Prima immagine buco nero: la foto del secolo

Per la prima volta è stato fotografato un buco nero. Dopo che nel 2016 le onde gravitazionali hanno dimostrato l’esistenza di questi misteriosi oggetti cosmici, arriva la prima prova diretta e l’immagine che lo testimonia è quella del buco nero M 87, al centro della galassia Virgo A (o M87), distante circa 55 milioni di anni luce. Al risultato del progetto internazionale Event Horizon Telescope (Eht), l’Italia ha partecipato con Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) e Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn).

 

La prima fotografia di un buco nero, si trova nella galassia M87, a 55 milioni di anni luce dalla Terra (fonte: Collaborazione EHT) © Ansa
Nella foto l’ombra di un buco nero con la massa di 6 miliardi di Soli 

E’ stato rivelato dalla sua ombra, che appare come una sorta di anello rossastro, il buco nero al centro della galassia M87 con la massa di sei miliardi e mezzo quella del nostro Sole. “Quella che abbiamo visto è l’ombra di un buco nero“, ha detto all’ANSA Luciano Rezzolla, direttore dell’Istituto di Fisica Teorica di Francoforte e membro del comitato scientifico della collaborazione Eht (Event Horizon Telescope).

Nei buchi neri supermassicci che si trovano al centro delle galassie, la materia che viene attratta si riscalda e, cadendo nel buco nero, emette luce, parte della quale è osservabile con i radiotelescopi. In queste condizioni fisiche, infatti, è possibile rivelare la cosiddetta zona ‘in ombra’, ossia quella regione di ‘assenza di luce’ e che è tale in quanto la luce al suo interno viene assorbita dall’orizzonte degli eventi“, ha aggiunto riferendosi al confine che separa un buco nero dallo spazio che lo circonda. Questo è un confine matematico dove la forza di gravità è così forte che nulla riesce a sfuggire, nemmeno la luce.

Con i telescopi di Eht abbiamo finalmente raggiunto una risoluzione sufficiente per guardare su una scala dell’orizzonte degli eventi“, ha sottolineato. “Dall’interno di questa superficie – ha spiegato Rezzolla – nessuna informazione può essere scambiata con l’esterno. Per questo motivo i buchi neri sono importanti in fisica: il loro orizzonte degli eventi è infatti un limite invalicabile alla nostra capacità di esplorare l’universo”. Dal momento che l’orizzonte degli eventi assorbe tutta la luce, ha proseguito, “per definizione un orizzonte degli eventi non può essere visto direttamente. Tuttavia è possibile predire teoricamente come apparirebbe la regione di plasma che gli è molto prossima. Questo è quello che abbiamo fatto e l’ottimo raccordo tra teoria e osservazioni ci ha convinto che questo è un buco nero come predetto da Einstein“.

La grande novità della prima fotografia di un buco nero è che oggetti cosmici invisibili per definizione per la prima volta possono essere visti e studiati direttamente. “Adesso possiamo finalmente osservarli“, ha detto all’ANSA Rezzolla. Oggi si apre laprima pagina di un libro nel quale è possibile fare osservazioni sempre più accurate di questi oggetti, previsti un secolo fa da Albert Einstein“.

Fin dal 2014 il Consiglio Europeo della Ricerca (Erc), ha finanziato con 14 milioni di euro il progetto Eht e in particolare le ricerche coordinate da Luciano Rezzolla, Heino Falcke, della Radboud University Nijmegen, e Micheal Kramer, della Royal Astronomical Society. A catturare l’immagine rivoluzionaria è stata la rete di otto radiotelescopi che fa parte della collaborazione Event Horizon Telescope (Eht), costituita proprio per riuscire a catturare la foto più ambita dell’astrofisica.

 

Santoro Mangeruca

Muffa alimentare: quando e perché avere paura

La muffa alimentare sembra essere una delle grandi incognite del cibo, poiché quando ci imbattiamo in un alimento attaccato dalla muffa, ci ritroviamo ad affrontare l’amletico dubbio; ovvero se sia meglio togliere soltanto la parte andata a male e non sprecare la restante, o se buttarlo via per intero.

E se tenere l’alimento risultasse la scelta sbagliata, quali rischi correremmo per la nostra salute?
Non tutti gli alimenti sono uguali, per cui reagiscono differentemente se a contatto con la muffa. In ogni caso però, bisogna prestare molta attenzione, perché la muffa alimentare può rivelarsi altamente nociva.

