Il tempo della bellezza: dal kalòs kai agathòs alla contemporaneità

Cosa rende qualcosa bello? È una questione di forma? Di verità? Di emozione?

Dalla Grecia antica ai giorni nostri, l’umanità ha inseguito — e spesso inseguito invano — la bellezza. La filosofia l’ha pensata come luce del bene, l’arte l’ha trasformata in carne e simbolo, la storia l’ha usata, violata, reinventata. Ma la bellezza non è mai stata solo un’estetica, è desiderio, sogno, assenza.

Questo articolo è un viaggio nel tempo attraverso i mutamenti del concetto di bello, da Platone a Fitzgerald, per provare a capire come ciò che ci incanta e ci commuove dica qualcosa di più profondo: di ciò che cerchiamo, di ciò che ci manca, e di ciò che, forse, ci tiene ancora vivi.

Perché ogni epoca ha il suo specchio, ma la bellezza, quando accade, resta un lampo che ci attraversa.

Il bello e il buono: l’ideale originario

Nel mondo greco antico, bellezza e bontà non erano concetti separati, L’espressione kalòs kai agathòs (bello e buono) definiva l’ideale dell’uomo completo, armonioso nel corpo e nell’anima. Per Platone, il bello non era semplicemente ciò che piace ai sensi, ma ciò che risveglia l’anima verso l’Idea, verso il Bene.

La bellezza visibile nei corpi, nei volti, nei paesaggi era solo un riflesso di un ordine superiore, invisibile ma eterno.

Il bello è ciò che, visto, dà gioia

Nel Simposio, Platone disegna una vera e propria ascesa: dall’amore per la bellezza fisica si passa a quella delle anime, poi a quella delle leggi, delle arti, e infine all’Idea stessa del Bello, immutabile. È un cammino di elevazione, in cui il desiderio estetico si trasforma in ricerca metafisica.

Il Medioevo: la luce di Dio e l’ordine dell’universo

Nel Medioevo cristiano, la bellezza viene assorbita nel sacro. Sant’Agostino afferma che “bello è ciò che è ordinato”, perché tutto ciò che partecipa all’ordine divino riflette Dio.

La bellezza è un magnete: ci attrae, suscita in noi desideri, orienta le azioni più virtuose e le più brutali, le più temerarie e le più struggenti, le più sincere e le più ingannevoli. Che si tratti di armoniosa apparenza umana o di luminosa apparizione divina, la bellezza è sempre rivelazione che avvince, e per questo possiede un potere ambiguo: appagarci il cuore o farlo smarrire.

Le cattedrali gotiche, con le loro proporzioni matematiche, le vetrate e i simboli, incarnano questa tensione tra terra e cielo. La bellezza diventa manifestazione del divino, uno strumento di elevazione spirituale, non un fine in sé.

Il Barocco e il Romanticismo: la crisi della forma

Nel Seicento barocco, la bellezza si contorce. È l’epoca del paradosso, della meraviglia, dell’eccesso.

Caravaggio mostra la bellezza nel dolore, nell’ombra, nella carne ferita. È il tempo in cui l’arte si fa emozione, retorica, teatro. E non è un caso che la letteratura barocca sia piena di ossimori, metafore audaci, contrasti visivi.

Con il Romanticismo, poi, la bellezza si fa interiore, malinconica, sublime. Non è più l’armonia che consola, ma la vertigine che inquieta. Leopardi parla del “segreto senso del bello”, un sentimento ineffabile, nostalgico, forse irraggiungibile. E il sublime, teorizzato da Burke e Kant, affascina perché ci sovrasta, perché è “terribile e bello insieme”.

bellezza
Primavera di Botticelli. https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=10155080

Gli anni Venti e Fitzgerald: la bellezza come illusione fragile

Ed eccoci al cuore della nostra riflessione, gli anni Venti del Novecento, gli anni ruggenti, l’epoca del jazz, dell’ebbrezza e del disincanto. È qui che F. Scott Fitzgerald scolpisce una nuova forma di bellezza: una bellezza che brilla e crolla nello stesso gesto.

Ella era incomprensibile, perché in lei l’anima e lo spirito erano una cosa sola: la bellezza del corpo era l’essenza dell’anima. Era l’unità cercata dai filosofi per secoli e secoli. In questa sala d’aspetto di venti e di stelle, ella stava seduta da cento anni, tranquilla nella contemplazione di se stessa.

In Belli e Dannati non è più la bellezza platonica che eleva, né quella romantica che consuma: è da copertina, ostentata e fragile, come un fiore chiuso sotto vetro. Fitzgerald ci mostra quanto può essere tossico un ideale estetico privo di fondamento morale o spirituale, quanto può diventare un veleno sottile che affascina mentre logora.

In questo senso, Belli e Dannati è un requiem per l’assoluto, mostrandoci un bello che non salva, ma che, proprio per questo, ci commuove.

Oggi: tra estetica digitale e ricerca di senso

Nel presente iper-mediatico, il concetto di bellezza è ancora più fluido.

L’ideale classico è stato frantumato, oggi si parla di bellezza inclusiva, di corpi non conformi, di estetiche minori. I social impongono modelli rapidi e filtrati, mentre l’arte contemporanea gioca con l’ambiguità tra brutto e bello, tra vero e costruito.

«La bellezza salverà il mondo», scrive Dostoevskij, lasciandoci un’affermazione tanto enigmatica quanto potente. Ma quale bellezza? Quella delle proporzioni greche o quella delle rovine? Quella delle cattedrali che si ergono al cielo o quella dei volti stanchi di Anthony e Gloria, che si consumano nell’oro dell’apparenza?

Forse la bellezza che salva non è quella perfetta, intatta, irreale. Forse è quella che ci ferisce e ci fa pensare, quella che resiste nel disordine, che si fa crepa, nostalgia, stupore. La bellezza che salva è quella che ci scuote dall’indifferenza, che ci costringe a guardare meglio, a sentire di più.

Non è la bellezza dei manuali o delle mode, ma  quella che abita la poesia, la musica. È il volto della donna che amiamo, un’opera d’arte che non sappiamo spiegare.

In un mondo frantumato, affaticato, accelerato, tornare a interrogarsi sulla bellezza non è un lusso. È credere che, nonostante tutto, esista ancora qualcosa che valga la pena contemplare, custodire, proteggere.

E se la bellezza salverà il mondo, forse non lo farà con clamore.
Lo farà in silenzio, ogni volta che ci ricorderà chi siamo o chi potremmo ancora essere.

