Il tramonto del sogno CUS

Domenica 30 aprile, con la sconfitta in quel di Lipari, si spegne definitivamente ogni possibilità del sogno promozione diretta del Cus Unime.

Nell’ultima trasferta eoliana i ragazzi di Smedile arrivano con non poche difficoltà di organico a giocarsi la partita più importante della stagione. Dopo il solito e stremante viaggio in aliscafo nelle prime ore della mattina, il match del Franchino Monteleone prende il via alle ore 11, diretto dal fischietto messinese del Sig. Muscherà.

 

Primo tempo: pirotecnico. E’ questo l’aggettivo più adatto per sintetizzare in unico termine i primi 45 minuti tra Ludica Lipari e Cui Unime.

Doppio vantaggio immediato dei padroni di casa firmato da Marino e Sturniolo, quest’ultimo con un pregiatissimo calcio di punizione dal limite. Il Cus subisce il colpo e si affida al proprio capitano, Iacopino, che riapre il match con un meraviglioso gol di tacco degno di ben altre categorie.

La Ludica però non si distrae affatto, anzi sfrutta a tutto tondo il fattore campo e realizza altri due gol uno dopo l’altro grazie alle trasformazioni di Tripi e D’Ambra. Punteggio 4-1 e a un minuto dalla fine della prima metà, ancora capitan Iacopino, accorcia le distanze per il Cus direttamente su punizione. Al duplice fischio il parziale è di 4 a 2 per gli eoliani.

 

Secondo tempo: a differenza del primo tempo, nella seconda parte di gara la situazione è molto equilibrata e priva di pericoli per entrambi i portieri. Il Lipari gestisce il possesso ottimizzando anche il vantaggio numerico dopo l’espulsione di Mister Smedile (che ha dovuto prendere parte all’incontro come titolare, per i problemi di organico di cui sopra).

Il Cus ci prova, ma è tutto troppo complesso. Chiude i conti Macchione di testa che chiude definitivamente la partita sul risultato di 5 a 2.

 

Finisce aritmeticamente ogni possibilità di centrare la promozione diretta per il Cus, sogno che invece si avvicina sempre di più alla Ludica Lipari alla quale mancano due punti da centrare nelle ultime due partite. In casa Cus ora si può e si deve cominciare a pensare al raggiungimento dei play-off, che vista la corta classifica, non è neanche un obiettivo semplicissimo come poteva apparire fino a qualche settimana fa.

Due giornate al termine e il Cus Unime, che oggi è scivolato in quinta posizione, affronterà domenica prossima l’ultima partita in casa della stagione contro il fanalino di coda Città di Antillo.

 

Formazione Cus Unime (4-3-3): 1 Battaglia; 2 Russo, 4 Iacopino, 5 D’Agostino, 3 Insana; 6 Fiorello, 8 Smedile, 10 Tiano; 7 Papale, 9 Di Bella, 11 Stassi.

Panchina: Zito, Costa, Cardella, Lombardo, Al Hunaiti, Oliva.

 

Classifica:

Ludica Lipari 43

SC Sicilia 38

Fasport 35

Arci Grazia 35

Cus Unime 34

Real Zancle 33

Casalvecchio 28

Stromboli 28

Kaggi 26

Cariddi 14

Malfa 13

Città di Antillo 13

Mirko Burrascano

Dal Diario di un Erasmus: l’erba del vicino è realmente più verde?

Immaginate di essere uno studente universitario medio e di trovarvi una mattina in aula ad aspettare il professore, che con molta calma e tranquillità si prende il suo quarto d’ora accademico.

Siete seduti al vostro posto strategico, né troppo avanti, né troppo indietro; da lì potete tenere tutta l’aula sotto controllo. Siete intenti a farvi gli affari vostri, ed ecco che una voce giunge alle vostre orecchie e lo sentite! Lui! Il collega che è appena tornato dal semestre trascorso all’estero con una borsa di studio Erasmus.

Ed eccolo, con un look esotico, gesticolando con le mani, a raccontare di quanto sia stato facile passare tutti gli esami, di come sia diventato uomo di mondo, di tutti gli amici (rigorosamente italiani) che abbia conosciuto, di tutte le feste universitarie e bla, bla, bla. Adesso immaginate ancora di essere lo stesso studente universitario medio e di non credere ad una parola di quello che sentite dire al vostro collega.

Se siete riusciti a calarvi nel personaggio, allora per un attimo siete stati me qualche mese prima di partire per il mio semestre all’estero. Insomma, parliamoci chiaro, studiare in un altro Stato dell’Europa o del mondo porta certamente con sé grandi momenti di divertimento ed esperienze irripetibili tuttavia la formula matematica per cui la diminuzione dell’impegno nello studio sia direttamente proporzionale all’aumento del profitto accademico non è ancora nota.

Anche se, dopo aver partecipato personalmente al programma Erasmus, credo di aver capito che il vostro collega che si pavoneggiava prima dell’inizio della lezione, non aveva esattamente tutti i torti e che l’Erasmus è come una pagina bianca sulla quale si può scrivere ciò che si vuole. Si può scegliere di inserire nel Learning Agreement corsi inutili e con il test finale a crocette, solo perché bisogna sostenere degli esami necessariamente e quindi basta prendere i più facili, oppure si può ponderare il programma di ogni corso cercando quelli con dei contenuti che possano arricchirci.

