Padron ‘Ntoni: un papà siciliano

“Gli uomini son fatti come le dita della mano: il dito grosso deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo.”

Così Padron ‘Ntoni, emblematico personaggio nato dalla fantasia di Giovanni Verga, spiega il suo ideale di famiglia nella sua celebre opera I Malavoglia”.           

Sacra, unita e indivisibile, la famiglia Toscano, sempre conosciuta da che mondo era mondo col soprannome antitetico de “I Malavoglia”, incarna alla perfezione i valori della famiglia tradizionale siciliana.         

Un ritratto della famiglia Toscano all’opera – Fonte: studentville.it

La “famigliuola di padron ‘Ntoni”

Umile, laboriosa, ospitale e vittima di innumerevoli disgrazie, che nel corso del romanzo determineranno la disgregazione dei vari componenti.

“E la famigliuola di padron ’Ntoni era realmente disposta come le dita della mano. Prima veniva lui, il dito grosso, che comandava le feste e le quarant’ore; poi suo figlio Bastiano, Bastianazzo, perchè era grande e grosso quanto il San Cristoforo che c’era dipinto sotto l’arco della pescheria della città; e così grande e grosso com’era filava diritto alla manovra comandata, e non si sarebbe soffiato il naso se suo padre non gli avesse detto «sóffiati il naso» tanto che s’era tolta in moglie la Longa quando gli avevano detto «pigliatela». Poi veniva la Longa, una piccina che badava a tessere, salare le acciughe, e far figliuoli, da buona massaia; infine i nipoti, in ordine di anzianità: ’Ntoni il maggiore, un bighellone di vent’anni, che si buscava tutt’ora qualche scappellotto dal nonno, e qualche pedata più giù per rimettere l’equilibrio, quando lo scappellotto era stato troppo forte; Luca, «che aveva più giudizio del grande» ripeteva il nonno; Mena (Filomena) soprannominata «Sant’Agata» perchè stava sempre al telaio, e si suol dire «donna di telaio, gallina di pollaio, e triglia di gennaio»; Alessi (Alessio) un moccioso tutto suo nonno colui!; e Lia (Rosalia) ancora né carne né pesce.”

I lettori più appassionati la conoscono come “l’etica del pugno chiuso“, concetto secondo cui ogni membro della famiglia è assimilato alle dita di una mano e pertanto ha una sua posizione fissa e altamente gerarchizzata.

Ognuno è tenuto a rispettare il proprio posto e ad accontentarsi della propria condizione sociale ed economica al fine di non essere travolto dalla fiumana del progresso che solo i vincitori sono in grado di cavalcare.

Il nipote ‘Ntoni, che un giorno avrebbe dovuto rivestire la figura del capofamiglia, viene descritto come un vinto che avendo cercato di migliorare la propria condizione è stato sopraffatto dalla fiumana.

“Fa il mestiere che sai, che se non arricchisci camperai.”

Il segreto per vivere serenamente? Accontentarsi.                                                                                       

Ma ‘Ntoni avrebbe mai potuto accontentarsi di essere un padre distaccato, freddo, emotivamente assente e poco aperto al dialogo come lo era stato suo nonno per il padre Bastianazzo?

Avrebbe mai potuto mostrare indifferenza di fronte all’esigenza della nuora di avere un caldo abbraccio di consolazione per la partenza del figlio? O di fronte alla frustrazione di un nipote che sin dalla nascita porta il peso di un ruolo che forse non ha desiderio di assumere? 

Illustrazione della famiglia Toscano, i “Malavoglia” – Fonte: scuolissima.com

Padron ‘Ntoni: un uomo tutto d’un pezzo

Sicuramente ben lontano dall’ideale di padre affettuoso, comprensivo, inclusivo, giocoso che conosciamo oggi, Padron ‘Ntoni è un uomo che non può permettersi di piangere, perché egli è la colonna portante della famiglia. Se egli crolla, di conseguenza crolla ogni componente della famiglia.                