Gaetano Aspa

Festa del cinema di Roma 2025: La Capitale celebra il cinema tra contemporaneità e memoria

Dal 15 al 26 Ottobre 2025 si è svolta la 20esima edizione de la Festa del Cinema di Roma. Un edizione ricca, capace di raccogliere grandi nomi tra il panorama italiano ed internazionale, guardando alla contemporaneità e preservando la memoria allo stesso tempo. Il legame inossidabile tra passato, presente e futuro ha permesso alla Capitale di aprire nuovamente le porte alla settima arte con una selezione di opere che si interrogano sul futuro, ma che allo stesso tempo mantengono vivo tutto ciò che ha fatto la storia del cinema.

Roma 2025: un dialogo tra epoche

Dal 15 al 26 Ottobre 2025 ha avuto luogo a l’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone la 20esima edizione de La Festa del cinema di Roma. Organizzata da Fondazione Cinema per Roma con la direzione artistica di Paola Maranga, l’edizione di quest’anno ha visto nelle varie sezioni (Concorso Progressive Cinema – Visioni internazionali, Freestyle, Grand Public, Best of 2025, Storia del cinema, Proiezioni speciali) un ampiezza di generi non indifferente, tra cui anche documentari, restauri e omaggi. Un ottimo equilibrio tra qualità artistica e fruizione popolare dettata anche dalla presenza di vere e proprie certezze (italiane e non solo) sul tappeto rosso.

Fonte: Fondazione cinema per Roma
Fonte: Fondazione cinema per Roma

Sul suolo italiano i grandi nomi arrivano in primis dal film di apertura di questa 20esima edizione che è stato La vita va così di Riccardo Milani con Virginia Raffaele, Diego Abatantuono, Aldo Baglio e Geppi Cucciari (ispirato a una storia vera). Tra i più importanti impossibile non citare: La camera del consiglio di Fiorella Infascelli con Sergio Rubini e Massimo Popolizio; Alla festa della rivoluzione di Arnaldo Catinari con Valentina Romani, Riccardo Scamarcio, Nicolas Maupas e Maurizio Lombardi; Anna di e con Monica Guerritore (Biopic sulla vita di Anna Magnani, attrice pilastro del nostro cinema e del nostro teatro interpretata proprio dalla Guerritore) e Tommaso Ragno (nei panni di Roberto Rossellini); Breve storia d’amore di Ludovica Rampoldi con Pilar Fogliati, Adriano Giannini e Valeria Golino; Cinque Secondi di Paolo Virzì con Valerio Mastandrea e Valeria Bruni Tedeschi; Elena del ghetto di Stefano Casertano con Micaela Ramazzotti; Il Falsario (film per Netflix, ispirato alla storia vera del falsario di opere d’arte Antonio Chichiarelli) di Stefano Lodovichi con protagonista Pietro Castellitto; Fuori la verità di Davide Minnella con Claudio Amendola, Claudia Gerini, Claudia Pandolfi, Leo Gassmann ed Eleonora Gaggero; Illusione di Francesca Archibugi con Jasmine Trinca, Michele Riondino, Vittoria Puccini e Filippo Timi; Io sono Rosa Ricci di Lyda Patitucci con protagonista Maria Esposito; La lezione di Stefano Mordini con Matilda de Angelis e Stefano Accorsi e Per te di Alessandro Aronadio con Edoardo Leo e Teresa Saponangelo (ispirato a una storia vera). Tra più attesi, invece, sul piano internazionale, sicuramente Couture di Alice Winocour con Angelina Jolie e Louis Garrel e Dracula (Dracula – l’amore perduto) di Luc Besson con Caleb Landry Jones e Christoph Waltz.

Oltre ai film, non si può non lasciare spazio alle Serie Tv (come Vita da Carlo – Finale di stagione di e con Carlo Verdone, La Preside di Luca Miniero con Luisa Ranieri e Guerrieri – la regola dell’equilibrio di Gianluca Maria Tavarelli con Alessandro Gassman) e ai documentari (come Brunori Sas – Il tempo delle noci di Giacomo Triglia, La chitarra nella roccia. Lucio Corsi dal vivo all’abbazia di San Galgano di Tommaso Ottomano, Figlio di Giano di Luigi Grispello, Libero sempre comunque mai di Alessio Maria Federici, Noi e la grande ambizione di Andrea Segre) e agli anniversari con tanto di omaggio (come i 10 anni dalla scomparsa di Claudio Caligari e i 50 anni dall’uccisione di Pier Paolo Pasolini).

Premi e riconoscimenti

Come ogni festival che si rispetti, non possono mancare premi e riconoscimenti. Quest’anno la giuria con presidente Paola Cortellesi affiancata tra i vari giurati anche dall’attrice Barbara Ronchi, ha premiato i seguenti film: Left-Handed girl di Shih-Ching Tsou (Miglior Film); Tienimi Presente di Alberto Palmiero (Miglior Opera Prima Poste Italiane); Roberto Rossellini – Più di una vita di Ilaria de Laurentiis, Andrea Paolo Massara e Raffaele Brunetti (Premio del pubblico Terna); Nino di Pauline Loquès (Gran Premio della Giuria); 40 secondi di Vincenzo Alfieri (Premio speciale della Giuria).

E infine ha assegnato Miglior regia a Wang Tong per Chnag ye jang jin, Miglior Sceneggiatura ad Alireza Khatami per The Things You Kill, Miglior attrice (Premio Monica Vitti) a Jasmine Trinca per Gli occhi degli altri di Andrea de Sica (che la vede protagonista insieme a Filippo Timi) e Miglior attore (Premio Vittorio Gassman) ad Anson Boon per Good Boy di Jan Komasa.

I premiati della 20esima edizione
Fonte: Next Gen Magazine

La Capitale sotto il segno di Fellini e Giulietta

Questa 2oesima edizione, più che mai, è stata il perfetto esempio di come un festival cinematografico sia in grado di fermare il tempo e di far incontrare passato, presente e futuro. Lo si può vedere già dalla copertina, un omaggio a Giulietta degli Spiriti, film diretto da Federico Fellini nel 1965: un vero e proprio viaggio tra realtà ed immaginazione. La festa del cinema di Roma ha ricordato a tutt* noi quanto il cinema sia in grado di fondere questi due elementi e trasformarli in un qualcosa di unico, capace di fare da ponte tra le varie generazioni a dimostrazione che l’arte, forse, è l’unica cosa al mondo che non potrà mai morire.

 

Rosanna Bonfiglio

Frankenstein e il sogno visionario di Mary Shelley

Figlia di due pensatori rivoluzionari, Mary Shelley trasformò il dolore e la perdita in una delle opere più potenti della letteratura moderna: Frankenstein, o il moderno Prometeo.

 

Un’infanzia tra ombre e libri

Mary Wollstonecraft Shelley nacque a Londra il 30 agosto 1797, da due figure eccezionali: il filosofo William Godwin e Mary Wollstonecraft, pioniera del femminismo moderno.