Capiamo perché la muffa alimentare si sviluppa:

Questa compare in presenza di umidità eccessiva, che tende a decomporre l’alimento per poi trasformarlo. La pericolosità è data dalle micotossine e aflatossine, sostanze tossiche prodotte da specie fungine.

La muffa però, non si comporta allo stesso modo su tutti gli alimenti, e su alcuni risulta più pericolosa di altre.

Nel pane ad esempio, non basta grattare via solo la muffa, ma va gettato via tutto. Sotto la parte ammuffita si crea un fungo invisibile a occhio nudo che genera intossicazione e si colloca nella mollica assumendo un sapore dolciastro.

La stessa regola anche per la carne e la frutta a guscio, poiché in questi alimenti risulta essere molto cancerosa; ma per fortuna non è così per tutte le muffe, altrimenti qualsiasi formaggio erborinato o frutto leggermente avariato sarebbe un grave rischio per la salute.

Le muffe davvero pericolose sono formate da colonie di funghi Aspergillo Flavus o Aspergillo parasiticus, che producono le aflatossine, appunto, sostanze genotossiche e mutagene, considerate cancerogene per l’uomo in cui provoca il cancro al fegato.
Gli aspergilli si sviluppano soprattutto su cereali (in particolare mais), sui legumi (soia e fagioli), su semi oleaginosi,(arachidi), sulle spezie e solo quando gli alimenti sono conservati a temperature tra i 25 e i 32 gradi e con tassi di umidità dell’ambiente oltre 80%; per questo lo stoccaggio risulta la fase più critica, specie in Paesi caldo umidi.

Quali rischi corre concretamente la nostra salute?

Alcuni studi hanno messo in relazione la cancerogenicità delle aflatossine con la mutazione del gene p53, un importante oncosoppressore che, se mutato, priva la cellula di una fondamentale protezione contro il cancro.

Se assunte in grande quantità, come avviene in caso di intossicazione acuta (per fortuna rara), le aflatossine provocano emorragie del tratto gastroenterico e dei reni. Epidemie da aflatossine si sono verificate soprattutto in Africa ove non esistono adeguati sistemi di controllo delle coltivazioni e dello stoccaggio dei cereali.

Nel 1993 l’Agenzia Internazionale per Ricerca sul Cancro (IARC) di Lione ha classificato le aflatossine nel gruppo 1 delle sostanze sicuramente cancerogene per l’uomo. Oltre alle intossicazioni acute, le aflatossine possono “avvelenare” lentamente se assunte in basse dosi e per lunghi periodi. Inoltre sono particolarmente pericolose per quelle persone che soffrono già di malattie croniche del fegato.

I controlli non dipendono dai singoli, ma dai sistemi messi a punto dalle autorità per la sicurezza alimentare. Si tratta di sorvegliare i prodotti più a rischio dal campo fino alla tavola. Solo un serio controllo della filiera di coltivazione e produzione consente ai consumatori di essere certi di non correre rischi.
In fase di conservazione casalinga, è bene evitare di consumare prodotti a base di cereali (pane, torte) quando vi sono tracce di muffa, così come è opportuno rispettare le date di scadenza e le modalità di conservazione di frutta secca, noci e spezie.


La muffa però, non manca di un rovescio positivo della medaglia, poiché ve ne sono alcune molto utili, come la pennicillina, un antibiotico isolato da prodotti del metabolismo di alcune specie di Penicillium, e tutte le muffe “buone” che si utilizzano per produrre formaggi come gorgonzola (Penicillium glaucum), Brie (Penicillium candidum), ecc…
Se invece siamo di fronte ad un formaggio stagionato, dove la muffa non è la sua peculiarità, come il parmigiano, basterà rimuovere la parte ammuffita e continuare a mangiare tranquillamente il restante. Vale lo stesso per la frutta.


Se invece parliamo di marmellate, là dove si trova una piccola macchiolina di muffa nel barattolo, basterà asportare la parte che presenta la muffa, e il resto potrà essere mangiato tranquillamente, questo grazie al contenuto di zucchero, perciò occhio a quelle dietetiche, meglio gettarle per intero. Così come per i succhi di frutta, che una volta guasti non vanno ingeriti.

Una soluzione potrebbe sicuramente essere alla foce del problema, lavorando per il canto nostro sulla prevenzione. Per evitare di gettare cibo e sprecare inutilmente denaro, è buona cosa conservare in modo corretto gli alimenti all’interno dei contenitori appositi che mantengono inalterate le proprietà più a lungo; coprirli con pellicole alimentari o panni adatti e consumarli entro 5 giorni.

