguardi” ci insegna a rielaborare un dolore facendo pace con la vita. Voto UVM: 4/5

 

L’11 Aprile è uscito al cinema “La casa degli sguardi”, un film in cui vediamo Luca Zingaretti, uno degli attori italiani più amati, in una posizione diversa dal solito, ovvero quella di regista oltre che di attore. Questa sua opera prima, presentata in anteprima alla Festa del cinema di Roma, è tratta dal romanzo d’esordio (oltre che autobiografico) di Daniele Mencarelli (pubblicato nel 2018), stessa penna di “Tutto chiede salvezza”, dal quale è stata tratta la serie Netflix di grande successo, divisa in due stagioni (la prima uscita nel 2022 e la seconda nel 2024) per la regia di Francesco Bruni.

Trama de “La Casa degli Sguardi”

Marco (interpretato da una delle “nuove leve” del cinema italiano, Gianmarco Franchini), 23enne romano rimasto solo col padre dopo la perdita della madre avvenuta qualche anno prima, causa un incidente con il rischio di finire in galera. A seguito di ciò, proprio grazie al padre (Luca Zingaretti) e un suo amico editore (Filippo Tirabassi) riuscirà a trovare un lavoro da inserviente presso l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. Proprio sul posto, dopo un accoglienza non proprio calorosa, conoscerà i suoi compagni di lavoro e/o di turno, che inizialmente lo metteranno alla prova, ma che presto si riveleranno essere anche degli amici, ovvero Giovanni (Federico Tocci), Claudio (Alessio Moneta), Luciano (Riccardo Lai) e Paola (Chiara Celotto).

Fonte: Today
Fonte: Today

Tra le varie amicizie di Marco c’è quella con un bambino (di nome Alfredo detto “Toc Toc”) ricoverato nella struttura. I due riescono a comunicare dalla finestra della sua stanza, attraverso disegni e/o gesti. Non si conoscono molto bene, ma questo non impedisce all’affetto di prendere il sopravvento.

L’elaborazione del dolore

“Secondo me questa storia parla della capacità straordinaria che hanno tutti gli esseri umani di rialzarsi dopo che la vita gli ha dato una bastonata”

Così l’attore e regista si è espresso durante la presentazione del suo film a Messina. La storia di Marco, impersonificato strepitosamente da Gianmarco Franchini (conosciuto per il ruolo di Manuel in “Adagio”, diretto da Stefano Sollima, uscito nel 2023) può essere la storia di ognuno di noi. Questo, prima ancora di Zingaretti con il film, lo fa intendere molto bene Daniele Mencarelli con il romanzo, poiché è proprio grazie alla storia del protagonista che lui racconta un momento difficile della sua vita.

La vita di Marco, a seguito della perdita della madre, è un pendolo che oscilla tra l’abuso di alcool e droga e la passione per la poesia. A causa della dipendenza, sviluppa uno stato di incoscienza così profondo da non lasciar trasparire nemmeno l’angoscia di esistere. Si ritrova ad essere un ragazzo in fuga da se stesso prima ancora che dal dolore, e proprio per questo viene abbandonato dagli amici e dalla fidanzata. A stargli accanto, nonostante le difficoltà, c’è il padre, che prova ad aiutarlo in ogni modo possibile.

Fonte: Lucky Red
Fonte: Lucky Red

 

La Casa degli Sguardi: fare pace con la vita

Quello che “La casa degli sguardi” ci insegna, attraverso la penna di Mencarelli prima e la regia di Zingaretti poi, è che osservare da vicino il dolore può aiutare ognuno di noi a riappacificarci con la vita. E’ proprio attraverso l’accettazione del dolore, parte ineludibile della nostra esistenza, che è possibile ritrovare  la voglia di vivere e di andare avanti, inseguendo i nostri sogni e le nostre passioni. Non è poi un caso se il film si conclude con un pezzo, composto appositamente da Michele Brega, dal titolo “Fate largo ai sognatori”, lasciando così nessuna certezza ma grandi speranze per un ragazzo che ha voglia di riprendere in mano le redini della sua vita.

 

 

Rosanna Bonfiglio

Quei bravi ragazzi: un film buffo

Un documentario sulla mafia italoamericana anni 60′-90′ raccontato da un ex-gangster pentito. Voto UVM: 5/5

Tratto dal romanzo Wiseguy di Nicholas Pileggi, il quale contribuirà anche alla sceneggiatura del film, Quei bravi ragazzi  è indiscutibilmente uno dei capolavori assoluti della storia del cinema. Una vera e propria analisi in dettaglio dei meccanismi dietro la malavita organizzata che illudeva i giovani ragazzi nell’America degli anni 60′-90′, per condurli in una vita fatta di rispetto, agiatezza, violenza ed inevitabilmente la galera, o la morte.

