Bianca Garufi e Cesare Pavese, tra amore e mitologia

Cesare Pavese e Bianca Garufi sono definiti dallo stesso scrittore torinese una “bellissima coppia discorde”. Ma chi sono davvero? Lei di culla romana, lui di Santo Stefano Belbo, sono senza dubbio due dei fiori all’occhiello di Casa Einaudi; ed è proprio lì che si incontrarono nel 1944, nella sede romana della storica casa editrice.

Bianca Garufi tra Letojanni e Via Centonze

Cosa lega Bianca Garufi alla nostra Messina? Da una lettera del 30 agosto 1945, mandata da Letojanni, leggiamo:

Vorrei sapere qualcosa di te, se stai bene, se sei ancora così crudele. […] Scrivimi, se vuoi, a Messina V. Centonze 102.5″

Si dà il caso che la madre della donna, Giuseppina Melita, sia l’unica sopravvissuta della sua famiglia al terremoto del 1908; motivo per cui la giovane Bianca, agli albori del suo intreccio amoroso con lo scrittore, passava le estati sull’isola siciliana tra Letojanni, Messina e Siracusa. Forse è per questo suo appartenere alla Magna Grecia che il mito le scorre nelle vene; e probabilmente dobbiamo a lei la stesura dei Dialoghi con Leucòuno degli ultimi capolavori di Cesare Pavese.

Bianca Garufi all’epoca (dal volume “Una bellissima coppia discorde”, C.G.G., 2023)

I “dialoghetti” con Leucò

Il 10 gennaio 1948 Cesare Pavese scrive a Bianca che stava studiando il greco: nel frattempo stava scrivendo i suoi Dialoghi con Leucò. È fuor di dubbio che, per l’opera, lo scrittore si sia fatto ispirare dalla figura della giovane amante, che però per sua sfortuna non la apprezzò poi così tanto, definendo i componimenti dei meri “dialoghetti“.

Non è da considerarsi un caso, però, che Leucò (Λεῦκος) in greco voglia dire “bianco“. E neanche che il cardine attorno cui gira l’opera sia la mitologia, tema caro sia a Bianca che a Cesare. Pavese vede il mito come un momento rifondativo e utilizza nomi noti per trattare dell’umanità tutta e di questioni universali. Parlando della mitologia scrive nel febbraio del ’46, nel suo diario, Il mestiere di vivere:

“Potendo, si sarebbe volentieri fatto a meno di tanta mitologia. Ma siamo convinti che il mito è un linguaggio, un mezzo espressivo […] una particolare sostanza di significati che null’altro potrebbe rendere.”

Dialoghi con Leucò e una pagina del volume “Una bellissima coppia discorde” – foto di Giulia Cavallaro

Il “caos vitale” di Bianca

La letteratura di Cesare Pavese è senza dubbio influenzata dagli amori che si susseguono durante la sua vita. E Bianca è per lui un fiume, come lui stesso la definirà in una lettera dell’ottobre del 1945: lei, senza saperlo, ha la forza di trascinarlo con sè, dirà lui stesso. Bianca, una donna curiosa, irrequieta, che poco aveva a che fare con un uomo come Cesare Pavese.

Bianca, come va il tuo caos vitale? Non riordinarlo troppo, perchè allora ti sparirà anche l’interesse alla vita. Tienilo giudiziosamente a mezz’acqua. E se stai troppo bene a Letojanni, scappa. Non mangiare il loto.” (lettera del 3 settembre 1945)

Quello che però senza dubbio Bianca Garufi non sapeva è che probabilmente fu lei ad ispirare i suoi dialoghetti, che Pavese definisce “un libro che nessuno legge e, naturalmente, l’unico che vale qualcosa” (lettera del 25 agosto 1950 a Nino Frank).

Il rapporto tra i due si sfilaccerà a partire dal 1947, anche se la loro corrispondenza non terminerà mai del tutto fino al febbraio 1950: nel loro carteggio si legge in trasparenza un tenero affetto che non terminò mai davvero, nonostante l’amore fosse finito. Sarà proprio ai Dialoghi con Leucò che Cesare Pavese affidò le sue ultime parole. Il 27 agosto 1950, prima di togliersi la vita nell’Hotel Roma di Torino, scrisse in un biglietto che lasciò all’interno di una copia del libro: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.”

Ed è questo l’epilogo della “bellissima coppia discorde”. 

Giulia Cavallaro

*Le citazioni sono tratte dai seguenti libri:

Una bellissima coppia discorde,Il carteggio tra Cesare Pavese e Bianca Garufi (1945-1950), a cura di Mariarosa Masoero, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2023

Pavese Cesare, Il mestiere di vivere, Torino, Einaudi, 2020

Pavese Cesare, Lettere 1926-1950 (vol.2), a cura di Lorenzo Mondo e Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1968

 

Gibellina: La Land Art più grande del mondo le dà nuova vita

Il terremoto e la ricostruzione

Gibellina, un comune della provincia di Trapani, situato nella suggestiva Valle del Belice, è il protagonista di una storia di rinascita straordinaria che affonda le radici nel tragico terremoto del 1978. Quell’evento devastante, che provocò centinaia di vittime e migliaia di feriti e senzatetto, segnò profondamente la comunità, lasciando dietro di sé solo macerie e ricordi dolorosi di perdita e distruzione.

Dopo il terremoto, Gibellina si trovò a dover affrontare la difficile sfida della ricostruzione e del recupero della propria identità. Ludovico Corrao, il sindaco del comune ormai distrutto, avvertì un profondo desiderio di riscatto tra gli abitanti. Fu lui a riconoscere nell’arte un potente mezzo per riportare dignità e speranza in un luogo che sembrava aver perso ogni cosa.

Difatti, Gibellina Vecchia si trovava in una posizione geografica scomoda, su una collina abbastanza isolata, motivo per cui, al di là del terremoto, stava subendo un inevitabile spopolamento. Si decise, dunque, di dedicare quel luogo esclusivamente alla memoria e di creare un nuovo nucleo abitativo a pochi minuti da essa, ma allo stesso tempo più vicino all’autostrada e, di conseguenza, decisamente più accessibile.

Il potere dell’arte

Il compito di trasformare le rovine in un simbolo di rinascita fu affidato all’artista Alberto Burri. Quest’ultimo, con grande sensibilità, concepì il monumento noto come il “Grande Cretto“. Utilizzando il cemento come medium, Burri creò un velo che avvolge le macerie degli edifici e percorre le strade del paese, trasformando il dolore in un’opera d’arte imponente. La semplicità dell’architettura lascia spazio alla memoria del luogo che diventa la protagonista dell’opera. Il Grande Cretto non solo rappresenta la più grande land art del mondo, grande orgoglio Siciliano, ma incarna anche un significato profondo, simbolo di resilienza e forza di una comunità determinata a emergere dalle sue ceneri.

