Quattro chiacchiere con la prof.ssa Maria Astone – Il CORECOM Sicilia

Si sa, l’UniMe ha tante eccellenze passate, presenti e, ci si augura, future. Un grande onore del nostro Ateneo, specialmente del dipartimento di Giurisprudenza, è il ruolo che ricopre la prof.ssa Maria Annunziata Astone, ordinario di Diritto Privato, a livello regionale: è lei l’attuale presidente del Corecom Sicilia. Il Corecom – Comitato Regionale per le Comunicazioni –  è un organo funzionale dell’Autorità Garante per le Comunicazioni (Agcom) previsto da una legge nazionale. Ma in cosa consiste questo organo? Quali funzioni svolge? Perché è così importante per la comunità, la quale non lo conosce molto  bene? Noi di UniVersoMe non potevamo esimerci dal trovare le risposte a queste domande, ed il miglior modo è stato fare quattro chiacchiere a tu per tu con la professoressa!

©Sofia Campagna, Messina 2019

Essendovi in totale circa 400 emittenti presenti sul territorio regionale, in che modo il Corecom Sicilia regola la varietà di accesso ai media audio-visivi siciliani su cui esercita la vigilanza?

Dai nostri ultimi accertamenti effettuati, in Sicilia operano circa 367 televisioni private, numero che ritengo sia destinato in qualche modo a ridursi considerando il fatto che molte di queste emittenti vivono grazie ai contributi dello Stato. Conseguentemente nel momento in cui i criteri per il riconoscimento dei contributi diventano più restrittivi viene messa in discussione la loro sopravvivenza, con grave pregiudizio per il  pluralismo informativo e per l’economia dell’isola.
Per quanto riguarda il controllo del Comitato Regionale per le Comunicazioni della Regione Sicilia sull’operatività delle emittenti televisive viene tenuto presso la sede del Comitato  un registro degli operatori di comunicazione, il c.d. ROC. Inoltre per legge svolgiamo anche un’attività di sorveglianza e monitoraggio direttamente sulle trasmissioni, al fine di garantire le norme in materia di pubblicità, di par condicio in clima elettorale ed il rispetto delle norme dirette alla tutela  dei soggetti vulnerabili,  nelle diverse fasce orarie dei palinsesti televisivi.
Però devo dire che la normativa riguarda sole i media tradizionali, sicchè restano fuori da ogni controllo  i programmi che transitano sulle  nuove reti di comunicazione. La normativa nazionale in tema di monitoraggio e di sorveglianza infatti non è applicabile alla rete telematica. Sotto questo profilo, l’ordinamento giuridico italiano è del tutto insufficiente rispetto alle nuove esigenze.

©Sofia Campagna, Messina 2019

Mi ha anticipata riguardo la prossima domanda. Difatti in vista della prossima razionalizzazione della capacità trasmissiva degli operatori audio-visivi di reti locali, quale futuro intravede per gli stessi fornitori di media locali?

Guardi, io innanzitutto credo che il futuro sia da scrivere, però noto delle difficoltà enormi.  Infatti sia con l’introduzione   della normativa europea sul codice europeo delle comunicazioni elettroniche, sia il nuovo assetto delle reti di comunicazioni che a breve prenderà avvio determinerà  una crisi di molte realtà televisive locali. Questo è un grande problema perché non è in gioco solo l’informazione, bensì anche i livelli occupazionali di coloro che lavorano all’interno di questa realtà, basti pensare ai giornalisti, i registi, gli operatori tecnici. È necessario che le autorità intervengano quanto meno per sostenere sia i soggetti che operano all’interno delle  televisioni private sia per continuare a garantire il pluralismo informativo. Un ruolo molto importante potrà  essere svolto dalla regione Sicilia, così come ho rappresentato  in una conferenza svoltasi lo scorso Aprile, al presidente dell’ARS Miccichè. E’ opportuno che la Regione Sicilia si doti di una normativa organica e adeguata alle nuove tecnologie  in materia di informazione;  e a tal proposito il Corecom intende presentare diverse proposte.

Il Corecom Sicilia possiede delle particolari funzioni rispetto agli altri, essendo nominato da un’assemblea regionale a statuto speciale?

Il Corecom Sicilia non si differenzia rispetto agli stessi organi delle altre regioni. Ha delle funzioni proprie come quella consultiva dell’Ars e della Giunta Regionale nelle materie di propria competenza; funzioni di supporto al governo Regionale e all’Ars per le iniziative inerenti al settore dell’informazione.

©Sofia Campagna, Messina 2019

Le testate online dovrebbero essere registrate presso il Roc, il Corecom come concilia il controllo e la vigilanza con il principio di libertà di stampa?

Le testate online registrate in Sicilia sono solo 50, però sul punto va rilevato che il Corecom può svolgere sulle testate giornalistiche on line la stessa attività di sorveglianza che si attua per i giornali cartacei.. Tuttavia, come per quasi l’intera materia, ancora non abbiamo delle norme specifiche che ci forniscano una competenza in merito al loro controllo e molto è lasciato all’autonomia privata e agli accordi tra Agcom e gestori delle piattaforme online.

Un ringraziamento va alla prof.ssa Astone che con grande disponibilità si è prestata a questa intervista di un’aspirante avvocato con il desiderio di lavorare in questo “magico” mondo delle comunicazioni.

 

 

 

Giulia Greco

Studenti, professori e giornalisti a confronto sulla figura di Mario Francese, a quarant’anni dal suo omicidio

Si svolgerà mercoledì 13 febbraio, alle ore 10.30  presso la Sala dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti, un seminario sul tema “Il giornalista con la schiena dritta. Riflessioni su Mario Francese a quarant’anni dall’uccisione”.

