Una finestra sui secoli: l’Antiquarium di Palazzo Zanca

img_9987Città dalla storia plurisecolare, più volte distrutta e ricostruita, Messina oggi sorge quasi interamente nella sua struttura moderna di città novecentesca. Eppure, nonostante questi continui cambi di volto, qualcosa resta ancora a preservare l’immagine della struttura urbana antica, ed è proprio sotto i nostri piedi. Sotto le fondamenta della città contemporanea giacciono infatti, sovrapposti e stratificati gli uni sugli altri, i resti delle costruzioni preesistenti. Poche pietre e reperti, che però, grazie al sapiente lavoro degli archeologi, diventano i silenti testimoni della continua evoluzione del tessuto urbano, dalla città greca e romana all’abitato medievale di epoca normanna, fino alla città cinque-seicentesca che ampliandosi e definendosi fino al XIX sec., verrà poi totalmente spazzata via dallo sguardo e dalla memoria dei cittadini dal terrificante sisma del 1908.img_9982

Nel cuore della città moderna, a due passi dal Duomo e da Piazza Antonello, con la grande facciata rivolta verso lo Stretto, si erge la massiccia mole novecentesca di Palazzo Zanca, sede del Municipio, grande “cervello” politico e amministrativo della città. Proprio nel cortile interno di questo edificio dei lavori, avvenuti nel 1976, rivelarono la presenza di materiale di interesse archeologico. Da allora, decenni di scavi si sono susseguiti dando alla luce un importante spaccato del tessuto urbano pre-Terremoto. Per consentire la fruizione al pubblico di questa area archeologica, è stato di recente allestito in una ala del palazzo un piccolo ma elegante museo archeologico, l’Antiquarium.

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L’ingresso all’Antiquarium si trova in prossimità di una delle facciate laterali di Palazzo Zanca, per la precisione quella rivolta verso piazza Immacolata di Marmo e il Duomo, da cui facilmente si può raggiungere anche grazie alle numerose indicazioni. L’accesso è gratuito ed aperto al pubblico quotidianamente dalle 9 alle 18 escluso le domeniche e i festivi. Appena entrati, ci accoglie un breve ma curatissimo percorso espositivo lungo il quale vengono presentati, in tre salette, reperti archeologici di provenienza messinese e mediterranea, principalmente vasi e suppellettili di uso quotidiano, che costituiscono il necessario preludio a ciò che il cortile ci mostrerà.

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Si accede dunque al cortile, dove l’area degli scavi ci appare come una arcana finestra sui secoli. “Tutto questo per qualche frammento di muro o di fondamenta?” potrebbe obiettare qualche lettore perplesso. Ma il fascino dell’archeologia è proprio questo: le pietre, quasi per definizione inerti e mute appunto “come una pietra”, in realtà parlano, nella misura in cui gli archeologi sanno interrogarle e “ascoltare” ciò che hanno da dirci, decifrando con la loro preparazione tecnica il loro linguaggio altrimenti incomprensibile. Cosa ci raccontano le pietre di Palazzo Zanca?

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Innanzitutto ci parlano di una città più antica, di epoca romana imperiale, presumibilmente frutto dell’espansione della preesistente città greca, quella Messana, per intenderci, per difendere la quale Roma sfidò per la prima volta la potenza cartaginese nella prima guerra punica. Sopra questi resti, databili fra il I e il IV sec. d.C., si innesta, a seguito del periodo di decadenza legato alle dominazioni bizantine e arabe, l’abitato medievale risalente al 1082, all’epoca del Gran Conte Ruggero, immediatamente successivo alla riconquista normanna della Sicilia. Come pagine scritte fittamente l’una sull’altra, si sovrappongono i vari strati costruttivi corrispondenti a diversi periodi storici: emergono via via dalla terra le tracce del consolidamento svevo e aragonese, fino ad arrivare alla struttura quattrocentesca che poi manterrà sostanzialmente invariato il suo tracciato fino all’Ottocento, e di cui si ha menzione nelle carte topografiche storiche, con il nome di Via della Neve e Vico della Neve.

Basta un po’ di fantasia, dunque, per viaggiare attraverso i secoli e vedere rinascere le strade e le case dell’antica Messina, immaginarci i suoni, i colori, la vita di tutti i giorni: ed ecco quindi che anche un piccolo museo archeologico con la sua piccola area di scavi può tramutarsi, per i visitatori interessati, nell’oblò di una meravigliosa macchina del tempo…

Gianpaolo Basile

Foto: Giulia Greco

CUS Di Bella speranza!

15388635_10211491726273882_1275348914_oL’anticipo della sesta giornata del campionato di terza categoria di Messina vede affrontarsi Casalvecchio e Cus Unime nel campo di Santa Teresa alle ore 14,30 di sabato 3 dicembre. I ragazzi della squadra universitaria arrivano a questa partita con la giusta concentrazione, dopo una settimana di precisi e attenti allenamenti, ma non senza delle difficoltà tattiche, visti i molteplici infortuni che si sono susseguiti nelle ultime uscite. Già dall’arrivo al campo di gioco, mister Smedile trasmette ai suoi quella grinta e quella determinazione per cercare di ottenere un risultato positivo in quella che si preannuncia una trasferta non poco problematica. Al fischio d’inizio la concentrazione è alta tra i ragazzi universitari. E il campo lo dimostra: trame di gioco ragionate e inserimenti tattici come studiato in settimana. Il punteggio si sblocca alla mezz’ora in favore del CUS, con una punizione magistrale di Lombardo che piazza la palla all’incrocio dove il portiere non può proprio arrivarci. 0 a 1, ma la partita è ancora lunga. Infatti, è la squadra di casa che prova a riagguantare il risultato, trascinata dal proprio Capitano, Crisafulli, il quale prima centra la traversa su punizione e poi trasforma il rigore, causato da un ingenuo tocco di mano di Creazzo (ammonito), che vale il pari proprio allo scadere della prima frazione di gara.