Cretto di Gibellina
Cretto di Gibellina. Fonte: https://www.artwort.com/2016/07/20/speciali/cult/cretto-burri-gibellina/

Gibellina Nuova

Gli abitanti, intanto, diedero vita a Gibellina Nuova. Anche questa nuova comunità lascia ampio spazio all’arte, venendo concepita come un grande museo a cielo aperto. Si distingue per l’uso creativo del cemento, con cui sono formate gran parte delle strutture, che funge da collegamento tangibile con il Cretto di Gibellina Vecchia. Artisticamente curata, Gibellina Nuova ospita più di 60 opere ed installazioni realizzate da artisti e architetti di fama internazionale.

Arco d’ingresso a Gibellina Nuova. Fonte:https://www.quotidianocontribuenti.com/belice-e-altre-storie-la-stella-di-consagra-brilla-per-il-centenario/

All’ingresso un arco, la Stella del Belice, accoglie i visitatori, diventando il simbolo distintivo della città nuova.

Vi sono poi la Montagna del sale, una struttura in cemento, vetroresina e pietrisco con all’interno 30 statue di cavalli in legno, nata come scenografia dello spettacolo “La sposa di Messina”;

Il MAC, Museo Civico di Arte Contemporanea, che racchiude circa 400 opere di varie recenti correnti artistiche;

il Tappeto volante, realizzato con quasi 50 mila cordicelle di canapa che riproducono un effetto simile alle Muquarnas della Cappella Palatina di Palermo, oggi situato al Museo delle trame mediterranee, dedicato al sindaco che rese possibile una ripresa per il paese, Ludovico Corrao.

Il 2019 ha segnato un ulteriore passo avanti con l’inaugurazione del Museo del Grande Cretto di Gibellina, ubicato all’interno dell’unica struttura sopravvissuta al terremoto: la Chiesa di Santa Caterina.

La Chiesa Madre di Ludovico Quaroni – Gibellina Nuova. Fonte: https://www.spaghettievaligie.it/gibellina-museo-cielo-aperto/

Conclusioni

Arrivare alla collina che ospita questa grande opera non è semplice, ma il silenzio del luogo, immerso nella campagna dell’entroterra trapanese, lascia spazio ad una malinconica bellezza.

In conclusione, Gibellina oggi, oltre ad essere un vero e proprio simbolo di rinascita, in grado di mostrare il potere dell’arte e di una comunità unita per far risplendere il proprio territorio, si mostra anche come grande attrazione turistica che, ogni anno, accoglie eventi culturali di vario genere.

 

Antonella Sauta

Fonti:

https://luoghidelcontemporaneo.beniculturali.it/grande-cretto-

https://luoghidelcontemporaneo.beniculturali.it/gibellina-nuova-

Marco Bellocchio: il grande cinema a Messina

Lo scorso 7 dicembre 2023, Marco Bellocchio, noto regista, sceneggiatore, produttore e docente di cinema, è stato insignito dall’Università di Messina del dottorato di ricerca honoris causa in Scienze Cognitive, curriculum Teorie e tecnologie sociali, territoriali, dei media e delle arti performative. Nel pomeriggio della stessa giornata, è stato ospite al Messina Film Festival Cinema & Opera ed ha partecipato alla consegna del premio per miglior cortometraggio a tema, vinto dalla giovane regista Maria Francesca Monsù Scolaro con il filmCon-Divise.

Biografia di Marco Bellocchio

Marco Bellocchio nasce il 9 novembre 1939 a Bobbio, in provincia di Piacenza ed è durante la frequentazione delle scuole salesiane che scopre la sua grande passione per il cinema, che lo porta a frequentare il Centro sperimentale di cinematografia di Roma, dove si diploma come regista nel 1962, sotto la guida di Andrea Camilleri. Il suo primo lungometraggio, I Pugni In Tasca, realizzato alla giovane età di ventisei anni, gli garantisce la selezione al Festival del film Locarno e vince il premio  Vela d’argento nel 1965. In questa e in altre pellicole come La Cina è Vicina (1967), premiato con il Leone D’Argento al Festival di Venezia, ha dimostrato il suo anticonformismo, mettendo a nudo l’ipocrisia borghese e facendo riferimento ai moti del’68.

In moltissimi dei suoi lungometraggi, caratterizzati da un procedere piuttosto calmo e lento, traspaiono i suoi interessi sociali e politici. Alcuni tra i titoli più noti sono Buongiorno, Notte (2003) in cui racconta il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro; Il Traditore (2019), relativo al mondo della mafia. Il culmine della sua carriera è stato raggiunto proprio quest’anno con Rapito, in cui racconta il caso di Edgardo Mortara.

 

Il regista Marco Bellocchio con il prof. F.Vitella. Ph. © Ilaria Denaro

Dottorato honoris causa a Marco Bellocchio

Non ho più l’età per perdere la testa, ma sono estremamente felice

Sono queste le parole pronunciate da Bellocchio, una volta insignito del dottorato. Egli è stato accolto come membro dell’Università di Messina dai docenti Alessandra Falzone, Coordinatrice del Dottorato in Scienze Cognitive; Carmelo Maria Porto, Direttore del Dipartimento di Scienze Cognitive; il Prorettore Vicario Eugenio Cucinotta; il Direttore Generale Francesco Bonanno e il Decano Antonio Panebianco.

Marco Bellocchio
Da sx Carmelo Maria Porto, Direttore del Dipartimento di Scienze Cognitive,il Prorettore Vicario Eugenio Cucinotta, il Decano Antonio Panebianco, il Direttore Generale Francesco Bonanno. Ph.©Ilaria Denaro

 

La Laudatio, invece, è stata affidata al professore Federico Vitella, ordinario di Cinema, fotografia e televisione, che è stato il primo sostenitore del conferimento del titolo a Bellocchio e che, con il suo discorso, ha ripercorso le tappe principali della carriera del regista.

Abbiamo l’onore di consegnare il dottorato – ha esordito – al più grande regista italiano vivente. Esponente del nuovo cinema italiano degli anni Sessanta, ha saputo innovare l’arte cinematografica, svecchiandone la narrazione e spalancando le porte al cinema moderno. Ha saputo anche rinnovare costantemente sé stesso, pur rimanendo fedele a uno stile inconfondibile, come la scelta dell’inquadratura lunga o della teatralità dello spazio, ed alcuni temi che definiscono il suo orizzonte poetico.