“Il nonno, da uomo, non diceva nulla; ma si sentiva un gruppo nella gola anch’esso, ed evitava di guardare in faccia la nuora, quasi ce l’avesse con lei.”

Padron ‘Ntoni è un uomo che non può permettersi di mostrarsi debole, vulnerabile. Se avesse incrociato lo sguardo della nuora probabilmente si sarebbe commosso.  Ma un vero uomo non piange. Cosa allora lo rende uomo se non la sofferenza? Cosa è più umano del dolore? E soprattutto, che senso ha fare parte di una famiglia così unita come Verga stesso la descrive, per poi non poter condividere tale dolore?

Determinato, irremovibile, responsabile, impassibile. Il capofamiglia non ha neppure la possibilità di rilassarsi perché chi ha carico di casa non può dormire quando vuole. E non può assolutamente abbandonare il suo ruolo poiché senza pilota barca non cammina.

Eppure, nonostante il suo modo di dimostrare affetto sia apparentemente inesistente, un attento osservatore può comprendere l’amore che lo lega alla sua famiglia tramite un’azione semplice come quella di offrire un bicchier d’acqua alla nuora.                                                                    

Un’azione che intende comunicare vicinanza, supporto. Diversa, ma pur sempre una dimostrazione d’affetto.  Un attento osservatore vedrebbe, nel tentativo di corrompere i “pezzi grossi” del paese per evitare al nipote di prestare servizio militare obbligatorio, un atto di amore. 

Enrico Guarnieri, interprete di Padron ‘Ntoni nella rappresentazione teatrale de “I Malavoglia” di Guglielmo Ferro – Fonte: ilbuonsenso.net

Chi è allora Padron ‘Ntoni?

Chi è allora Padron ‘Ntoni? Semplicemente un papà.

Un papà che non ha goduto a pieno del suo ruolo di padre perché lo ha confuso e assimilato più del dovuto a quello di capofamiglia. 

Un nonno che ha visto nei suoi nipoti, i futuri discendenti che avrebbero sorretto la casa costruita con tanta fatica dai suoi avi.   

Un uomo che ha vissuto credendo che mostrare la sua sfera più intima ed emotiva lo rendesse meno uomo.                                     

A volte, per essere un bravo papà, è sufficiente saper essere umano.

 

Alessandra Cutrupia

 

Fonti:

Giovanni Verga, I Malavoglia, Milano, Treves, 1881

Immagine in evidenza:

Giovanni Verga, autore de “I Malavoglia” – Fonte: michelegrillo.it

Messina da Leggere: la Città come parco letterario

 

 

In quanto porta della Sicilia, Messina, nei suoi quasi tremila anni di storia, è stata porto per antonomasia di flussi commerciali e culturali.

Poiché l’arte, evolutasi di pari passo con il progresso della società umana, è stata, spesso, ambasciatrice e voce espressiva del patrimonio culturale delle varie etnie succedutesi come dominatrici ed anima della nostra isola, questa rubrica vuole ripercorrere e rivalutare, attraverso l’indagine nel vasto mondo della letteratura, i luoghi della nostra città che quotidianamente appaiono abituali, talvolta anonimi allo sguardo del messinese, ma che, al contrario, proprio dietro il loro silenzio, nascondono una storia narrata dalla penna dei più grandi autori della nostra cultura di tutti i tempi.

Cercheremo, in questo modo, di ripresentare Messina come “parco letterario”, secondo l’idea che fu di Stanislao Nievo, il quale nel 1992, forgiò questo termine per indicare tutti quei luoghi che hanno ispirato un autore nella produzione di opere letterarie.