Il secondo tempo comincia nel peggiore dei modi per gli universitari: espulso Creazzo per somma d’ammonizioni e successivamente è proprio mister Smedile ad essere allontanato dal campo dall’arbitro per eccessiva foga. I padroni di casa prendono coraggio e con l’uomo in più sfiorano più volte il vantaggio, ma un attento Battaglia e un superlativo Iacopino, negano loro questa possibilità. Ed è proprio quest’ultimo, Capitano del CUS, a prendere letteralmente la squadra per mano e da vero leader trasmette la necessaria tenacia a ognuno dei suoi compagni. Quando mancano 15’ al termine della partita, entrambe le squadre risultano provate dalla stanchezza e dall’esaurimento dei tatticismi. La partita, ancora in bilico, offre occasioni da un lato e dall’altro ma senza essere capitalizzate, tant’è che i due allenatori iniziano la routine delle sostituzioni per spezzare un po’ il ritmo. La paura di perdere questa partita è tanta, troppa. Il colpo di scena giunge nell’ultimo minuto del recupero concesso dal Sig. Frassica, quando su una verticalizzazione di Caputo di prima intenzione, il bomber Di Bella incorna la sua quinta marcatura stagionale anticipando il portiere avversario e regalando al CUS la prima vittoria esterna di questo campionato e la terza in totale. Punteggio finale 1-2, incontenibile la gioia dei ragazzi dell’UniMe, che ora vedono il primo posto della classifica distante appena 3 lunghezze. Un’importantissima vittoria che dà morale in vista della prossima partita, dove in casa verrà ospitato il novellino Kaggi. Oggi, intanto, non possiamo che goderci un CUS “Di Bella” speranza.

Formazione CUS (4-5-1): 1 Battaglia; 2 Russo, 4 Iacopino, 5 Occhipinti, 3 Arena; 11 Singh, 7 Vinci, 6 Lombardo, 8 Fiorello, 10 Creazzo; 9 Di Bella , 12 Bruno, 13 Carbone, 14 Tiano, 15 Monterosso, Lo Voi, 17 La Torre, 18 Caputo.

Mirko Burrascano 

Referendum: perchè detesto parlare di politica

Dicono che il primo editoriale, un po’ come il primo amore, non si scordi mai. E devo ammettere che a me è andata davvero di lusso, come si suol dire, dato che i turni concordati col resto della redazione hanno fatto si che mi toccasse come primo editoriale questo di oggi, 6 dicembre 2016, un periodo denso di avvenimenti importanti, dopo che l’esito di un importante referendum costituzionale e le successive dimissioni del premier Renzi hanno aperto le porte a una quanto mai caotica crisi di governo.

E quindi l’angioletto sulla mia spalla, con tanto di aureola e cetra dorata (chi di voi ha visto Le Follie dell’Imperatore capirà e si commuoverà con me ricordando quei tempi spensierati) proprio adesso che scrivo mi dice “Gianpaolo, ora prendi, ti informi, ti spulci le opinioni di cui i giornali sono pieni, ti improvvisi analista politico e ti spari un bel pezzo in cui fai il punto della situazione; ci piazzi un bel po’ di frasi fatte, del tipo ‘una vittoria per la democraziaoppure ‘il Paese è nel caos!’, così ti senti in pace con te stesso e col mondo e aggiungi un altro inutile mattone alla interminabile catasta di stupidaggini che sono state dette e verranno dette, in questi giorni e in quelli a venire“. E controvoglia potrei anche dargli ragione, solo che la cosa mi scoccia da morire e preferisco, per oggi, stare a sentire il mio diavoletto custode (ovviamente con tutina rossa, corna e forcone) che mi intima di farmi i fatti miei, promettendo in cambio la prospettiva di una vita ultracentenaria, come garantisce il ben noto proverbio. Ma qualcosa dovrò pur scriverla in questo editoriale: pertanto decido, per una volta, di fare la voce fuori dal coro e di incentrare il mio editoriale sul perché non voglio parlare di politica.

Prima che una delle tante voci del coro se la prenda con me e inizi a tormentarmi con i classici e triti slogan della cittadinanza impegnata (“ah, ma così passi un messaggio sbagliato! Ah, ma il voto è un diritto e dovere del cittadino e va esercitato sempre e comunque! Ah, ma allora sei anche tu un qualunquista!“) premetto doverosamente che a votare ci sono andato. Il punto è che l’ho fatto, come ormai spesso mi succede quando leggo notizie di attualità, con una sensazione come di dolore gravante in zona epigastrica (insomma, un peso sullo stomaco, anche se forse è colpa del reflusso). Che poi, guarda caso, alla gente interessi che tu vada a votare solo perché potenzialmente potresti votare quello che votano loro, è forse uno dei tanti motivi di questa sensazione di peso, ma non l’unico. Aggiungerei anche che ho votato non tanto per questioni di appartenenza politica o pregiudizi ma perché criticamente convinto della validità della mia scelta avendo esaminato attentamente le possibili alternative. Mi guardo bene dal farlo, però, perché so fin troppo bene che 1) a nessuno interessa delle mie capacità di analisi critica e 2) se andassi a chiedere a chiunque in base a cosa ha votato, chiunque mi risponderebbe così, e non c’è bisogno di essere esperti in psicologia cognitiva per sapere che, per uno dei tanti tiri mancini che il nostro cervello bastardo ci gioca, la nostra scelta ci appare, tendenzialmente, sempre come la più giusta e la più logica, solo per il fatto precipuo che essa è la nostra.