Queste, invece, le parole di Bellocchio:

Questo titolo, che arriva dopo la Laurea Honoris Causa alla Iulm, non sarà qualcosa che metterò al muro e lascerò impolverare, ma un segno davvero importante, una conferma e una soddisfazione che mi dà ancora più voglia di lavorare e creare. […] Stiamo mettendo a fuoco questo progetto che è una serie in sei episodi su Enzo Tortora. In questi mesi cerco di non distrarmi in nessun altro progetto, poi vedremo, prima di tutto vediamo di farlo e di farlo bene. Poi se uno ci pensa, ci sono tanti progetti da realizzare, da Giovanni Pascoli o storie molto internazionali come il processo di Norimberga, per esempio, però il nostro lavoro è molto concreto, bisogna capire se ci sono anche le possibilità economiche per poterlo fare; quindi, ci misuriamo sempre con il possibile. […] Il Dottorato Honoris Causa ricevuto in questo affascinante contesto mi inorgoglisce molto e mi impegna a rispondere ad una responsabilità in più. Dovrò compiere una meticolosa ricerca, al di là della gloria, dei traguardi o degli onori, che possa essere fortemente umana nell’ambito di un mestiere molto pratico, abituato a mediare tra diverse esigenze per produrre i suoi risultati. Il riconoscimento odierno testimonia l’entusiasmo per il mio lavoro e mi dona ancora più forza e convinzione per continuare a fare ciò che mi piace. Ai giovani, dico di essere entusiasti e di indagare a fondo per comprendere se il cinema è davvero la loro più grande passione da inseguire con tutte le energie di cui dispongono.

Nel pomeriggio, poi, come detto in precedenza, il regista è stato ospite al Messina Film Festival Cinema & Opera, ed in questa occasione, sono stati proiettati quattro dei suoi lavori: I pugni in tasca (1965); Vincere (2009); Addio del passato (2002); Pagliacci (2016).

 

Giorgio Maria Aloi

Il Giorno dei Morti in Sicilia

Non vive ei forse anche sotterra, quando
Gli sarà muta l’armonia del giorno,
Se può destarla con soavi cure
Nella mente de’ suoi? Celeste è questa
Corrispondenza d’amorosi sensi.

Dei sepolcri, Ugo Foscolo

 

In Sicilia, il pellegrinaggio al cimitero del 2 novembre è sacrosanto. Nell’ottica di una sorta di religione della famiglia, risulta essere fondamentale affinché gli antenati ricevano i meritati ossequi.

Non è, però, una sola questione di dovere e di rispetto quella che ci spinge nei luoghi dell’eterno riposo: la celebrazione dei defunti è pregna di significato e sentimento e parte importante della nostra tradizione.

Si dice delle tombe che siano fatte per i vivi, quanto più per i morti: un mezzo fisico per perpetuarne la memoria, in una continuità di affetti che rende l’uomo immortale.

❝ Chi vive nel cuore di chi resta non muore ❞

Il ricordo di chi ci ha lasciati è purtroppo alquanto labile nelle menti dei bambini, e le visite al camposanto lugubri e angosciose anche per i più grandi.

Da secoli, quindi, noi siciliani siamo ricorsi ai più vari stratagemmi per permettere che il legame con il passato non svanisse.

Dolciumi, giocattoli e monete spianano la strada per il nostro cuore, rendendo gioioso quello che, dal nome stesso, tutto suggerisce tranne che felicità: il Giorno dei Morti.

 

Il Giorno dei Morti

… a Messina

Frutta martorana
Fonte: Valeria Vella ©, 2023

È usanza a Messina, nella notte che precede il 2 novembre, che i bambini sistemino un bicchiere ricolmo d’acqua accanto ai propri letti, affinché i morticini possano abbeverarsi e ristorarsi dopo tanto vagare.

Per la gentile premura, le anime beate non mancano mai di lasciare, al loro passaggio, sorprendenti doni con cui allietarne il risveglio.

Non sono soltanto i balocchi ad essere ambiti: gli zuccheri non devono mai mancare!

In questo, la nostra isola offre le leccornie più disparate.

Ossa dei Morti
Ossa dei Morti
Fonte: https://blog.giallozafferano.it/passioneperilcibo/wp-content/uploads/2015/10/ossa-dei-morti-V.jpg

Se la frutta martorana è il dolce per eccellenza di questa ricorrenza in tutta la Sicilia, i messinesi possono vantare nel loro repertorio una specialità tutta loro: le ossa dei morti.

Da non dimenticare, inoltre, le nzuddi!

La parte più divertente di ricevere questo ben di Dio?

Trovarlo.

… ad Agrigento

U cannistru
U cannistru, con dentro taralli, ciambelli allatti, nzuddi e frutta martorana 
Fonte: Valeria Vella ©, 2023

Anche qui, la caccia al tesoro è all’ordine del giorno.

Grandi e piccini, appena svegli, balzano fuori dai propri giacigli, carici di impazienza ed entusiasmo per ciò che li aspetta: la ricerca du cannistru.

U cannistru è un cesto di vimini, come tanti se ne vedono. Questo, però, ha una particolarità; non viene usato per portare panni o pagnotte, ma è stracolmo di cioccolato, caramelle e biscotti, accompagnati alla classica frutta martorana.

Ad Agrigento, sono i taralli e le ciambelli allatti a fare da principi.

Taralli del Giorno dei Morti Fonte: Valeria Vella ©, 2023

 

 

A vegliare sui pargoletti vi sono, infine, i ritratti, scatti dei defunti imbastiti fra i vari ninnoli, che consentono loro di prendere familiarità e riconoscere gli artefici di quei regali.

Scovato il bottino e fatta razzia di saccarosio, non resta alle madri che appropriarsi di quel canestro per il proprio piacere.

 

… a Palermo

❝ Armi santi, armi santi 
Io sugnu unu e vuatri siti tanti:
Mentri sugnu ‘ntra stu munnu di guai 
Cosi di morti mittitiminni assai ❞

A Palermo si suole cantare questa filastrocca, un invito ai morti di essere generosi ad elargire omaggi.

Palermo, quindi, non fa eccezione e, come le altre città sicule, per il Giorno dei Morti si rimbocca le maniche e dà il suo meglio.

Una cosa è certa: i giocattolai possono restare tranquilli.

Anche nel capoluogo, si evince, giochi – e dolciumi – sono una costante. Come per la sorella Agrigento, è tradizione preparare u cannistru.

Qui, però, fa bella mostra di sé, solitamente posta al centro, la pupaccena o pupa i zuccaro, una statuetta di zucchero raffigurante dame, ballerine, pastorelle, contadini, cavalieri o eroi.

Per garantire che ai frugoletti non manchi la loro dose di frutta, ecco aggiunti fichi secchi, melograni, noci e castagne.

 

… a Catania

Se fino ad ora abbiamo visto i defunti nelle vesti di un Babbo Natale funereo, un Jack Skeletron che ce l’ha fatta, per la città etnea è un altro bel paio di maniche: quelle di Robin Hood.

