Jonicofest 2025: a Furci Siculo la primavera esplode

Il 25 aprile il Parco Furci Verde si trasforma in un palcoscenico a cielo aperto per celebrare la Riviera Jonica tra artisti emergenti, comicità e street food.

Sarà una giornata di festa, tradizione e pura energia quella che animerà il 25 aprile 2025 a Furci Siculo. Torna infatti lo Jonicofest, l’evento gratuito che ormai si afferma come tappa imprescindibile per chi vuole vivere la Riviera Jonica tra musica dal vivo, ballo, comicità e sapori locali.

Il Parco Furci Verde, cuore pulsante della cittadina, ospiterà dalle ore 11 fino a tarda sera un ricco programma pensato per tutte le età.

Organizzato dalle associazioni Jonicache e Morgana, in collaborazione con la Pro Loco e con il patrocinio del Comune e dell’Assemblea Regionale Siciliana, il festival intende valorizzare il territorio e i suoi talenti, creando un ponte tra cultura popolare e creatività contemporanea.

Musica, danza e risate sul palco

Tra gli ospiti musicali, una carrellata di nomi che spaziano tra generi e sensibilità: da GLT-Bless a Elena Rizzo, dai Seaside Promenade a The Isotopes, fino alle voci di Barbara Ceccio, Neolle, Debora Ferrero, Sono Mole, e molti altri. Un’occasione preziosa per scoprire nuove sonorità e applaudire artisti del territorio.

Ad accendere il palco anche i corpi di ballo The Diamonds of Dance, Diletta Dance Academy, Asia e Domenico, Passione Danza, mentre il sorriso sarà garantito dall’irresistibile ironia del comico Cateno de Clò. Chiuderà la serata il DJ Set Contest con Salvo Basile, Carmelo Puliatti e Cesare Delgado, pronti a far ballare il pubblico fino all’ultima nota.

Il gusto della festa: street food e tradizioni culinarie

Ampio spazio anche all’enogastronomia con oltre 10 punti ristoro tra specialità locali e street food. Dai maccheroni al pistacchio di Pasta e Fantasia alle cuzzole calde de La Cuzzola, passando per gli arancini gourmet di Era Ura, l’insalata di mare croccante di Sapori di Mare, i panini con salsiccia della Pro Loco, e i dolci artigianali di Yogorino. Il tutto accompagnato dal vino ufficiale della manifestazione, offerto dalla Cantina Catarussa.

Una festa aperta a tutti

Lo Jonicofest 2025 è gratuito e pensato per tutti: famiglie, giovani, appassionati di musica, curiosi e buongustai. Un’occasione unica per celebrare la primavera con uno sguardo rivolto al futuro, ma con radici ben piantate nella cultura jonica.

Il 25 aprile, a Furci Siculo, la festa è servita.

Gaetano Aspa

Il ruolo dell’Arte nell’educazione alla sostenibilità

La Sostenibilità: Una Sfida Urgente e Culturale

Oggi, il tema della sostenibilità rappresenta una delle questioni più urgenti e complesse del nostro tempo.

Eventi climatici estremi, scioglimento dei ghiacci, perdita di biodiversità, inquinamento diffuso sono tutti segnali che non possono più essere ignorati. Eppure, nonostante i dati scientifici siano sempre più allarmanti, il cambiamento procede lentamente.

Perché?

La sostenibilità non può essere solo una questione tecnica, fatta di normative, statistiche o tecnologie. È anche, e soprattutto, una questione culturale che richiede un cambio di mentalità.

Ha bisogno anche di narrazioni, di immagini, di emozioni: ha bisogno dell’arte. Perché è attraverso la cultura che possiamo costruire una nuova visione del futuro.

L’arte permette, infatti, di trasformare la percezione, educare allo stupore, ricordarci la bellezza e la fragilità del mondo naturale.

In un’epoca di overload informativo (sovraccarico di informazioni) e disconnessione emotiva, l’arte può riaccendere quel legame profondo con la natura che la modernità ha spesso reciso.

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Effetti del cambiamento climatico.
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La rappresentazione della natura nella storia dell’arte

La natura è sempre stata una delle protagoniste principali dell’arte. Fin dalle origini, l’essere umano ha sentito il bisogno di rappresentare il mondo naturale che lo circondava non solo per documentarlo, ma per dargli un senso, celebrarlo, o temerlo.

Già nelle pitture rupestri, decine di migliaia di anni fa, troviamo rappresentazioni della fauna: immagini potenti, spesso legate al rapporto spirituale e simbolico con la caccia e la sopravvivenza. Qui, la natura non è sfondo, ma protagonista assoluta.

Nel Rinascimento, la natura si fa armonia e ordine. Maestri come Leonardo da Vinci osservano piante, animali, paesaggi naturali contemporaneamente con occhio scientifico e artistico, rendendoli parti integranti delle opere.

Esempio emblematico è la pittura di Caravaggio, precursore del naturalismo pittorico, per la sua capacità di rappresentare la realtà con assoluta fedeltà e assenza di idealizzazione.

Con il Romanticismo, la natura esplode in tutta la sua forza. I paesaggi diventano espressione dello stato d’animo umano. Basti pensare ad opere come “Viandante sul mare di nebbia” di Caspar David Friedrich, dove la natura è immensa, sublime, a tratti minacciosa, specchio dell’infinito e dell’ignoto.

Anche gli Impressionisti celebrano la natura nella sua luce mutevole, nei suoi riflessi, nella vita quotidiana all’aperto, con l’intento di racchiudere emozioni autentiche.

Nel Novecento, la natura non è solo rappresentata: diventa materia. La Land Art è un movimento artistico in cui l’ambiente naturale è allo stesso tempo mezzo e messaggio.

Questa evoluzione della rappresentazione artistica della natura mostra quanto essa sia stata non solo fonte d’ispirazione, ma anche riflesso dei cambiamenti nel pensiero umano: da divinità temuta a risorsa da studiare, da bellezza da contemplare a organismo vivente da rispettare e con cui convivere.

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“Canestra di frutta”, Caravaggio, 1597-1600.
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Oggi: l’Arte come strumento di sensibilizzazione ambientale

Nel contesto attuale, segnato da emergenze ambientali sempre più evidenti, l’arte ha assunto un nuovo ruolo: non solo rappresentare la natura, ma anche difenderla.