Si è del tutto liberi di scegliere corsi ulteriori, non richiesti dal piano di studio italiano, ma tuttavia interessanti, che non sono offerti dall’università di partenza; si può fare amicizia con i colleghi stranieri oppure evitarli come la peste e cercare solo gli altri studenti di scambio italiani.

Ci si può impegnare a studiare la lingua del luogo, oppure accontentarsi di sopravvivere con quel poco inglese scolastico e non imparare neppure una parola nella lingua del Paese ospitante. Insomma, siete del tutto liberi di scegliere il font, la dimensione dei caratteri, il colore e il contenuto del vostro testo ma attenti! Qualunque scelta farete, questa sarà pregna di conseguenze. Tutte le esperienze della vita possono renderci delle persone migliori o peggiori, possono darci qualcosa oppure toglierci qualcosa.

Molto di rado siamo toccati da avvenimenti che non apportano alcun cambiamento alla nostra vita. Così è anche per lo studio all’estero; lo si può vivere come un’esperienza edificante, approfittando dell’opportunità per una crescita personale ed accademica, oppure lo si può vedere come una degustazione continua di superalcolici ed un susseguirsi di bravate impunite poiché si è all’estero e i genitori non lo sanno.

La malattia più comune ai nostri giorni è, a mio avviso, quella di dare tutto per scontato e di credere che tutto quello che ci viene dato sia un nostro diritto. Per qualche motivo ci siamo convinti, o siamo stati convinti dalla società, che le cose ci siano dovute, che, per qualche motivo non ben stabilito, siamo molto meritevoli di tutto ciò che abbiamo e mai, mai ci fermiamo a pensare che dovremmo essere grati per quello che ci è stato dato. Difatti, molto spesso, non è per bravura nostra che abbiamo ciò che abbiamo, ma perché qualcuno si è preso la pena di darcelo. Sotto questa luce ho cercato di vedere la mia opportunità di partire con l’Erasmus.

Parliamoci chiaro, farsi assegnare una borsa è estremamente facile; dopotutto una media maggiore di 26, motivazioni convincenti e un piano di studi simile a quello nell’università di partenza non sono poi richieste troppo esigenti. Eppure molti studenti non la ottengono.

Inoltre avere la possibilità di approcciarsi alla propria materia di studio da altri punti di vista e tramite metodi diversi; il confrontarsi quotidianamente con studenti stranieri, con la loro visione del mondo e con le loro esperienze di vita; la sfida continua di comunicare le proprie idee e i propri pensieri in una lingua diversa, cercando di caricarli della stessa forza, delle stesse emozioni e delle stesse sfumature con le quali lo si farebbe nella lingua madre sono tutte esperienze che non tutti hanno la fortuna di sperimentare.

Sebbene per noi andare all’estero e rimanerci per un dato periodo di tempo sia più facile di quanto lo sia stato per i nostri genitori, solo pochi fanno davvero l’esperienza di immergersi nella cultura in cui arrivano, cercando di capirla. Se è vero che una lingua è un prodotto della cultura che l’ha generata, è anche vero che non si parlerà mai bene una lingua finché non ci si accosta alla cultura stessa.

Allo studente Erasmus è data questa possibilità, forse non unica, ma certamente irripetibile. Inoltre allo studente Erasmus è anche data la possibilità di capire meglio la propria cultura di partenza, grazie al confronto continuo con gli altri, e di conseguenza iniziare ad apprezzare maggiormente le radici dalle quali si è nati. Andando via da casa ci si rende conto del valore di tutte le cose che si davano per scontate: ad esempio, quante volte noi siciliani siamo stati grati per tutte le belle giornate di sole, per gli inverni miti, per il cielo blu, ma così blu che non lo si vede da nessun’altra parte? Quante volte ci abbiamo per lo meno pensato? Crediamo che ci sia dovuto, che sia così e basta. Oppure, nella migliore delle ipotesi, non ci facciamo neanche caso.

Eppure a Dicembre, in nord Europa capisci quanto invece quel cielo blu sia una grazia e che capacità abbia di rendere le tue giornate migliori. Si, è vero, l’erba del vicino è sempre più verde, ma quando si va nel giardino del vicino ci si rende conto che per quanto possa essere verde, qual prato, dopotutto, non è il nostro prato. Se avete letto queste parole pensando che non hanno senso e che non ho colto l’occasione di trascorrere sei mesi all’insegna della follia, siete sicuramente il collega in piedi in mezzo all’aula intento a raccontare la sua storia.

Va bene così, vi auguro di godere del vostro momento di gloria prima dell’arrivo del professore. Se invece vi siete fermati a riflettere perché state pensando da tempo di mandare quella domanda all’ufficio Relazioni Internazionali, l’unica cosa che posso dirvi è: sbrigatevi! Cogliete l’occasione, provateci, ed una volta in Erasmus siate grati di essere arrivati fin lì e cercate di approfittare dell’opportunità che vi è stata concessa.

Andate nel giardino del vicino, esploratelo, guardate i sui alberi e cogliete i suoi frutti, guardate le foglie ed ogni cosa nei minimi dettagli, osservate il modo in cui costruisce i suoi vialetti e zappa le sue aiuole. Poi a tempo debito, tornate nel vostro giardino carichi di tante buone idee e spunti per migliorarlo. Vi assicuro che, dopo un periodo di assenza, vi sembrerà ancora più bello.