È credenza, infatti, che i morti, nel loro giorno, derubino i pasticceri e i giocattolai più ricchi per donarne i profitti ai bambini.

Chiaramente, i regali non sono davvero frutto di un saccheggio, né tantomeno hanno come messaggero un viaggiatore dall’oltretomba. Bisogna sempre e solo ringraziare mamma e papà.

In passato, vi era un luogo dove i genitori solevano acquistarli: Piazza Vittorio Emanuele, da tutti chiamata a tal proposito a chiazza de motti.

Fra le bancarelle, esposti in attesa di deliziare i palati: ossa di morto, rame di Napoli e nzuddi.

Rame di Napoli
Rame di Napoli
Fonte: https://www.raciliashop.com/wp-content/uploads/2023/04/Rame-di-Napoli-catanesi.webp

Chissà che, invece, questa festa non l’abbiano inventata dentisti e dietologhi!

Valeria Vella

Fonti: https://www.palermoviva.it/la-festa-dei-morti/
https://www.mimmorapisarda.it/Morti.HTM#:~:text=La%20tradizione%20vuole%20che%20nella,e%20che%20li%20abbiano%20pregati.

Halloween smascherato: dalle origini al perché molti non lo festeggiano.

In occasione di questo fenomeno culturale -che non chiamerei festa perché collide con il significato etimologico della parola festa dal latino festus ‘gioioso, felice’– ti spiegherò perché Halloween non è una tradizione Cristiana e tanti decidono di non festeggiare.

In origine era… 

Halloween è una festa di origine celtica anche se molti credono abbia origini americane.

Si celebra il 31 ottobre e i suoi protagonisti sono fantasmi, zombie, streghe e zucche indemoniate ma per molti continua ad essere una festa innocua, per divertire adulti e bambini.

Si diffonde in Italia attraverso la cultura di massa con film, serie Tv e la strategia dell’up selling, incoraggiando i consumatori a comprare prodotti commerciali che sponsorizzano Halloween.

Per diverso tempo, e ancora oggi, questo evento è stato camuffato e offerto come una festa di tradizione cristiana, parafrasando il nome in All Hallows’ Eve e cioè vigilia di Ognissanti così coinvolgendo credenti e non, a partecipare.

Per quanto alcuni siano inconsapevolmente attirati dal mondo dell’occulto, l’esoterismo e rituali vari, vi sfido a trovare un solo elemento che colleghi la santità a vampiri assetati di sangue, licantropi feroci e  morti putrefatti che ti perseguitano di notte sotto l’effetto di un incantesimo.

Beh, nessuno!

Credo che chiunque, soprattutto i promotori di questo evento, possa dire che ci troviamo in uno scenario antitetico.

Questo non è uno scritto medievale trasportato nel XXI secolo, al contrario, questa premessa è confermata e supportata dall’origine della stessa ricorrenza.

I Druidi- sacerdoti celtici. Fonte: Studiarapido.it
I Druidi- sacerdoti celtici nella notte di Samhain. Fonte: Studiarapido.it

 

…la notte di Samhain

Halloween coincide con la notte di Samhain, una festa mitico-rituale considerata come il capodanno celtico, in cui si inaugurava la stagione delle tenebre e del freddo, le persone lanciavano in omaggio ai morti cibo affinché questi, uniti a fate ed elfi, non facessero dispetti agli abitanti. I druidi, sacerdoti celtici, si mascheravano per eseguire riti in tutto il paese spesso accompagnati da sacrifici di bambini e vergini.

Nel tempo del Samhain i sacerdoti praticavano la divinazione per connettersi al mondo degli spiriti, evento che per gli stessi celti era piuttosto pericoloso perché permetteva facilmente l’attraversamento degli spiriti con conseguenze rilevanti per chi partecipava.

I simboli di Halloween 

Ben presto Halloween si diffuse in tutto il popolo americano, diventando quasi una festa nazionale.

Tra i simboli di Halloween vi è la zucca personificata dalla storia di Stingy jack, un uomo poco raccomandabile con un brutto carattere e a cui piaceva bere, che una sera contrattò con il Diavolo, venuto per prendere la sua anima, affinché gli concedesse un ultimo bicchierino ma non appena il diavolo si rese conto di essere stato preso in giro, si vendica condannando Jack ad essere per sempre un tizzone acceso e passare alla storia come Jack O’Lantern.

 

Halloween
Zucca di Halloween, simbolo di Jack O’lantern. Fonte: hvmag.com

 

Altro simbolo, il vampiro, quale essere immortale, uno spirito turbato che si può trasformare in un animale, si nutre di sangue e viene associato alla morte e alla malattia; la strega, una donna anziana maestra nei rituali e porzione magiche. 

Luce e… 

…tenebre

In conclusione

Elena Zappia
Fonti: https://www.corriere.it/tecnologia/22_ottobre_30/halloween-etimologia-significato-origini-e-la-vera-storia-della-festa-del-31-ottobre-842ce0cf-0701-4e4f-b781-10842e062xlk.shtml
https://www.ilpost.it/2022/10/31/halloween-festa-storia/
https://www.worldhistory.org/trans/it/1-19183/samhain/
https://gianfrancoamato.it/la-festa-delle-tenebre/
https://www.adi-rc.org/blog/?halloween–cosa-c-e-dentro-la-zucca
Pastore della chiesa evangelica di Messina Phil Cannavò

https://www.tuttoamerica.it/cultura-e-societa-americana/feste-negli-stati-uniti/halloween/#:~:text=Ben%20presto%2C%20questa%20usanza%20si,che%20ne%20era%20rimasta%20estranea. https://www.focusjunior.it/comportamento/feste/halloween/halloween-quando-si-festeggia-e-perche/ https://www.irlandando.it/halloween/storia/

Funghi, castagne e rock’n’roll: gli ingredienti vincenti per emergere

Lo scorso weekend si è svolta a Salice, villaggio appartenente alla VI circoscrizione del Comune di Messina, la prima edizione della manifestazione “Casali Peloritani in Musica”: una serata all’insegna del buon cibo e dell’ottima musica, caratterizzata dalla voglia di riscatto delle piccole comunità che hanno contribuito alla riuscita dell’evento.

Organizzato dalla Pro Loco “Casali Peloritani” in concorso con l’Assemblea Regionale Siciliana, la Parrocchia di Salice e con il Centro di Cultura Micologica di Messina, un semplice sabato di ottobre si è trasformato in un momento di festa per grandi e piccoli.

I visitatori hanno gustato una varietà di prodotti tipici: strozzapreti ai funghi, mostarda e castagne accompagnati da vino e biscotti artigianali, il tutto di provenienza locale. Ad arricchire l’atmosfera, il gruppo musicale dei Bezz Bizz, che hanno sfoderato un repertorio di grandi classici degli anni ’80-’90 facendo ballare e cantare le vecchie e nuove generazioni.