Arriviamo (finalmente) al dunque, alle ragioni del mio peso sullo stomaco. Tutte queste interminabili filippiche sono dovute al fatto che il recente referendum si è dimostrato, nei toni e nelle posizioni delle varie parti politiche tanto del fronte del Si quanto di quello del No, l’ennesimo trionfo del paradosso, della contraddizione e della fallacia logica. A cominciare dal PD di Renzi, che fino a qualche anno fa si atteggiava a difensore supremo dell’integrità della Costituzione tanto da porre la questione persino nel proprio statuto (quando la Costituzione voleva cambiarla il nemico Berlusconi…!) e che adesso ne ha proposto quella che sarebbe stata una delle modifiche più estensive della storia della Repubblica. Per poi arrivare al fronte del No e ai suoi controversi supporti da parte delle estreme destre, che fino a ieri inneggiavano al Duce e oggi si fanno vanto di aver difeso la Costituzione (si, proprio la Costituzione, avete presente quella cosa brutta voluta dai socialisti dopo la Liberazione?) dalla “svolta autoritaria” voluta dal premier Renzi: segno che le dittature e i regimi autoritari piacciono, purché a comandare ci sia chi piace a noi. Una battaglia politica condita di retorica populista da entrambe le parti, col fronte del Si a tappezzarci le città di specchietti per allodole facendo leva sul di desiderio di cambiamento (“Vuoi fare qualcosa per cambiare le cose? Vota SI”: avrete ragione voi, ma cambiare in meglio o in peggio?) e quello del No a fomentare i più bassi sentimenti di risentimento e insoddisfazione verso la classe dirigente, ovviamente con una inevitabile spolverata di complottismi d’annata (“Vota NO contro il sistema, contro i politici corrotti, contro le banche internazionali, la massoneria, i rettiliani che ci vogliono pecorelle inermi ai loro oscuri disegni di dominio”), passando ovviamente per promesse inattuabili (alcune francamente ai limiti del ridicolo) e prospettive apocalittiche nel caso di vittoria dell’avversario. Una campagna referendaria condotta insomma puramente sull’onda del sentimento, “di pancia”, senza che i media dedicassero spazio (salvo rare lodevoli eccezioni) alla sola cosa che potesse orientare un voto corretto e consapevole: il dibattito critico, razionale, sui pro e i contro del voto, in una parola l’informazione.

Unica nota di speranza, l’affluenza ai seggi: altissima, quasi del 70%. Evidentemente un briciolo di passione politica, nel popolo italiano, è rimasto. Ma la domanda inquietante a questo punto è: dopo un simile sovracitato sfoggio di slogan insignificanti, demagogia sfacciata e fallacie logiche assortite abbondantemente profuse da ambo i lati, durante questa campagna referendaria, di quale politica possiamo fidarci, di quale politica possiamo tornare ad appassionarci?

 

Gianpaolo Basile 

immagine in evidenza: Giuseppe Lami/ANSA

Suicide Squad, dai fumetti al film: l’affascinante mondo dei cattivi

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Il 6 dicembre 2016, esce il Dvd del film ‘’Suicide Squad’’, opera cinematografica che ha riempito le sale quest’estate.

Con un cast stellare e diversi record al botteghino, Suicide Squad, è una pellicola basata sui cattivi dei fumetti firmati DC Comics. Per la prima volta nella storia del mondo sono proprio i cattivi quelli che salveranno la terra: dopo la morte di SuperMan e la sparizione di BatMan, non c’è nessun altro a cui il governo americano può rivolgersi.

Ai cattivi, però, non viene dato niente in cambio: nessun premio, nessuna gloria, nemmeno la libertà. Loro sono stati crudeli, quindi o obbediscono o verranno uccisi. A tutti loro, infatti, viene impiantato un cip sotto pelle: se provano a ribellarsi, boom, saltano in aria.

Ci mancava, penserete voi: dopotutto stiamo parlando delle menti più contorte e folli che ci hanno sempre spaventati, fin da bambini. Infatti, la Suicide Squad (Squadra Suicida) è formata da: l’ex-psichiatra Harley Quinn (Margot Robbie), il cecchino mercenario Deadshot (Will Smith), l’ex-gangster pirocinetico El Diablo (Jay Hernandez), il ladro Capitan Boomerang (Jay Courtney), il mostruoso cannibale Killer Croc ( Adewale Akinnuoye-Agbaje) e il mercenario Slipknot (Adam Beach).

A loro si uniscono anche la dottoressa June Moone, un’archeologa posseduta da un’antica entità malvagia nota come Incantatrice (Cara Delevigne) e Katana ( Karen Fukuhara), mercenaria in possesso di una spada mistica.

C’è anche il Joker (Jared Leto) che, da dietro le quinte, segue la squadra: il suo unico obiettivo? Liberare Harley Quinn e riprendersela con sé (figuratevi a lui quanto può fregare di salvare gli esseri umani).

È interessante vedere come, fin dai primi minuti del film, si resta affascinati e si scatena un innamoramento nei confronti di questi pluriomicidi: chi l’ha mai detto, dopotutto, che non provano alcun sentimento? Con il susseguirsi della storia scopriamo proprio questo: tutti loro hanno amato qualcuno più di loro stessi e tutti loro, inevitabilmente, lo hanno perso.

Ma per chi è appassionato di fumetti, cosa è cambiato? Ovviamente questi personaggi, a prescindere dall’aspetto che mai poteva essere assolutamente uguale a quello dei disegni, sono stati umanizzati, sono (forse) meno folli del fumetto.

Obiettivamente alcuni cambiamenti sono obbligati: una pellicola non potrà mai essere fedele ad anni e anni di fumetti. Il fulcro di ogni personaggio rimane indenne, dalle loro perversioni, alle manie, all’istinto quasi suicida e la sintesi delle loro storie individuali è assolutamente fedele.

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Due personaggi in particolare sono stati, da alcuni, criticati: la coppia (che scoppia?) Joker- Quinn. Nei fumetti, infatti, Harley Quinn è una donna completamente sottomessa, che ama le violenze imposte dal Joker, che quasi si diverte a provocarlo pur di farsi fare del male.

Il Joker, d’altro canto, non sembra innamorato, nei fumetti, anzi: la presenza di Harley, il più delle volte, lo infastidisce; mentre, nel film, anche lui ha un’attrazione per lei.

Il confronto, ovviamente, è molto soggettivo: possono sembrare, per alcuni, una coppia di amanti con una grande indipendenza; per altri, invece, l’ossessione del Joker è esattamente quella dei fumetti: lui va a riprendersela perché è l’unico che può comandarla.

Harley Quinn, d’altro canto, è sottomessa in tutte le parti del film a lui: si rincorrono flash back dove si vede come lei, più e più volte, è pronta anche a morire per lui.

A prescindere dalle puntigliose critiche, dalle disquisizioni su dove e come il film poteva essere migliore, se Suicide Squad ha sbancato un motivo c’è, ed è il motivo per cui noi vi consigliamo di vederlo: in sintesi? È una figata.