Ivana Bringheli

Terza Edizione “Calcio al razzismo – Uniti con lo Sport”

 

Prime edizioni

Nel 2015 nasce l’idea del “Calcio al razzismo – Uniti con lo Sport”, evento organizzato dal Cus Unime e dal Cug (Comitato Unico di Garanzia). Un momento di aggregazione, ovvero un torneo di calcio a 5 tra associazioni (non solo) studentesche e giovani migranti. Le prime due edizioni sono state accolte in modo cospicuo e questa terza edizione non è stata da meno. Anzi si dimostra essere una manifestazione sempre più in crescita.

Organizzazione

Dieci squadre hanno partecipato a quest’evento di natura benefica e solidale: cinque di queste composte dai centri di accoglienza per giovani migranti e altre cinque da rappresentanze locali. Due pomeriggi all’insegna del divertimento (mercoledì 26 e giovedì 27 aprile), presso la Cittadella Universitaria di Messina . Il primo giorno si sono tenute tutte le partite dei due gironi, ognuno da cinque squadre, e solo le prime due classificate sono giunte alla fase finale. Il secondo giorno, invece, sono state disputate le semifinali e le finali per il primo e per il terzo posto. Il tutto gestito in tempo reale dalla piattaforma Livinplay che ha curato i dettagli di calendario, classifiche e statistiche.

Squadre

I centri di accoglienza Amal, Ahmed e Sed hanno presentato 5 squadre: Betis Gang, Rainbow Lion, Real Ahmed, Real Amal e Sed. Mentre le altre cinque formazioni erano presentate da: Andromeda, Atletico Zancle, Esn Messina, Icaro-Orum e Messina Nel Pallone. A qualificarsi per le semifinali sono state Real Amal e Messina Nel Pallone per il girone A e Rainbow Lion e Icaro-Orun per il girone B. La finalissima è stata tra Rainbow Lion e Real Amal, con i primi vincitori della terza edizione del torneo. Grande soddisfazione per i centri di accoglienza con due delle loro squadre giunte alla finale per il primo posto. Infine, Icaro-Orum ha ottenuto il gradino più basso del podio vincendo ai rigori la finale per il terzo posto.

Premiazioni e saluti

In conclusione della manifestazione, è stato il Presidente del Cus Unime, Antonino Micali, a gestire le procedure di premiazione. Inoltre Carlo Giannetto, membro del Cug, e Alessandro Parisi, ex calciatore del Messina e coordinatore del settore giovanile del Cus, hanno contribuito alla cerimonia di chiusura. Tra i sorrisi e le gioie dei ragazzi migranti si conclude la terza edizione del “Calcio al razzismo”. Anche quest’anno grande vittoria di fratellanza e solidarietà con l’obiettivo di promuovere nuovamente il tutto il prossimo anno.

 

 

 

Mirko Burrascano

 

Hai 24 anni

Mi rendo conto del tempo che scorre sempre nello stesso periodo dell’anno, in questo periodo dell’anno, quando, con le mie tre amiche, a distanza di pochi giorni, mesi, compiamo gli anni. Per pochi mesi, abbiamo tutte e quattro la stessa età.

I compleanni, crescendo, non hanno più lo stesso sapore. Per me acquisiscono, pian piano, una sorta di malinconia. Eppure, ancora, siamo così giovani.

Abbiamo 24 anni. Siamo giovani. Siamo forti, caparbi, siamo dei sognatori. Lo leggo nella faccia dei ragazzi e delle ragazze che mi circondano, negli occhi dei colleghi, delle persone che incrocio per caso il sabato sera o il lunedì mattina.

Siamo in quella fascia di età che va dai 20 ai 30 anni, in cui ancora, chissà per quanto tempo, possiamo permetterci di sognare, di fare errori, di ripararli. In quella fascia d’età in cui ancora possiamo rischiare, metterci in gioco e, anche solo per un attimo, per un paio di ore, concederci il lusso di scordare.

Scordare gli impegni, le responsabilità, i doveri, le preoccupazioni.

In quella fascia d’età in cui, che tu sia ancora a casa o meno, la sera trovi mamma e papà, a casa o per telefono, pronti a salvarti il culo o a dirti, ancora, di nuovo: “andrà tutto bene”.

E quella frase ti può fare incazzare, oppure no, ma non devi dimenticartene il sapore. Perché, chissà, forse un giorno sarai tu a doverla dire. Anche se non ci credi, anche se non ne hai la forza.

Andrà tutto bene.

Abbiamo 24 anni e capita di bloccarsi, anche solo per un secondo, e chiedersi:” ma io, chi sono?”. E quando arriva questa domanda, improvvisa, come una doccia fredda, si sta là, in mezzo al traffico, alla folla, davanti allo specchio del bagno. Tutto passa veloce mentre tu sei immobile nel tempo. Sai rispondere alla domanda?

È la paura, che blocca. Quella domanda fa paura. Chi sono io?

Come potrebbe non fare paura. Tutto intorno a noi si muove. Mentre noi, a volte, siamo fermi. Non ci accorgiamo che, quando ci muoviamo noi, è il resto che si ferma. E questo fa paura. Ma quando tu ti muovi, non puoi accorgerti se il resto è fermo: semplicemente perché ti stai muovendo.

Ma quando sei fermo, è in quel momento che non devi avere paura. Rilassarti, con la consapevolezza che ti muoverai di nuovo.