Sono sempre più numerosi gli artisti che si fanno portavoce di una coscienza ecologica, usando il proprio linguaggio per porre domande, scuotere le coscienze, stimolare il cambiamento. È nata così una vera e propria corrente: l’eco-art, un’arte impegnata, che mette al centro il rapporto tra uomo e ambiente, spesso con un approccio critico e sperimentale.

Molti artisti, inoltre, utilizzano materiali di scarto o riciclati per sensibilizzare sul tema dei rifiuti.

Ci sono, poi, progetti partecipativi e comunitari, in cui l’arte diventa uno strumento per coinvolgere le persone in attività sociali volte a trasformare spazi degradati e generare una nuova relazione con il territorio.

In tutte queste forme, l’obiettivo è chiaro: rendere visibile ciò che spesso è invisibile, toccare corde emotive, creare consapevolezza. Perché l’arte, oggi più che mai, può essere un ponte tra la conoscenza e l’azione.

Perché, in fondo, ogni gesto sostenibile nasce da una domanda antica e semplice: che mondo vogliamo lasciare? E forse è proprio l’arte, ancora una volta, a suggerirci la risposta.

 

Antonella Sauta

Il mito del Grind e della Produttività: produrre significa vivere?

Viviamo in un’epoca che ha trasformato la produttività in una religione, con i suoi dogmi, i suoi sacerdoti e le sue eresie. Ogni giorno siamo bombardati da video, podcast e post motivazionali che ci spingono a massimizzare il nostro tempo, a svegliarci alle 4 del mattino per meditare, docce fredde, allenarci e leggere un libro prima che il resto del mondo apra gli occhi.

Ma cosa significa davvero essere produttivi? E soprattutto, questa incessante corsa all’efficienza ci sta davvero rendendo più felici e realizzati?

L’illusione della produttività infinita

Negli ultimi anni, il concetto di produttività si è trasformato in un dogma. I social network sono invasi da figure come i “guru della finanza” e da influencer che consigliano di eliminare ogni distrazione, dormire meno e trasformare ogni momento libero in un’opportunità di guadagno, monetizzare le proprie passioni, ignorando completamente le implicazioni sulla salute mentale e fisica. Frasi come “lavora mentre gli altri dormono” o “se non sei ricco è colpa tua” sono diventate i mantra di questa nuova ondata di business online.

Tutto questo va a discapito dei giovani, che si ritrovano dentro un meccanismo perfetto: gli insegnano che il tempo è denaro, che riposarsi è una colpa, che ogni momento libero è uno spreco se non viene investito nella costruzione di un capitale, di un curriculum, di una carriera. Lo addestrano a non bastare mai a se stesso: deve migliorare, deve ottimizzare, deve lavorare di più. Non è più un uomo, è un’azienda.

Il suo corpo deve farsi strumento, la sua mente una catena di montaggio. Ogni minuto dev’essere riempito di qualcosa di utile. E nel frattempo la vita gli scorre tra le dita come sabbia, e non lo sa.

 

Grind
Il tempo è denaro. Fonte: sapere.virgilio.it

Il “Grind” e il paradosso del Burnout

Il mito del “grind” si fonda su una promessa tanto seducente quanto ingannevole: se lavori senza sosta, sarai premiato con il successo. Il problema principale di questa narrazione è che ignora la realtà biologica e psicologica dell’essere umano. Tuttavia, la realtà è ben diversa: il successo dipende da molteplici fattori, inclusi privilegi sociali, opportunità economiche e perfino fortuna. L’idea che chiunque possa diventare un milionario solo con la forza di volontà è una semplificazione che ignora le complessità della vita reale.

Lavorare incessantemente non significa essere più produttivi: dopo un certo punto, la mancanza di riposo porta a un calo drastico della creatività e dell’efficienza, oltre che a gravi problemi di stress, ansia e burnout. Chi si spinge oltre i propri limiti finisce per perdere lucidità, creatività e motivazione. Le aziende e la società moderna incentivano questa corsa alla performance senza sosta, ma raramente si preoccupano delle sue conseguenze a lungo termine.

Molti studi dimostrano che la produttività non è direttamente proporzionale alle ore di lavoro, anzi, in molti casi la riduzione dell’orario lavorativo ha portato a risultati migliori. Paesi come la Finlandia e aziende come Microsoft Giappone hanno sperimentato settimane lavorative più brevi ottenendo un incremento della produttività e un miglioramento del benessere dei lavoratori.

 

Grind
Fonte: manageyourlife.it

Il vero lusso contemporaneo è fermarsi

Ma quale vita si sta costruendo questo uomo nuovo? Egli non ama, non gioca, non si ferma mai a guardare il tramonto. L’arte non gli serve, la poesia lo annoia, il pensiero lo distrae. Deve lavorare. Sempre. Deve correre. Sempre. Come il bue sotto il giogo, come l’ingranaggio dentro la macchina.

Questo mondo che produce senza sosta non ha generato più bellezza, più amore, più felicità. Ha solo prodotto stanchezza. Stanchezza nei volti spenti dei giovani, stanchezza nelle rughe premature degli adulti, stanchezza nelle città che non dormono mai.

Ribellarsi non significa rifiutare il lavoro, ma rifiutare questa religione della produttività che non ammette pause, non concede respiro. Ribellarsi significa camminare senza meta, significa guardare il cielo senza sensi di colpa, significa perdere tempo. Perché solo perdendolo si può veramente ritrovare se stessi.

Il mito della produttività deve essere decostruito: non siamo macchine e non dovremmo trattarci come tali. Forse la vera chiave del successo non sta nel fare di più, ma nel saper scegliere ciò che davvero conta.

Bisogna spezzare la catena, prima che sia troppo tardi. Prima che, alzando gli occhi dalla scrivania, ci accorgiamo che il mondo è finito e che noi non ce ne siamo nemmeno accorti.

 

Gaetano Aspa

Maura Gancitano all’Università di Messina: una masterclass per decostruire gli stereotipi di genere

Mercoledì 23 aprile alle ore 10.30, presso la Sala dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti, l’Università di Messina ospiterà Maura Gancitano, filosofa, saggista e co-fondatrice del progetto culturale Tlon, per una masterclass pubblica dedicata al tema della costruzione sociale degli stereotipi di genere e al ruolo del pensiero critico nella formazione delle identità.