Prodotto e distribuito dalla Warner Bros, è disponibile su Prime Video ed è stato proiettato nel secondo incontro del cineforum organizzato da UniversoMe e Nuovo Cinema.

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“Quei bravi ragazzi” (1990) di Martin Scorsese.

TRAMA

In una Brooklyn anni 50′, un ragazzino di nome Henry Hill (Ray Liotta) inizia a svolgere dei lavoretti per conto del boss locale Paul “Paulie” Cicero (Paul Sorvino): la sensazione di potere e di agiatezza, mista all’ammirazione verso le figure di spicco della malavita newyorchese, trascineranno il giovane Henry dentro ad un sistema particolare, composto di finti valori, manipolazione e passione estrema che si trasforma in violenza e sadismo.

LA VISIONE DI SCORSESE

Quei bravi ragazzi si differenzia dai precedenti gangster movie per via del suo approccio documentaristico verso il mondo della malavita: Martin Scorsese non ha interesse nel raccontare un mondo verosimile ma romanzato, com’era la mafia romantica e passionale del Padrino di Coppola, bensì ci descrive una realtà tangibile, nella quale i nostri protagonisti non risultano mai glorificati, bensì miserevoli, ingenui ed opportunisti.

Gli stessi spietati criminali pronti ad uccidere a sangue freddo chiunque sotto il giusto compenso, passano le loro giornate ad ostentare ricchezza nei localetti di New York oppure a preparare il sugo per il pranzo in famiglia, che sia quella reale o quella malavitosa (emblematica la scena in cui Paulie sminuzza l’aglio in prigione, girata dal regista con una carica quasi erotica).

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“Quei bravi ragazzi” (1990) di Martin Scorsese.

IL FASCINO DELLA MALA

Henry riesce a scalare i ranghi della criminalità esattamente come un dipendente di un’azienda passa da spazzino a manager: oltre a questo parallelismo non troppo velato, Scorsese ci spiega perfettamente come un clan mafioso non ripaghi i suoi affiliati con delle semplici banconote, ma con un’apparente libertà di vivere la vita a proprio piacimento, infrangendo quante più regole possibili senza doverne subire le conseguenze.

Del resto è proprio il senso di potere e di rispettabilità che gli “uomini d’onore” esercitano sul prossimo ad affascinare il giovane Henry, e che lo stesso rimpiange quando tutto sarà finito.

LE DINAMICHE DEL POTERE

L’intero film è considerabile un’analisi retrospettiva che il nostro protagonista esegue sulla sua vita da “wiseguy”: la forza della narrazione, di fatti, sta nell’abilità di Henry di riuscire a contestualizzare in maniera perfetta ogni singola vicenda, puntualizzando spesso le dinamiche che caratterizzavano la sua quotidianità come se fosse un professore di lettere che spiega Carducci.

Ciò che si può delineare dal racconto del pentito è dunque una società animalesca, nella quale ogni singolo elemento cerca un pretesto per esercitare violenza sul prossimo, che sia per migliorare la propria posizione o semplicemente per mantenere quell’immagine rispettabile di sé che pare essere fondamentale soprattutto per i delinquenti più efferati.

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“Quei bravi ragazzi” (1990) di Martin Scorsese.

LA TERZA VIA D’USCITA

Il film descrive brillantemente l’evoluzione delle attività criminali delle famiglie mafiose in America: da semplici “protettori”, i gangster italoamericani si immischiano nel giro della droga, il che comporta grandi guadagni ma allo stesso tempo attenzioni indesiderate da parte della polizia.

Ogni singolo personaggio presente nella pellicola è cosciente del fatto che la sua vita terminerà inevitabilmente in carcere, oppure prematuramente in qualche vicolo della città con un foro di proiettile dietro la nuca, dunque passano le loro giornate a fuggire costantemente da tale pensiero; con l’entrata in scena della polizia federale, si apre una terza opzione.

Lo stato ha bisogno d’informazioni, ed il nostro protagonista è ben disposto a fornirgliene, purché possa uscire da quella spirale di violenza che da giovane tanto ammirava; quei valori di amicizia, rispetto ed onore di cui i “wiseguys” tanto si fregiavano, lasciano spazio ad un crudo cinismo e ad uno spietato opportunismo, ripagati con una casetta in mezzo al niente e delle lasagne al ketchup a carico del governo.