Elena Anna Andronico

 

 

Bulli e bullismo: quando l’ossigeno dovrebbe essere un privilegio per pochi

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Piaga sociale n° 374302: il bullismo. Non staremo qua a scrivere un papello su cosa sia il bullismo: lo sappiamo tutti. C’è una persona che si alza una mattina e decide di dare fastidio e invadere gli spazi vitali di un’altra persona, senza un motivo apparente (che io li manderei tutti nelle miniere di carbone e poi vediamo).

I bulli sono la prova che, ad un certo punto, l’evoluzione è andata a farsi fottere.

Il bullismo va dai 0 ai 100 anni. È come il gioco dell’oca: un gioco di società a cui possono giocare dai 0 ai +99 anni (c’è scritto veramente così).

E noi, che difendiamo i deboli (tipo Batman), siamo qua a studiare con voi i vari tipi di bulli e darvi qualche chicca su come difendervi.

Here, we, go…!

  1. Bulli Fisici

È forse la forma più “antica” di questo fenomeno ignobile. E no, con “antico” ahimè non intendo superato o “passato di moda” come i pantaloni a zampa di elefante. Il bullismo che si manifesta tramite la violenza fisica è paralizzante. Solitamente è collocato in una delicatissima fascia d’età che, indicativamente, va dai 6 (si, perché anche a 6 anni qualcuno riesce ad essere così maligno) ai 18 (anche se, non sarebbe errato scrivere venti o ventidue o vergognatevi). Questo tipo di bullo comincia proprio fra le mura di scuola: ti ruba la merenda perché lui è il più figo. Ti spintona perché lui è il più forte e deve dimostrarlo a tutti (che poi, diciamocelo pure, l’unica persona alla quale devono dimostrare qualcosa sono loro stessi). Ti umilia verbalmente e pubblicamente perché è lui ad avere il potere. Ma il potere di cosa? Il potere su chi? Ti esaspera, ti toglie le energie, la voglia di uscire, di vivere.

Non ci pensare nemmeno. Non perdere la speranza. Qui l’unico a dover smettere di uscire di casa, di guardarsi allo specchio, di sentirsi umano è proprio lui. E quindi vivi, reagisci, bucagli le ruote dello scooter o in alternativa contatta le autrici di questo articolo. Eh, , bullo che ci leggi, è una minaccia.

  1. Bulli Virtuali

Chiunque di noi può essere un bullo virtuale. Sono quelle ‘’persone’’, e ve lo virgoletto perché non penso si meritino questo appellativo, che si nascondono dietro una tastiera e si accaniscono contro qualcun altro, così a caso: si accaniscono contro i post, contro le foto, contro le frasi. Contro qualsiasi cosa.

Pubblichi una canzone? Fa schifo. Scrivi una frase poetica? Sei un comunista. Cambi foto del profilo? Hai i denti gialli. Pubblichi un articolo su quanto fa bene praticare una dieta equilibrata? Sei un vegano di merda perché non muori insieme a tua nonna morta (nb: se il bullo è un vegano ti darà dell’assassino come se il tuo passatempo preferito fosse soffocare cuccioli di cane nel Nilo).

Ormai sono conosciuti come haters. Insultano soprattutto i personaggi famosi (no sense). La fascia d’età, in questo caso, è molto ristretta: essenzialmente devi avere un oggetto elettronico e saperlo usare. Quindi, diciamo, vanno dai 16 ai 50 (dai 60 in poi inizia la fase ‘’devo pubblicare foto di gatti che danno il buongiorno’’). Umiliano. Creano nell’animo del bullizzato una mortificazione tale che lo stesso ha l’istinto di sparire dai social. Cancellare il proprio profilo. Non pubblicare più nulla. Pouf.

Non fatelo! Mai. Loro commentano a manetta? Insultano in chat? E voi bloccateli. Non è dare soddisfazione e, in questi casi, non vale la regola ‘’l’indifferenza è la migliore arma’’. La migliore arma è l’omicidio, ma è illegale. Segnalateli. Segnalateli 10, 20, 100 volte. Chiamate la polizia postale. Fate sparire loro, non sparite voi. E VAFFANCULO.

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3- Bulli Morali

Ah, che brutta categoria. Questi sono i peggiori. Perché, similmente a quelli virtuali, sfruttano il potere della parola (che poi perché tutti dobbiamo imparare a parlare? Quanto era bello l’analfabetismo). Solo che lo fanno alla luce del sole. Ed è peggio perché, ovviamente, non puoi spegnere il computer. Anche se potresti spegnere la luce e recidere loro la giugulare (ma anche questo, penso, sia illegale). Il loro punto di forza sta nell’attirare altre persone. Fanno branco. Iniziano a prendere in giro una persona qualsiasi, fanno ridere le pecorelle intorno a loro e continuano. E più fanno ridere, più continuano. E più persone li circondano, più si sentono forti e continuano. Spesso la vittima non è difesa da nessuno e questo, ragazzi miei, è l’errore più grande che ognuno di noi possa fare: lasciare il compagno, collega, amico solo. La ‘’presa in giro’’, anche qua, potrebbe essere su tutto: i vestiti, i capelli, gli occhiali e l’apparecchio, l’altezza, la sessualità, se ti piacciono i fumetti o no. Come le zanzare, non risparmiano nessuno. Dalle elementari, in cui troviamo 7enni (talvolta più taglienti degli adulti) che prendono in giro il compagnetto perchè ha un gioco vecchio, rotto, non di marca; al liceo, università e, perché no, ufficio dove, per quanto inizi l’età adulta, gli argomenti sono più pesanti, dove la vittima si sente dire che è una fallita o un ricchione di merda.

Ti soffocano.

Io ho incontrato il mio bullo alle medie. Anzi, i miei bulli. Ero piccolina, bassa, con gli occhiali e l’apparecchio. Non potevo usare la piastra, avevo i capelli arruffati, i vestiti me li comprava ancora la mamma. Facevano branco e mi prendevano in giro, ogni giorno, su qualunque cosa. Tornavo a casa piangendo, ogni santo giorno. Cosa feci? Diedi un pugno. E un altro, un altro, un altro. Reagii con le mani, forse un modo sbagliato per una bambina di 12 anni, ma l’unico modo che trovai per difendermi (mia madre, che venne convocata dalla preside, mi fece un applauso e poi andò a bruciare la scuola).