La madre morì pochi giorni dopo il parto, lasciando in Mary un senso di colpa e solitudine che l’avrebbe accompagnata per tutta la vita.

Cresciuta in un ambiente colto ma severo, trovò rifugio nei libri e nella scrittura. A soli sedici anni aveva già letto Milton, Rousseau e Voltaire, e cominciava a delineare la propria voce narrativa.

L’educazione ricevuta in casa, impregnata di idee progressiste e libertarie, la preparò a sfidare i limiti imposti alle donne del suo tempo.

 

L’amore e la fuga

Nel 1814 Mary conobbe il poeta romantico Percy Bysshe Shelley, ammiratore del padre e spirito ribelle.

Shelley era già sposato, ma tra i due nacque un amore appassionato e anticonvenzionale, tanto che, nel 28 luglio di quell’anno, fuggirono insieme verso la Francia e la Svizzera, in piena Europa napoleonica. Quella fuga, segnata da scandali e difficoltà economiche, ruppe definitivamente i legami con il padre e con la società rispettabile dell’epoca.

 

I figli perduti e l’estate di Ginevra

Nei due anni successivi, Mary visse tra povertà, scandali e lutti.

Il primo figlio, nato nel 1815, morì pochi giorni dopo la nascita, lasciandola distrutta e piena di sensi di colpa.

Il secondo, William, nacque nel 1816 ma morì a tre anni, probabilmente a causa della malaria, durante il soggiorno della famiglia in Italia.

Nel 1817 nacque un’altra bambina, Clara Everina, che morì appena un anno dopo, durante un viaggio da Venezia a Roma.

Nei suoi diari Mary scrisse: «Ho perso due soli amabili bambini in un anno…e resterò per sempre infelice».

Il dolore della maternità spezzata divenne un tema costante nella sua opera, riaffiorando nella riflessione sulla creazione e sull’abbandono che percorre Frankenstein.

Dietro l’orrore e la scienza del romanzo, infatti, si nasconde anche la paura di una madre che dà la vita e poi la perde, di una creatrice che contempla la propria impotenza di fronte al destino.

Nel celebre “anno senza estate”, il 1816, Mary e Percy si recarono a Ginevra, dove vissero accanto al poeta Lord Byron e al suo medico John Polidori nella celebre Villa Diodati. Lì, tra discussioni filosofiche e giornate piovose, nacque l’idea di scrivere racconti dell’orrore, tra cui Frankenstein; or, The Modern Prometheus.

 

Il sogno che diventò storia

Frankenstein racconta la storia di Victor Frankenstein, giovane scienziato che, nel tentativo di sconfiggere la morte, crea un essere mostruoso che finirà per ribellarsi a lui.

Ma la creatura non è un semplice mostro: è un essere tragico, in cerca d’amore e riconoscimento.

Il romanzo intreccia scienza e morale, indagando la responsabilità del creatore verso la propria opera, i limiti del sapere umano e la solitudine dell’individuo.

Attraverso la figura di Victor, Mary Shelley mette in discussione l’orgoglio prometeico della modernità, mostrando come il desiderio di superare la natura possa generare distruzione.

Il sottotitolo richiama, infatti, il mito di Prometeo, il titano che rubò il fuoco agli dèi per donarlo agli uomini e che, come Frankenstein, pagò la sua sfida con la sofferenza.

Manoscritto di Frankenstein

Mary Shelley dopo Percy

Il successo di Frankenstein fu immediato, anche se molti l’attribuirono a Percy Shelley, autore della prefazione.

Nel 1822, un’altra tragedia colpì Mary: Percy annegò al largo di Viareggio, lasciandola vedova a ventiquattro anni.

Tornata in Inghilterra con l’unico figlio sopravvissuto, Percy Florence Shelley, omonimo del padre, decise di vivere di scrittura: atto di indipendenza e coraggio per una donna del suo tempo.

Pubblicò Valperga (1823), romanzo storico ambientato nell’Italia medievale, The Last Man (1826), visione apocalittica che anticipa la fantascienza moderna, e Falkner (1837), romanzo sull’indipendenza femminile.

Curò con devozione le opere del marito, affermando al contempo il proprio ruolo di intellettuale autonoma.

 

L’eredità e la sua immortalità

Mary Shelley morì a Londra nel 1851, a 53 anni, accanto al figlio Percy Florence.

Oggi è riconosciuta come una delle prime autrici di fantascienza e una voce femminile controcorrente, capace di fondere sensibilità e riflessione filosofica.

Frankenstein non è solo un racconto di paura: è un mito moderno che continua a interrogarci sui limiti del progresso e sulla responsabilità morale della creazione.

Nel suo mostro, Mary Shelley ha dato forma alla paura più profonda dell’umanità: quella di creare ciò che non possiamo controllare e di essere rifiutati da ciò che amiamo.

 

Fonti:

Miranda Seymour, Mary Shelley. 2000

 

Ilaria Basile

Il piacere autentico: la riscoperta della semplicità

Il vero significato del piacere

Ogni giorno, veniamo sommersi da migliaia di stimoli. Stimoli innescati dalle pubblicità, dai giornali, dai film e dalle serie tv che guardiamo, e, soprattutto, dai social media.

Davanti agli occhi ci scorrono, a ripetizione, gli stili di vita più disparati, simili o diametralmente opposti rispetto ai nostri. In risposta a quel confronto, maturiamo desideri, per lo più indotti e artificiosi, che, pur non appartenendoci, consumano le nostre energie – e il nostro denaro – nello sforzo profuso di soddisfarli.

Un appagamento, questo, destinato a non realizzarsi. Maggiore è l’esposizione a tali realtà plastiche e fittizie – interpretazioni abbellite della verità –, minore è, infatti, la possibilità effettiva di raggiungerlo.

Come bloccato in un circolo vizioso, distruttivo e senza fine, l’uomo, quindi, esaurisce e scarta, logora e abbandona, inseguendo un piacere che gli è stato promesso, ma per cui non esiste risoluzione. Un’insoddisfazione perpetua, che lo getterebbe in uno stato, altrettanto perenne, di frustrazione e infelicità.

Il piacere, però, non vive negli oggetti che acquista e conquista.

Gotthold Ephraim Lessing sosteneva:

L’attesa del piacere è essa stessa il piacere.

Una frase, divenuta poi celebre, che potrebbe, quasi con banalità, permetterci di svelare l’arcano.

Ciò che otteniamo non ci rende felice. Allora, il piacere che percepiamo non risiede nell’acquisizione, quanto più nell’indugio. In quel delizioso crogiolare che ci sorprende al pensiero di possedere.

Una consapevolezza che l’umanità sembra aver perso, guidata da una mentalità capitalistica e consumistica, forgiata all’insegna del “tutto e subito”.

È usuale, soprattutto fra le generazioni anziane, sentir dire, in una maniera che ha per noi giovani dell’esasperante:

Si stava meglio quando si stava peggio”.