I funghi : un mondo da scoprire

A dare inizio all’evento l’inaugurazione della mostra micologica, dove gli appassionati (e non solo) sono stati accolti da diverse specie di funghi: dalla più velenosa alla più stramba, tutte provenienti dai Colli San Rizzo. Sotto la direzione del micologo Vincenzo Visalli, interessatosi per caso a quella che è la disciplina della micologia, la mostra ha rappresentato un exursus sull’importanza dei funghi in natura, un ruolo fondamentale che molti disconoscono.

Fu proprio Visalli a portare questa cultura a Messina e a diventare il presidente della prima associazione micologica nella città. Prima del 1971, infatti, il Sud non vantava grandi conoscenze in materia.

Nel 1988 – racconta con orgoglio Visalli – nacque l’idea di creare un disegno di legge che poi si tramutò nella legislazione ancora vigente sulla raccolta e commercializzazione dei funghi che fino ad allora non esisteva. «Purtroppo, col tempo, questa passione sta scomparendo. Conoscere i funghi è necessario perché ci sia la vita sul pianeta Terra» dice con un sottile velo di malinconia negli occhi. E aggiunge: «I funghi non sono solo esseri vegetali, come crediamo, ma nel DNA appaiono più vicini a noi essere umani che alle piante; tant’è che per nutrirsi devono trovare sistemi nutritivi differenti in quanto non presentano la clorofilla».

Esempio di fungo fuori stagione a causa del cambiamento climatico
Esempio di Coprinus Comatus

E anche i funghi testimoniano gli effetti del cambiamento climatico sulla flora locale: lungo la tavolata erano presenti alcune specie piuttosto rare che solitamente nascono solo in estate. Inoltre, risulta complicato stilare una lista di possibili varietà in via di estinzione proprio perché tuttora alcune di esse sono sconosciute, mentre altre esistono da secoli, come il Coprinus Comatus che – piccola curiosità – contiene inchiostro e per questa ragione veniva utilizzato nell’antichità dagli scrivani. 

Parole d’ordine: valorizzare e promuovere

La Pro loco nasce a dicembre del 2022. Costituita da ben quattordici casali della zona nord “sospesi tra mare e cielo nel verde dei peloritani“, punta a divenire un esempio di impegno e solidarietà per le comunità che la compongono. Lo scopo è «quello di acquisire uno sviluppo nell’ambito turistico coinvolgendo le associazioni del territorio», come afferma il presidente Salvatore Feminò. Nonostante sia nata da pochi mesi le idee sono tante,  «eventi come questo servono per fare in modo che le persone prendano coscienza delle realtà che ci sono, per entrare in quella mentalità di sviluppo attivo

Le iniziative non mancano: per esempio, è attualmente attivo un corso tenuto dall’università di Messina per diventare guide ambientali escursioniste, investendo così sulla formazione per rendere fruibili i percorsi turistici naturalistici. In programma anche una manifestazione l’11 novembre per festeggiare San Martino al Forte dei Centri, «L’obiettivo di fondo è quello di dare valore ai luoghi di cui disponiamo, valorizzandoli; essere custodi di identità e di tradizioni e per farlo bisogna costruire assieme. La collaborazione è fondamentale per andare avanti.»

Salvaguardare i borghi con l’aiuto dei giovani

L’Associazione Borghi più Belli di Sicilia proprio alcuni giorni fa ha evidenziato una grande problematica: quella dello spopolamento delle aree interne. Gli abitanti diminuiscono a vista d’occhio con conseguenze inevitabili.  Negli ultimi anni i borghi hanno incrementato il turismo e alcune aree sono state riqualificate, rischiando però di vanificare tutti gli sforzi compiuti dalle piccole realtà.

La Pro Loco “Casali peloritani” si impegna ad «Avvicinare e coinvolgere i ragazzi e le ragazze alla propria terra, rendendoli in primo luogo protagonisti, mettendo in atto quella cooperazione con le altre associazioni di volontariato di cui disponiamo».

A tal proposito, un esempio di amore e dedizione è quello dei volontari del gruppo “CuriAmo Salice“, presenti alla manifestazione, che dal 2020 si impegnano attivamente per migliorare il villaggio e con idee originali hanno dato il via ad un’opera di pulizia di alcuni scorci che erano andati dimenticati. «Da tre anni abbiamo deciso di rimboccarci le maniche, piano piano abbiamo dato vita a tante creazioni. Passeggiando per il paese troverete: vasetti colorati, poesie, murales e angolini dove poter sostare in tranquillità. Inizialmente scendevamo in campo solo durante le festività come Natale o Carnevale, oggi cerchiamo di essere presenti sempre quando possiamo. Non siamo tantissimi, chiunque voglia darci una mano può farlo».

Serena Previti

Vincenzo Consolo: il racconto della Sicilia

Vincenzo Consolo, celebre autore italiano del Novecento, riveste un ruolo centrale nella storia letteraria italiana grazie alla sua abilità di mescolare una rara complessità stilistica con temi sociali di grande rilevanza.

La vita

Nato il 18 febbraio 1933 a Sant’ Agata Militello, in provincia di Messina, Consolo ha trascorso gran parte della sua vita esplorando e interpretando le complesse dinamiche culturali, sociali e politiche della sua terra d’origine.

L’educazione di Consolo inizia con gli studi in Giurisprudenza all’ Università Cattolica di Milano, per poi concludersi all’ Università degli Studi di Messina. Questo percorso formativo non solo lo ha introdotto al mondo dell’analisi critica e del pensiero giuridico, ma gli ha anche fornito una base solida per la sua futura carriera di scrittore impegnato nella denuncia del contesto sociale in cui si trova.

Dopo la sua formazione, egli ha trascorso un periodo dedicato all’ insegnamento, ma è stato il suo esordio letterario, avvenuto nel 1963 con il romanzo “La ferita dell’ aprile“, a catturare l’ attenzione del pubblico e dei critici. Questo romanzo segna l’ inizio di una carriera letterario prolificamente acclamata.

Nel 1968 Vincenzo Consolo decide di stabilirsi definitivamente a Milano, dove intraprende una seconda carriera come giornalista presso la Rai. Questa fase della sua vita contribuisce a plasmare ulteriormente la sua comprensione di temi sociali e politici dell’ Italia del Novecento.

Uno dei momenti più significativi nella vita di Consolo è stato il suo ruolo come consulente editoriale presso la casa editrice Einaudi a partire del 1977. Questa posizione gli ha permesso di collaborare con alcuni dei più grandi protagonisti de Novecento, quali Italo Calvino, Leonardo Sciascia e Lucio Piccolo.