Abbiate una reazione, qualsiasi essa sia. Per quanto stupide, portate le pecore dalla vostra parte (puzzano di letame, ma ne vale la pena). Abbiate anche tanta pazienza: i cadaveri passano tutti sulla sponda del fiume. Sapete che fine hanno fatto i miei bulli? Beh, le ragazze sono delle racchie che lassamu peddiri, alte 1.30m e con le dentature che vanno dalla cavallina alla versione rospo viscido. I ragazzi… Beh, probabilmente stanno sotto i ponti. Mi devo informare.

Eh sì, ora, talvolta, vorrei poter fare io la bulla con loro. Ma, poveracci, ci pensa la vita tutti i giorni.

Stronzi.

  1. Bulli “Inter Nos”

Ogni famiglia è un po’ un’associazione a delinquere, all’interno della quale, spesso, le personalità più forti spiccano nei confronti di quelle più “deboli”. Il primo caso di bullismo (e forse qui sto un po’ esasperando la situazione) è quello che vede protagonisti i genitori un po’ “troppo protettivi”. Ti costringono a frequentare quel liceo perché l’ambiente è tranquillo, quella facoltà perché ti offre lavoro, il corso di yoga perché ti rigenera il corpo e la mente. Ma no dai, questo non è mica bullismo, ve lo avevo detto che stavo esasperando la situazione. Quello dei genitori, in fondo, è solo amore smisurato e incontrollato. Ma il bullismo inter nos cos’è allora? Ma dai, non ce lo hai avuto quel cugino antipatico che ad ogni pranzo di famiglia, ad ogni cena di Natale, ad ogni pomeriggio trascorso insieme ti ha torturato? Menomale.

Il bullo, che è anche un componente della tua famiglia, è altamente pericoloso: conosce di te, non solo ciò che lasci vedere agli altri, ma anche la tua più intima debolezza. E non ha paura ad usarla per sminuirti ed apparire come il gallo col canto più forte della famiglia, o semplicemente per toglierti di mezzo.

Sa che non sai nuotare? Tenterà di annegarti in mezzo al mare per poi fingersi lui la vittima della situazione. Sa che ti piace il cioccolato al latte, ti lascerà solamente quello fondente. Sa che non vai bene in matematica? Ti chiederà, davanti a tutti, quanto fa 7×8 (che crudeltà).

La cosa positiva? Il bullismo inter nos prima o poi finisce perché si cresce. E, a quel punto, puoi pure decidere di non farti vedere mai più (alleluia). Almeno solo dopo che al giorno del tuo matrimonio, il famoso cugino in questione non simuli di essere stato sequestrato (un po’ come Lapo) solo per rovinarti pure quel giorno.

Puoi vendicarti. Appostati durante le sue chiamate più intime. Registrale e mandale per posta alla sua famiglia (che poi sono tipo i tuoi zii). Inserisci un biglietto anonimo scritto con le lettere di giornale (così non potranno mai risalire a te): “Suo figlio mi ha bullizzato per una vita; ora la sua ragazza lo costringe a provare i nuovi trucchi della Kiko…”

Ah, che meraviglia il Karma.

 

Siate più furbi, sempre. Al costo di mettere in mezzo l’FBI. Chiedete aiuto. Ditelo agli adulti, agli amici, fate branco anche voi. Che voi siate dei ragazzi delle medie, del liceo, dell’università, ricordatevi: nessuno si salva da solo. L’unione fa la forza. E la vendetta è un piatto che va gustato freddo.

Come si dice? Tieniti stretti gli amici, ma ancora di più I BULLI. Voi, che non siete nullità come loro, teneteveli stretti e poi… I colli sono un ottimo posto per nascondere i cadaveri.

Elena Anna Andronico

Vanessa Munaò

 

Intervista con la scrittrice Noemi Villari

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Per chi ama l’avventura e la fantasia, leggere Believeland, è un tuffo in un mondo in cui le parole d’ordine sono proprio queste; ma c’è di più: credere, un’imprescindibile parola che accompagna il lettore per tutto il romanzo.

La giovane scrittrice Noemi Villari, con il suo primo libro, apre una finestra su un nuovo mondo: Believeland; creature e poteri magici si intrecciano alla vita di alcuni adolescenti, protagonisti del romanzo che coinvolgono il lettore con le loro emozioni.

La gentilissima Noemi, subito dopo la presentazione del suo libro, ha risposto ad alcune domande e ha regalato dei preziosi consigli agli appassionati di scrittura.

 

 

 

 

Parliamo degli albori di Believeland: inizi a scriverlo quando eri nella primissima fase dell’adolescenza, avevi dodici anni. L’idea che hai avuto allora è rimasta la stessa?

  • L’idea è stata elaborata diverse volte e aveva tutt’altra impostazione; del modello iniziale è rimasto il concetto del mondo fantastico di Believeland, che prima non si chiamava così: un aneddoto simpatico riguarda, per l’appunto, il nome. All’inizio l’ho chiamato Magics (che in realtà è quello delle Winx), poi Magic Village (che sa molto di villaggio turistico) ed infine quello attuale.

Le protagoniste, in un certo senso, è come se fossero cresciute con me e ho lasciato loro un’età adolescenziale perché mi piace trattare questo periodo della vita, che per me è fondamentale nella nostra esistenza: se si capisce ciò che prova un adolescente, si capisce come diventerà da grande.

A quale personaggio sei più legata?

  • Istintivamente rispondo che sono più legata ad Alessia (la ragazza del mondo reale), perché proviene dal mio stesso contesto scolastico, ovvero da un istituto d’arte, a cui tengo molto, quindi ho voluto che lei, almeno in questo aspetto, fosse identica a me. Poi, come personaggio, è stato elaborato in modo totalmente opposto al mio: lei indossa una maschera di sicurezza che nasconde la sua insicurezza e, invece, per me è al contrario.

 

Un aggettivo con cui descriveresti il tuo libro.

  • Più che un aggettivo, a me viene in mente la parola “credere”, sostanzialmente il motore che fa camminare il romanzo.

 

Hai un luogo in cui preferisci scrivere?

  • Solitamente, preferisco scrivere a letto con il pc sulle gambe e di sera; invece, la mattina preferisco prendere appunti sui quadernoni (perché mi piace scrivere a mano), ma sulla scrivania.

 

Progetti futuri: scriverai ancora?