Inserita in questo contesto, il detto assume un significato diverso. Secondo i loro racconti, pur non avendo un soldo e pane da mangiare e nonostante si andasse avanti alla giornata, i nostri nonni vivevano meglio.

Il sacrificio e le batoste erano all’ordine del giorno, ma, quantomeno, conoscevano il godurioso senso di orgoglio che scaturisce da una lunga e strenua battaglia. Una lotta il cui finale è inatteso, spesso deludente, sempre meritevole di festeggiamenti.

Si disponeva di poco e si perdeva assai di più, però si era felici. Felici di una felicità quieta, non esplosiva, totalizzante ed effimera. Una felicità che mette radici, e resiste anche se scossa.

Dovremmo, in definitiva, riscoprire la pazienza. Allenarci a ricercare il bello nel percorso che ci conduce al piacere. Una meta che è, per l’appunto, lo stesso viaggio che ci porta ad essa.

 

La strada per raggiungerlo

È proprio la pazienza la chiave per contrastare il pensiero del “tutto e subito” a cui la società contemporanea ci ha abituato.

Sono soprattutto i social media ad incrementare la normalizzazione di questa “corsa alla vita”, mostrando continuamente Influencer milionari che partecipano ad eventi e collaborano con prestigiosi brand, acquistano casa e aprono aziende.

Coltivare la capacità di trarre soddisfazione dall’attesa, da ogni singolo momento, da ogni obiettivo raggiunto. Ridurre l’ansia e il confronto con quelle vite apparentemente perfette. Riconoscere che dietro una felicità artificiosa, non sofferta, si cela il segreto desiderio di ottenere subito qualcos’altro.

In questo senso la semplicità diventa un valore imprescindibile, vitale per non cadere in un vortice di perpetua insoddisfazione.

La semplicità sta nel riconoscimento dei piccoli grandi traguardi quotidiani.

In questo contesto, la gratitudine – “l’apprezzamento di ciò che è prezioso e significativo per sé stessi” – diventa un prezioso antidoto per sviluppare una felicità consapevole. Una consapevolezza che ci invita a riflettere su ogni ostacolo incontrato lungo il cammino e sulla crescita che ne è derivata.

La felicità è semplice.

La felicità sta nella consapevolezza, nella conoscenza, nello sguardo verso il mondo. Non si tratta di possedere tutto o di rincorrere mete effimere, ma di imparare a osservare ciò che ci circonda con occhi attenti e curiosi. Ogni esperienza di vita quotidiana, diventa allora occasione di apprendimento e di gioia.

È proprio attraverso la conoscenza che impariamo a scegliere con consapevolezza, a dare priorità a ciò che nutre veramente la nostra anima, piuttosto che rincorrere piaceri effimeri imposti dalla società.

Una felicità basata sulla consapevolezza di noi stessi e del mondo circostante. Una felicità che diventa dialogo.

Ma soprattutto, la felicità sta nelle relazioni umane, sincere e autentiche.

Non è chi possiede molto, ma chi è amato, che è ricco.”

Nessun bene materiale può reggere il confronto con ciò di più puro e semplice che la vita possa donarci: i sentimenti.

Ciò che nutre davvero l’anima è la profondità dei legami, la capacità di condividere emozioni, gioie e difficoltà con chi ci sta accanto.

Al contrario di quanto spesso siamo indotti a pensare, la vera felicità non è un traguardo da raggiungere in fretta, né tantomeno un oggetto da possedere. È piuttosto un viaggio lento e paziente, fatto di piccoli gesti quotidiani, momenti preziosi e soprattutto persone con cui condividerli.

 

Valeria Vella

Antonella Sauta

Perché l’Italia non è pronta a TonyPitony?

Da X Factor ad Internet:

Chi è TonyPitony? Era il 2020, mentre eravamo chiusi in casa causa pandemia, molti di noi cercavano di distrarsi da ciò che stava accadendo nel mondo con i propri programmi preferiti, come ad esempio X Factor, il noto show di talenti musicali. É proprio nell’edizione di quell’anno nefasto che durante le audizioni, i giudici si trovarono davanti un personaggio inaspettato rispetto a tutti i giovani cantanti saliti fino a quel momento sul palco.

Davanti a loro, un uomo con una maschera di Elvis inizia a cantare una cover in chiave neomelodica di “Hallelujah”. Li lascia notevolmente di stucco… ma, purtroppo, gli diranno di no, non facendolo passare alle fasi successive del programma.
Nessuno però avrebbe detto che, qualche anno dopo quella apparizione, quell’assurdo cantante sarebbe diventato uno dei fenomeni più popolari dell’ultimo anno sui social media e uno degli artisti indie più ascoltati del 2025.
Il suo nome è TonyPitony.
Artista siciliano di cui non sappiamo molto, diventato conosciuto non solo grazie all’enorme successo che ha ricevuto il suo ultimo album. Ma anche grazie alla collaborazione con vari content creator conosciuti. (si pensi a Favij nel videoclip di “SESSONLINE, e alcune sue apparizioni diventate virali quali la canzone Triquila” con Marco Castello). In un certo senso è grazie al suo personaggio -e non alla sua persona- che TonyPitony riesce a comunicare un certo tipo di messaggio attraverso la musica. Ciò che molti pensano, ma che non hanno il coraggio di dire.

TonyPitony
fonte: Facebook

Una voce di rottura contro la musica mainstream

Il 25 aprile 2025, giorno della Festa della Liberazione, esce il secondo disco di TonyPitony, un self titled di circa 40 minuti dove tutto l’estro creativo dell’artista trova luogo di esprimersi.

“La liberazione da un sistema che impone volti scoperti ma menti conformi”,

come lo definisce l’artista stesso. Nelle 12 tracce di questo album, ci troviamo davanti ad un viaggio di liriche dissacranti e una mescolanza di generi continui, passando dalle atmosfere più elettroniche a dance a quelle più intime e tranquille del cantautorato. Ciò che impressiona di questo progetto sono due elementi.

Il primo è la performance dell’artista stesso, in quanto si sente che TonyPitony è una persona che conosce in maniera approfondita le tecniche musicali, egli stesso in varie interviste ha affermato di aver studiato canto e recitazione sia in Italia che all’estero, perciò in questo album abbiamo non solo un grande lavoro dal punto di vista canoro, ma anche una grande cura per i tempi comici e la creazione di un ambiente unico.


Il secondo elemento è il contenuto delle canzoni stesse: l’artista in questo album non si risparmia a trattare in maniera ironica e dissacrante argomenti che molti noi spesso troviamo a pensare ma che non diciamo a voce alta (il mondo lgbt, gli stereotipi razziali, il rapporto con le donne e così via). TonyPitony parla di tutto e attacca tutti, senza mezzi termini, facendo del nonsense e del black humor il suo cavallo di battaglia contro la musica mainstream, diventando così una voce di rottura contro un panorama musicale che non osa e non si evolve, prendendo in giro non solo gli altri artisti, ma anche l’ascoltatore stesso.