 

Vincenzo Consolo
Vincenzo Consolo. Foto di ©Giuseppe Leone. Fonte: larepubblica.it

La scrittura

La scrittura di Vincenzo consolo è strettamente intrecciata con il contesto sociale in cui ha vissuto gran parte della sua vita: la Sicilia. Questa Regione, caratterizzata da una profonda contraddizione tra la ricca tradizione culturale e le complesse problematiche sociali, politiche ed economiche che la interessano, è stata una fonte inesauribile di ispirazione per l’autore e la sua opera è intrisa di un profondo senso di impegno sociale. Nei suoi romanzi la Sicilia diventa una protagonista in sé, riflettendo le unicità, le bellezze e le sfide che caratterizzano questa terra unica.

Le opere principali

Tra le opere più significative di Consolo troviamo:

  • Il sorriso dell’ ignoto marinaio” (1976) racconta la storia di un ragazzo siciliano che intraprende un viaggio in nave nella speranza di una vita migliore, e affronta argomenti estremamente delicati come l’emigrazione. 
  • Retablo” (1987) offre una comparazione più ampia tra la Sicilia, L’ Italia e l’Europa, evidenziando le connessioni e le diversità culturali.
  • Le pietre di Pantalica” (1988), romanzo che narra la storia di un giovane siciliano che torna nella sua terra d’origine dopo un’ esperienza a Milano, mettendo in discussione ed esplorando il tema dell’ identità culturale.
  • Nottetempo, casa per casa” (1992) è un romanzo profondamente riflessivo che esamina le trasformazioni sociali, economiche e politiche della Sicilia di quel tempo.

 

 

(Vincenzo Consolo parla di Sciascia)

I premi e i riconoscimenti:

Le opere di Vincenzo Consolo hanno ricevuto riconoscimenti di alto prestigio, tra cui:

  • il Premio Pirandello, nel 1985, con il romanzo “Lunaria
  • il Premio Strega, nel 1992, per il romanzo “Nottetempo, casa per casa
  • il Premio Unione Latina, nel 1994, per il romanzo “L’olivo e l’olivastro
  • la Laurea Honoris Causa in Filologia moderna dell’ Università degli Studi di Palermo nel 2007.

Inoltre si sono tenuti numerosi convegni e incontri dedicati alle produzioni letterarie.

Oggi

Oggi l’eredità culturale di Vincenzo Consolo è più viva che mai. Le sue opere hanno radicalmente segnato la letteratura contemporanea italiana e sono state tradotte in numerose lingue straniere, in modo che lettori di tutto il mondo possano apprezzarne la profondità e la bellezza.

A Sant’ Agata Militello, suo paese d’ origine, è stata a lui dedicata la piazza principale del centro storico e delle sale all’interno del prestigioso Castello Gallego, contenenti una mostra fotografica, degli scritti originali e degli oggetti di vita privata dell’ autore. 

La sua eredità culturale è una testimonianza duratura nel tempo del potere che la letteratura ha nel cogliere la complessità della storia e della società.

 

Antonella Sauta

Fonti:

https://vincenzoconsolo.it/

https://www.treccani.it/enciclopedia/vincenzo-consolo_%28Dizionario-Biografico%29/

Isabella Tomasi e la lettera del Diavolo

Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nobile letterato siciliano del Novecento, tramite il valido contributo rappresentato dal suo emblematico romanzo Il Gattopardo, segna significativamente quello che è il panorama culturale della Sicilia del tempo, diventandone figura di spicco e fiero vessillo.

Il suo albero genealogico vanta illustri personalità, quali diplomatici, scienziati, cardinali e perfino una venerabile  suor Maria Crocifissa della Concezione, al secolo Isabella Tomasi. Una figura controversa da cui diversi scrittori traggono ispirazione, incluso lo stesso Tomasi, il quale ne omaggerà la memoria ritraendola nei panni della beata Corbera.

Scopriamo insieme la curiosa quanto macabra vicenda che la vede protagonista!

La vita da santa e la lotta contro il male

Isabella Tomasi, secondogenita del duca di Palma e principe di Lampedusa Giulio Tomasi, cresce in un ambiente rigorosamente cattolico. Non le viene mai tenuto segreto ciò a cui è destinata: così come il fratello, Giuseppe Maria, e le sorelle, Francesca e Antonia, Isabella avrebbe perso i voti e dedicato la vita al Signore, in un percorso che, più che alla santità, mirava alla legittimazione sociale della famiglia.

Divenuta suor Maria Crocifissa, sono svariate le doti soprannaturali che comincia a manifestare: carismi, estasi, visioni. Un dono di Dio e un ponte attraverso il quale riesce più volte a stabilire un contatto con la Madonna e l’Angelo custode

I poteri che ha ricevuto per grazia divina, però, non mancano di renderla vulnerabile oggetto di malevole attenzioni. Fino alla sua morte, il Diavolo cercherà di plagiarla, tentandola e vessandola con ogni suo mezzo.

 

Isabella Tomasi e la lettera del Diavolo
Isabella Tomasi attaccata dal Diavolo
Fonte: https://www.lasiciliainrete.it/wordpress/wp-content/uploads/2020/07/letteradeldiavolo2.jpg

 

È proprio in una simile circostanza che, l’11 agosto 1676, nel monastero di Palma di Montechiaro, viene scritta la Lettera del Diavolo.

La lettera del Diavolo

Quella notte, sola nella sua stanza, è in procinto di scrivere una relazione al padre confessore, quando alcune entità le si manifestano.

«Una gran numerosità di furibondi spiriti maligni, mandati per ordine di Lucifero infernale» si sarebbero impossessati di lei, facendone un misero corsiero: il suo corpo usato come canale per elargire un messaggio contro la Maestà Divina.

Viene ritrovata dalle altre monache a terra, svenuta, il viso imbrattato di inchiostro e della carta alla mano.

Scritta in una lingua sconosciuta e incomprensibile, un misto di greco, latino, cirillico e runico, l’unica parola leggibile in essa risulta essere “Ohimè”, nata dal tentativo della donna di opporsi alla volontà di quei demoni.

Più volte nel corso dei secoli si è tentato di decifrarne il contenuto; tuttavia, nessun linguista è ancora riuscito nell’intento. Secondo la stessa Maria Crocifissa la missiva esorterebbe Dio a lasciare gli uomini ai loro peccati e all’eterna dannazione.

La lettera del Diavolo
La lettera del Diavolo
Fonte: https://www.agrigentodoc.it/wp-content/uploads/2018/02/Lettera-del-Diavolo.jpg

 

Santità o pazzia?

Nel 2017, un gruppo di fisici e informatici catanesi, sottoponendo il testo a complessi algoritmi di decifrazione, sembra arrivare ad un punto di svolta. Il risultato della loro analisi rivela come l’alfabeto usato dalla suora sia stato inventato da lei: Ogni simbolo è ben pensato e strutturato. Ci sono segni che si ripetono, un’iniziativa forse intenzionale e forse inconscia” è la loro conclusione.