  • Sicuramente continuerò a scrivere: ho un’idea per continuare Believeland, ma vorrei anche guardare nuovi orizzonti, per affrontare tematiche diverse.

Di certo, non voglio abbandonare questo racconto, a cui sono legata affettivamente.

 

 

Hai dei consigli per i giovani scrittori?

  • Sicuramente direi loro di seguire il primo istinto ed iniziare a scrivere partendo da ciò che sentono, per poi affidarsi alla tecnica.

Consiglierei anche di usare internet, dove ci sono molti siti che guidano alla scrittura e dove, personalmente, ho imparato tanto. Poi, apprendere dai libri che si leggono ma, soprattutto, impegnarsi per realizzare il proprio sogno.

 

 

 

Jessica Cardullo

 

Dal XIII secolo uno sguardo dall’alto su Messina: il Santuario di Montalto

img_9853Uno dei luoghi più belli e ricchi di storia a Messina è sicuramente il Santuario di Montalto. Bello perché si staglia alto, sul colle della Caperrina, con la sua caratteristica facciata affiancata da due campanili cuspidi e, così, si rende visibile e si fa riconoscere da diversi punti della città. Ricco di storia perché la sua nascita e la sua presenza a Messina sono legate a diversi episodi storici che hanno scandito la vita della città.

 

 

 
Le sue origini, innanzitutto, sono da ricercare secoli addietro: durante i Vespri Siciliani, allorquando anche Messina, il 28 aprile 1282, un mese dopo Palermo, decise di ribellarsi alla dominazione degli Angioini. Tradizione vuole che la Madonna, sotto le vesti di una Signora Bianca, rincuorasse la popolazione messinese, con il suo manto proteggesse le mura della città e, con le mani, deviasse le frecce dei nemici. Fu proprio la Madonna a volere la costruzione del santuario: apparve nel 1294 ad un fraticello, un eremita di nome Nicola, e gli ordinò di radunare sul colle della Caperrina la cittadinanza. Lì, il 12 giugno, a mezzogiorno, una colomba bianca con il suo volo disegnò il perimetro della chiesa da costruire. Alla posa della prima pietra partecipò anche la Casa reale Aragonese, con la Regina Costanza. Nel 1295 la chiesa fu terminata e dedicata a Santa Maria dell’Alto, poi divenuta S. Maria di Montalto. L’8 settembre 1300 giunse a Messina, su una nave proveniente dall’Oriente, un quadro raffigurante la Vergine Maria col Bambino. Doveva essere donato alla Cattedrale, tuttavia divenne così pesante che nessuno riuscì a spostarlo. Una “Signora Bianca” apparve in sogno ad un marinaio e gli confidò di voler vedere quel quadro nella chiesa a lei dedicata. L’icona così, ridiventata leggera, fu portata subito nel Santuario di S. Maria dell’Alto e lì ancora si trova: dopo i danni subiti a causa del terremoto del 1908 (la manta d’argento che ne rivestiva il corpo l’ha in parte protetto, ma i visi sono stati irrimediabilmente rovinati) e il restauro degli anni ’80, è stata posta sull’altare maggiore della chiesa.

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img_9854Durante la battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571), poi, il popolo messinese si raccolse in preghiera proprio a Montalto. A perpetua memoria dell’aiuto materno dato alla città in quella occasione, il Senato messinese fece scolpire una statua marmorea della Madonna che fu posta su una torre accanto alla chiesa, e ora si trova sulla facciata del nuovo santuario fra le due torri campanarie. Ogni anno, il 12 giugno, in occasione della festa della Colomba, viene issato lo stendardo della città nelle mani della Madonna, come a volersi affidare costantemente a Lei.

Un’altra data storica legata a questo santuario è il 1743: in quell’anno la peste imperversava a Messina, così il Senato si rivolse direttamente alla Vergine perché liberasse la città e fece voto di offrire ogni anno un cero. Un voto, o una semplice tradizione oramai, che ancora oggi viene rispettata: nel giorno della festa della Colomba, infatti, l’Amministrazione comunale offre alla Vergine di Montalto un cero votivo di 25 libbre.

Arriviamo ora alla storia recente, in particolare al terremoto del 1908 che fece con questo santuario quello che fece con la maggior parte degli edifici di Messina: lo ridusse ad un cumulo di macerie. Nel 1911, però, la chiesa era di nuovo in piedi, la prima a risorgere dalle rovine.
Nel 1928 si operò un ampliamento dell’edificio, secondo il progetto dell’architetto Francesco Valenti, che comportò anche qualche modifica alla struttura originaria. Oggi l’architettura della chiesa si presenta come un misto di romanico e gotico.

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Nelle due torri campanarie ci sono ben 27 campane: due sono state salvate dal terremoto; le altre 25 sono state ottenute, nel 1929, fondendo il bronzo dei cannoni tolti ai nemici nella guerra del ‘15/’18 e donati dal Governo al Vescovo di Messina, S.E. Mons. Paino. Le campane sono di grandezza differente (la più grande pesa 19 quintali e ha un diametro di 1,5 m, la più piccola pesa 23 kg e ha un diametro di 36cm) e possono riprodurre qualsiasi melodia; ogni campana ha un nome, la figura del Santo a cui è dedicata, un motto e l’anno di fusione.
Dal piazzale antistante la chiesa si può godere di una vista mozzafiato su Messina e lo Stretto. Un panorama che lasciò estasiato anche papa Wojtyla, quando, nel corso della sua visita nella città peloritana, nel giugno del 1988, ebbe modo di conoscere anche questo luogo. Ed è per tenere viva la memoria di quell’avvenimento che nel 2014 una statua ad altezza naturale di Giovanni Paolo II è stata posta nel punto esatto dove, posando la mano sulla ringhiera, egli espresse il suo stupore dinanzi a cotanta meraviglia.

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In conclusione, possiamo dire che il Santuario di Montalto rappresenta uno dei simboli di Messina, tanto che esso compare anche nello “spettacolo” di musica e automi in bronzo a cui dà vita ogni giorno a mezzogiorno l’orologio astronomico del Campanile del Duomo. In particolare, ad essere rappresentata è la tradizione della fondazione: una colomba sorvola un colle e subito dopo da questo, lentamente, emerge il Santuario. Tutto ciò a riprova del fatto che Montalto è una tappa imprescindibile se si vuole tracciare una storia della città dello Stretto.