L’iniziativa nasce nell’ambito della partnership tra l’Ateneo e Taobuk – Taormina International Book Festival, un’alleanza che intende rafforzare il dialogo tra cultura contemporanea e formazione accademica, attraverso momenti di confronto aperto e interdisciplinare.

La filosofia come pratica di consapevolezza

Maura Gancitano, da anni figura di riferimento nel panorama della divulgazione filosofica, condurrà un intervento che intreccia filosofia, sociologia e studi di genere, con l’obiettivo di esplorare i meccanismi attraverso cui gli stereotipi si originano e si diffondono all’interno della società. La sua lezione sarà un invito alla decostruzione delle narrazioni dominanti, che troppo spesso condizionano il modo in cui ci percepiamo e ci relazioniamo.

Il pensiero critico diventa così uno strumento trasformativo, capace di smascherare le strutture simboliche e culturali che sorreggono le disuguaglianze di genere e di offrire nuove possibilità di racconto e di esistenza.

Un dialogo interdisciplinare

A dialogare con la filosofa saranno la professoressa Vittoria Calabrò, storica delle istituzioni politiche e Presidente del CUG (Comitato Unico di Garanzia) dell’Ateneo, e la professoressa Milena Meo, sociologa politica e Vicepresidente del CUG. Insieme esploreranno i contesti in cui gli stereotipi si sedimentano e si riproducono – dalla scuola ai media, fino alla famiglia – interrogando anche le responsabilità delle istituzioni educative nella costruzione del pensiero libero.

L’incontro sarà introdotto dai saluti istituzionali della Rettrice Giovanna Spatari e si rivolge a studenti, docenti e alla cittadinanza, con l’intento di promuovere un confronto aperto e partecipato su uno dei temi più urgenti della contemporaneità.

Parteciperanno anche i corsisti di UniMe GDS Lab, coordinato da Natalia La Rosa (Ses) e la prof.ssa Maria Laura Giacobello (UniMe).

Una lezione per ripensare l’identità

In un momento storico in cui la riflessione sull’identità e sulle relazioni di genere attraversa il dibattito pubblico, questa masterclass rappresenta un’occasione preziosa per attivare nuove consapevolezze, ripensare i modelli culturali dominanti e offrire strumenti critici per trasformare la realtà sociale.

Gaetano Aspa

Quando la passione grida e la ragione tace. Medea oltre la vendetta

Quante voci soffocate tra le pagine della letteratura? Quante parole, intrise di pregiudizio e ostilità, hanno contribuito a marginalizzare l’esperienza femminile? Notiamo una costante, un’ombra che ci perseguita attraverso i secoli:  le voci soffocate delle donne, accompagnate dall’eco di un linguaggio che denigra e oscura. Come il grido disperato e poi vendicativo di Medea, la cui passione tradita si trasformò in un monito eterno sulla furia di una donna ferita e sulla violenza che può scaturire dal silenzio imposto.

Una letteratura che ha spesso oscillato tra l’idealizzazione e la marginalizzazione della figura femminile, descritta come creatura angelica o demoniaca, incapace di ragionare, privata di una voce autonoma e rappresentata attraverso il filtro dello sguardo maschile.

 

Medea e la vendetta nella tragedia

Medea. Eroina tragica, un turbine di emozioni, una psiche contorta. Una donna che ha abbandonato tutto e ha  dimostrato una labilità emotiva tipicamente umana. Tragica è la complessità della potente donna di Euripide, demonizzata per il suo dolore e la sua rabbia, interpretati attraverso la follia e la vendetta.

Medea, barbara e straniera in terra greca, abbandona la sua patria e la sua famiglia per amore di Giasone, eroe in cerca del Vello d’Oro.
Grazie alla sua astuzia e alle sue arti magiche, lo aiuta a conquistare l’impresa, legando indissolubilmente il suo destino a quello dell’amato. Tuttavia, la passione si incrina di fronte all’ambizione di Giasone, che la ripudia per sposare la giovane principessa Glauce, figlia del re Creonte.

È in questo abisso di umiliazione e abbandono che emerge una Medea “iconica”: non più l’amante devota, ma la donna ferita nell’orgoglio e nella dignità, che non può sopportare di essere messe in un angolo. Consumata dalla rabbia e da un desiderio di vendetta che non conosce limiti, arriva a compiere tradimenti e uccisioni, pur di ricevere un amore totalizzante e incondizionato.

Attraverso un’oscillazione tra la forza intellettuale e la vulnerabilità emotiva,  la protagonista di una delle tragedie più note di Euripide mostra come la sua voce, quando ignorata, possa trasformarsi in un atto di distruzione.

 

Un potente archetipo femminile

«Di tutte le creature che hanno anima e cervello, noi donne siamo le più infelici; per prima cosa dobbiamo, a peso d’oro, comprarci un marito, che diventa padrone del nostro corpo – e questo è il male peggiore. Ma c’è un rischio più grande: sarà buono o cattivo? Separarsi è un disonore per le donne, e rifiutare lo sposo è impossibile. Se poi vieni a trovarti fra nuove usanze e abitudini diverse da quelle di casa tua, dovresti essere un’indovina per sapere come comportarti con il tuo compagno. […] Dicono che viviamo in casa, lontano dai pericoli, mentre loro vanno in guerra; che follia! È cento volte meglio imbracciare lo scudo piuttosto che partorire una volta sola».

(Euripide, Medea, vv.230-251)

Questo sfogo di Medea, definito come il primo manifesto femminista della letteratura greca, esprime la sua profonda infelicità e la condizione di svantaggio delle donne della Grecia antica, legate a una forma di ingiustizia.

Una mentalità androcentrica quella della cultura greca, contestata dal tragediografo greco. Con un accenno alla propria condizione, Medea si presenta come una parte di insieme, richiedendo una certa complicità all’identità femminile.

La tragedia mette in discussione i ruoli di genere e le dinamiche di potere nelle relazione, in cui la donna si ribella e affronta la battaglia emotiva che la rende vittima di se stessa.

Medea ci offre una lettura in chiave femminista, rivelando una donna che si ribella alla subordinazione e si riappropria del proprio destino, sebbene con mezzi estremi.

Il cuore della tragedia è il tradimento e la conseguente vendetta. Niente di nuovo se pensiamo alla condizione che ci ritroviamo ad affrontare ai nostri giorni. Relazioni tossiche, crimini “passionali” e confini di libertà oltrepassati.