 

TonyPitony
Foto di Alberto Sapia

Perché la musica di TonyPitony funziona?

La musica di TonyPitony funziona perché non fa solo ridere, ma ha anche stesso il potere di diventare un meme. È qualcosa con cui la gente si può rivedere e riflettere. L’artista siciliano usa una narrazione che va oltre il surreale. Lascia sì spazio, di tanto in tanto, a dei momenti di probabile serietà, come accade in “STIMOLI” o in “CULO”, ma tutto questo dura poco. Lo scopo di TonyPitony non è quello di essere un artista che vuole essere preso sul serio. Non vuole lasciare un messaggio profondo, ma distruggere le aspettative dell’ascoltatore che lo pensa tale.

Perché TonyPitony, come il suo amato “UOMO CANNONE”, “spara mi****ate”. E a noi piace proprio per questo. Da tanto tempo in Italia mancava un artista che, come lui, non si prendesse sul serio e facesse musica solo per il gusto di farlo.

 

L’Italia è pronta a TonyPitony?

TonyPitony è un artista talentuoso che potrebbe essere capace di scrivere delle canzoni d’autore di notevole qualità. Ma questa strada probabilmente l’avrebbe portato ad essere dimenticato.

Perciò ha deciso di seguire una direzione opposta, quella della parodia. Segue la scia di altri artisti italiani che lo hanno preceduto con l’unione della commedia dissacrante alla musica (come ad esempio gli Elio e le Storie Tese).

Ma TonyPitony è forse un caso unico: in un 2025 saturo di artisti che pensano solo ai grandi numeri, lui irrompe per ciò che è. Si  tratta di un progetto che è speciale proprio perché è personale e fatto con le regole del suo personaggio, che non tutti possono capire.

Per concludere, no, l’Italia non è pronta a TonyPitony, ma va bene così, perché come lui stesso dice:

“Non sono l’icona che volete voi,
Non avete bisogno di uno come me”

(STIMOLI)

Giacomo De Salvo

Stereotipi di genere e media

I mezzi di comunicazione di massa giocano un ruolo fondamentale nella produzione e diffusione degli stereotipi.

Ma cosa sono gli stereotipi?

Per la psicologia sociale, uno stereotipo corrisponde a una credenza­­­­­ o a un insieme di credenze in base a cui un gruppo di individui attribuisce determinate caratteristiche a un altro gruppo di persone.

Lo stereotipo è la base su cui si sviluppa il pregiudizio.

Essi fanno parte della cultura di una comunità. Vengono acquisiti dai singoli e utilizzati per comprendere ciò che ci circonda.

Si tratta di costruzioni sociali della cultura, appresa tramite i processi di socializzazione — dall’educazione familiare a quella scolastica — che l’individuo “indossa” come disposizione naturale, rispecchiando una specifica società con le proprie condizioni storico-sociali.

Gli stereotipi vengono diffusi proprio mediante la società stessa che, talvolta in modo inconsapevole e talvolta consapevolmente, trasmette una certa immagine di alcuni concetti.

Ogni individuo ha una propria visione del mondo, basata su ciò che osserva e ascolta, le esperienze vissute, oltre che dalle intuizioni e credenze personali. Le identità di ciascuna persona sono elaborate anche attraverso i prodotti culturali, come la lettura di libri e giornali, la visione di un film, un documentario, uno spettacolo. Anche lo sport, le arti performative o le pubblicità possono essere considerati prodotti culturali.

In particolare, gli stereotipi di genere, vale a dire “idee preconcette secondo cui a maschi e femmine sono attribuite caratteristiche e ruoli determinati e limitati dal genere loro assegnato in base al sesso”, si manifestano in molteplici forme e, diffondendosi, influenzano profondamente la percezione della realtà.

È proprio attraverso la comunicazione interculturale e crossmediale che veicolano gli stereotipi.

 

Stereotipi di genere
Stereotipi di genere. (fonte: www.cristinabuonaugurio.it)

Stereotipi nei film e nelle serie tv

Un esempio evidente di stereotipi di genere si ritrova spesso nelle serie televisive e nei film. In molte commedie romantiche, ad esempio, la donna viene rappresentata come fragile, emotiva e in attesa dell’uomo “giusto” che la completi, mentre l’uomo appare forte, razionale e poco incline a mostrare sentimenti.

Serie come Friends o How I Met Your Mother, pur essendo amate dal pubblico, mostrano personaggi femminili spesso associati all’aspetto fisico o alla ricerca dell’amore, e personaggi maschili legati al successo, al lavoro e alla conquista. Anche nei film d’azione o in quelli di supereroi, come in James Bond o The Avengers, si osserva lo stesso schema: uomini protagonisti e donne in ruoli secondari, spesso ridotte a interesse romantico o a figura da salvare.

Wonder Woman
Wonder Woman. (fonte: www.leganerd.com)

Solo negli ultimi anni si è iniziato a proporre modelli femminili più complessi, indipendenti e autorevoli. Ad esempio, personaggi come Wonder Woman o Meredith Grey di Grey’s Anatomy, capaci di scardinare le rappresentazioni tradizionali.

Allo stesso modo, anche gli uomini che mostrano sensibilità o vulnerabilità vengono talvolta rappresentati come deboli o “diversi”. Questo dimostra quanto profondamente radicati siano gli stereotipi che collegano la mascolinità alla forza e al controllo delle emozioni.

 

Diffusione e riconoscimento degli stereotipi

Gli stereotipi hanno la capacità di orientare e alterare la valutazione dei dati che arrivano dalla società.

La forza attribuita agli stereotipi può essere valutata attraverso l’analisi del grado di condivisione sociale, ossia quanto un’immagine positiva o negativa sia diffusa e condivisa in relazione a una specifica cultura o società. Maggiore è la diffusione all’interno dei gruppi sociali, più uniformi diventano le manifestazioni di ostilità verso specifiche minoranze, e più aumenta la rigidità e la resistenza al cambiamento degli stereotipi.

Riconoscere l’esistenza degli stereotipi di genere è il primo passo per poterli superare. È importante sviluppare uno sguardo critico nei confronti dei messaggi che riceviamo ogni giorno dai media, dalla pubblicità e persino dal linguaggio comune. Solo attraverso l’educazione, la consapevolezza e il confronto possiamo contribuire a costruire una società più equa, in cui le differenze non diventino barriere ma ricchezze.

Superare gli stereotipi significa restituire libertà alle persone, permettendo a ciascuno di esprimere la propria identità senza essere intrappolato in ruoli imposti o preconcetti sociali.