Giusi Villa

RiDE – il drammatico leggero della sensibilità di Valerio Mastandrea

 

L’opera prima è sempre un’emozione grande. Molti non sanno descriverla, altri pensano di aver fatto una stronzata – passatemi il termine, bonariamente – e Valerio Mastandrea, uno degli attori di punta della recitazione italiana contemporanea, ha sentimenti ingarbugliati tra loro riguardo la sua opera prima da regista: RiDE (si legge con pronuncia italiana per chi avesse il dubbio). UniVersoMe ha avuto l’ opportunità di incontrarlo al Multisala Iris di Messina, durante una tappa del suo tour per i cinema italiani “Esco in tour”.

 

©LauraLaRosa Chiara Martegiani e Valerio Mastandrea, Multisala Iris – Messina, Aprile 2019

 

Il film è il perfetto equilibrio tra un desiderio di svegliare le coscienze ed alleggerirle con il sarcasmo che contraddistingue il regista nelle proprie performance. La denuncia è quella delle morti bianche sul posto di lavoro: una critica sottile sugli atteggiamenti che socialmente riteniamo obbligatori quando subiamo un lutto, ma che Carolina – interpretata egregiamente da Chiara Martegiani – non riesce a rispettare. Il marito è morto da una settimana, e da una settimana lei non riesce a piangere. Neanche il figlio di 12 anni ci riesce. Lei prova in tutti i modi, fino a quando…
No fino a quando niente, qui non faccio spoiler. Vi consiglio di vederlo!

©LauraLaRosa, Valerio Mastandrea – Multisala Iris, Messina Aprile 2019

Intanto come avevo anticipato, Mastandrea e Martegiani erano presenti in sala: c’è stato un dibattito interessante tra il pubblico e i due attori. La sala si è perfettamente prestata per le domande, le foto e per la mia occasione di scambiare con loro qualche parola.

Prima ho incrociato Chiara, tra un complimento e l’altro, mi ha spiegato che la recitazione in Italia, specie per le donne, è una carriera molto precaria: le porte in faccia sono tante ma più per un modo di fare che per concreta mancanza di talento. La domanda mi è sorta spontanea:

Cosa consigli ai giovani aspiranti attori?

Eh… è una passione che si doma difficilmente, il lavoro è sempre una scoperta, bella o brutta che sia. Il mio consiglio è di puntate sui progetti, non bisogna smettere di creare, di informarsi e di continuare a crederci. Non è facile, queste cose non le dicono spesso, non sempre è questa realtà che traspare.

E distrutto dalla giornata becco Mastandrea, lo raggiungo con in mano un taccuino minaccioso che a mezzanotte – ammetto – avrebbe terrorizzato chiunque. Ma, come un cavaliere senza macchia e senza paura si è sorbito le mie domande con tanta gentilezza.

©LauraLaRosa Mastandrea e Giulia con il minaccioso taccuino – Multisala Iris, Aprile 2019

Il tuo debutto da regista esplode con un film ricco di ribellione e presa di coscienza, il cinema riesce a comunicare nella nostra società? Cioè quanto può influire, quanto è forte la sua risonanza?

Dovrebbe essere il compito del cinema raccontare la società e non solo, soprattutto le persone, mostrare la realtà attraverso le persone. Questo non significa che debbano essere girati film gravi, “pesanti” , anche una commedia può raccontare un sacco di cose. I generi cinematografici aiutano molto.

Ridere si può definire un inno alla libertà di soffrire? In un’intervista avevi spiegato che questi sono tempi in cui è difficile soffrire…

Certo, forse più al diritto. Ma non proprio di soffrire, persino stare male, non solo essere felici… male visto il bombardamento che subiamo costantemente di modelli di felicità. Ce l’hai Instagram te? Vedi quanto è felice la gente? D’estate, d’inverno. Se uno sta un po’ giù e vede la foto di un posto in cui non potrà andare, come si sente? Potrebbe soffrire, quindi la libertà di stare come ti pare è compromessa, e anche quella di soffrire. Come racconta la storia, la protagonista è una persona non riesce ad avere un rapporto con il proprio dolore, non ce la fa perché sta sotto i riflettori, perchè è tirata da una parte e dall’altra.

 

Foto del backstage di RiDE

 

Da un punto di vista tecnico la fotografia del film appare curata nei dettagli, a volte pecca nell’identità della stessa, ma sfrutta le inquadrature e i movimenti che accompagnano attori in campo. Quando hai iniziato a girare avevi già in mente le scene o si sono sviluppate durante?