 

Aurelio Mittoro

 

The Chosen: La Serie su Gesù che Sta Cambiando la Narrazione Religiosa

The Chosen Gesù
The Chosen è molto più di una serie biblica. È un’esperienza che emoziona, avvicina e ispira. Jenkins trasforma il racconto evangelico in un viaggio intimo e potente, che parla al cuore di credenti e non. – Voto UVM: 5/5

Un Progetto Rivoluzionario Nato nel 2017

Nel 2017 nasce The Chosen, la prima serie TV interamente dedicata alla vita di Gesù e dei suoi discepoli. Creata, scritta e diretta dal regista texano Dallas Jenkins, la serie ha conquistato milioni di spettatori in tutto il mondo grazie a un linguaggio innovativo e a una narrazione coinvolgente.

Un Team Creativo Unico nel Suo Genere e un Nuovo Modello di Produzione

Alla base del progetto, un team formato da un evangelico, un cattolico e un ebreo. Questa collaborazione inedita garantisce una rappresentazione fedele delle Scritture, arricchita da profondità psicologica e contesto storico. Non ci si limita ai miracoli: The Chosen esplora emozioni, conflitti interiori e quotidianità dei personaggi biblici.

Dopo una prima stagione su Netflix, Jenkins decide di abbandonare le piattaforme tradizionali. Dalla seconda stagione in poi, la serie viene finanziata tramite crowdfunding, coinvolgendo direttamente il pubblico e arrivando a raccogliere più di 70 milioni di dollari.

Grazie a un’app gratuita, gli spettatori possono guardare ogni episodio senza abbonamenti, creando un rapporto diretto e partecipativo tra creatori e fan.

The Chosen:Una Serie che Divide ma Fa Riflettere

The Chosen ha generato dibattiti: alcuni critici ritengono che la figura di Gesù sia “troppo umana”, lontana dal modello tradizionale. Tuttavia, proprio questa umanizzazione di Cristo ha emozionato spettatori di ogni fede – cristiani, agnostici, atei – che si sono riconosciuti in una figura più vicina, reale e accessibile.

Con The Chosen, Dallas Jenkins ha dato voce e spessore ai personaggi dei Vangeli. Come Euripide nel teatro greco, inserisce introspezione; come Caravaggio, rappresenta un Cristo terreno, tra volti segnati e mani callose.

La serie non si limita a raccontare eventi del passato, ma fa rivivere il mondo di Gesù, rendendolo vicino, umano e attuale.

Anche il Vaticano e varie chiese riformate hanno espresso apprezzamento per la qualità e l’intento del progetto.

The Chosen al Cinema: L’Arrivo sul Grande Schermo

Nel 2025, in occasione della Pasqua, The Chosen approda per la prima volta al cinema. Vengono proiettati i primi due episodi della quinta stagione, che raccontano l’ingresso di Gesù a Gerusalemme e l’episodio del rovesciamento dei tavoli nel Tempio.

The Chosen
Una scena tratta da The Chosen – l’ultima cena di Jenkins (2017)

La narrazione si sofferma anche sui conflitti politici e religiosi che precedono la Passione, mantenendo sempre uno stile realistico e coinvolgente.

L’episodio dell’Ultima Cena, recentemente portato sul grande schermo, è uno dei momenti più potenti della serie. Viene rappresentata una Gerusalemme vivida, in fermento per la Pasqua e attraversata da tensioni religiose e politiche.

I dialoghi tra Caifa, Pilato ed Erode mostrano le dinamiche di potere nella Giudea del I secolo, mentre le reazioni della popolazione e dei discepoli contribuiscono a creare un’atmosfera di attesa e conflitto imminente.

The Chosen: Produzione Cinematografica e Qualità in Crescita

Grazie al supporto dei fan, The Chosen ha raggiunto una qualità visiva e narrativa sempre più alta. Scenografie, costumi, fotografia e colonna sonora si avvicinano agli standard del cinema.

Anche la recitazione è un punto di forza: gli attori, scelti per talento e presenza scenica, danno vita a personaggi intensi, autentici e memorabili.

Verosimiglianza e Vita Quotidiana: Le Chiavi del Successo di The Chosen

Il vero punto di forza della serie è la verosimiglianza. Ogni episodio alterna eventi miracolosi a momenti di vita quotidiana: Gesù che scherza, riposa, gioca con i bambini. I discepoli mostrano la loro umanità: Pietro ha problemi familiari, Matteo affronta il suo passato, ognuno vive un percorso personale di trasformazione.

Per approfondire la psicologia dei personaggi, Jenkins ha creato scene inedite ma coerenti con i testi evangelici. Vediamo, ad esempio, la vita di Maria Maddalena posseduta dai demoni, prima dell’incontro con Gesù, i dialoghi di Nicodemo con sua moglie e con i discepoli o i ricordi di Matteo.

The Chosen
Gesù che dialoga con un abitante della Decapoli

Ogni personaggio – anche secondario – è ben caratterizzato. Le ambientazioni, dai villaggi ebraici alla Decapoli pagana, offrono un mondo ricco e credibile.

Marco Prestipino