Oggi, in un’epoca di crescente consapevolezza sulla necessità di decostruire gli stereotipi, la figura di Medea si rivela stimolante nelle riflessioni sul potere femminile, sulla sua repressione e sulle sue possibili, anche tragiche, manifestazioni. Ci invita a considerare la storia non solo come un racconto di orrore, ma ad affrontare sempre gli stessi problemi, evidentemente non superati.

Una tragedia che, dopo 2500 anni, continua a rappresentare un attuale specchio doloroso delle passioni umane.

Elisa Guarnera

Dio 2.0: il Vangelo del nuovo millennio

Dio 2.0
Dio 2.0 è uno dei romanzi che meglio descrive la nostra era. Voto UVM: 5/5

 

Quando il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche annunciò, nel frammento 125 de La Gaia scienza, che Dio fosse morto, aggiunse anche che ora le ombre di Dio ne avrebbero preso il posto, perché l’uomo ha bisogno di qualcosa in cui credere, in cui riporre le sue speranze. Dopo la morte del primo Dio, ne sorge uno nuovo, fatto però non di speculazioni metafisiche ma di algoritmi; sorge il Dio 2.0 raccontato da Danilo Conti.

Copertina di Dio 2.0 di Danilo Conti

 

Il mondo di Dio

La storia di Dio 2.0 è semplice e lineare: a Gift Town, una cittadina stile USA anni ’50, vive la famiglia Turner, composta dal padre Seth, la madre Samantha, e il figlio preadolescente Brian. Tutti, a Gift Town, vivono seguendo i precetti del Codice Sacro, testo donato all’umanità da Dio in persona, il quale si manifestò nel cosiddetto Giorno della Rivelazione. Da allora, l’umanità vive sotto la guida diretta di Dio e dei suoi sacerdoti, i quali amministrano la società tramite i “punti sociali”, una sorta di metro del buon cittadino: chi compie azioni positive, segue il volere di Dio e non crea problemi, guadagna punti e riceve benefici di varia natura; chi invece si ribella all’ordine costituito li perde, e, qualora i punti si azzerassero, ecco che si spalancano le porte dell’Inferno, una landa desolata e inospitale, nella quale i condannati svolgono lavori forzati.

Dio 2.0
La Gaia Scienza di Friederich Nietzsche. Edizioni Adelphi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un Abramo mancato

Brian è un ragazzino irrequieto e pieno di domande sul mondo, in conflitto con la società in cui vive, troppo chiusa e ingabbiata nei dogmi di Dio e del Codice Sacro. Questo abito mentale indossato da tutti, dai compagni di classe alla madre, sta stretto a Brian, il quale inizia la sua personale ribellione contro la società in cui vive. Di fronte a quest’irrequietezza, i suoi genitori reagiscano in due modi molto diversi: la madre Samantha, estremamente devota, reagirà duramente e severamente, e cercherà di ricondurre il ragazzo ai principi del Codice Sacro; Seth, invece, cercherà una via di dialogo col figlio, di capire il momento che Brian sta passando e aiutarlo nel difficile compito di trovare delle risposte.

Tuttavia, sarà proprio questo atteggiamo accondiscendente di Seth a infastidire Dio, il quale si manifesterà all’uomo per dargli un ordine: punire severamente suo figlio. Seth sarà quindi diviso tra l’ordine superiore che dovrebbe rispettare e l’amore che prova per Brian, in maniera non dissimile dall’Abramo kierkegaardiano, al quale fu ordinato di sacrificare Isacco. Ma se Abramo deciderà di affidarsi completamente alla volontà superiore dalla quale l’ordine era giunto, così non riuscirà a fare Seth, il quale non solo si rifiuta di punire Brian, ma rimarrà al fianco del figlio anche nel momento peggiore che i due si troveranno ad affrontare: la condanna all’Inferno.

Dio 2.0
Il sacrificio di Isacco

Un Dio desiderato

Durante la sua prigionia all’Inferno, Seth entrerà in contatto con un piccolo nucleo di resistenza contro la dittatura teocratica che li governa. Questo nucleo sta organizzando un piano di fuga, che prevedeva anche la liberazione di una fabbrica di giocattoli dove sono confinati ragazzini come Brian. Sarà durante l’attuazione del piano che Seth rincontrerà suo figlio. I due scappano insieme al resto del gruppo e, quando il piano andrà a buon fine, sarà uno dei capi della resistenza chiamato Isaac a prendere la parola: egli rivela che il Dio che governa il mondo altro non è se non un complesso artificio reso possibile da avanzatissime forme di intelligenza artificiale, il cui solo scopo era pacificare definitivamente l’umanità. Era qualcosa di voluto, di desiderato per non cedere al caos, e infatti la fede stessa in questo Dio altro non è se non un massiccio lavaggio del cervello.

Deus in machina

L’umanità aveva dunque bisogno di un Dio a guidarla, e alcuni ingegneri hanno creato quella divinità, inscrivendone anche dei codici morali tramite i quali guidare e giudicare la condotta umana. Dio e le macchine coincidono in quello che l’ingegnere Federico Cabitza chiama deus in machina, ossia una forma di tecnologia talmente avanzata da sembrare una divinità dalla quale far discendere verità e giustizia morale. Ma entrambe sono, in realtà, né più né meno che codici inscritti dall’uomo stesso all’interno di quelle macchine.

Tuttavia, la divinità di Dio 2.0 riuscì a garantire, come dice Isaac, solo la felicità umana, e non la giustizia, e lui lo sa bene poiché era stato tra i programmatori di quella macchina, ed è stato mandato all’Inferno. Ma non per questo Isaac si è lasciato abbattere, e anzi ha organizzato un gruppo di resistenza, al quale dice che Dio, in realtà, non è necessario all’umanità per fare del bene o anche solo coesistere, e anzi, aggiunge l’anziano parlando con Brian, se un qualche Dio esiste, ha creato gli umani proprio per essere liberi.

Dio 2.0 e il nostro mondo

Dio 2.0 è un romanzo che ha moltissimo da dire sulla nostra epoca, nella quale proliferano, dopo la morte del vecchio Dio, nuove chiese, e una nuova divinità. Una divinità meccanica, tecnologica, non metafisica, ma che assolve alle stesse funzioni della divinità metafisica. L’uomo, come diceva Nietzsche, ha ancora bisogno di credere, e ancora è da venire il giorno in cui l’umanità si sarà affrancata a tutte le divinità, uscendo così da ogni forma di nichilismo, divenendo finalmente libero.