Solo i grandi registi hanno in mente il film. Io, infatti, non avevo idea di nulla. Tante scene ed inquadrature sono venute naturali, nel cinema comunque ci sono delle immagini che se vogliono trasmettere un determinato significato, una specifica sensazione, vanno sincronizzate al movimento e all’ambiente in cui vengono girate. Io ho avuto una bella squadra con cui mi sono potuto confrontare, e menomale perché è stato il campo su cui mi sono soffermato di meno e mi dispiace adesso, riguardandolo ogni volta spunta qualcosa che avrei potuto fare diversamente, migliorare ecco. 

 

©LauraLaRosa, Multisala Iris – Messina, Aprile 2019

 

Anche se breve è stata un’intensa e divertente intervista – tra risate e sano sarcasmo non vedo l’ora di vedere cosa sfornerà di nuovo l’attore romano. Ha detto che ci vorrà tempo, si farà desiderare… ma per le domande rimaste in sospeso, caro Valerio, se ribeccamo.

 

 

Giulia Greco

 

 

 

Bancomat clonati a Taormina, in manette una banda bulgara

 

 

La banda Bulgara composta da 3 elementi, attraverso inventiva e una buona padronanza nell’uso di strumenti tecnologici, riusciva in un primo momento a manomettere gli sportelli bancomat con uno skinner e successivamente captava i codici delle carte di credito clonandole per prelevare poi il denaro.

Grazie alle telecamere di sorveglianza i malviventi sono stati individuati e riconosciuti dalle autoritá locali, attualmente peró soltanto due dei tre elementi della banda si trovano dietro le sbarre; il terzo individuo risulta ancora irreperibile.

Secondo i recenti sviluppi delle indagini, l’ultimo membro della gang dovrebbe trovarsi ancora a piede libero in Bulgaria.

Pietro Inferrera

Brain On Fire – My month of madness

La vera storia di una rinascita. Voto UvM: 5/5

 

 

 

 

 

La giovane giornalista del New York Post Susannah Cahalan (Chloë Grace Moretz) a soli 21 anni vive la vita che ha sempre desiderato: è indipendente, all’inizio di una promettente carriera e alle prese con un amore appena sbocciato, Stephen (Thomas Mann), un giovane chitarrista con la testa fra le nuvole che spera di sfondare nel mondo della musica. 

Ma non succede quasi sempre così? Non è quando tutto sembra andare per il meglio, quando si abbassa la guardia, che accade l’inimmaginabile? In questo caso, l’inspiegabile.

Susannah comincia a sentirsi perennemente stanca, confusa, fatica a rimanere concentrata e presente anche durante la più banale delle conversazioni, perde il senso del tempo, inizia ad avere vere e proprie allucinazioni, diventa esageratamente irascibile al punto da venire allontanata dall’ufficio; si auto-diagnostica un disturbo della personalità ma si rifiuta di prendere gli psicofarmaci che le ha prescritto lo psicoterapeuta; assomiglia sempre meno a se stessa, diventa violenta fino a spaventare anche i genitori che decidono di farla ricoverare.

 

 

A questo punto prima ancora che con la malattia, la famiglia di Susannah ingaggia una lotta all’ultimo sangue con i medici che, non riuscendo a diagnosticarle nulla, vista la negatività di tutti gli esami, cercano di etichettarla prima come psicotica, poi come depressa bipolare, epilettica e infine schizofrenica per farla trasferire in un ospedale psichiatrico.

 

 

Mentre Susannah viene risucchiata in un buco nero da cui sembra non poter più uscire, è struggente vedere come i genitori non si arrendano e continuino a fare pressione ai medici per avere delle risposte e continuare le ricerche; come Stephen, con i suoi vestiti stropicciati e i capelli  spettinati, sia sempre presente, anche a costo di dormire nel corridoio dell’ospedale; Stephen che con le sue canzoni cerca di riportare indietro quella ragazza che sembra sempre meno la sua Susannah, che non parla, che non si muove più, che sembra spegnersi piano piano nonostante i macchinari dicano tutto il contrario.

Proprio quando sembra non esserci più alcuna speranza, viene chiesto il parere del dottor Najjar, ormai ritiratosi dall’esercizio in ospedale e divenuto professore. L’uomo, in un primo momento restio, non può che rimanere ben presto coinvolto dal caso di Susannah, e vi si immerge completamente. Pensa a lei giorno e notte; pensa a quella ragazza così giovane e piena di vita che si è persa ma che è ancora là da qualche parte, che ha ancora tanto da fare, che vuole essere ritrovata.