A 24 anni, alcuni sono già laureati, altri no. Alcuni lavorano, altri no. Ma tutti ci chiediamo perché noi non riusciamo come gli altri. Dopotutto, la vita degli altri sembra sempre più facile.

E ci sentiamo in colpa: potremmo fare meglio, forse, ma il meglio non sembra mai abbastanza.

E si ricomincia. Io, chi sono? Io, dove sto andando?

Non stiamo certo tutto il tempo a chiederci chi siamo e dove stiamo andando. Ma di sicuro, di tanto in tanto, queste domande arrivano prepotenti, pesanti, insormontabili. Le anestetizziamo con la vodka e i buoni propositi per il giorno dopo. Ci fanno stare più tranquilli, ma poi, non servono a niente.

Abbiamo 24 anni, e forse siamo troppo grandi per ballare in preda all’alcol e all’euforia. Che i nostri genitori avevano già noi, mentre noi abbiamo soldi da spendere in ricordi che, beh… Non sempre ricorderemo.

Quella vodka che, diciamolo tra noi, comincia a diventare una scimmia sulle spalle un po’ pesante.

Abbiamo 24 anni, e ci guardiamo intorno aspettando. Un messaggio, uno sguardo, un invito. Magari aspettando solo l’ora di tornare a casa, o il panino delle 4 a.m. (chissà come, ha sempre un sapore meraviglioso).

E ti chiedi come siamo finiti così, con un piccolo amore nel cuore e noi piccoli senza nessuno accanto. Perché il bello dei 24 anni è anche questo: condividere. Con gli amici, , siamo la generazione che può dire a gran voce “grazie a Dio ci sono i miei amici”; ma servirebbe, a volte, pure qualcun altro con cui condividere la vita. I momenti, le notti.

Che poi, dicono, basta l’esperienza d’amare per renderci pieni, migliori. Sarà.

Sarà che, a 24 anni, vedi gli obiettivi fermi davanti a te e corri loro incontro per prenderli, e più corri, più ti sembrano lontani.

Eppure te li immagini, te li sai immaginati così tante volte, nella tua testa, che quasi provi a non immaginarteli più per paura di farli sbiadire. Il giorno dell’esame, il professore che verbalizza, finalmente, il voto per cui stai sudando 100 camice. Il giorno della laurea, la corona di alloro sul tuo capo. Il primo giorno di lavoro.

Sarà che, ai 24 anni, ci arriviamo e non sappiamo nemmeno noi come siano diventati 24. E pensi a quando ne avevi 18, di anni, a come ti immaginavi, a come sei, o a come non sei. Ricordo che quando, a 18 anni, il mio amore dell’epoca mi lasciò ed io mi ritrovai sola, mi consolai più di una volta pensando:” dai, quando avrò 24 anni e sarò quasi laureata, sarà tutto diverso. Chissà chi sarò, come sarò, chi avrò accanto, come sarà la mia vita”. È strano. A volte cambia tutto, a volte non cambia niente. Forse, sta tutto nel fatto che, nel nostro cuore, abbiamo ancora 18 anni, siamo ancora quei ragazzini con i vestiti da grandi.

Eppure, quei 24 anni, sembravano realmente così lontani.

Sarà che, a 24 anni, basterebbe qualcuno che ti concedesse un momento per sorridere. Con la tuta, immersi in una nuvoletta di fumo e sogni. Perché dai, non prendiamoci in giro, è questo che vorremmo tutti. Anche i più strafottenti di noi, lo sono solo fino a quel momento lì.

Sarà che ormai, forse, ci viene da dire “è troppo tardi”; però, forse, ancora è troppo presto.

Perché, a 24 anni, condividiamo tutti le stesse preoccupazioni: laurea, lavoro, futuro. Condividiamo quelle domande, chi sono io dove sto andando; ma condividiamo anche il cuore spezzato, il cuore in attesa, il cuore illuso, chiuso o aperto, traboccante, sfiorito o fiorito, arido, pulsante o fermo.

Sarà che, a 24 anni, ci fermiamo tutti, sotto casa, nella nostra macchina, con la musica che scorre e aspettiamo. Cosa? Non lo sappiamo. Però quei 10 minuti in macchina, da soli, di notte, servono a fermare il tempo, le preoccupazioni. Entriamo in stand-by dai nostri pensieri, alziamo il volume, aspettiamo che finisce la canzone e saliamo a casa. Quei 10 minuti fanno bene, all’anima.

Che poi, forse, a 24 anni, conviene solo continuare a camminare, che se aspetti non arriva niente. E senza preoccuparsi troppo: perché chiunque tu sia, a 24 anni, sei una bella persona. Sei quella persona che ride, scherza, va a ballare e aiuta l’amico sbronzo (o è l’amico sbronzo). Sei quella persona che ancora crede, sogna, studia. Quella persona che supera le sconfitte a testa alta e festeggia le vittorie a testa bassa, con umiltà.

 Chiunque tu sia, hai 24 anni, e c’è ancora un sacco di tempo per amare, per festeggiare e, soprattutto, per correre. E, di tanto in tanto, per fermarsi.

Che tanto, andrà tutto bene. Ora è così, ma a 31 anni, chissà dove sarò, chi sarò, come sarò diventata, chi avrò accanto, cosa starò facendo.