Ospite dell’incontro Giulio Francese, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti Sicilia; interverranno il prof. Giovanni Moschella, Presidente del Centro sulle Mafie, il prof. Luigi Chiara, Direttore del Centro sulle Mafie, il prof. Marco Centorrino, docente di Sociologia della Comunicazione, Claudia Benassai, giornalista e Alessio Gugliotta, coordinatore UniVersoMe,  testata giornalistica degli studenti Unime.

L’evento, organizzato dalla redazione di UniVersoMe, si concluderà nel pomeriggio in Sala Senato con un workshop giornalistico rivolto agli studenti dell’Ateneo.

Qui di seguito si allega il link del form che deve essere compilato per potersi iscrivere all’evento: https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLSeLklSWHXVkXcCNu__x9jhB4FsEV4TjXkwnA355sPL2oSXRkw/viewform

Abbatti lo stereotipo – La paura del diverso

Bansky – Anti Immigration Birds Mural

Società, una parola che descrive lo sviluppo dell’ambiente umano che ci circonda, caratterizzato dal fascino delle culture diverse e dal silenzio che talvolta si abatte tra di esse. Silenzio, un’altra parola che spesso ci fa paura a sentirla e che invece fa rumore, un rumore che sentono solo quelle persone che vengono ammutolite dalla società.

L’ambiente sociale può farti vivere bene come può condizionarti, a partire dai pregiudizi e per finire nel grande vortice degli stereotipi. Molte persone ormai confondono “Pregiudizi con Stereotipi “, ma non è corretto; avere pregiudizi fa parte dell’essere umano, appartiene a quella sfera di domande che cerca continuamente risposte esterne ma non ne trova di migliori al di là della sua visione, senza spingersi al di là del proprio occhio, e che cerca quindi di rinchiudere quello che capta in un semplice “nomignolo” del momento, che rimarrà fino ad un tempo indeterminato, fino a quando non arriveranno altre risposte che ricreano ancora una volta quel momento di puro pregiudizio. A primo impatto ci può essere stato di mezzo uno stereotipo, ma esso in realtà è molto più grande ma soprattutto molto più accentuato.  Essere stereotipati al giorno d’oggi è diventata una routine: questo termine non è altro che classificare i gruppi sociali, coloro che fanno parte solo di un’unica nicchia. Ma ora la vera domanda che un po’ tutti al giorno d’oggi ci chiediamo,  quando vediamo i gruppi e le nicchie, sono stereotipati o si sentono realmente parte integrante di esse?   

Sfortunatamente ancora nel ventunesimo secolo ci sono nicchie nate proprio dagli stereotipi, un po’ come le classi, ma questa non si può definire una lotta marxista di potere, ma solo una lotta di riconoscimento che riguarda il singolo. Quando pensiamo agli stereotipi generalmente ci vengono in mente non solo le grandi nicchie sociali, ma ci anche altri contesti, gli ambienti d’istruzione così come quelli lavorativi.

Ricordandoci che lo stereotipo non è solo questione di “nicchie” o di essere selettivi nelle proprie caratteristiche, ma rientra nella diversità che  tutt’oggi non si accetta, chiamata anche “ Xenofobia – Paura del diverso”. Una paura che viene nascosta come se essa fosse un muro. Ecco perché la nascita delle diversità a partire da quella della materia stessa, ha portato a parlare della storia fino ai giorni nostri, ed è finita per essere classificasta in vari schemi, come se ci fossero delle piccole stanze immaginarie. In queste stanze tante persone, anche se vivono nella stessa zona, saranno in luoghi diversi, senza alcun contatto o conoscenza dell’altro. Tutto ciò che ci riporta alla storia non è semplice  “lotta tra popoli o grandi dittatori “, ma gli stereotipi cosi come i pregiudizi hanno fatto nascere guerre prima in passato ed ora sempre più nei confronti della società, provocando, come ho detto antecedentemente, solamente SILENZIO. 

             