E ci riesce, a ritrovarla, con un test molto semplice: le chiede di disegnare un orologio e inscriverci dentro i numeri da 1 a 12; e questa è la conferma della sua intuizione: Susannah disegna i numeri concentrati solo ed esclusivamente nella parte destra dell’orologio; le viene così diagnosticata l’ encefalite da anticorpi anti-NMDA: si tratta di un disordine del sistema immunitario, dove gli anticorpi attaccano il cervello; nel caso di Susannah proprio l’emisfero destro. Se non si fosse intervenuti in tempo non si sarebbe riusciti a recuperarla, sarebbe morta di certo.

“Io sono stata fortunata, perchè in un sistema fatto per perdere gente come me, grazie al dottor Najjar sono stata ritrovata, lui mi ha ritrovata. Ho dovuto imparare tutto una seconda volta, da zero, come camminare di nuovo, parlare di nuovo, sorridere, essere una figlia, amare Stephen, scrivere. Ho dovuto imparare di nuovo ad esistere.”

Susannah era stata data per pazza, era stata data per persa, ma Najjar, i suoi genitori e Stephen non si sono arresi; lei non si è arresa. Si è rimessa in piedi, ha ripreso in mano la propria vita sfruttando la seconda possibilità che le è stata data dal miracolo della medicina.

 

 

Brain on fire è un film del 2015, regia di Gerard Barret, ispirato alla storia vera di Susannah Cahalan, una storia vera di vita, sofferenza, amore, speranza, vittoria.

Uno di quei pochi film di questo genere che ti lascia con gli occhi lucidi, ma per la gioia.

Alice Caccamo

 

 

 

 

 

Arriva la nuova carta di identità “Intelligente”

 

 

Arriva la nuova carta d’identità con le impronte digitali: tutti i Paesi Ue dovranno sostituire i documenti. 

La vecchia carta d’identità cartacea non esisterà più.

Verranno introdotti a livello comunitario dei nuovi standard per tutti i documenti d’identità degli Stati Ue.

Impronte digitali, foto biometriche e un chip elettronico per la lettura veloce dei dati, e ancora: tutti i nuovi documenti includeranno anche la bandiera azzurra stellata dell’Unione europea.

L’obiettivo dichiarato di Bruxelles è quello di scoraggiare l’uso di documenti falsi e porre fine alle varie tipologie di attestati di riconoscimento in circolazione negli Stati membri.

Si calcola infatti che ci siano almeno 86 diverse versioni di carte d’identità in Europa e 181 tipi di documenti di soggiorno.

 

La raccolta di massa delle impronte digitali, ha scatenato però il dissenso da parte di cinque associazioni non governative che chiedono di respingere la raccolta di impronte che costituirebbe “una violazione sproporzionata dei diritti alla privacy e alla protezione dei dati”.

Malgrado le proteste il provvedimento all’Eurocamera è arrivato con 335 favorevoli, 269 contrari e 21 astenuti.

Schierati a favore i parlamentari di M5s, Pd e Forza Italia.

 

Benedetta Sisinni

 

 

 

Said Mechaouat: killer di Stefano Leo, libero per errore

L’omicidio di Stefano Leo, avvenuto lo scorso sabato 23 febbraio lungo i Murazzi, zona degli argini del Po a Torino, risulta ancora più ingiusto alle luce delle nuove notizie.

 

 

Leo, giovane di Biella, 34 anni, era uscito di casa come ogni giorno per andare al lavoro, nessuno avrebbe potuto sospettare il tragico epilogo verificatosi.

L’assassino e Stefano non avevano mai avuto nessun tipo di rapporto prima della vicenda.

Tutto è avvenuto in una zona centrale , in cima al viale pedonale di Lungo Po Machiavelli, dove Said affiancandosi a Stefano lo ha accoltellato, sgozzandolo senza nessun perché.

Ciò che ha lasciato in sgomento la città e non solo, è stato il movente del reo, il quale avrebbe dichiarato  a verbale:

volevo ammazzare un ragazzo come me, togliergli tutte le promesse che aveva, dei figli, toglierlo ai suoi amici e parenti”.

 

 

Risulta davvero inaccettabile che un ragazzo possa perdere la vita senza una ragione di fondo, e ancor di più la questione si aggrava alle luce delle nuove notizie le quali dimostrano che a carico di Said Mechaouat, 27 anni di origine marocchina, sarebbe dovuto essere in carcere, con sentenza definitiva, poiché era stato condannato a un anno e sei mesi per maltrattamenti in famiglia.