Elena Anna Andronico

Abbatti Lo Stereotipo- Lo Studente in Economia

Oggi trattiamo la categoria di studenti più discriminati di tutto il mondo universitario: Lo Studente in Economia.

 

 

‘’Il mio Homer non è un comunista. Sarà pure un bugiardo, un maiale, un idiota, un comunista, una pornostar ma di sicuro non è uno STUDENTE IN ECONOMIA’’ semicit.

Conosciuta nel mondo come Economia e CAZZEGGIO, oggi, una volta per tutte, vi raccontiamo perché non è così.

 

Ecco, i 5 stereotipi abbattuti degli studenti in Economia!

 

  • Ah, e quindi non fai un beata cippa dalla mattina alla sera!

Eh sì, U CAPEMU, noi studiamo ad Economia e Cazzeggio, passeggio, campeggio, autonoleggio, corteggio, scorreggio.

La vita per chi studia economia non è facile solo solo per questo motivo: mensamai durante la giornata si incontra più di una persona che chiede ‘’e tu, cosa studi?’’, bisogna subire questa tortura dell’etichetta del Club dei Cazzeggianti Passeggianti.

Lo vogliamo capire che il mondo universitario funziona in due modi?! O STUDI O NON STUDI.

Se studi, pure fosse scienze delle merendine, vuol dire che qualcosa la fai e quel qualcosa, per te studente disperato, non è non fare niente.

Se non studi, pure fosse ingegneria aereospaziale degli alieni, e dai una materia ogni 8 anni, allora sì, cazzeggi.

Tutto chiaro?

  • Eh amico, ma per fartene qualcosa di questa laurea dovevi andare alla Bocconi.

Che poi voi ci credete veramente a quello che dite, pensate davvero che sia una cosa giusta. Ma vi pare carino esordire così nei confronti di un collega? Davvero, dai. Ma poi SARANNO FATTACCI MIEI SE HO DECISO DI STUDIARE QUA? Facciamo che ne riparliamo tra 10 anni, vediamo dove sei arrivato tu e dove sono arrivato io.

E poi, pure dovessi lavorare come bidello, ME NE FARO’ UNA RAGIONE. E tu? Starai per caso a casa tua a pensare ‘’eh, ma io glielo avevo detto’’ ?

Se così fosse, BELLA VITA DI MERDA.

  • Ma, a quel punto, non ti conveniva fare Scienze Politiche? E poi, che sia commercio, aziendale, managment, ambientale, bancaria… Sempre a stissa cosa è!

È grazie a voi, amici, che questa rubrica può continuare a sponsorizzare, fiera, l’hashtag #FCV, Fatti una Cultura o Villico.

Ma voi avete idea delle differenze, essenziali, che ci sono tra scienze politiche ed economia? No così, pour parler. Perché se le sapeste, invece che PARLER ad MINCHIAM, tanto per ALITER IN GIRO, vi stareste molto ZITTER e nel vostro.

Per non parlare di quelle che si sono tra le varie categorie di indirizzo. MA CI SIETE O CI FATE? Noi speriamo per le vostre madri che ci siete, perché siete veramente una vergogna per l’essere umano e non. Poi dite perché gli alieni non vengono sulla terra: mica so fessi.

Tanto per dire, eh.

  • Vi lamentate tanto del Diritto Privato, vi vorrei vedere a Giurisprudenza!

MA SANTA MADRE SEMPRE INCINTA DEI CRETINI, ma se non faccio giurisprudenza un motivo ci sarà CHE DICI?! È ovvio che non è lo stesso diritto, che sia una tipologia diversa di esame e un contenuto sicuramente minore.

MA PUO’ ESSERE DIFFICILE LO STESSO OPPURE NO?!

 

NO, non facciamo giurisprudenza ma Diritto Privato sarebbe difficile pure in prima elementare.

OK?

 

  • Siete dei paraculi.

Beh sì dai, un po’ paraculi siete.

Elena Anna Andronico

Le relazioni e l’ignoto che è l’altro

Metti un venerdì sera due amiche un gin tonic e un negroni…

Scenda di Seinfeld (da sinistra Julia Louis-Dreyfus, Jerry Seinfeld, Michael Richards e Jason Alexander)

Ci siamo ritrovate a parlare delle relazioni.
Nello specifico di quelle amorose, la nostra visione non è più quella di quando avevamo diciott’anni, ma nemmeno quella di un anno fa. Crescendo e smussando la nostra personalità , le esigenze cambiano, inevitabilmente.
Tornata a casa ho ripensato alla discussione e alle relazioni, ne abbiamo di carattere diverso, che necessitano approcci differenti, ma c’è un comune denominatore: la convivenza.
Nel suo etimo vuol dire “vivere con” , penso a due partner, coinquilini, sposi. Ma anche dividere la propria vita con qualcuno, un amico.
Enfatizzando, potrebbe anche voler indicare il poter contare sull’altro.

Negli anni ho imparato che la convivenza è innanzitutto rispetto dell’altro, delle sue idee, e confronto.
La distanza che mi separa dall’altro, la sua unicità , è una strada percorribile con la gentilezza e l’affabilità. Ma è anche una scommessa.
Le barriere sono fisiche, anche involontariamente, la vista agisce da filtro: un paio di occhiali, dei tatuaggi, il modo di vestire influenzano il proprio giudizio. Vedere e guardare concetti distanti fra loro.
Non deve intimorire la vertigine che l’abisso dell’altro significa, anzi è proprio questa adrenalina che si trasforma in “ponte” verso l’altro.
Divenire il prossimo di qualcuno significa accettare questa affascinante differenza, anche quando è irritante o scomoda.
La unicità dell’altro non ha bisogno di imporsi deve solo poter liberamente essere e quando trova nello sguardo dell’altro quell’intesa, gli corre incontro.
E’ nell’universo della diversità che si gioca la gratuità degli affetti.