 

Fonti:

https://eige.europa.eu/publications-resources/thesaurus/terms/1223?language_content_entity=it

https://www.sapere.it/

https://publires.unicatt.it/it/publications/luso-dello-stereotipo-di-genere-in-pubblicit%C3%A0-9

https://en.wikipedia.org/wiki/Media_and_gender

 

Sabrina Levatino

Il Messina Opera Film Festival si presenta a Roma: un ponte tra cinema e lirica alla Festa del Cinema

Roma, 23 ottobre 2025 – Lo Spazio Casa Alice dell’Auditorium Parco della Musica ospiterà, sabato 25 ottobre alle ore 18.00, la presentazione in anteprima nazionale della IX edizione del Messina Opera Film Festival (MOFF), in programma a Messina dal 29 novembre al 7 dicembre.

Diretto da Ninni Panzera, il MOFF è l’unico festival italiano interamente dedicato al rapporto tra cinema e opera lirica, e si è ormai affermato come evento di rilievo internazionale. Nel 2025 entra ufficialmente a far parte del Music Film Festival Network, la rete europea che riunisce le più importanti manifestazioni dedicate al film musicale.

Alla presentazione romana prenderanno parte, oltre al direttore artistico Panzera, alcuni dei protagonisti di questa nuova edizione, che si annuncia particolarmente ricca di appuntamenti e anteprime.

Un’edizione tra omaggi, rarità e capolavori del cinema d’opera

Tra gli eventi più attesi spicca lo spettacolo teatrale “Resta Diva – Omaggio a Maria Callas” con Enrico Lo Verso, un raffinato viaggio nel mondo affettivo e negli incontri maschili che segnarono la vita della grande diva della lirica.

Altro momento di rilievo sarà il tributo all’arte visionaria di Andrea Andermann, con la riproposizione dei suoi celebri film-opera in diretta: Tosca a Roma, Traviata a Parigi, Rigoletto a Mantova e Cenerentola. Queste produzioni hanno segnato una svolta nella fruizione televisiva dell’opera lirica, portandola in diretta nei luoghi in cui le storie erano ambientate.

Il programma del festival prevede circa cinquanta titoli tra film, documentari e cortometraggi, organizzati in sezioni tematiche:

  • Il canto silenzioso. L’opera al tempo del muto, con tre capolavori del cinema muto musicati dal vivo (Il fantasma dell’Opera, A Burlesque on Carmen, Jeanne d’Arc);

  • Giuseppe Verdi al cinema, con opere immortali come Giuseppe Verdi di Raffaello Matarazzo, Aida con Sophia Loren e Rigoletto di Carmine Gallone;

  • Carmen Day, una giornata interamente dedicata al mito di Carmen nel 150° anniversario della sua prima rappresentazione;

  • La sezione Documentari, che include Renato Cioni: La voce dell’Elba di Stefano Muti (in anteprima italiana), La forza del destino di Anissa Bonnefont e Enigma in tempo rubato. Un Mozart argentino, con il tenore Fabio Armiliato, anche tra i premiati del festival.

Premi e giurie internazionali

Il Premio Messina Cinema&Opera 2025 sarà assegnato ad Andrea Andermann, Barry Purves e Fabio Armiliato, tre figure che hanno saputo coniugare linguaggi artistici e innovazione visiva.

La giuria internazionale del concorso cortometraggi, presieduta dal compositore Paolo Vivaldi e composta dai registi Axel Ranisch e Antonia Bain, assegnerà il Premio Emi Mammoliti al miglior corto, selezionato tra quattordici opere provenienti da otto Paesi.

Un festival sostenuto dalle istituzioni e dalla cultura del territorio

Il Messina Opera Film Festival è prodotto dall’Associazione La Zattera dell’Arte, dal Teatro Vittorio Emanuele di Messina, dalla Sicilia Film Commission dell’Assessorato Regionale al Turismo, Sport e Spettacolo, dal Comune di Messina, dalla Fondazione Messina per la Cultura e dal Ministero della Cultura, con il sostegno di Unioncamere Sicilia, CNA Sicilia, Università di Messina e Conservatorio Corelli.

L’evento gode inoltre del patrocinio di Rai Sicilia e della media partnership di RAI, MYmovies e UniversoME.

Con questa anteprima romana, il MOFF conferma la propria vocazione a unire la grande tradizione operistica italiana con il linguaggio cinematografico contemporaneo, riaffermando Messina come punto di riferimento per la cultura audiovisiva e musicale internazionale.

Gaetano Aspa

C’era una volta il tempo. E ora?

«C’era un volta il tempo. Avete presente il tempo? Il tempo delle sveglie e quello del riposo, il tempo degli appuntamenti presi e saltati, il tempo che manca sempre, il tempo che non passa mai, il buon tempo di chi non ha niente da fare, i mala tempora che currunt senza andare da nessuna parte».

Si, purtroppo sappiamo a quale tempo si riferisce Simone Tempia, autore di “Vita con Lloyd”, la celebre raccolta di dialoghi tra Sir e il maggiordomo Lloyd.

Nel suo secondo libro “Il giardino del tempo”, Tempia ci accompagna alla scoperta del suo giardino: rigoglioso, pieno di fiori, alberi e frutti. Un giardino non sempre curato, a volte lasciato alle intemperie.

Il giardino si fa metafora del tempo, quel tempo che, come descriveva all’inizio, è un po’ frenetico, scandito dalla corsa della vita.

Siamo così bravi a correre e a rincorrere che potremmo diventare tutti maratoneti. Eppure poi esclamiamo “non ho neanche il tempo per andare a correre”. Un paradosso, insomma.

 

L’evoluzione del concetto del tempo

Ma andiamo indietro proprio nel tempo.

Il concetto di tempo è molto antico ed è stato uno degli oggetti di riflessione che più ha affascinato i grandi pensatori, tanto da studiarne ogni piccolo frammento. Componente centrale della nostra quotidianità ed esperienza del mondo, fa riferimento alla “dimensione con cui si concepisce, organizza, rappresenta e misura lo scorrere degli eventi e il susseguirsi di stati”.

Continuità illimitata ma suddivisibile, distinguibile in passato, presente e futuro.

Una suddivisione che Dickens traccia abilmente attraverso il suo romanzo “Christmas Carol”. Durante quella notte di Natale, il tempo si comprime e si dilata in un processo astratto e contraddittorio,  che fugge da ogni fondamento scientifico.

Periodo andato, istante trascorso, presente che svanisce, futuro incentro: è sempre una questione di tempo. Una fiamma che arde senza mai consumarsi, pronta a illuminare un passato coperto da fitte tenebre.