 Dalila De Benedetto

La sentenza

M.C. Escher – Altro mondo

Stando attento a non essere notato, mi  inoltrai all’interno del palazzo che mi era stato indicato da Joseph.
Secondo le sue istruzioni, avrei dovuto salire una rampa di scale evitando di utilizzare l’ascensore, per quale motivo non saprei. All’epoca dei fatti ero giovane e meno interessato ai dettagli di quanto non lo sia adesso. Un uomo chiamato “Pavese” mi avrebbe atteso in cima alle scale per scortarmi al luogo dell’appuntamento. Giunto all’interno del buio androne mi feci coraggio e iniziai a salire le scale, sfiorando il muro con mano tremante, quasi temessi che potesse improvvisamente ferirmi. In cima alla rampa trovai chi cercavo. Un uomo piccolo e forse più giovane di me mi accolse con un sorriso. Senza che avessi il tempo di dire chi ero e chi mi mandava, mi invitò a seguirlo con placida fermezza. All’epoca dei fatti ero giovane, come ho già detto, e quando si è giovani si finisce a volte per pagare lo scotto di possedere più entusiasmo che buonsenso. Camminai scortato dal Pavese lungo corridoi ora stretti, ora larghi. Qualche volta dovemmo chinarci, perché il tetto si faceva basso a tal punto che solo un bambino sarebbe potuto passare tenendosi ritto. Una volta il Pavese si girò sorridente a guardarmi, volendo forse saggiare la mia meraviglia. Ma ciò che ebbe a leggere sul mio volto doveva essere più vicino allo sgomento che alla meraviglia, perché non si girò più. Pensai di averlo offeso, e mi dispiacque. Mentre attraversavamo un corridoio dalle pareti pulsanti, gli chiesi se fosse stato Joseph a informarlo del mio arrivo. Continuò a camminare senza degnarmi di risposta. Allora, Joseph era un uomo importante. Faceva parte della commissione scientifica locale quando l’antitanatina venne scoperta dalla professoressa Yvonne Nettesheim nel 3965. Nel 3992, anno in cui nacqui, la molecola venne introdotta nel mercato. Il prezzo era proibitivo per la quasi totalità della popolazione mondiale. Quando avevo circa vent’anni, il prezzo era sceso a meno della metà rispetto a quello iniziale. Per il mio trentaquattresimo compleanno decisi di acquistare la mia fiala di antitanatina, ormai praticamente alla portata di chiunque. Ricordo ancora distintamente il momento in cui tenni la scatola rossa tra le mani sudate. La mia ragazza di allora mi aiutò a iniettare il prodotto in vena. Lei lo aveva già fatto qualche mese addietro, mi avvertì che avrei provato un senso di calore irradiato al torace, seguito poi da un profondo torpore. Questo non fu vero per me, perché sperimentai invece un senso di euforia durante tutto il processo. Mi addormentai, stremato, alle prime luci del mattino seguente. Ma il mio sonno fu simile a uno stato di dormiveglia allucinato. Al risveglio, non mi sentivo assolutamente riposato. Al tempo non sapevo ancora che sarebbe sempre stato così da allora in avanti.
Il Pavese si muoveva con agile familiarità attraverso i corridoi. Quando fummo giunti innanzi a una porta massiccia, di un colore mai visto prima e tutt’oggi indefinibile, mi disse di attenderlo lì. Non bussò, ma la porta si spalancò ugualmente e lui vi passò attraverso. Ricordo di aver intravisto qualcosa dall’altra parte della porta, ma cosa di preciso non saprei dirlo. Forme geometriche forse, o colori. Durante l’attesa rimasi immobile. Mi ritrovai inspiegabilmente a pensare a mio padre, vecchio amico di Joseph. Pensai alla sua semplicità di “uomo” nella vecchia accezione del termine. Da quando la sterilizzazione obbligatoria di massa impose il divieto assoluto di generare nuova prole, mi sono chiesto spesse volte cosa provassero gli uomini del mondo antico nel concepire una nuova  vita. Non sono mai stato padre, ma sono stato a mio tempo figlio, credo. Chissà cosa doveva provare mio padre. “Certo, si inizia a essere padri” – pensai – “ ma si cessa mai di essere figli?”. Il rumore della porta che si apriva mi strappò ai ricordi e alle riflessioni. Ne uscì lentamente il Pavese, che prese a fissarmi con aria divertita. Stavolta fui io a infastidirmi. Azzardai allora a chiedergli se ciò che cercavo si trovasse al di là della porta, e volli appositamente fissare la porta mentre mi rivolgevo a lui, come per negargli timidamente il ruolo necessario che in realtà ricopriva. Il Pavese non mi rispose, allora mi girai, imbarazzato. Con mia grande sorpresa  era sparito.
Attraversando la porta sentii e vidi tante cose, ma sono certo di non averne compresa appieno neanche mezza. Un uomo, o forse una donna, mi attendeva con la schiena poggiata al muro. Non appena mi vide mi chiese se avessi i soldi, gli risposi di sì. Mentre armeggiava con una valigetta chiese il mio nome, gli risposi che non lo ricordavo più. Estrasse dalla valigetta una fiala dal contenuto lattescente che mi ricordò l’antitanatina acquistata tanto tempo fa. Un po’ intimorito chiesi a quella figura, dalla quale ormai dipendeva il mio destino, entro quanto tempo l’antitanatina sarebbe stata finalmente scacciata via dalle mie vene, ormai ridotte a rigidi tubi macilenti. Mi rispose con una frase enigmatica, che mi fece sorridere; disse: “tra un po’ di tempo fa”.
Compiendo il percorso a ritroso, uscii più velocemente che potei da quel palazzo coi suoi assurdi corridoi.
Stringevo in pugno la fiala che avrebbe finalmente posto rimedio a tutto. Era stato Joseph a fare da intermediario per me, come per altri pochi che potevano permetterselo, forse mosso dall’antica amicizia con mio padre o dai sensi di colpa o ancor più probabilmente dalla sua mostruosa cupidigia. Avevo venduto tutto ciò che possedevo e racimolato i soldi necessari con pazienza, per circa 20 anni. Allontanatomi dall’ingresso del palazzo iniziai ad affrettare il passo, prima che me ne rendessi conto stavo già correndo. Giunto alle baracche che da ormai qualche anno erano diventate dimora mia e di altri giovani sbandati, mi gettai sul duro pavimento, piangendo, felice come mai mi era accaduto di essere in tutto quel tempo. Finalmente stavo per ricongiungermi alla semplicità degli uomini antichi, al tutto, al nulla. Il fracasso dei vetri sfondati e le pesanti mani degli agenti che mi bloccavano a terra distrussero in una manciata di secondi  le mie illusioni. Mi strapparono dalle mani la fiala e mi serrarono ai polsi le manette. Nella caotica scena che mi vedeva attonito e sconfitto, sentii uno degli agenti parlare di una certa soffiata al dipartimento anti-siero da parte di uno spacciatore. Sentii inoltre che insieme a me erano state poste in stato di arresto altre 12 persone, tra le quali un noto e illustre personaggio. Intuii subito che si trattava di Joseph. Da quel giorno mi trovo qui, in attesa della sentenza definitiva.  Io non sono altro che un disgraziato, signor giudice, le parlo con la destra sul cuore. Ho fatto uno sbaglio di cui mi pento, adesso ho capito, ma mostrate la clemenza che si addice a un uomo della sua risma. In fondo, avevo solo seicentotredici anni all’epoca dei fatti, non ero in grado di discernere da dove partono e dove portano i sentimenti. Ho confessato, come ha confessato Joseph, e so che a lui è stata concessa la pena di morte. Abbiate pietà, signor giudice! Abbiate pietà! Ho confessato come Joseph, concedetemi la pena che mi spetta di diritto! ». Il giudice si alza solenne, in silenzio. La corte si aggiorna.