“Pugili” di Vittoria Abramo

Ed è qui che un pensiero un po’ più scomodo si è fatto spazio nella mia mente: forse che trascorriamo la vita in questa condizione, che l’unicità dell’altro ci diventi indispensabile quanto la nostra?
E’ una idea di fratellanza. Niente di deprimente pensando alla “dipendenze” dall’altro, benché ci siano relazioni di questo tipo.
Siamo tutti uguali, sono le vite che viviamo , la cultura , le varie sovrastrutture che ci rendono diversi, fondamentalmente siamo esseri semplici.
Abitudini secolari portano tutt’oggi a combattere per diritti che sono connaturati all’essere esseri umani.

La diversità è l’essenza della nostra razza. E’ questo il punto.
Ognuno ha un proprio proposito nella vita, la barriera più alta e dura da abbattere è non voler ammettere che non c’è una persona superiore all’altra, un modus vivendi migliore di un altro.
L’unico vuoto che ci separa è non conoscerci l’un l’altro. Una volta ogni tanto dovremmo gettarci nelle braccia dello sconosciuto.

In conclusione credo che rimescolando i colori ed educando il nostro sguardo alle altrui sfumature un giorno sapremo coglierne la bellezza. Anche quando, nella imprevedibilità dell’altro, ci appariranno assurde combinazioni.

Arianna De Arcangelis

Abbatti lo Stereotipo- Gli studenti in Lingue

In questo oceano pieno di pesciolini universitari che parlano ognuno la propria lingua, vivendo beati nel proprio universo di mainagioia, alcuni sviluppano la capacità di comunicare con tutti gli altri: gli studenti in Lingue.

Tra un Buongiorno e un Holà (ma si scrive così?), si aggirano, simpatici e fantasiosi, nelle varie città universitarie e fanno amicizia con chiunque capiti intorno.

Sono amici dei professori, amici dei colleghi, amici dei ragazzi Erasmus, amici dei loro amici. Chiacchierano, pubblicano stati Facebook in 3 lingue e i commenti sono un arcobaleno di lingue diverse.

E quindi, dai, non possiamo non abbattere gli stereotipi della categoria più cucciolosa di tutta l’università.

Ecco a voi, i 5 stereotipi (abbattuti) degli studenti in Lingue!

 

  • Ma quindi sai dire tutte le parolacce in un’altra lingua!

 

Ecco, questa sembra essere la cosa che più attrae degli studenti in Lingue. LE PAROLACCE. Che manco fossimo ancora alle medie, dove dire “culo” era un affare solo per veri uomini.

I più fantasiosi, invece che chiedere delle parolacce, se ne escono con un ‘’mi traduci il mio nome in svedese? CHE POI ME LO TATUO’’. Fosse per me gli farei tatuare la parola COGLIONE, sul braccio (anche al costo di non dover far crollare questo stereotipo).

Di certo le parolacce le imparano eccome, MOTHAFUCKA. Ma non come prima cosa, dai. Come seconda.

 

  • E che farai? La guida Turistica? Tipo nei trenini che ti portano in giro per le città?

A parte che la maggior parte di loro, come noi, tamponerebbe con dolo quei trenini una volta sì e l’altra pure. Però… Ehmbè? Anche fosse? Le guide turistiche vengono pagate (e i pila sono l’unica cosa che conta davvero), quindi, perché no, mi sta più che bene.

Tralasciando il fatto che MA LO SAPETE QUANTE COSE SI POSSONO FARE CON LA LAUREA IN LINGUE? Si può essere interpreti, traduttori di libri, professori universitari, si potrebbe arrivare anche all’ONU. Oppure diventare come Olga Fernando di C’è Posta per Te. Ma di cosa stiamo parlando?

Al pari degli studenti in Farmacia, anche per gli studenti in Lingue lanciamo l’hashtag #FCV ovvero FATTI UNA CULTURA O VILLICO.

 

  • Ma scusami, serve una laurea per imparare una lingua?

 

Serve una laurea per partorire un genio come te. Tua madre ne ha almeno 12. O sbaglio?

 

Serve una laurea per impararne 3 lingue e poi andare nel mondo a parlarle. Di certo non serve per farsi gli sboroni da Starbucks e chiedere ‘’Hau mach thiis?’’.

 

È chiaro che ognuno di noi può scegliere se seguire un corso in una lingua anche al di fuori dell’ambito universitario, ma, evidentemente, SERVE UNA LAUREA PER FARE DELLE LINGUE IL PROPRIO LAVORO.

 

A meno che, come lingua, non si intenda altro. In quei casi, basta recarsi al porto più vicino e no, non seve una laurea.

  • Comunque, se non studi il Cinese o l’Aramaico Antico non vai più da nessuna parte.

 

Eh certo. Se non fosse che gli unici che parlano il cinese sono i cinesi stessi. E, ok che sono la popolazione più grande del mondo e, di conseguenza, è la lingua più parlata ma anche i cinesi parlano l’inglese.