Il concetto di “parco letterario” si contrappone nettamente al pensiero disfattista e pessimista che spoglia Messina di ogni bellezza ed interesse. Per dare al lettore un’idea di cosa si intende per “parco letterario”, basti pensare alla fortuna che la città di Messina può vantare quotidianamente nell’affacciarsi sullo Stretto di Messina: proprio tra i due lembi di Sicilia e Calabria separati da una striscia di mare, l’aedo Omero narrò dei due famigerati mostri Scilla e Cariddi,  famelici divoratori di navi e marinai, tra le cui grinfie passò la ciurma dell’impavido Ulisse. Quello stesso scenario ritorna nei ricordi successivi di un turista Edmondo De Amicis che, nel 1866, scrisse nel suo diario di viaggio della: “La bella Messina, privilegiata d’una delle più favorevoli situazioni geografiche del mondo, dove due mari si congiungono (…)” – tracciando dei messinesi un profilo dettagliato degno di riguardo.

La dolce penna di De Amicis, testimone della precoce ripresa della città dal terribile terremoto che la rase al suolo nel 1783, segue proprio l’apocalittica cronaca del disastro sismico riportata da un altro grande padre della letteratura europea quale Wolfgang Goethe. Di una Messina che non esiste più ci parlano, ancora, le annotazioni del professor Giovanni Pascoli, il quale nel 1898, dal balcone della propria abitazione in Piazza Risorgimento (l’odierna Piazza Don Fano), scrisse della veduta attraverso la finestra di Palazzo Sturiale: “Si vede il forte Gonzaga sui monti…dall’altra finestra il mare, su l’Aspromonte…” , tessendo gli elogi della straordinaria natura geografica di Messina e del suo porto, che definì “il più bel porto del mondo” ; e fu proprio da quella posizione che, qualche decennio prima, il filosofo Friedrich Nietzsche, dalla stiva di una nave proveniente dal continente italiano, scrisse piccoli componimenti noti come “Idilli di Messina”. Benché i poemetti del filosofo non rechino alcun riferimento alla città, il lettore potrà rivivere senz’altro l’animo di Nietzsche recitando i brevi ed eccentrici versi davanti una cortina del porto che, a causa del sisma del 1908, non presenta più i caratteri che il pensatore poté ammirare dal ponte della nave. Allo stesso modo quei ricordi dell’allora elegante porto di Messina sormontato dalla raffinata e monumentale Palazzata, permangono nei diari di altri grandi intellettuali e scrittori che visitarono la nostra città, i quali le riconobbero un carattere cosmopolita del tutto unico rispetto agli altri capoluoghi siciliani, prerogativa che non intaccò mai lo stereotipo del messinese generoso, polemico e chiacchierone, tipicamente siciliano.

L’elevata considerazione di Messina da parte dei grandi intellettuali ed artisti della nostra storia, è dimostrata dalle cronache che ricordano un Richard Wagner e signora passeggiare frequentemente presso la piazza del Teatro Vittorio Emanuele; sempre a Messina,  in una non specificata chiesa a metà degli anni ’70 del 1800, si celebrò il matrimonio tra il grande poeta catanese Mario Rapisardi e la giovane Giselda Fojanesi, unione che causò, successivamente, l’attrito tra il Rapisardi ed il più giovane Giovanni Verga, instancabile dongiovanni e corteggiatore della Fojanesi.

Ben più importante valore hanno, di certo, le numerose dediche che vari intellettuali ed artisti rivolsero alla città all’indomani del terribile sisma del 1908: tra questi vanno ricordati Hermann Hesse, Ruggero Leoncavallo, il succitato Pascoli, Salvatore Quasimodo, Gabriele D’Annunzio e tanti altri monumenti della cultura che ebbero a cuore la nostra città e dei quali la nostra rubrica approfondirà emozioni, sentimenti e ricordi tangibili dai loro lasciti letterari.

Saranno proprio queste memorie a cui la rubrica porrà attenzione, ripercorrendo meno i funerei elogi della città distrutta, quanto più soffermandosi sul ricordo felice dei luoghi tutt’ora esistenti di Messina che testimoniano, silenti, i passi, le parole, i versi e le prose custodi di un passato ormai perduto ma che, nonostante ciò, ci appartiene come eredità identitaria del vero messinese, attraverso la testimonianza e le parole degli illustri.

Francesco Tamburello