 

Henri Bergson: uno scorrere continuo e indivisibile

Henri Bergson, filosofo francese del tardo XIX e inizio XX secolo, ha offerto una distinzione tra un tempo scientifico e misurabile, e un tempo vissuto, introducendo il concetto di durée”, come flusso continuo e indivisibile che è percorso internamente, riflettendone la coscienza e l’esperienza soggettiva.

Per Bergson la durata della vita è interna, fluida, indivisibile, al contrario dello spazio che risulta esterno, statico e divisibile.

La visione di Bergson pone l’accento sull’importanza dell’esperienza soggettiva e qualitativa del tempo, centrale per la nostra comprensione. Questa prospettiva invita a riconoscere che il tempo vissuto è fondamentale e non dovrebbe essere ridotto a una semplice dimensione misurabile come lo spazio.

La memoria ha un ruolo essenziale: collega il passato con il presente, mantenendo la continuità della durata.

Quindi, se per il filosofo francese lo spazio è una forma che frammenta e esteriorizza il flusso continuo, la durée abita dentro ognuno di noi, regolando la nostra coscienza. Questo mette in luce la profondità della nostra esperienza interna e critica la riduzione del tempo a una mera dimensione quantificabile.

 

Come sperimentiamo lo scorrere degli eventi?

«Scandisco la vita attraverso nuove unità di misura[..]. E così mi sono creato il mio tempo tutto verde. Un tempo che non è più fatto di numeri, ma di arbusti. Un tempo di ciò che cresce e anche i ciò che secca. Un tempo di cui aver cura. Un tempo che non cammina, ma che si attraversa, osservando tutto quello che c’è e quello che manca. Un tempo in cui tutto, a suo modo, ha un senso».

Attenzione, memoria ed emozioni sono i principali meccanismi cognitivi coinvolti nella codifica e nella manipolazione delle informazioni temporali. Si tratta di un fenomeno che guida tutta la nostra vita. Ci consente di organizzare ed eseguire le azioni, di orientarci in modo coerente a ciò che ci circonda.

Non è solo lo scorrere degli anni, dei mesi, delle settimane, dei giorni, delle ore, dei minuti e dei secondi. Non è solo una continuità quotidiana, una relazione con lo spazio in cui ci troviamo. Non è neanche una scatola vuota che dobbiamo riempire con tutta la nostra vita, con gli impegni, le preoccupazioni, i pensieri.

 

Il tempo della consapevolezza

Il maggiordomo Llyod definisce il tempo come un campo da coltivare, quello che scorre tra un prima e un poi. Fornisce un’idea di quanto qualcosa è cambiato nel suo divenire. Proprio come un giardino, che non dà subito i suoi frutti, non profuma all’istante di rosa o di lavanda.

Aristotele sostiene che per avere una percezione del tempo sia necessaria una mente capace di misurare, accentuando il nesso che intercorre tra tempo e anima.

Dunque, il tempo si definisce in relazione al soggetto che ne fa esperienza. E siamo noi i contadini che ci premuriamo di coltivare il nostro campo, senza fretta, aspettando quel soffio di vento che ci ridesti dalla frenesia di un tempo che si allontana dalla durée bergsoniana e dalla pazienza di Llyod.

Non importa quanto grande sia ciò che facciamo nel nostro tempo. O quanto grande pensiamo che debba sembrare.

Qualunque cosa fai, se sai come viverla e inserirla nel tuo tempo, può trasformarsi in un giardino ancora più verde.

 

Fonti:

https://www.treccani.it/enciclopedia/henri-louis-bergson/

 

Elisa Guarnera

Il genio e la malinconia di Cyrano de Bergerac al Teatro Vittorio Emanuele

Tra le opere più amate del teatro francese, Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand continua, a oltre un secolo dalla sua prima rappresentazione, a conquistare il pubblico di ogni età. È una commedia eroica e romantica, un inno alla parola, all’amore e al coraggio di essere se stessi, anche quando la realtà non corrisponde ai propri sogni.

Scritta nel 1897, l’opera è ambientata nella Francia del Seicento e racconta la storia di Cyrano, spadaccino e poeta dal talento straordinario, ma segnato da un naso tanto grande quanto il suo orgoglio. Innamorato perdutamente della bella cugina Rossana, Cyrano non osa dichiararsi, convinto che il suo aspetto lo renda indegno d’amore. Quando l’affascinante ma impacciato Cristiano chiede il suo aiuto per conquistare la donna, Cyrano sceglie di prestargli la sua voce e le sue parole, nascondendo così il proprio sentimento dietro la maschera dell’altro.

Il risultato è una tragedia dell’anima e dell’identità, in cui la bellezza esteriore e quella interiore si scontrano fino all’ultimo atto, in una delle scene più commoventi del teatro mondiale. La penna di Rostand alterna con maestria ironia e malinconia, duelli e dichiarazioni d’amore, in una partitura di versi musicali e potenti che rendono Cyrano de Bergerac un classico eterno.

Ancora oggi, ogni nuova messa in scena di Cyrano de Bergerac è una sfida per attori e registi. Il personaggio di Cyrano, in particolare, è un banco di prova per chiunque voglia misurarsi con uno dei ruoli più intensi e complessi del repertorio teatrale.

Mariapia Rizzo (Cirano) e Marina Cacciola (Rossana) durante una scena dello spettacolo. ©UniVersoMe

Il Cirano a Messina

Il capolavoro di Edmond Rostand rivive al Teatro Vittorio Emanuele di Messina, nella suggestiva Sala Laudamo, grazie alla compagnia Teatro dei Naviganti. Lo spettacolo, andato in scena il 16 ottobre alle ore 21, è una libera ispirazione firmata da Domenico Cucinotta e Mariapia Rizzo, che firmano rispettivamente la regia e l’adattamento. In scena, Marina Cacciola, Elvira Ghirlanda, Antonio Previti e Mariapia Rizzo, con quest’ultima anche in veste di assistente alla regia.

Una versione innovativa

Confesso di essere sempre un po’ diffidente di fronte alle “libere ispirazioni” dei grandi classici, spesso il rischio è quello di snaturarne la complessità e, in qualche modo, rovinarne il fascino in nome di un’attualizzazione forzata.
Eppure, questa volta, sono rimasto sinceramente sorpreso. La rilettura del Cyrano de Bergerac proposta dal Teatro dei Naviganti riesce a rispettare lo spirito dell’opera originale pur trovando una voce propria, fresca e contemporanea.

Il punto di forza dello spettacolo è senza dubbio la sua dinamicità: la continua rottura della quarta parete crea un dialogo vivo con il pubblico, rendendolo parte integrante della narrazione. Così come l’utilizzo della platea come palco “secondario”, fa vivere negli spettatori una sorta di esperienza immersiva, con voci fuori campo e scene svolte direttamente tra la sedute del pubblico.