 

Alberto Albanese

La Casa dei Prosciutti

La notte era gelida e tranquilla, come tutte le notti d’inverno della Val Bodenco. Spighe di grano fluttuavano al vento, rami di pino scrosciavano lenti, fari e lampioni illuminavano i campi e in lontananza un borbottio si approssimava a rompere il silenzio. Le auto sfrecciavano sulla statale, schegge di luce apparivano e sparivano in un istante, poi il buio inghiottiva di nuovo rapido case, siepi e campagne. Il borbottio incombeva ormai su Verrosio, diecimila anime stagliate sulle rive del fiume Multro, attraversando il centro da un capo all’altro, fino a stazionare in cima ad un grande spiazzo nei pressi di una lussuosa villa con un grande cartellone che recitava “La Casa dei Prosciutti”

Qui una luce rossa intermittente iniziò a roteare e il borbottio che s’era fatto boato iniziò ad essere incessante. Un rumore metallico dilaniò la notte e una palla di fuoco si levò al cielo, richiudendosi in una nuvola di polvere grigiastra. Sotto questa non era rimasto altro che un monolite d’acciaio accartocciato tra i carboni ardenti dell’erba bruciacchiata. A quel punto la quiete era tornata su Verrosio. Ma non sarebbe durata a lungo, non sarebbe sopravvissuta all’alba, quando i primi raggi di sole avrebbero mostrato l’entità della devastazione notturna.

Carlo Motta per campare scriveva romanzi, e nel tempo libero si dilettava ad assicurare criminali alla giustizia. Quella mattina era ancora nel letto di casa sua e si era svegliato scarico, privo d’immaginazione e di voglia di vivere. La chiamata del procuratore Angelo Pastore, suo vecchio amico nonché accanito lettore delle sue opere, giunse come una benedizione ad evitargli l’ennesima giornata di autocommiserazione e cibo spazzatura.

Parcheggiò la sua Smart Fortwo bianca nei pressi della sontuosa villa “Casa dei Prosciutti” della famiglia Ferrucci, giungendo sul luogo dell’incidente a piedi dopo aver evitato come la peste ogni possibile contatto con forze dell’ordine e curiosi. Non che fosse una rinomata celebrità, ma il rischio che qualcuno avesse letto le sue opere e riuscisse a identificarlo, c’era. E lui voleva scongiurarlo in ogni modo.

L’elicottero su cui viaggiavano Emilio Ferrucci e il suo pilota era disteso su uno spiazzo erboso, terra e cenere ricoprivano tutto per metri e metri, mentre le lamiere del veicolo si erano conficcate nel terreno rendendo complicate le manovre di recupero dei corpi.

«Questi ricchi hanno ben poco rispetto per la propria vita» disse Motta osservando la scena con le mani in tasca «Perché mai tornare a casa in elicottero? Non sanno che sono delle dannate macchine infernali? Ah, quanti danni che fa l’hybris»

«Alla buon’ora» lo rimbrottò il procuratore Pastore allargando le braccia spazientito.

«Questo sarebbe?» domandò un carabiniere che stava parlottando con Pastore.

«Un ficcanaso» rispose Motta dando una pacca sulla spalla al milite prima di inoltrarsi verso il luogo dell’incidente.

«E’ un mio amico scrittore. Nel tempo libero ci aiuta con le indagini» si giustificò Pastore.

«E’ un do ut des» esclamò Motta mentre il carabiniere e Pastore lo seguivano. «Io do una mano al procuratore e lui in cambio mi fornisce materiale per le mie storie».

«Sta scherzando ovviamente» disse il procuratore sorridendo nervosamente.

«Oh, giusto Angelo, devo ripetere la storiella che faccio tutto questo per dovere civico».

«Siete sicuro che possa esserci utile?» domandò scettico il carabiniere al procuratore mentre i tre si incamminavano nella sterpaglia.

«Avete la mia parola».

Giunti sul luogo dell’incidente Motta si mise le mani ai fianchi, guardò verso la casa dei Ferrucci, poi verso la carcassa dell’elicottero e ancora una volta verso la casa

«Scommetto che il morto è uno dei Ferrucci»

«Acuto osservatore» disse sarcastico il comandante dei carabinieri

«Perché, è così ovvio?» chiese Motta irritato

«Siamo nella loro proprietà»

«Se per questo tutta Verrosio è una loro proprietà. No, dico che il morto è un Ferrucci perché tutto il paese è venuto qui a curiosare»

«Si» confermò già esausto il carabiniere «La vittima è Emilio Ferrucci, il proprietario della famosa azienda “La Casa dei Prosciutti”»

«E il pilota?»

«Come scusi?»

«Il pilota dell’elicottero. È sopravvissuto?»

«No ovviamente. È morto nello schianto»

«Allora ci sono due vittime»

«Certo ma…»

«Certo ma il povero disgraziato non conta. Intendevate questo?» lo incalzò Motta a muso duro

«Fa sul serio?» chiese il carabiniere guardando prima Motta e poi Pastore

«Sto scherzando» esclamò lo scrittore esplodendo in una fragorosa risata «Volevo solo fare un po’ di demagogia spicciola»

«Ah ecco» rispose sollevato il comandante sistemandosi il colletto della divisa

«L’altro dov’è?»

«L’altro?»

«Non sono i due fratelli a gestire l’azienda Ferrucci? Emilio e Romano»

«Romano Ferrucci è morto l’anno scorso» rivelò il carabiniere

«Ah, molto bene» esclamò sorpreso Motta portandosi le mani alla bocca con fare pensieroso «Andiamo»

«Andare? Dove? Non ci dice nulla sulla scena?» domandò allarmato il comandante

«Un elicottero è esploso in volo»

«In volo?»

«In volo» confermò Motta indicando la sterpaglia

«Aspetti, non è esploso dopo essere precipitato?»