La perizia, inoltre, pare dimostrare che la donna soffrisse di problemi psichiatrici, forse un disturbo bipolare, scatenato o acuito dalla vita monacale.

Se sia santità o pazzia, non possiamo decretarlo con certezza.

La lettera, custodita nel monastero benedettino di Palma di Montechiaro, in provincia di Agrigento, continua, però, a suscitare interrogativi nei più curiosi.

❝Non mi domandate di questo per carità che non posso in verun modo dirlo, e nemmeno occorre dirlo io, che verrà tempo che il tutto udirete e vedrete.❞ 

Monastero di clausura delle Benedettine di Palma di Montechiaro
Monastero di clausura delle Benedettine di Palma di Montechiaro
Fonte: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/9/9f/Monastero_delle_Benedettine_-_Palma_di_Montechiaro.jpg/1600px-Monastero_delle_Benedettine_-_Palma_di_Montechiaro.jpg

 

Valeria Vella

Fonti:

https://www.santiebeati.it/dettaglio/91484

https://it.wikipedia.org/wiki/Isabella_Tomasi

Torre Faro: da traliccio della luce a simbolo di una città

Che cos’è il Pilone di Torre Faro?

Il Pilone di Torre Faro, nato come semplice traliccio della luce con lo scopo di trasferire l’energia elettrica dalla Sicilia alla Calabria (nella quale si trova un secondo Pilone, leggermente più piccolo ma posizionato ad un’altezza maggiore dal livello del mare), oggi è un importante simbolo per la città di Messina che, soprattutto durante la stagione estiva, si popola di giovani e di turisti. Da qui nasce la necessità di rendere questa struttura una vera e propria destinazione.

Nonostante ciò esso, insieme a tutta la frazione che lo ospita, si presenta in uno stato di abbandono in quanto poco attenzionato dall’amministrazione locale a causa della sua lontananza dal centro della città.

Pilone di Torre Faro. Vista dai Laghi di Ganzirri
Pilone di Torre Faro. Vista dai Laghi di Ganzirri. Fonte: riservacapopeloro.com

Storia e turismo

Progettato nel 1948 e costruito tra il 1951 e il 1955, venne ufficialmente inaugurato il 15 maggio 1956, in occasione dell’anniversario dell’autonomia della Regione Sicilia.

Alto ben 232 metri (in confronto a quello calabrese di 224 metri) e con una piattaforma in calcestruzzo armato formata da quattro cassoni che arrivano fino a 20 metri sotto il livello del mare, esso vinse il premio Aniai 1957 per la miglior realizzazione di ingegneria elettronica italiana.

Nel 1985 la sua funzione venne sostituita da un collegamento sottomarino, per cui nell’estate del 1999 venne dismesso. Nonostante esso non abbia più nessun utilizzo, fu deciso di non demolirlo, anzi, nel dicembre dello stesso anno iniziarono i progetti volti a valorizzarlo come elemento simbolo della città messinese ed entrò a far parte del patrimonio comunale. Tra le principali attività fin ora proposte, anche se attuate per un breve periodo e successivamente bloccate a causa di processi burocratici, ci sono un impianto di illuminazione lungo tutta la struttura e la possibilità per i visitatori di salire fino in cima per godere del suggestivo paesaggio dello Stretto.

Progetti di valorizzazione futuri

L’associazione Proloco Capo Peloro, che da anni opera sul territorio in cui è ubicato il Pilone, si è dimostrata aperta ad una collaborazione con l’ Università degli Studi di Messina, chiedendo direttamente agli studenti di proporre un insieme di attività realizzabili per dare una nuova vita alla struttura e alla zona circostante ad essa. A seguito di ciò, gli studenti hanno accolto con entusiasmo il progetto e si sono suddivisi in team.

Il Team SBC (di cui faccio parte) ha mostrato particolare interesse al contesto in cui si trova Torre Faro e tutta la città messinese, comprendendo che probabilmente la sua più grande difficoltà è la lontananza dal quadro tipico siciliano composto da arte e cultura millenaria di cui a Messina non c’è quasi più traccia. Conseguentemente, credo che la scelta ottimale sia operare attraverso la congiunzione tra tradizione e modernità, di cui si contraddistingue questa città emblematica.

Pilone di Torre Faro. Vista dall'alto
Pilone di Torre Faro. Vista dall’alto. Fonte: messinaoggi.it

Testimonianze degli abitanti

Dopo aver condotto delle analisi sul posto ed essermi interessata alla popolazione locale, riporto alcuni frammenti di interviste che mi hanno particolarmente colpita:

“All’inizio è stato un disastro per il Paese, poi ha avuto un impatto positivo soprattutto per l’economia e per i pescatori. i pescatori quando andavano a mare prendevano il Pilone come punto di riferimento.” 

“Per come è composto questo Paese potrebbe essere il più bello del mondo, ma è abbandonato. Se facessero dei lavori non ci sarebbe posto più bello di questo. Qui può nascere un cosa immensa.”

“Se facessero qualcosa per valorizzarlo sarebbe un impatto positivo per il lavoro giovanile e per il turismo. Le opere pubbliche che portano lavoro e turismo devono essere sempre ben accolte.”

“Ormai siamo abituati, questo è il nostro simbolo, senza Torre Faro non sarebbe la stessa.”

Conclusioni

Oggi il Pilone di Torre Faro si presta ad essere meta di piccoli flussi turistici grazie alla crescente realizzazione di eventi come festival musicali. Aiutata dal meraviglioso panorama dello Stretto, questa piccola frazione messinese può puntare ad essere un’importante destinazione destagionalizzata e internazionale.

Antonella Sauta

Fonti:

https://www.ganzirri.it/

https://www.letteraemme.it/maipiuscempi-il-pilone-di-torre-faro-e-le-sue-immense-potenzialita-non-sfruttate/

Lucio Piccolo, il poeta dell’ancestrale

 Nel vasto panorama letterario italiano, sono tantissime le figure di letterati che sfuggono al canone o che, per considerazione della critica, rientrano nella definizione di “poeti minori”

Tra questi, troviamo Lucio Piccolo, poeta, esoterista e musicologo italiano.  

Biografia

Lucio Piccolo nacque il 27 ottobre 1901 a Palermo, ultimo dei tre figli del barone Giuseppe Piccolo di Calanovella e della duchessa Teresa Mastrogiovanni Tasca Filangeri di Cutò (di antica discendenza principesca, risalente ai Normanni), imparentati con l’alta nobiltà siciliana

Il poeta trascorse la sua giovinezza a Palermo, dove frequentò il liceo classico, dimostrando una grande curiosità e una straordinaria capacità di apprendimento. In seguito, non andrà all’università, approfondendo da autodidatta le conoscenze linguistiche, di musica, poesia, filosofia ed esoterismo, insieme ai fratelli Casimiro e Giovanna.