Un altro elemento riuscitissimo è l’uso delle canzoni “moderne”, per citarne una “Con una rosa” di Vinicio Capossela. 
Gli attori e le attrici, poi, sono straordinari nel restituire la profondità e la tensione emotiva della storia: ognuno riesce a rendere palpabile la complessità dei personaggi, dall’orgoglio malinconico di Cirano alla dolcezza irrisolta di Rossana.

Il risultato è uno spettacolo coinvolgente, intelligente e sincero, capace di far ridere e commuovere, di unire poesia e ritmo, parola e musica.

Un Cyrano che parla al presente senza tradire il passato e che dimostra come, anche quando un classico viene reinventato, ciò che conta davvero è la verità delle emozioni.

Gaetano Aspa

L’uomo nell’età della crudeltà…gentile

Dimmi la verità, non ti senti anche tu stanco del mondo?

Non del lavoro, non dei giorni che si ripetono uguali, ma di quella stanchezza più profonda, quella che tocca la coscienza.

Ti sei mai chiesto, davvero, in che epoca viviamo?

No, non parlo di date, di secoli, di “postmodernità”. Parlo di te, di me, del nostro respiro quotidiano. Parlo di questo tempo che non promette niente e pretende tutto.

Hai notato? Ti sei accorto che non ti sorprendi più di nulla? Che puoi leggere di un bambino morto sotto le macerie di Gaza e dopo cinque secondi aprire un video di cucina?

Non è colpa tua, mi dirai. È il mondo.
Ma il mondo — te lo dico con amarezza — il mondo siamo noi.

E no, non è cattiveria. È abitudine. Ci siamo abituati al dolore. È questa la vera tragedia del presente: la guerra non ci scandalizza più, il male ci sfiora ma non ci interessa, la morte non ci riguarda.

In Palestina si muore ogni giorno. Nella vicina Ucraina il fronte non tace. In Sudan, Yemen, Myanmar, Congo, guerre dimenticate, che non trovano spazio nemmeno in un titolo, perché al momento non fanno audience e non possono essere strumentalizzate. Anche alle porte e dentro la nostra civilissima Europa, l’uomo continua a distruggere l’uomo. E noi, spettatori, osserviamo la rovina come se fosse un film già visto. Ormai consumiamo la sofferenza come mero intrattenimento.

Viviamo nel tempo del “tutto subito”, ma ci manca tutto.  E intanto milioni di persone non riescono a pagare un affitto, milioni di giovani non immaginano un futuro. L’1% della popolazione mondiale possiede un terzo della ricchezza. Gli altri, cinque miliardi di esseri umani che vivono sulla soglia della povertà, si arrangiano. I giovani lavorano per sopravvivere, non per vivere.
E quando il futuro non si mostra, alcuni decidono di non aspettarlo più. Il suicidio è oggi una delle prime cause di morte tra i ventenni. Abbiamo creato una società che misura il valore di un essere umano in base a quanto produce.
La dignità è diventata un costo e la libertà un privilegio.

E intanto il pianeta si consuma, brucia, si sfalda. Le alluvioni, gli incendi, le siccità. Ogni anno i disastri climatici si moltiplicano e ogni volta ripetiamo lo stesso mantra: “Bisogna fare qualcosa”.
Ma chi, esattamente? Tu? Io? Lo Stato? Le aziende? Tutti lo dicono, nessuno comincia.
Ci siamo convinti che il tempo non sia una risorsa comune, ma un diritto individuale: “Finché non tocca a me, non è un problema mio.” E invece ci toccherà. Ci sta già toccando.
 Ma poi niente cambia. Abbiamo fatto della catastrofe un’abitudine meteorologica.

Milioni di persone scappano da terre ormai invivibili, li chiamiamo “migranti climatici”.
Ci basta una nuova parola per non dover provare compassione. Nel Mediterraneo le barche continuano a ribaltarsi e ogni volta che succede ci indigniamo per due giorni (se va bene), poi torniamo a dormire.
Abbiamo imparato a convivere con la morte degli altri, purché sia lontana, purché non sporchi la nostra quotidianità ordinata.

Ma la crisi più profonda non è nelle economie o nei governi, è nei sentimenti. Le relazioni si consumano come sigarette, rapide e usa-e-getta. Ci si incontra su uno schermo, ci si ama con un filtro, ci si lascia con un messaggio.
L’amore è diventato un’esperienza estetica, non più morale. Si vuole piacere, non conoscere; riempire, non condividere. Abbiamo paura di legarci, perché legarsi significa restare, e restare oggi è un atto di coraggio.
La tenerezza è scambiata per debolezza, la profondità per pericolo. I giovani si dicono soli anche quando hanno mille contatti. Gli adulti smettono di cercarsi, convinti che l’intimità non esista più.

La solitudine non è mancanza di compagnia, è mancanza di ascolto. Viviamo accanto, ma non insieme.
Eppure, paradossalmente, desideriamo l’amore più che mai, come un bene raro, come un sogno che non si osa pronunciare.

E allora ti chiedo: da quanto tempo è che non ti indigni davvero? Non per moda, non per apparire “sensibile”, ma per quella rabbia autentica che spinge a cambiare qualcosa?
Perché se smettiamo di provare vergogna, di provare dolore, allora siamo già finiti.
Senza vergogna non c’è morale. Senza dolore non c’è compassione.

Sì, forse ti sto accusando. Ma accuso anche me.
Siamo tutti complici di questa passività raffinata, di questa anestesia morale.
Viviamo come sonnambuli dentro una catastrofe che chiamiamo routine.

Viviamo nell’epoca della violenza non esplicita, ma in quella della crudeltà gentile. Non si uccide con le armi, ma con la distrazione. Non si umilia con la forza, ma con l’indifferenza. L’uomo moderno non distrugge, dimentica.
Scorre, passa oltre, lascia che tutto muoia nel rumore continuo del nulla. È la crudeltà che sorride, quella che ti accarezza mentre ti svuota. Ti dice: “Non pensarci, non serve, non è affar tuo.”
E tu obbedisci, quasi sollevato.

Forse non cambieremo il mondo, ma possiamo smettere di esserne complici. Possiamo scegliere di restare svegli, di non farci addomesticare dalla rassegnazione. Possiamo scegliere la lentezza, la compassione, la presenza.

E se scrivere oggi, significa ancora assumersi la responsabilità di disturbare, non per sadismo, ma per richiamare alla coscienza. Se la letteratura è ancora un tribunale, allora dobbiamo condannare la banalità della compassione che si limita a osservare. Dobbiamo, in qualche modo, restare umani e, dato il “panorama scheletrico del mondo” odierno, è la forma più alta di resistenza. Nell’epoca che ci vuole distratti, ricordare, sentire e amare sono i gesti più sovversivi che ci siano.

Gaetano Aspa