La condanna di primo grado era stata firmata dal giudice Giulia Casalegno lo scorso 20 giugno 2016; a Said inoltre era stata negata la possibilità di ottenere la condizionale per via dei suoi precedenti.

Stando a quanto detto da fonti interpellate dall’ANSA, ci sarebbe stato un intoppo nella trasmissione dei documenti dalla Corte d’appello alla procura presso il tribunale: la procura di Torino non avrebbe ricevuto la comunicazione della corte d’appello di quanto avvenuto, da qui si sarebbe verificata l’impossibilità dell’esecuzione della sentenza.

Inoltre non era la prima volta che a Torino le luci fossero puntate sulla corte d’appello.

Nel corso degli anni si sono ripetuti diversi ritardi a causa della quantità di fascicoli e della scarsità del personale: come quello avvenuto nel febbraio del 2017, dove i magistrati chiesero pubblicamente scusa al popolo, in piena udienza, perché un fascicolo per violenza sessuale era caduto  in prescrizione.

Ciò che ad oggi fa più rabbia è che un giovane di 34 anni, senza avere nessuna colpa, abbia perso la vita solo per l’infelicità e il comportamento agghiacciante di un altro individuo, il quale se non fosse stato per un ritardo nella trasmissione, probabilmente commesso dalla Cancelleria della Corte d’appello di Torino, sarebbe già in carcere e forse Stefano sarebbe qui con noi.

 

Eleonora Genovese

SOS alimentare: fermiamo lo spreco

 

 

 

Ogni giorno finiscono nella pattumiera chili di cibo che potrebbero essere riutilizzati.

Sono numeri impressionanti quelli legati allo spreco alimentare; eppure una nuova coscienza sta emergendo e i dati sembrerebbero incoraggianti, infatti, negli ultimi anni si tende a sprecare di meno.

Di questi giorni è la notizia che anche in Italia arriva “Too Good To Go”, l’app nata nel 2015 in Danimarca per combattere lo spreco alimentare.

Ma quanto ci costa il cibo buttato? I dati su scala nazionale sono allarmanti sia per quanto riguarda il consumo domestico sia per ciò che concerne gli esercizi pubblici.

Oltre quindici miliardi di euro, pari a quasi l’1% del Prodotto interno lordo del Paese.

Tutti noi per mille motivi sprechiamo una parte del cibo che abbiamo in casa.

Alle volte perché ne compriamo in eccesso, altre perchè ce lo dimentichiamo e lasciamo che scada nel frigorifero o ancora perché quando cuciniamo finiamo per commettere qualche errore.

Il grosso dello spreco (all’incirca l’80%) è rappresentato da quello domestico; di questo la metà è rappresentata dal cibo non consumato in tempo.

Seguono poi gli acquisti sbagliati e l’eccesso di prodotti cucinati e serviti in tavola e dunque avanzati e gettati nel cestino.

A fare la parte del leone dei cibi avanzti è la verdura, che sfiora il 25%, seguita da latte e latticini e dalla frutta.

La situazione però è in netto miglioramento negli ultimi anni: gli italiani iniziano a portare a casa l’avanzo dal ristorante e tra le mura domestiche insegnano ai figli a non sprecare.

 

Piero Cento

La plastica: una tecnologia straordinaria di una specie animale scellerata

La parola “plastica” deriva dal greco e sta a significare «l’arte che riguarda il modellare» oppure le sostanze che sono facilmente malleabili.

Ci sono molte sostanze plastiche presenti in natura ad esempio la creta, l’argilla, la cera, lo stucco ecc. Tuttavia oggi si identifica con “plastica” tutti quei polimeri a grande peso molecolare sintetizzati dall’uomo che hanno la proprietà di essere facilmente lavorati e di assumere e mantenere una forma.

Con plastica non si identifica uno specifico composto chimico, ma un’insieme assai vasto ed eterogeneo di polimeri.

Ad esempio:

  • il PET
A “piccolo ingrandimento” la struttura del monomero che si ripete per formare il singolo polimero. Più polimeri costituiranno il materiale plastico in questione.

 

Il PET a grande ingrandimento.

 

  • Il PS, o polistirene, o polistirolo

 

 

 

 

 

 

Da dove derivano le plastiche? 

Le plastiche si ottengono a partire o da polimeri naturali, come la cellulosa o la caseina, o da idrocarburi leggeri, quali il petrolio e il metano. Quest’ultime si chiamano “plastiche sintetiche”, la cui produzione rappresentò una rivoluzione nella storia di questi composti.

Lavorazione. 