Fabrizio Bella

Tommaso Cannizzaro: biografia di un letterato poliglotta

Quante volte, nel caos cittadino, cerchiamo di dare un punto di riferimento ai nostri amici dicendo di trovarci vicino al Tribunale, sulla Tommaso Cannizzaro?

Quante altre ci viene chiesto dai turisti dove sia, e nessuno, soprattutto i residenti in città, ha dubbi sulla sua posizione? Via Tommaso Cannizzaro, situata tra il centro storico e l’area deputata allo shopping, congiunge due parti  fondamentali della città. La via, spesso trafficata, vede sorgere ai suoi lati il Tribunale e il Rettorato, palazzi storici e modernissimi e collega la Zona Falcata con i Colli San Rizzo.

Ma chi è il personaggio storico da cui prende il nome?

Tommaso Cannizzaro nacque a Messina il 17 agosto 1838 e fu un poeta, critico letterario e traduttore italiano di rilievo nazionale ed europeo. Ebbe un orientamento politico di sinistra che lo portò nel 1860 ad arruolarsi con Garibaldi nel corpo dei cacciatori del faro, bersaglieri cui capo era Ferdinando Beneventano del Bosco, che avevano l’obbiettivo di scacciare i Borboni da Torre Faro, liberando così tutta Messina e potendola annettere, dopo la vittoria su Palermo, al resto della neo Italia. Dovendo interrompere la missione per la morte del padre tornò a Messina per amministrare il patrimonio familiare e dopo la morte anche della madre decise allontanarsi dalla città natale.

Nei i suoi numerosi viaggi che lo portarono in Francia, Spagna, Inghilterra e Malta potè vantarsi di aver conosciuto Victor Hugo, e la figlia Adèle, della quale si innamorò perdutamente. Pur avendola chiesta in sposa per ben due volte fu rifiutato e ciò lo portò nel 1888 ad allontanarsi, continuando a scrivere e facendosi conoscere anche come traduttore in lingua francese, spagnola, portoghese, inglese, tedesca, svedese, boema, americana e magiara. Tornò in sicilia dove si stabilì definitivamente dopo aver conosciuto Maria Kubli, sua sposa e madre dei suoi 7 figli. È in questo periodo, a cavallo tra l’ottocento e il novecento, che si dedicò alla scrittura di numerose poesie, alcune delle quali furono raccolte nel volume Výbor básní –Tom. Cannizzaro (Praga 1884).

Dopo il terremoto del 1908, nel quale morì una delle sue figlie, trascorse gli ultimi anni in solitudine. Nelle volontà testamentarie lasciò buona parte del proprio patrimonio alla città di Messina; tra tutto spiccano i suoi 5000 volumi personali, che oggi fanno parte della biblioteca messinese a lui intitolata. Abbandonato da tutti e solo per la morte prematura dei sette figli morì il 25 agosto 1921 e venne sepolto nel cimitero monumentale della città. Tra le opere troviamo liriche che vanno dai temi filosofico-scientifici a quelli filantropici. La sua fatica più grande fu senz’altro tradurre la Divina Commedia di Dante Alighieri in siciliano, pubblicandola poi nel 1904. Come traduttore si dedicò principalmente a sonetti scritti da poeti francesi e inglesi, ma non mancarono poesie in spagnolo e portoghese.Si dedicò anche alla prosa con dei canti popolari sulla provincia di Messina, ma anche con opere che avevano come temi principali la vita, la società, l’amore e le donne.

Era di nostra vita a mità juntu
quannu ‘nton scuru boscu mi trovai
pirdennu la via dritta, ntra ddhu puntu.

Paola Puleio

Alda Merini, la poetessa dei Navigli

Alda Merini, una poetessa dalla sensibilità elevata, simbolo, anche, del malessere degli individui; malessere che per lei aveva come paracadute soltanto la poesia.

Alda Merini nasce il 21 marzo del 1931 a Milano. Alda è la seconda di tre figli, ma della sua infanzia si conosce poco. Nelle brevi note biografiche si descrive come una ragazza sensibile e dal carattere malinconico, isolata e poco compresa dai genitori.

Esordisce come autrice giovanissima, a soli quindici anni, sotto la guida di Giacinto Spagnoletti che scoprì il suo talento artistico.

La storia della Merini è una storia molto particolare, la sua vita non è stata monotona, ma al contrario caratterizzata da emozioni fortissime. Il suo malessere inizia a farsi vivo con quelle che lei stessa definì nel 1947:

prime ombre della sua mente“.

Era già sposata e madre felice ma, come tutti noi esseri umani, aveva momenti di stanchezza e tristezza. Parlò di questi suoi piccoli problemi al marito che non solo non comprese nulla, ma fece ricoverare la moglie nella clinica Villa Turro di Milano.

Alda Merini soffriva di disturbo bipolare che all’epoca era considerato semplicemente un costante cambiamento d’umore. Questo problema era la “marcia” in più per lei: riusciva a vedere cose laddove gli altri non riuscivano a vedere e di conseguenza a creare poesie e aforismi impressionanti, capaci di colpire nel profondo il lettore. Il malessere di cui ha sofferto Alda Merini è stato logorante per lei. La sua vita è stata un mix di emozioni e gioie, legate però a perenni dolori. Questa sua condizione trovava sfogo, prima che sui fogli, sulle pareti delle sua camera da letto, tappezzata da frasi, aforismi e riflessioni sulla vita, sull’amore.