«Oh, nient’affatto, basta guardare i resti dell’elica»

«E dove sono?» chiese il procuratore Pastore guardandosi intorno

«Non ci sono, per l’appunto» rilevò Motta «Se il velivolo si fosse schiantato l’elica sarebbe ancora qui intorno o addirittura ancora attaccata alla carcassa. Invece non c’è. L’elicottero è esploso in fase d’atterraggio, ma prima di toccare terra. E nella deflagrazione i detriti si sono sparpagliati in queste campagne»

«Allora non è un incidente. È un omicidio» esclamò sgomento il comandante dei carabinieri

«O un attentato» ipotizzò Pastore

«Un attentato? Oh no, no no, lo escludo» ribatté Motta

«Perché? I Ferrucci sono ricchi, potenti e molto odiati dopo quella storia della contaminazione degli affettati»

«La ritorsione del familiare di una vittima della contaminazione?» domandò il carabiniere

«Una vendetta»

«E perché non piazzarla all’ingresso della casa?» domandò Motta volgendo lo sguardo verso la sfarzosa villa dei Ferrucci «Perché ucciderne uno solo, quando il nostro terrorista avrebbe potuto ucciderli tutti? E come avrebbe piazzato la bomba sull’elicottero?»

«Magari si è infiltrato nella casa. Forse lavora lì dentro. Un cameriere, un autista, forse un conoscente del pilota»

«La domanda resta» si impuntò Motta con Pastore «Perché ucciderne uno solo quando poteva eliminarli tutti?»

«Era il capo dell’azienda, era un simbolo. Uccidere lui significa uccidere i Ferrucci»

«Ma ai tempi della contaminazione non era lui il capo, bensì il padre, Giovanni Ferrucci»

«Che è morto da anni» ricordò il comandante dei carabinieri

«E quindi di che razza di vendetta stiamo parlando? No, il nostro assassino non voleva uccidere un Ferrucci a caso o tutti Ferrucci, ma questo Ferrucci in particolare»

«Se non è la vendetta, allora il movente può essere passionale» disse Pastore

«Ma non diciamo sciocchezze!» esclamò Motta voltandosi di nuovo verso la scena dell’esplosione «Tuo marito o il tuo amante ti lascia e tu lo fai saltare in aria con dell’esplosivo? Un omicidio passionale richiede…passione! Insomma contatto fisico, se non addirittura visivo. Questo è un omicidio a distanza, compiuto con premeditazione, quindi a sangue freddo, e io conosco un solo movente più forte ma più razionale del sesso…»

«Il denaro» esclamò Pastore

«Esatto. Chi eredita tutta la baracca ora che Emilio è passato a miglior vita?»

«Sarebbe toccato al fratello minore, Romano»

«Che però è morto» disse il carabiniere

«E com’è morto?» domandò Motta

«Durante un lancio col paracadute, che però non si è aperto»

«Ma che famiglia sfortunata. Ancora una morte violenta, ancora un incidente…anzi, ancora un omicidio che si può camuffare da incidente»

«Allora anche Romano è stato ucciso?» chiese Pastore

«Probabile. Aveva figli?»

«Nessuno. C’era solo Lorenzo, ma è morto di overdose anni fa» li informò il carabiniere

«Quindi senza Emilio, Romano e Lorenzo, la società adesso appartiene alla vedova di Romano Ferrucci, cioè Amalia»

«Aveva il movente, aveva i mezzi e conosceva gli spostamenti sia del marito che di Emilio» affermò convinto il procuratore Pastore «Andiamo a prenderla»

Ritrovarono la signora Amalia seduta comodamente nella poltrona di casa sua, a disquisire in tono amabile con alcune giornaliste. Quando i carabinieri che scortavano Pastore e Motta le cinsero i polsi con le manette il suo volto divenne una maschera di cera, i suoi occhi si spensero mentre passavano in rassegna gli uomini che la stavano privando della libertà, ma nemmeno per un secondo ella perse la sua arrogante grandeur aristocratica. Entrò nella macchina della polizia come Maria Antonietta lo fece nella carrozza che l’avrebbe condotta sulla ghigliottina.

Non smise mai di proclamarsi innocente, e giurò che l’avrebbe ripetuto al processo. Un processo a cui però non arrivò mai. Si uccise mesi dopo tagliandosi i polsi con un cucchiaio di plastica accuratamente affilato. Quando Pastore chiamò Motta per informarlo della tragedia, questi era a casa sua, a scrivere la bozza di un giallo basato sulla vicenda di Emilio Ferrucci e della moglie intitolato “La Casa dei Prosciutti”.

«Povera donna» disse freddamente al telefono Motta a Pastore.

«Forse era davvero innocente».

«Forse. Ma tu ne sei certo, e hai i sensi di colpa».

«A differenza tua, ho una coscienza».

«Sei crudele».

«Per te questo è solo un gioco. Queste storie ti forniscono quei brividi che la tua creatività non riesce più a trasmetterti» disse furioso Pastore.

«Stai dicendo che sono uno scrittore fallito?»

«Sto dicendo che sei uno stronzo! Una donna è morta, Carlo, morta! E a te sembra non importare nulla…»

«Non me ne importa nulla perché non era una brava donna» si giustificò Carlo

«Come fai a dirlo?!»

«Una donna che aiuta il marito a fingere la propria morte, affinché questi elimini il fratello maggiore senza destar sospetti, non è poi una gran perdita per la società, ne converrai»

«Aspetta, cosa?»

«Sono abbastanza sicuro che Romano Ferrucci abbia ingannato anche lei, dopotutto»

«Romano Ferrucci? È Romano Ferrucci l’assassino di Emilio? Ma non era morto?»

«Chissà chi è morto davvero in quell’incidente col paracadute. Chissà se qualcuno è morto davvero quel giorno. L’unica testimone era Amalia. Ed ora anche lei è morta»

«Quindi Romano si mette d’accordo con la moglie, finge la sua morte e poi pianifica quella del fratello maggiore…» disse Pastore unendo i pezzi

«…la moglie eredita tutto e poi raggiunge il marito, con l’eredità dei Ferrucci, nel suo buon ritiro in chissà quale sfavillante isola caraibica» proseguì Motta «O almeno questo è il piano che Romano espone alla moglie per farle accettare il carcere. Lei era consapevole di finire tra i sospettati e di farsi pure qualche mese di galera, ma era certa che Romano sarebbe intervenuto per tirarla fuori. Una volta realizzato di essere stata ingannata, si è tolta la vita. Amava davvero Romano, a tal punto da diventarne complice. E non si è ammazzata per la reclusione, ma per aver compreso che il marito non l’aveva mai amata, che era stata solo una pedina nelle sue mani mentre lei gli era davvero devota»

«Una teoria affascinante, te lo concedo» rispose Pastore «Ma come la dimostriamo?»