Francesca Giofrè

Foto Giulia Greco

Umberto Spaticchia e il suo ‘’Null01- La storia di Downey’’: quando le menti messinesi si mettono in gioco

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A tutti i lettori chiediamo: cosa è che vi attrae di un libro? La copertina, il titolo, il nome di quell’autore famoso, il posto in classifica.

Tra le caratteristiche, secondo noi, dovrebbe essercene anche un’altra: è stato scritto da un mio concittadino. A maggior ragione se, lui o lei, è uno studente come noi. In questo caso stiamo parlando di un lui: Umberto Spaticchia, giovane di 21 anni, nerd alla mano e spiritoso.

Il suo libro, Null01- La storia di Downey, distribuito dalla Libreria Bonanzinga (anch’essa nostrana), è stato presentato presso i locali dell’istituto tecnico industriale Verona Trento e in alcune province di Messina.

Noi abbiamo avuto il piacere di averlo come ospite di Radio UniversoMe e questa è la sua intervista.

Umberto, tu hai scritto questo libro, ‘’Null01- La storia di Downey’’, che si può trovare sia in forma digitale che cartacea. Di cosa parla?

Sì, è pubblicato anche in cartaceo ed è disponibile presso la Libreria Bonanzinga. Il libro viene esposto come un secondo viaggio dantesco (niente di meno!). È un romanzo a sfondo psicologico- narrativo e parla di come una persona può reagire a seguito di uno shock, sia esso positivo o negativo. Ognuno di noi, infatti, può reagire in maniera diversa: chi inizia a soffrire di depressione, chi sviluppa doppie personalità. In questo caso, attraverso il romanzo, viene raccontata la storia di questo uomo che fa il programmatore informatico e nel tempo libero studia biologia. A un certo punto si trova in uno stadio di fermo appunto perché, essendo un informatico e non un biologo, non riesce ad andare avanti, si trova davanti a un muro: lui, infatti, studia su studi già fatti. E questo lo porta ad uno stato di depressione e stress. La sua mente, quindi, non può far altro che trovare altri piani che prendono vita sotto forma di un’ape azzurra. Questa si riferisce all’ unica guida mentale dello stato in cui si ritrova.

Quindi, sostanzialmente, un viaggio nella sua stessa mente.

In un certo senso. Il punto sta, però, nel fatto che è tutto fine a sé stesso, non coinvolge il mondo, tutto avviene nella sua testa. Intorno a questo sta il secondo viaggio dantesco: è come un Dante dei nostri giorni.

Diciamo però le cose come stanno, Umberto: un romanzo non è un vero romanzo se i personaggi non fanno all’amore almeno una volta.

Eh, diciamo che, nel mio caso, i personaggi lo fanno con il cervello!

Sappiamo che lo hai presentato in alcune province di Messina, a giorni, inoltre, lo presenterai proprio qua a Messina, presso l’istituto Verona Trento.

Sì, lo ho presentato sia a Spadafora, che nel comune di Naso dove ho trovato persone, che mi hanno ospitato, davvero squisite. La presentazione a Messina durerà circa un’ora e spero di vedere il coinvolgimento delle persone de dei ragazzi! Devo dire che, comunque, sono contento, perché ha avuto molti feedback positivi. Oltre i soliti curiosi, anche alcuni professori mi hanno i complimenti, dicendo che ho preso spunto da Kafka (che io, però, non ho mai letto!).

Toglici una curiosità, come è nato il tuo libro? Cosa ti ha ispirato?

Allora, il libro è nato da un disegno che ho fatto io stesso: sarebbe l’ape che c’è sulla copertina del libro. Quindi la storia è stata ispirata da me stesso. Poi ci sono stato un anno a scriverlo, tra alti e bassi, per cui ci sono dei momenti di allegria e dei momenti un po’ più introspettivi, legati al fatto che, ovviamente, durante questo anno, io stesso ho affrontato periodi della mia vita diversi.

Ma quindi è un po’ autobiografico?

No, vi giuro di no!

Da cosa è nata questa idea di scrivere un libro? Ad alcuni rimane per sempre questo ‘’sogno nel cassetto’’, tu, invece, ci sei riuscito!

Io sono dell’idea che tutti possono scrivere un libro e che, allo stesso tempo, non tutti possono. Perché, inutile nasconderlo, ci sono dei momenti in cui vorresti mollare tutto, perché non ci riesci, non sai più cosa devi dire: il classico blocco dello scrittore. Bisogna avere costanza, questo sicuramente, e non mollare nemmeno durante quei momenti. Bisogna essere, in ogni caso, fieri delle proprie opere.

Umberto per noi sei un grande esempio anche perché, se non sbaglio, ancora non sei laureato. Secondo te, cosa serve realmente a un ragazzo, che magari non ha terminato gli studi come te, per mettersi in gioco e realizzare qualcosa di concreto?

No, purtroppo, ancora no!

Secondo me il problema non è tanto dei ragazzi che non fanno qualcosa, il problema sta nel fatto che non c’è partecipazione. Questa è la grande pecca dei nostri cittadini. Ci sono tantissimi eventi di diverso genere in tutta la città, in svariati locali e così via: ma nessuno partecipa. Ci lamentiamo tanto ma poi, a conti fatti, il nuovo non ci interessa.

E allora grazie perché sei un grande esempio per la nostra generazione e, soprattutto, in bocca al lupo!

Grazie a voi ragazzi, siete fortissimi!