Scritte con il rossetto in ogni angolo, sugli specchi, vicino il letto, in ogni parte della casa.

La vita della poetessa dei Navigli non è stata molto facile in manicomio. Come disse spesso, lei non si riteneva pazza e ne era consapevole; si ribellava ai medici e alle cure a cui la sottoponevano. Il ricordo peggiore è quello dell’elettroshock. Alda ricordava la stanza dove lo “somministravano” come un luogo terribile, dove ti saliva l’ansia e la paura già nell’anticamera. Un luogo piccolo e sporco, dove la gente aspettava il proprio turno ascoltando inerme le pene patite nella stanza vicino. La Merini però può ritenersi relativamente fortunata perché la sua reclusione, malgrado tutto, non durò molto. Quando uscì, in ogni caso la sua persona ne risentì profondamente, tanto che la sua vita ruotò attorno all’incubo del manicomio. Luoghi di tortura legalizzati, dove i “matti“ non avevano nessun rapporto con l’esterno. Luoghi in cui ancora oggi si respira la crudeltà dell’uomo. La poetessa racconta, in una delle sue interviste, che prima dell’elettroshock facevano una pre morfina e poi davano del curaro. Dopo anni in manicomio la Merini ritrovò una pace interiore per qualche tempo, ma i ricordi del passato riemergevano spesso. Lei considerava la poesia un’espressione di dolore, un dolore intimo, esclusivo del poeta, che, in quanto tale, è per natura più incline alla sofferenza. Ma accettò il dolore indossandolo “come un vestito incandescente, trasformandolo in poesia”. In una nota intervista alla domanda ‘Lei è felice?’ Alda rispose ‘La mia felicità è la mia rassegnazione. Sì, sto bene da sola, quando se ne vanno tutti e posso cominciare a pensare anche in questa piccola casa che tutti denigrano e dicono che è disordinata, non curata, polverosa. Ma questa polvere è polvere di farfalle come sono i pensieri! E se la togli non volano più.’

Ecco qualche passo delle sue poesie più belle…

Ero matta in mezzo ai matti.
I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti.
Sono nate lì le mie più belle amicizie.
I matti son simpatici, non così i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo.
I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita.

Io non ho bisogno di denaro.
Ho bisogno di sentimenti
Di parole, di parole scelte sapientemente, di fiori, detti pensieri,
di rose, dette presenze,
di sogni, che abitino gli alberi, di canzoni che faccian danzar le statue,
di stelle che mormorino all’orecchio degli amanti… Ho bisogno di poesia,
questa magia che brucia le pesantezza delle parole, che risveglia le emozioni e dà colori nuovi.

E poi fate l’amore
Niente sesso, solo amore.
E con questo intendo i baci lenti sulla bocca, sul collo, sulla pancia, sulla schiena,
i morsi sulle labbra, le mani intrecciate,
e occhi dentro occhi.
Intendo abbracci talmente stretti
da diventare una cosa sola,
corpi incastrati e anime in collisione,
carezze sui graffi, vestiti tolti insieme alle paure, baci sulle debolezze,
sui segni di una vita che fino a quel momento era stata un po’ sbagliata. Intendo dita sui corpi, creare costellazioni,
inalare profumi, cuori che battono insieme,
respiri che viaggiano allo stesso ritmo,
e poi sorrisi,
sinceri dopo un po’ che non lo erano più. Ecco, fate l’amore e non vergognatevene, perché l’amore è arte, e voi i capolavori.

Solitudine
S’anche ti lascerò per breve tempo, solitudine mia,
se mi trascina l’amore, tornerò,
stanne pur certa;
i sentimenti cedono, tu resti.

Alda Merini visse la solitudine del malato che non è solo fisica – essere chiusi tra le quattro mura di una clinica restando esclusi dalla vita fuori – ma anche psicologica: il malato è un diverso e per questo rimane isolato dalle persone ‘normali’. A proposito della solitudine in manicomio, in Diario di una diversa la poetessa scrive: “Si parla spesso di solitudine, fuori, perché si conosce solo un nostro tipo di solitudine. Ma nulla è così feroce come la solitudine del manicomio”. Ma la diversità di Alda Merini che la condanna all’isolamento non è solo quella del malato, ma anche quella dell’artista: “scrivere una poesia è un momento di grande solitudine”, disse la Merini in un’intervista a Loris Mazzetti, aggiungendo che “il timbro del manicomio che ti porti dietro per tutta la vita è un timbro di alienazione”.

Alda Merini ha avuto amori e figli, ma la solitudine – dell’artista e della reclusa – è stata la sua vera compagna di vita, che nella poesia ‘Piccoli canti’ infatti chiama ‘solitudine mia’, parlando di lei come di una vecchia amica che l’ha fatta soffrire ma di cui ormai non può fare più a meno, e a cui infine dice ‘tornerò, stanne pur certa’.

Concludo dicendo che questa grande poetessa dalla sensibilità elevata, con la sua voglia di essere una donna libera e diversa, cercò di cogliere la forza e il limite della parola nel silenzio di un’immagine. Era bella e unica perché non rassicurava nessuno, non stava da nessuna parte, non difendeva verità assolute! Viveva l’amore con semplicità, sapeva custodire e proteggere il senso della vita. Prediligeva la notte, sua compagna muta ma vicina, dove i suoi dubbi più belli, le sue fragilità e i suoi versi sbattevano e battevano come farfalle notturne contro i battiti nascosti della sua solitudine.