«Dimostrare una teoria? Mio buon amico, questa è solo la trama del mio prossimo libro “La Casa dei Prosciutti”! Io non devo dimostrare niente, devo solo creare e scrivere. Ah già, e vendere. Dimostrare teorie è il tuo mestiere, non il mio. Io ti ho solo aiutato in cambio di una buona storia, come faccio sempre»

«E come trasformo la tua “buona storia” in un caso giudiziario? Come faccio ad incastrare Romano Ferrucci?»

«E dove sarebbe il divertimento se facessi io tutto il lavoro? Buona fortuna procuratore, sono certo che prenderai il tuo assassino. E chiamami se hai bisogno ancora di me. Sono sempre lieto di ascoltare una buona storia. Alla prossima!»

 

Giuseppe Libro Muscarà

UniMe Open Day 2025: due giornate per orientarsi tra futuro formazione

Martedì 15 e mercoledì 16 aprile 2025, l’Università degli Studi di Messina apre le sue porte agli studenti degli Istituti superiori per l’attesa edizione 2025 dell’UniMe Open Day, la rassegna annuale dedicata all’orientamento universitario. L’evento rappresenta un momento chiave per tutti coloro che si apprestano a intraprendere un nuovo percorso accademico, offrendo uno sguardo diretto, coinvolgente e ricco di stimoli sulla vita universitaria e sulle molteplici prospettive di crescita che l’Ateneo peloritano mette a disposizione.

Quest’anno l’appuntamento si articolerà su due giornate, dalle ore 9:00 alle 14:00, nella splendida cornice del Polo Annunziata, sede immersa nel verde e dotata di strutture moderne e all’avanguardia. Sarà un’occasione unica per conoscere da vicino l’offerta formativa di UniMe e vivere un’esperienza immersiva nel mondo universitario, fatta di scoperta, confronto e ispirazione.

Un viaggio tra corsi, laboratori ed esperienze interattive

L’Open Day non si limiterà alla semplice presentazione dei Corsi di Laurea triennali e magistrali, ma offrirà ai partecipanti un ricco ventaglio di attività dinamiche: percorsi laboratoriali, esperimenti interattivi, simulazioni, visite guidate nei laboratori e nelle biblioteche. Gli studenti potranno così toccare con mano le strutture e l’approccio didattico di UniMe, scoprendo le peculiarità dei singoli Dipartimenti e orientandosi tra le varie discipline con maggiore consapevolezza.

Non mancheranno momenti di approfondimento tematico e dimostrazioni pratiche, pensati per stimolare curiosità e riflessione, non solo sulla scelta del corso di studi, ma anche sul futuro personale e professionale che può prendere forma grazie all’università.

Servizi, supporto e una rete a misura di studente

Un grande valore aggiunto dell’Open Day sarà la possibilità di incontrare direttamente docenti, tutor universitari, personale amministrativo e responsabili delle strutture dell’Ateneo. Saranno presenti tutti i principali Centri di Ateneo – dall’Ufficio Orientamento e Placement al Centro per il supporto psicologico e motivazionale, passando per le strutture dedicate alla mobilità internazionale, alle biblioteche, ai trasporti, alle residenze universitarie e agli impianti sportivi.

Durante le due giornate, sarà anche possibile effettuare uno screening personalizzato delle attitudini, degli interessi e delle risorse individuali, attraverso strumenti pensati per favorire una scelta consapevole e in linea con le proprie inclinazioni e obiettivi.

UniMe: un ponte verso l’Europa e il mondo del lavoro

L’Università di Messina conferma la propria vocazione all’internazionalizzazione e alla formazione di profili competitivi a livello europeo. I partecipanti all’Open Day potranno scoprire le opportunità offerte dai programmi Erasmus+, dai tirocini formativi in Italia e all’estero, dalle convenzioni con enti pubblici e privati e dalle numerose iniziative di raccordo tra formazione accademica e mondo del lavoro. Il dialogo diretto con chi vive quotidianamente l’università permetterà agli studenti di comprendere non solo “cosa” studiare, ma anche “perché” e “come” costruire un percorso autentico e orientato al successo.

Una partecipazione facilitata per tutte le scuole

Per garantire il massimo coinvolgimento, UniMe mette a disposizione un servizio transfer gratuito rivolto a tutte le scuole che aderiranno all’iniziativa, facilitando così la partecipazione anche degli istituti più lontani. L’obiettivo è rendere l’università accessibile, inclusiva e pronta ad accogliere le nuove generazioni con strumenti adeguati, ascolto e opportunità concrete.

Qui il programma completo https://www.unime.it/sites/default/files/202504/2025_04_11_PROGRAMMA_OPENDAY2025_02.pdf

Gaetano Aspa

Effetto Werther: il tragico fascino del suicidio

L’effetto Werther è un fenomeno psicologico e sociologico secondo cui la rappresentazione romantica del suicidio nei media può indurre comportamenti emulativi, soprattutto tra i giovani e le persone vulnerabili. Il termine nasce dal romanzo I dolori del giovane Werther (1774) di Johann Wolfgang von Goethe, in cui il protagonista, sopraffatto da un amore impossibile, si toglie la vita con un colpo di pistola. Continua a leggere “Effetto Werther: il tragico fascino del suicidio”

Baustelle “El Galactico”: il viaggio del disincanto

El Galactico è un album lucidissimo e necessario, fotografia di una profondità esistenziale. I Baustelle raccontano la società moderna attraverso una serie di brani dall’alta caratura testuale e musicale. Voto UVM: 5/5

 

I Baustelle tornano con “El Galactico“, un album che non è semplicemente un disco, ma un teorema esistenziale.  Quest’opera, che si muove come una costellazione nello spazio della memoria collettiva e individuale, esplora l’inevitabile collisione tra passato e presente, tra illusioni e la cruda realtà del quotidiano, dei miti che ci siamo raccontati per sopravvivere.

Lo specchio della temporalità

Con un sound che richiama la psichedelia californiana degli anni ’60 e la tradizione cantautorale italiana, la band di Francesco Bianconi, Rachele Bastreghi e Claudio Brasini conferma ancora una volta la sua capacità di rinnovarsi senza perdere la propria identità.