 

Ma poi, che cavolo vuoi?? Laurea mia, fatti miei su che lingua ho deciso di studiare fosse pure Azerbaigiano. Tu, disoccupato del mio gatto con gli stivali. Io sono laureato in Lingue, ho scelto inglese e spagnolo e lavoro in un Hotel a 5 stelle da 2 anni. Quindi, taci. Vale? Thank you.

 

  • Ah, stare con te è come avere un Google Traduttore che non ha bisogno della Wi- Fi!

‘’Come si dice tracotante in Afgano? E pancreasectomia in Turco? Studi Russo? Come si dice russare? Aahahah, dai adesso provo a ripeterlo’’

 

Cioè ma davvero?? Ma secondo voi studiare lingue vuol dire conoscere qualsiasi parola di qualsiasi lingua?? Ma poi se avessi voluto fare il fenomeno da baraccone, sarei andato a lavorare in un circo.

 

E passi la traduzione simultanea dei testi delle canzoni, e passi lo scritto svolto per farvi passare l’idoneità, ma MO BASTA! Che poi, tracotante non so cosa voglia dire nemmeno in Italiano.

 

Ma una cosa sicuramente la sappiamo: saremo pure amici di tutti ma, ad un certo punto… A faciti tutti nto culu!

 

Elena Anna Andronico

Cent’anni di solitudine

Cent’anni di solitudine”, Premio Nobel  di Gabriel Garcia Marquez, è la storia della famiglia Buendia dalla fondazione di Macondo alla sua evoluzione.
Le pergamene di Melquiades profetizzano la stirpe dei Buendia, ma nessun componente della famiglia è in grado di tradurne il contenuto.

Erano le ultime cose che rimanevano di un passato il cui annichilimento non si consumava , perché continuava ad annichilarsi indefinitamente, consumandosi dentro se stesso, terminandosi in ogni minuto ma senza terminare di terminarsi mai.”

Un secolo di vita della stirpe dei Buendia viene raccontato tramite singoli avvenimenti che, sebbene svoltisi in un lungo periodo di tempo sembrano coesistere in un solo attimo, in una Macondo in cui il tempo sembra girare in tondo senza portare alcuna novità o miglioria. È Jose Arcadio Buendia a dare origine a tutto ciò, sposandosi con Ursula Iguaràn. La loro stirpe sarà lunga e ricca di avventure e mille dispiaceri, tra la morte dei figli prima dei genitori, guerre e delusioni amorose.

Il lettore viene condotto in un universo a sè, in un’opera tutta umana e raffigurante come un dipinto la condizione dell’essere su una terra aspra che sembra respingere ogni vita. Marquez è il massimo esponente di quello che viene definito “realismo magico“, ed infatti l’elemento magico (sotto forma di fantasmi, presenze e superstizioni) è fortemente presente nel romanzo in questione ed è ciò che poi caratterizza tutti gli avvenimenti.

Straordinaria la capacità di Marquez di fare della linea temporale un filo di lana da arrotolare e srotolare sulle dita, da tagliare e da ricomporre a proprio piacimento.
Resta inevitabile affezionarsi ai singoli componenti di questa famiglia e a come questi sono condannati al loro carattere.

Proseguendo la lettura, è inevitabile confondersi a causa dell’ intreccio di parentele e di legami tra i vari membri della famiglia, si rischia di non avere più molto chiaro l’albero genealogico di questa famiglia così sfortunata e toccata solo un attimo dalla felicità (che come è arrivata, se ne va) ma, allo stesso tempo, così unita da un filo conduttore, un sentimento: la solitudine.

Solitudine come assenza di contatti con altre persone, ma anche come quel senso di malinconia che ti assale nonostante la compagnia e i divertimenti.
Una storia familiare che dura un secolo, cent’anni, cent’anni di solitudine.

Perché le stirpe condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra.

Serena Votano

CUS – Alla ricerca del gol

Ennesimo pari, ennesimo match senza reti ed ennesima delusione in casa Cus per l’occasione perduta di fare importanti balzi in avanti in classifica in ottica promozione. Nella diciannovesima giornata del campionato di Terza Categoria, il Cus Unime ospita, tra le mure amiche del N. Bonanno, lo Stromboli. Alle ore 12:00 di domenica 9 aprile, il Sig. Aliquò fischia il calcio d’inizio.

 

Primo tempo: per la terza volta consecutiva il Cus Unime sbaglia l’approccio alla partita, peccando di lucidità e concentrazione. Tanti errori banali e tanti cali di attenzione, dalla difesa all’attacco. Nei primi 45 minuti le occasioni sono veramente scarse da ambedue le parti, imprecisione e superficialità prendono la scena creando sin dall’inizio malumori e malcontenti in tutta la panchina universitaria, compreso mister Smedile. Anche la squadra eoliana fa ben poco per avvicinarsi alla porta del Cus e pertanto non può che sopraggiungere il duplice fischio dell’arbitro che manda tutti negli spogliatoi sul parziale di 0-0.