A tutti i giovani Alda lasciò un grande messaggio:

A tutti i giovani raccomando:
aprite i libri con religione,
non guardateli superficialmente,
perché in essi è racchiuso
il coraggio dei nostri padri.
E richiudeteli con dignità
quando dovete occuparvi di altre cose.
Ma soprattutto amate i poeti.
Essi hanno vangato per voi la terra
per tanti anni, non per costruirvi tombe,
o simulacri, ma altari.
Pensate che potete camminare su di noi
come su dei grandi tappeti
e volare oltre questa triste realtà
quotidiana.
Alda Merini , da < La vita facile>.

Con queste sue intense parole Alda ci spiega il senso della vita, invita ognuno di noi ad amarla, amare i poeti e i libri “per volare oltre questa triste realtà quotidiana”.

Gabriella Puccio

Il ritorno di Gossip Girl: le sei stagioni in streaming

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Con l’arrivo del nuovo anno Netflix, la celebre piattaforma di streaming, offre la possibilità ai propri utenti di assaporare, dopo sei anni dalla puntata finale, le sei frizzanti stagioni riguardanti le vite scandalose delle élite di Manhattan.

La serie che ha fatto impazzire le teen-ager di mezzo mondo fa di nuovo parlare di sè: da quando Netflix ha annunciato il ritorno, sul web non si discute d’altro!

Si tratta di una serie televisiva statunitense, trasmessa dal 2007 al 2012. In Italia, è andata in onda sul canale Mya di Mediaset Premium e successivamente, dal gennaio 2009, è stata trasmessa su Italia 1.

La prima stagione si apre con il ritorno nell’Upper East Side di Serena Van Der Woodsen (Blake Lively), scomparsa per alcuni mesi senza dare spiegazioni a nessuno. Da qui si susseguiranno una serie di vicende, intrighi e complotti che vedranno coinvolta lei ed il suo gruppo di amici.

Gossip Girl, la voce narrante, si occupa di raccontare ciò che accade nelle vite dei ragazzi, senza perderli mai di vista, ma la sua identità rimane segreta fino all’ultima puntata della serie. “Ricchi ed eccessivamente attraenti studenti di una prestigiosa scuola si fanno cose orribili e scandalose a vicenda. Ripetutamente”: è questa la descrizione della serie sulla famosa piattaforma.

Ciò che sconvolge è che nonostante siano passati degli anni, la serie sembra essere ancora attuale. Ma la vera domanda è, riuscirà Gossip Girl ad accaparrarsi i consensi di queste ultime generazioni, o verrà seguita soltanto dai vecchi fan?

Elena Emanuele

Pietà

Edvard Munch – L’assassino

 

L’estate irrompeva in paese imponendo i propri umori e scacciando la gente verso i vicini borghi montani. Vittorio osservava le strade inondate dal sole attraverso l’ampia vetrata della sua stanza. Ciò che riceveva da quella vista era un impressione che, come ogni anno, lui stesso faticava a decifrare – un misto d’orrore, letizia, tristezza. Vittorio era senza dubbio un uomo pratico, e come tutte le persone pratiche era dotato di scarso senso dell’umorismo; la natura, in cambio, lo aveva in qualche modo risarcito di quella grave mancanza donandogli una robusta intelligenza intuitiva: riusciva a indovinare esattamente e con facilità quale fosse il rimedio adatto a ogni turbamento dell’anima, che si trattasse dell’anima propria o di quella d’altri.  Sapeva dunque che quello specifico sentimento così ricco e ambiguo che andava sperimentando col primo caldo estivo aveva come unico rimedio una visita al bar di Franco.

Insomma, a Vittorio piaceva bere un bicchiere o due, soprattutto nel periodo della “mestizia”, come piaceva erroneamente definirla alla madre di lui.

Franco possedeva un piccolo bar alla periferia del paese. Tra i lecci e profumi di ragazze era piacevole starsene seduti sugli sgabelli malconci la sera – e Franco, se non proprio un amico, era quantomeno un conoscente con cui ci si poteva permettere qualche confidenza. A notte inoltrata, quando anche l’ultima clientela era fuori a godere della propria ebbrezza alla luce dei lampioni, Franco avvicinava Vittorio con un cenno del capo e serviva da bere a entrambi. Vuotato il bicchiere, restava dietro al bancone con un espressione quasi artificiale, e quando finalmente parlava era impossibile capire se fosse serio o scherzasse. Vittorio era affascinato e al contempo inquietato dalla persona di Franco. Era come se le proprie paturnie avessero in quei giorni una forza tale da autoproclamarsi indipendenti dal corpo e dalla volontà di lui, e che avessero corpo proprio, voce propria, volontà propria. Elementi questi che condensavano nella figura di Franco. Parlare a quattr’occhi con lui, con l’impulsività e la stolida fluidità che solo l’alcol è in grado di concedere, era evidentemente per Vittorio una sorta di catarsi in quei periodi.