El Galactico segue un dualismo quasi inconciliabile, un “viaggio senza meta” condotto su due binari diversi. Da un lato, la musica che si stratifica come la geologia di un pianeta abbandonato: troviamo tracce di glam rock, new wave, baroque pop, chansone francese e colonne sonore immaginarie. Dall’altro lato, grazie a una scrittura profondamente cinematografica, i Baustelle ci proiettano in un film esistenzialista, in cui i protagonisti si interrogano sulla natura del reale, del tempo che fugge e della memoria, vista non come mera riproduzione del passato, ma piuttosto nella sua reinvenzione.

In sostanza, il trio di Montepulciano intreccia la filosofia continentale al pop italiano, Godard alla nostalgia postmoderna, Pavese ai synth anni Ottanta, creando un tempo non lineare, ma circolare, o forse spezzato, dove ogni canzone sembra arrivare da un futuro che ha già fallito, una distopia malinconica in cui le macerie del vintage diventano materiale da costruzione per nuove utopie emotive.

   

Una poetica della disillusione…

C’è un istante, poco prima che parta la musica, in cui tutto è silenzio. È lì che comincia il viaggio. Non verso un luogo, ma verso una memoria che non abbiamo mai avuto eppure ci appartiene.

Il brano di apertura, Pesaro, riunisce in sé quell’atavico binomio eros-thanatos, che si mescola in un gioco di luci e ombre, alternando immagini potenti e contrastanti, e lo fanno con una liricità quasi pavesiana unita alla tragicità di Godard.

In Spogliami, il brano si carica di sensualità e disincanto, di echi elettronici e toni languidi che pongono il corpo al centro del brano, una discesa nei meandri della fragilità e della bellezza fisica. Il testo riflette sulla superficialità del desiderio in un mondo dove il corpo è diventato solo una merce di consumo, in cui spogliarsi diventa un atto simbolico di rivelazione e non di profonda intimità. La canzone si può leggere come una critica alla cultura postmoderna e al pensiero di Baudrillard sul simulacro: ci spogliamo degli strati esterni senza mai svelare il nostro vero io.

La Canzone verde, amore tossico è una riflessione politica mascherata da elegia postmoderna del disastro ambientale e morale. A tratti sembra di vedere un racconto di Pasolini, un paesaggio contaminato che perde la sua funzione poetica e diventa discarica del silenzio e dell’ipocrisia.

In Filosofia di Moana, la famosa pornodiva diventa musa e merce, corpo sacro e profanato, in una società che ha fatto dell’erotismo un atto automatico.

E non mi innamoro mai, Porno è la bellezza se lo sfascio va veloce

In questo testo viene evidenziata l’eleganza con cui Moana attraversa “l’Impero dell’Oscenità”, che può sostanzialmente paragonarsi alle figure della modernità di Benjamin, quali il flâneur, l’angelo della Storia o, come in questa in questa canzone, la pornodiva che osserva lo spettacolo del mondo che crolla, come un Ofelia postmoderna che affoga nel disprezzo altrui. La canzone è permeata da un’estetica tragica, simile a Diane Arbus, dove la bellezza è intrisa di malinconia e, il sesso, diventa un forma di linguaggio alienante.

Prosegue con Una Storia, titolo fortemente generico che dimostra la propria forza nel fatto che ognuno può facilmente identificarsi. Questo brano è il racconto di una violenza, ambigua e devastante, che si consuma nel silenzio, nella colpa, nella connivenza silenziosa dello sguardo pubblico. Il tema è attualissimo: la spettacolarizzazione del trauma e del dolore. La vittima involontaria diventa protagonista di una tragedia condivisa, ma al contempo banalizzata dal male mediatico, il circolo digitale che diventa mero contenuto social. In tutto questo c’è un’impotenza strutturale, una ballata di De André filtrata al contemporaneo, post-Instagram, post-TikTok.

                                 

…e dell’esistenza

L’imitazione dell’amore è una delle canzoni più sottili dell’album, forse la più politica in senso estetico. Qui, i Baustelle, smascherano l’industria culturale dell’amore, denunciando l’omologazione dei sentimenti.  L’amore non è più eroico, erotico, tragico o politico, ma banalmente un prodotto da consumare.

Con L’arte di lasciare andare si entra in una zona poetica classica, quasi montaliana. L’idea del viaggio, dell’irrequietezza , del girare a vuoto, evoca una condizione umana ancestrale: l’angoscia del tempo nell’uomo moderno che non trova pace nella lentezza. Sembra quasi che, in questo brano, venga svelato il vero problema moderno l’impossibilità di stare al mondo, ovunque, è questo sfiora il camusiano.

Una delle più emotive e immediate dell’album è Giulia come stai, che presenta una costruzione molto sofisticata e ricercata. Questa è una canzone d’amore universale per tutte quelle “Giulie” presenti nelle vite di ciascuno, quella persona importante da amare e proteggere. Sembra poco, ma è tutto. In un mondo in cui la parola è diventata rumore, la gentilezza diventa il vero atto rivoluzionario. Il testo non dice molto, ma ascolta, senza egoismo, diventando un abbraccio contro l’isolamento.

Infine Lanzarote, una Azzurro (di Celentano) disidratata, che è la rappresentazione dell’abbandono, ma senza il dramma conseguente. Il brano è esilio e spaesamento, il luogo lontano che si fa simbolo di mancanza, sia fisica che morale, in sostanza, la noia moraviana.

   

Fotografia del nostro tempo

Mi viene in mente un frammento di Borges: Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume.

Ecco, ascoltando El Galactico, mi sembra di scivolare dentro quel fiume, di diventare quel tempo. Ogni ascolto svela nuovi strati di significato, come se le canzoni fossero specchi deformanti attraverso i quali osserviamo noi stessi. I Baustelle non offrono risposte facili, né cercano di rassicurare,  al contrario, ci mettono di fronte alle nostre contraddizioni e ai nostri desideri irrisolti.

In un’epoca in cui la musica è spesso ridotta a mero intrattenimento, “El Galactico” è un’opera necessaria, un viaggio in cui ogni canzone è una tappa di un pellegrinaggio interiore, alla ricerca di quel senso che forse non esiste, ma che continuiamo ostinatamente a cercare.

 

Gaetano Aspa