Al calore le plastiche hanno un diverso comportamento. Alcune di esse si induriscono e prendono una forma pressoché irreversibile e sono dette termoindurenti o resine.

Altre invece sono termoplastiche poiché sottoposte ad alte temperature si comportano al contrario, perdono la loro forma per riprenderla una volta raffredate.

Su queste due particolari proprietà si basano i loro processi di lavorazione.

Per avere una panoramica molto generica ma sintetica della loro lavorazione vi consiglio la visione di questo simpatico video. Una lavorazione di un’efficacia disarmante, che abbatte i costi e i tempi di produzione.

 

 

Com’è nata la plastica? 

La prima plastica viene sintetizzata nel 1861 e viene chiamata Xylonite, utilizzata per scatole e manici, ma avrà poco successo.

Dobbiamo aspettare ancora 10 anni per assistere al primo vero e grande successo della plastica: viene inventata la celluloide, finalizzata a sostituire il costoso avorio che serviva per fabbricare le palle del biliardo.

 

 

La celluloide successivamente viene anche utilizzata per la produzione di rullini fotografici (per chi se li ricorda ancora) e pellicole per i film.

Tuttavia era molto infiammabile e non erano rari gli incendi nelle sale cinematografiche, come viene raccontato anche nel film di Giuseppe Tornatore “Nuovo Cinema Paradiso”.

Infatti successivamente, intorno al 1940, la celluloide venne sostituita con plastiche sintetiche (l’acetato di cellulosa e, in seguito, il poliestere) più sicure e meno infiammabili.

Oggi con la celluloide si producono le palline da ping pong e poco più.

 

Prime plastiche sintetiche. 

Nel 1910 venne inventata la Bakelite: prima plastica termoindurente. Ancora oggi usata per i manici delle PENTOLE.

Nel 1926 il PVC le cui applicazioni più rilevanti sono la produzione di tubi per edilizia (per esempio grondaie e tubi per acqua potabile), cavi elettrici, profili per finestra, pavimenti vinilici, pellicola rigida e plastificata per imballi e cartotecnica, e i famosi dischi in vinile.

Nel 1928 nasce il polimetilmetacrilato (PMMA). Tra gli esempi delle sue applicazioni si annoverano i fanali posteriori delle automobili, le barriere di protezione negli stadi e le grandi finestre degli acquari; ma uno dei maggiori mercati è il settore bagno dove viene impiegato per la realizzazione di vasche da bagno e piatti doccia.

Nel 1935 in America nasce il nylon, la fibra sintetica usata per i tessuti e nella pesca sportiva.

Nel 1953 in Inghilterra si inventa il polietilene, con la quale viene fabbricata la pellicola per alimenti.

Nel 1954 l’italiano Giulio Natta inventa il polipropilene isolattico, per confezionare prodotti alimentari

La plastica oggi. 

La plastica rappresenta una delle innovazioni tecnologiche più importanti della storia dell’umanità.

Ha rivoluzionato quasi tutti i settori commerciali: dal trasporto al confezionamento di prodotti alimentari, dall’automobilismo all’areonautica.

Viene utilizzata per la produzione di oggetti di design, computer, smartphone e abbigliamento.

La sua espansione sembra non arrestarsi. Tuttavia qual è veramente il problema che sta dietro a questi composti?

Il problema non risiede nella plastica in sé, ma nel come l’uomo sia stato poco lungimirante nell’utilizzarla senza limiti e misure.

Abbiamo fatto due semplici errori che messi assieme hanno portato ai disastri ecologici a cui stiamo assistendo in questi anni: la realizzazione di un materiale pressoché indistruttibile agli agenti fisici, chimici e biologici dell’ambiente e come secondo errore l’uso di questo materiale come “uso e getta”.

 

 

E’ stata proprio la nascita della plastica a dar vita a questa nuova tipologia di prodotti.

I nostri nonni si sarebbero sognati di utilizzare piatti, bottiglie e posate usa e getta, poiché questi avevano un costo ed era molto meglio lavarli e riusarli per tutta la vita.

Adesso l’abitudine dell’usa e getta ha notevolmente aumentato il volume di rifiuti che ogni giorno produciamo. Basti pensare che già un caffè al bar da “portare via” è un mucchietto di rifiuti che 50 anni fa non sarebbe mai esistito.

 

 

Da un lato c’è l’ingegno dell’uomo che riesce a creare una tecnologia straordinaria che concorre alla realizzazione del nostro benessere, dall’altra la sua scelleratezza e poca lungimiranza nel riflettere su quali possibili conseguenze ha quell’uso spropositato di tale tecnologia.