Una sera accadde qualcosa che non è giusto definire spiacevole. Non importa riportare esattamente il giorno e l’orario. I fatti e la loro realtà sono tutto ciò che conta. Vittorio si trovava su uno degli sgabelli malconci a riflettere pigramente su qualcosa di indefinito, come se nei meandri della sua mente fosse presente un’idea capricciosamente restia a svilupparsi e manifestarsi con completezza. A un tratto la sua attenzione venne richiamata da un movimento sul muretto di fronte: in un forsennato dibattersi di minute zampette una piccola vespa si trovava col ventre pietosamente rivolto al cielo. Un gruppo di formiche si era raccolto attorno alla malcapitata, ed evidentemente si apprestava a consumarne le carni ancora vive e recalcitranti. Vittorio ebbe l’impressione che quell’essere sofferente, la cui impotenza era al contempo pietosa e nauseabonda, implorasse il suo aiuto. Provando una cocente quanto inspiegabile vergogna decise di affrettarsi al bancone. Non ordinò nulla. Pagò il conto, salutando con un cenno Franco. Tornando a casa ebbe l’amara impressione che non sarebbe più tornato in quel bar dagli sgabelli malconci, e che non avrebbe più rivisto né Franco, né le ragazze fresche e disinibite, né lo spettacolo crudele del desinare delle formiche. La notte passò lentamente, in un turbinare di pensieri e immagini di cui Vittorio non ebbe più ricordo al risveglio. Nei giorni seguenti quello che era sempre stato un senso ambiguo di inquietudine ed eccitazione si tramutò in un’angoscia insonne e scivolosa. La logica praticità di cui aveva sempre beneficiato sembrava ormai non trovare più espressione. L’immagine della vespa impotente affollava intrusivamente i suoi pensieri già dal primo mattino senza che vi si potesse trovare valido rimedio. Anche la madre iniziava a notare con profonda apprensione mutamenti nel suo comportamento: non usciva praticamente più di casa, rifiutava il cibo e iniziava ad assumere una strana espressione nel viso pallido, come di chi tace a fatica un gravoso senso di colpa. In realtà albergava nella tormentata mente di Vittorio una viva produttività intellettuale: non potendo più ignorare i pensieri, aveva iniziato a processarli con metodicità e a metabolizzarli poco per volta, come farebbe l’organismo con un veleno potente ma ben diluito. Si faceva in lui sempre più forte la sensazione che quella sera gli fosse stata rivelata una verità superiore, che coinvolgeva profondamente l’intero universo. Iniziò a riflettere a lungo sui modi e i motivi dell’alimentazione, trovando assurdo che un essere dotato di ragione e compassione potesse condividere la medesima brutalità con le dissennate formiche, coinvolgendo nella propria sopravvivenza la sofferenza e la morte d’altre forme di vita. La soluzione si affacciò alla sua mente in modo semplice e spontaneo: se si voleva davvero evitare la sofferenza di altri esseri viventi, bastava non coinvolgerli. Lieto di essersi riconciliato con la sua proverbiale praticità, decise che non avrebbe più consumato carni animali. Iniziò così un periodo di esaltante novità, e non solo dal punto di vista alimentare. Prese ad informarsi sul vegetarianismo e le sue ragioni. Si dedicò avidamente alla lettura di saggi di sociologia e testi mitologici che avevano come oggetto déi antichi e i luoghi da loro concepiti, privi di violenze o affanni. Quando Dio non era ancora appannaggio di un cieco antropocentrismo, la sua esistenza era interpretata alla luce della manifestazione di tutte le forme – viventi e non. Dio padre era cielo, vento, grano, lupo. Questi pensieri rafforzavano le nuove convinzioni di Vittorio. L’appetito (prima di allora in realtà molto scarso a causa di una mancata propensione al buon gusto culinario) era vigoroso e puntuale: riusciva a consumare abbondantissime porzioni di legumi, ortaggi e frutti tre volte al giorno, ingurgitando tutto velocemente e con piacere. La madre era contenta, Vittorio era sempre stato un ragazzo un po’ astenico: da bambino era di salute assai cagionevole e dal temperamento melanconico. Era abituata alla “mestizia” estiva, ma mai come quell’anno lo aveva visto turbato, e il ritorno (o meglio, l’esplosione) dell’appetito bastava a rassicurarla. E poi aveva appreso che Vittorio aveva voglia di uscire e magari passare dal bar di Franco, altro segnale che valutò positivo. Donna semplice e ormai sulla soglia della senilità, aveva vissuto tutta la vita in paese e non avrebbe potuto fare altrimenti. Pur non potendosi rimproverare nulla, covava ormai da tempo nel suo cuore di madre il sordo senso di colpa di chi attende in silenzio il manifestarsi di un dramma latente e inevitabile, senza avere i mezzi per comprendere appieno le delicate dinamiche degli eventi.

Vittorio uscì in tarda serata e decise di godersi ogni metro del viale alberato che conduceva da casa sua alla vicina piazza barocca; poi da lì avrebbe disceso una lunga scalinata in pietra lavica giungendo infine alle case antiche del paese, molte delle quali disabitate. Il bar di Franco si trovava a circa 500 metri in direzione della litoranea, alla periferia sud del paese. Giunto sul posto trovò il locale praticamente vuoto. Solo Franco dietro il bancone e una coppia seduta fuori erano rimasti a rappresentare i superstiti del caldo umido e appiccicoso di quelle sere. Franco lo accolse con la solita espressione cordialmente impersonale, e Vittorio fu lieto di rivederlo; ordinò una media alla spina e si mise a sedere al bancone. Il brusio della coppia all’esterno del locale si mescolava dolcemente al suono aspro del ventilatore posto vicino alla cassa. A un tratto la ragazza rise di gusto, di un riso dolce e vivace che inondò il locale vuoto. Franco aveva smesso di fissare con lo scarso interesse che contraddistingueva ogni sua attività la piccola televisione fissata al muro. Ora guardava Vittorio con una curiosità che non gli si addiceva. O almeno, a Vittorio non piacque quello sguardo. Così prese a raccontare a Franco del suo radicale cambiamento in materia di alimentazione, quasi senza volerlo, come mosso dalla necessità di sviare dal proprio volto l’attenzione muta e indagatrice di Franco. Questi ascoltava con molta attenzione. Quando Vittorio ebbe concluso, Franco si limitò a sorridere e tornò a guardare con blando interesse le immagini che scorrevano sullo schermo. Vittorio provò un fremito di rabbia.