«Pertugi, sgabuzzini, ambienti / nascosti tra le quinte / dove monomania / di specchi in ombra / accolse i sedimenti / d’epoche smorte, di fasi sbiadite / che il riflusso dei giorni in un torpore / lasciò fuori del sole»

(“Gioco a nascondere”, in Gioco a nascondere, Canti barocchi e altre liriche, Mondadori, Milano, 1960).

 

Due eventi inaspettati, quale la morte del padre avvenuta nel 1928 e la grave crisi economica del ’29, scombussolarono la famiglia Piccolo, che fu costretta a vendere la villa a Palermo per trasferirsi a Capo d’Orlando, in una villa di campagna (che attualmente ospita la casa-museo di Villa Piccolo). 

«Il palazzo di Capo d’Orlando più che una casa sembrava una favola campata in aria. Onde marine, nubi, folate di vento, gabbiani, corvi, gatti neri, spiriti, anime di crociati, anime in pena e santi vagabondi stanchi di paradosi dividevano con il nostro poeta quella solitudine dorata»

(Gonzalo Alvarez Garcia, Le zie di Leonardo, Scheiwiller, Milano, 1985).

 

Lucio Piccolo e Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Importante per la crescita culturale del giovane Lucio, fu il rapporto con il cugino primo di parte materna e futuro fortunato autore de Il Gattopardo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Tra i due vi sarà un sodalizio che durerà tutta la vita. Sulla natura del loro rapporto, basta leggere le parole rilasciate dallo stesso Lucio Piccolo nell’intervista a Ronsisvalle:

«C’era fra di noi una sorta di gara, a chi fosse più abile scopritore di interessanti novità. Ricordo che fu così a proposito del grande poeta Yeats, il grande poeta d’Irlanda che fui io il primo a leggerlo prima ancora di Lampedusa […] E così ci siamo accaparrati tutta la letteratura contemporanea europea, tedesca, francese. Ricordo anzi che fu proprio Lampedusa a introdurre a Palermo, nella Palermo colta, Rilke […] Poi passarono Joyce, Proust. Di Proust mi ricordo che una volta mi disse “Sai, c’è uno scrittore francese il quale per fare due passi da lì a qui ci impiega dieci pagine”. La prima immagine che io ho avuto di Proust è stata questa».

Lucio Piccolo e Giuseppe Tomasi di Lampedusa su una panca nella stradella di accesso a Villa Piccolo, Capo d’Orlando. Fonte: wikimedia.org

La consacrazione letteraria

Nel 1954, Lucio Piccolo, alla soglia dei 53 anni, pubblica una silloge di 9 liriche che invia ad Eugenio Montale, il quale rimane colpito dalla perfezione stilistica dei versi, al punto da presentare Piccolo nel prestigioso convegno letterario di San Pellegrino Terme

Al convegno, accompagnato dal cugino principe Lampedusa, Lucio diventa centro dell’attenzione di tutti, passando da sconosciuto barone siciliano a famoso poeta consacrato da Montale e dagli altri “marescialli di Francia”, così definiti da Tomasi.  

«Quella coppia stranissima di titolati siciliani, goffi e un po’ traballanti, suscitò immediatamente la curiosità di ognuno: quasi un’apparizione carnevalesca di piena estate, un intermezzo in costume con due personaggi di fine secolo in cerca di autore».

 

Il Piccolo, ottenuto il successo della critica, pubblica nel 1956 i Canti Barocchi, editi da Mondadori; successivamente, nel 1960, Gioco a Nascondere. In seguito pubblicherà altre due raccolte, Plumelia (1966) e l’opera in prosa poetica Le Esequie della Luna

Lucio Piccolo muore improvvisamente il 26 maggio 1969, lasciando diverse opere inedite, tra cui una composizione musicale del Magnificat, d’ispirazione wagneriana, ancora oggi inedita. 

 

Lucio Piccolo
Lucio Piccolo a Villa Piccolo. Fonte: fondazionepiccolo.it

La poetica

Nella poetica di Piccolo s’intrecciano cristianità, paganesimo e religioni orientali, al punto da creare il contatto con un’altra realtà.  Nella stesura dei versi che riempivano il bianco delle pagine, avveniva un trasferimento ancestrale, si passava da una percezione del reale al mondo surreale, solamente attraverso l’unicità di quell’atto creativo attuato da Lucio. 

«Scrivevo versi come altri passeggia o sta alla finestra: era un fatto naturale».

Nelle liriche di Lucio Piccolo, caratteristiche sono la musicalità, il fine gioco letterario delle assonanze e delle dissonanze, oltre il frequente uso degli interrogativi che l’uomo si pone. Come, ad esempio, le domande poste davanti alle ombre fisiche e concrete, ricavate dal gioco di luci, così come quelle ombre provenienti dall’ignoto, espletate in Gioco a nascondere: 

«Hai visto come al varcare la soglia / il lume ch’era nella mano manca / mentre l’altra fa schermo, ha dato uno svampo / leggero dal vetro s’è spento. / Tardo il passo né fu colpo di vento, / forse ha soffiato qualcuno, un volto / subito svaporato nell’aria? […] Ma non c’è nessuno / e sai che non bisogna tentare / il buio: rimemora, ha nostalgie, imprevisti, / l’ombra e le ombre, meglio pregare / a quest’ora, quel che gioco / sembra di giorno fa vero / di notte la notte che sogna – […] I morti / non hanno cifre per i nostri tesori, / singulti hanno in noi, / veglie / di fiamme basse, aneliti, / d’angoscia verso un nodo di vita / incompreso, e a volte una sera / che scende dall’alto a candori infiniti»

Questo esempio, esplicita i poli cardine dell’indagine metafisica di Lucio Piccolo, racchiusa nei suoi versi: da una parte l’esteriorità attraverso la natura ammaliatrice e seduttrice, dall’altra l’interiorità, la coscienza che si materializza attraverso i richiami simbolici. 

 

«Ci sono uomini che in determinate epoche arrivano alla perfezione, sciogliendosi dall’ambiente in cui vivono e dalle cose del loro tempo, assumendo coscienza della fine e salvandosene nel distacco, nella superiorità, nell’autosufficienza. E in questo senso, Piccolo partecipa di una tale perfezione, nella sua vita come nella sua poesia»

(Leonardo Sciascia, “Le soledades di Lucio Piccolo”in La corda pazza, Einaudi, Torino, 1976).

 

Gaetano Aspa

Fonti:

www.fondazionepiccolo.it 

http://www.flaneri.com/2013/01/12/lucio_piccolo_poeta_tra_le_ombre/