 

 

 

 

Ricordiamoci che la plastica è nata per sostituire l’avorio delle palle da biliardo. Oserei dire che è nata come prodotto ecologico al fine di abbattere i costi di produzione e risparmiare le vite degli elefanti.

Successivamente ha sostituito, però, non necessariamente altri prodotti. La notizia che più di tutte mi ha sconvolto è l’esistenza di un isola tra la California e le isole Hawaii grande 3 volte la Francia con 80.000 tonnellate di rifiuti che galleggiano sul letto dell’oceano.

Questi sono i rifiuti che galleggiano, possiamo solo immaginare cosa c’è sotto.

 

Cosa possiamo fare? 

Ridurre l’uso di prodotti usa e getta. Promuovere una raccolta differenziata. Riutilizzare le plastiche che compriamo, con un pò di ingegno si possono usare per farci qualsiasi cosa così da risparmiare.

Andare a fare una bella passeggiata a Torre Faro con una busta per la raccolta di rifiuti, non immaginerete nemmeno quanta plastica c’è in quelle spiagge. Questo quello che possiamo fare noi.

Il mondo?

Una soluzione all’inquinamento da plastica può venire dall’incremento della loro biodegradabilità; con l’aggiunta di sostanze sensibili alle radiazioni ultraviolette in modo tale da accelerare la degradabilità delle plastiche a opera della luce solare; oppure dalla biogenetica, la quale punta sulla selezione di batteri in grado di degradare i polimeri sintetici.

 

Francesco Calò 

Speranza per Manuel

 

Due studiosi di Losanna creano una nuova tecnica per far camminare i paraplegici.

Ancora si parla solamente di un’ipotesi che richiederà molte verifiche, ma per il giovane nuotatore diciannovenne Manuel Bortuzzo vittima di un agguato lo scorso febbraio, vi è una buona speranza di tornare alla vita di sempre.

Il miracolo potrebbe arrivare dalla nuova tecnica di stimolazione elettrica del midollo spinale ‘wireless’ che ha permesso a 6 persone paraplegiche di tornare a camminare. Ad ipotizzarlo è Grégoire Courtine, del Politecnico Federale di Losanna, il cui gruppo di ricerca ha ideato la tecnica denominata “Stimo”, insieme a Jocelyne Bloch del Policlinico Universitario di Losanna.

Courtine comunque, durante le dichiarazioni rilasciate ha affermato : “ancora è prematuro parlarne, ma Manuel potrebbe rispondere al trattamento.

Il prossimo anno, ha spiegato, verrà infatti avviata la sperimentazione della tecnica su pazienti con lesioni spinali recenti e si potrebbe ipotizzare di valutare, se le verifiche del caso ne confermeranno l’opportunità, l’eventuale inserimento di Manuel. Courtine ha tenuto a precisare che si tratta solo di un'”ipotesi” e di non aver conosciuto personalmente Manuel. Ha inoltre sottolineato che il caso di Manuel è “complesso” poichè la lesione spinale è stata determinata da un proiettile.

Al momento, dunque, non c’è alcuna certezza del fatto che la tecnica di stimolazione wireless possa essere utilizzata per il giovane italiano.

Tuttavia i risultati finora ottenuti con la tecnica Stimo (STImulation Movement Overground), che veicola impulsi di stimolazione elettrica midollare attraverso un impianto senza fili, lasciano infatti ben sperare. “Abbiamo dimostrato – spiega Courtine – un miglioramento della funzione neurologica in questi pazienti e ciò è sorprendente. Per 2 dei 6 pazienti, inoltre, si è registrato un miglioramento del controllo della funzionalità degli arti anche quando la stimolazione elettrica veniva spenta“.

Il prossimo passo, annuncia, “sarà migliorare i dispositivi, rendendo la tecnica più fruibile. Attualmente la stimolazione è fatta posizionando un pace-maker a livello lombare nel paziente, ed un’antenna posizionata sull’addome invia il comando di stimolazione midollare. L’operazione è controllata da un piccolo tablet. L’obiettivo è arrivare ad inviare il comando di stimolazione attraverso Iphone o Iwatch“.

Il ricercatore svizzero dunque conclude affermando che sul versante terapeutico la tecnica è stata utilizzata solamente su individui con lesioni spinali “vecchie”, ma i test sui topi hanno fatto ben sperare e quindi dal 2020 verrà avviata una sperimentazione sui pazienti con lesioni spinali recenti.

Antonio Gullì