Cosa significava quel sorrisetto? Possibile che Franco non condividesse le sue nuove visioni sul mondo e sull’etica? Del resto era ovvio, come potrebbe comprendere l’importanza di preservare la vita delle altre creature chi si guadagna da vivere avvelenando le membra e le menti di altri uomini. Vittorio lasciò una banconota da 5 euro al bancone e uscì senza salutare. Alle risate della ragazza si aggiunse la voce di un altro, che adesso trascinava rumorosamente una sedia e si univa al tavolo della coppia. Vittorio camminò verso casa affrontando il caldo. L’onta gli arrossava il volto e gli gonfiava le vene alle braccia. L’idea per lui inaccettabile consisteva in una nuova e quanto mai dolorosa presa di coscienza: le sue nuove visioni erano profondamente ipocrite, se non del tutto assurde. Le piante che egli avidamente consumava erano anch’esse forme di vita. Che il riso di Franco stesse a sottolineare proprio questo? Tornato a casa fu colto da un malore. Gettò nella pattumiera ciò che era residuato dalla cena e si mise a letto. Il giorno dopo avrebbe iniziato a cibarsi di sola frutta. Anzi, non avrebbe consumato neanche quella, visto che in essa era il seme di una nuova vita. Un anno dopo il sole batteva cocente sui muri delle case. La madre di Vittorio si era svegliata da una notte agitata benché priva di sogni. L’estate era tornata e aveva nuovamente trascinato con sé profumi e calore. La donna diede un’occhiata al piccolo orologio che era appartenuto a Vittorio e che adesso lei custodiva gelosamente sul comodino accanto al letto. Si chiese se fosse possibile che alla morte del corpo potesse sopravvivere l’anima, e con lei la mestizia del suo adorato Vittorio. Ricordò l’incarnato chiaro e la dolcezza torva del suo sguardo e la pietà che aveva provato nei confronti dell’universo, ma che adesso non gli veniva ricambiata dai vermi che banchettavano con le sue carni. Si alzò dal letto, erano le 7 del mattino.

Fabrizio Bella

Van Gogh – Sulla Soglia dell’Eternità

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Sono stati tanti i registi che ispirati dal folle genio di Vincent Van Gogh ne hanno proiettato la vita e le opere sul grande schermo.

Questa volta a farsi carico della responsabilità di rappresentare al meglio l’arte del visionario pittore è stato Julian Schnabel; lo statunitense regista, trascorsi vent’anni dal suo esordio (un biopic sull’artista Basquiat), torna nuovamente a parlar d’arte.

Van Gogh – Sulla Soglia dell’Eternità verte sugli ultimi anni della vita del pittore, concentrandosi sulla sua figura di uomo, sul rapporto viscerale che lo lega al fratello Theo, su quello con l’amico e collega Paul Gauguin (Oscar Isaac), concludendosi con la tragica morte.

Il film si apre con Vincent, interpretato da un eccellente Willem Dafoe, che ormai stanco ed esasperato dalla vita nella capitale francese, proprio su consiglio del suddetto amico, decide di trasferirsi a sud della Francia, nella città di Arles.  Ed è qui che, lontano dal grigiore di Parigi, Vincent si darà alla libera ricerca di quella luce e di quel calore che ispireranno sempre i suoi dipinti.

Il film è pervaso interamente da un malinconico sentimento di bonaria rassegnazione. L’artista sa che la sua arte è destinata al successo, ma è inconsciamente consapevole che, finché sarà in vita, mai questo successo gli verrà riconosciuto. Tutto ciò che nella sua vita è stato è un cammino che porterà i posteri a poter godere della sua immensa arte. Grazie ad un saggio uso dei filtri che se nei momenti di crisi e sconforto, sono freddi, cupi, nei momenti di gioia sono colorati e luminosi, è facile per lo spettatore immedesimarsi in quelle atmosfere e nei sentimenti dello stesso Vincent.

Funzionali a questo proposito anche l’ottima sceneggiatura e l’ottima regia che, senza sbavatura alcuna, riescono pienamente a trasportarci in un visionario mondo pittorico. Doveroso citare quindi le speciali musiche per violino e pianoforte composte da Tatiana Lisovkaia che seguono i variabili stati d’animo del tormentato pittore, e sono ora concitate, movimentate, ora pacate e mistiche. Willem Dafoe con la sua bravura, la sua straordinaria mimica, riesce a interpretare perfettamente il dolore e il dramma del pittore, emozionando e commuovendo. Quest’opera non ha nulla da invidiare ai suoi predecessori; raggiunge pienamente il suo intento di raccontare in maniera innovativa e quasi sperimentale la travagliata vita di Van Gogh, pittore e uomo complesso, nonché l’immensa grandezza della sua arte.

Benedetta Sisinni

Resta con me: un viaggio che si è tramutato in naufragio

Resta con me. Un titolo, uno scenario che ha fatto sognare un milione di persone, con mille emozioni che richieggiavano nelle sale cinematografiche. Un film che ci fa sembrare il Titanic solo un ricordo lontano. Lo scontro con un violento uragano per raggiungere Thaiti.

Due giovani sfidano il mare ma non sanno cosa troveranno o se si ritroveranno loro stessi, in un’avventura che si è trasformata in un drammatico naufragio. Una storia vera accaduta a una giovane coppia che, durante un viaggio verso Tahiti, a bordo di una barca a vela, dovette affrontare un uragano. In Italia al Box Office Resta con Me ha incassato 3,2 milioni di euro.

“Non aver paura di spiegare le tue vele”

Dalila De Benedetto