Elena Anna Andronico

 

Cinefilia per idioti: I film sulla danza

Ne sfornano almeno uno ogni anno. E no, non mi riferisco, ancora, ai film di natale di Massimo Boldi e Christian De Sica, ( che meritano di certo un’accurata analisi a parte).
Parliamo di un genere che attira prevalentemente ragazzine tredicenni al cinema, o ragazzini tredicenni con evidenti problemi di identità sessuale. Mi riferisco a quel tipo di film che alla mia amica Vanessa piace definire “film danzanti”. Per intenderci, “i film dove tutti ballano sempre”, che per darci un “tono semi-serio”, chiameremo film sulla danza. Non saprei come altro definirli. Sono felici? ballano. Sono arrabbiati? ballano. Sono tristi? invece di pensare ad alternative valide come il suicidio, ballano. Si, lo so, tutti direte di amare alla follia (solo per fare gli indie/hipster/retrò) Dirty Dancing, Footloose, Flashdance, oppure La Febbre del Sabato Sera (che mi traumatizzò alla tenera età di 11 anni, a casa di una compagna di classe che non trovavo poi così simpatica), che nonostante la trama bizzarra e le pessime battute (“nessuno mette Baby in un angolo“, così per citarne una) vengono comunque considerati dei cult, poiché, nonostante tutto, possono vantare dei plot distinti e al quanto singolari ( e delle colonne sonore memorabili, aggiungerei). Dopo aver fatto una ricerca approfondita (su Google), posso constatare che dal 2000 in poi siamo stati invasi, come i negozi durante il black friday, da una miriade di film sulla danza dalle trame sempre uguali e banali. Forse perché, da quell’anno, molti ballerini sono rimasti senza un impiego.

step-up-6-is-going-chinese-languageQuindi una sera, quella in cui desideriamo ardentemente un catetere, “perché io non mi alzo dal letto nemmeno per fare pipì“, ci propiniamo un’alta dose di ignoranza e totale assenza di capacità recitativa. “Un film calderone” in cui ritroviamo tutti i temi sociali possibili: amori multirazziali (quando la brava ragazza che studia danza classica, incontra l’afroamericano di turno che viene dal ghetto e ha la passione per l’hip hop, ed è subito amore) e quelli che nascono tra ceti diversi (se i protagonisti sono entrambi “bianchi”, la ragazza sarà sempre e comunque quella sofisticata e ricca che studia danza classica, e lui sarà quello che vive nel ghetto ed ha un amico afroamericano con problemi con la legge); piccoli problemi di cuore, ma anche in famiglia (il padre severo di uno dei due protagonisti, o la morte di un genitore di uno dei due protagonisti. Anche la morte di un amico, solitamente l’afroamericano che ha problemi con la legge).

Quindi ci sono amori, incomprensioni, morti; ma prima, o durante, che tutto questo accada la nostra protagonista il cui sogno è “avere un sogno“, viene ammessa in un accademia prestigiosa in cui incontrerà la sua nemesi (che alla fine del film o verrà umiliata o diverrà sua amica, perché le nostre care protagoniste sono sempre buone e caritatevoli) che cercherà di farla sentire inadeguata. Ma lei con l’aiuto dell’amore (nato dall’incontro e fusione della danza classica e quella di strada) e dall’amicizia nata, in un batter di ciglia, con un gruppo di ragazzi singolari, riuscirà a dimostrare “di che pasta è fatta“, conquistando la giuria con prepotenza e arroganza (perchè dentro di lei adesso c’è un pò di vita vissuta da strada). Ma non finisce qui: i due protagonisti ingaggeranno i tipi più stravaganti, considerati un pò sfigati, ma esageratamente talentuosi, per partecipare all’attesissima Battle finale (un must di questo genere). Prima di questo evento assistiamo a scene ridicole in cui tutti si preparano, fingono di sbagliare i passi o di essere stanchi e affaticati. Fingono anche di aver paura di non poter vincere la gara, come se non lo sapessero già che, essendo loro i protagonisti, vincono sempre.cast-step-up-2-the-streets-772974_1400_933

Per concludere quest’analisi confusa, almeno quanto questo genere di film, io dico: FERMIAMO PER FAVORE LA PRODUZIONE DI QUESTI ABORTI DEL CINEMA (in modo particolare dei sequel, come se il primo non fosse già abbastanza brutto) PERCHE’ DI “FILM DANZANTI” NE BASTA UNO. Che poi almeno imparassi a ballare anche io.

 

Elisia Lo Schiavo

Abbatti lo stereotipo – Il polentone al Sud

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Dopo aver affrontato i cliché degli studenti conterranei, come non parlare degli stereotipi che noi meridionali affibbiamo agli ospiti nordici? C’è chi fa la vacanzina al Sud, chi ci studia, chi ci lavora… insomma, anche il meridione è invaso dagli amici “di su”.

Proviamo a sfatare i quattro miti che narrano dei polentoni!?

1- Ci si vede per un “ape”?

“ Ape cosa?” – Ci si vede per mangiare focaccia, o un arancino, o una granita, non per un “ape” ( che poi è aperitivo). Il buon polentone, alle prime armi, “osa” fare una proposta tale al Sud; ma quando l’amico terrone lo porta ad assaggiare qualche chilo di focaccia, è subito magia: già dal giorno dopo, suggerirà una focacciata.

2 – Scopre l’esistenza del sole ( e del caldo).

Anche a Novembre e a Dicembre, e per tutto il resto dell’anno (tranne nel fine settimana, ovviamente). In realtà, è proprio difficile spazzare via la nebbia di questo stereotipo, ma vi possiamo assicurare che i polentoni sono così stufi del caldo afoso delle loro terre, da essere felici delle nubi invernali padane. Alla fine dei conti, quindi, conoscono fin troppo bene il sole.

 

3 – Puntualità.

Nello scorso pezzo, abbiamo parlato del tipico ritardo dei meridionali; per i polentoni esiste il problema opposto.

Se dicono “ci vediamo alle 18”, loro sono puntualissimi, anzi, sono capaci di presentarsi all’appuntamento anche 5 minuti prima, ignari del fatto che dovranno attendere l’amico del Sud ALMENO mezz’ora.

Ma dopo un paio di volte in cui l’attesa sembra infinita, è il polentone stesso a presentarsi molto dopo l’orario prefissato.

 

4 – Alle 19 ha già cenato.

Probabilmente, lo fa il primo giorno che arriva, ma non appena vede la gente attorno a lui cenare non prima delle 20:30, silenziosamente cucina ad un orario intermedio, così da non sembrare il tipico nordico e, nel frattempo, non soffrire troppo la fame.

 

Bene polentoni, avete: cibo buonissimo, il mare, qualche clacson che suona a caso ( sicuramente per salutare l’amico nella macchina accanto), qualche parola in dialetto da imparare…insomma, con un buono spirito di adattamento, potete farcela!

 

Jessica Cardullo