 

Secondo tempo: Mister Smedile ha un solo risultato per questa partita, un pareggio o una sconfitta nulla cambierebbero per il futuro della sua squadra, non può che, quindi, passare a un modulo totalmente a trazione anteriore; tre difensori e tre attaccanti, con la consapevolezza di esporsi ai rischi delle ripartenze ospiti. Ed effettivamente, in questa ripresa, il Cus riesce a creare qualcosa in più. Le più grandi occasioni sono per il subentrato Stassi, il quale però (anche sfortunatamente) sciupa entrambe le possibilità di passare in vantaggio. Sul finale il Cus lamenta il mancato fischio di un rigore e rischia la beffa su un contropiede dello Stromboli. Il tutto però si concretizza in un nulla da fatto e il match termina 0-0.

 

E’ chiaro come il Cus sia in uno stato psico fisico in calo, non è di certo il miglior momento della stagione e gli appena 2 punti negli ultimi 3 incontri ne sono la dimostrazione. Tuttavia ancora nulla è perduto,  mancano 3 partite alla fine del campionato e per di più vi sarà una lunga sosta di tre settimane. Sosta che può e deve servire ai ragazzi di Mister Smedile per riottenere la miglior forma fisica e ricominciare a non sbagliare più gli approcci in partite come queste. Prossimo match giorno 30 aprile, in casa della capolista Ludica Lipari.

 

Formazione Cus (4-5-1): 1 Zito; 2 Russo, 4 Iacopino, 5 Monterosso, 3 Insana; 11 Papale, 8 Lombardo, 6 Fiorello, 7 Vinci, 10 Creazzo; 9 Di Bella.

 

Panchina: 12 Bruno, 13 Cardella, 14 Tiano, 15 Iamonte, 16 Oliva, 17 Al Hunaiti, 18 Stassi.

 

Allenatore: Smedile

 

 

CLASSIFICA:

Ludica Lipari* 37

Cus Unime 34

SC Sicilia* 34

Real Zancle 33

Fasport 32

Arci Grazia 32

Casalvecchio* 27

Kaggi 25

Stromboli* 24

Cariddi* 14

Città di Antillo 13

Malfa* 10

 

*una partita in meno

 

 

Mirko Burrascano

Ghost in the Shell: un remake come tanti o qualcosa di più?

L’idea di un remake live action di Ghost in the Shell (in sala dal 30 marzo), manga e poi anime tra i più riusciti degli anni 90, rappresenta, a film ancora non visto, una sfida quasi arrogante nei confronti di un’opera d’arte conclamata.
Il rischio tangibile che la profondità dell’anime di Mamoru Oshii potesse svanire dietro i seni di Scarlett Johansson (su cui pure torneremo) non si esaurisce di fronte alla resa grandiosa di un’animazione che è stata magnificamente ri-tradotta sul grande schermo.

Se da un lato persino il Titanic di Cameron deve molto del suo stile visivo al film di Oshii, dall’altro questo GITS chiude di fatto un cerchio, portando al cinema qualcosa che finora vi era rimasto essenzialmente escluso e che eppure così tanto aveva influenzato registi come i Wachowski ed il già citato Cameron. Per realizzare l’impresa, i tecnici della Dreamworks hanno attinto dagli autori di cui sopra, oltre che dall’illustre predecessore Ridley Scott e non solo: sin dalle primissime inquadrature appare chiaro come GITS sia un film che propone in veste commerciale colori delle più recenti avanguardie cinematografiche d’autore, Noé e Winding Refn in primis.

Eccellente il lavoro del direttore della fotografia Jess Hall, già sul set di Wally Pfister (ex cinematographer di Christopher Nolan) per Transcendence e frutto di una ricerca apposita per una mdp in grado di avvicinarsi il più possibile alla cel animation di Oshii.

Nonostante la relativa esperienza del regista Rupert Sanders, ci troviamo di fronte ad una sapiente ricostruzione del mondo di Oshii, mondo in cui è bello vedere qualcosa di più che semplici ricostruzioni delle scene più celebri dell’anime come il salto nel vuoto iniziale, l’inseguimento del camion della spazzatura o la scena della barca. E di questo siamo grati, perché il qualcosa in più arriva e non senza nuovi significati suoi precipui, con effetti speciali finalmente in grado di trasmettere emozioni e livelli di interpretazione, oltre il mero intrattenimento.

La cultura orientale viene stritolata, ingollata e digerita in forma nuova dalla tecnologia futuribile mostrata nel film. La vita quotidiana è arricchita da streaming cerebrali, enormi sistemi olografici alti quanto e più dei grattacieli e una certa estetica anni 80, umido riferimento a vicoli e veicoli di Blade Runner, che però combacia armoniosamente con la palpitante CGI contemporanea.

Impossibile sentirsi soli in un ambiente simile, tranne per il maggiore Mira Killian (Johansson): un prototipo di cyborg costituito da un corpo interamente artificiale in cui è stata installata una mente umana, un ghost e che promette di aprire le porte verso una nuova frontiera dell’umanità. Contro tale prospettiva un misterioso terrorista (Michael Pitt) sta scagliandosi con inaudita ferocia e abilità.
Compito della Sezione 9, servizio di sicurezza capeggiato da Daisuke Aramaki (Takeshi Kitano), è fermare il terrorista con l’aiuto del maggiore e dell’agente Batou (Pilou Asbæk).

Si complica la trama rispetto all’originale, che preferiva un intreccio semplificato con dialoghi dalla maggior pregnanza filosofica ed esistenziale alle numerose scene d’azione e ai dialoghi didascalici marcatamente occidentali che riempiono il film di Sanders, oltre al pastiche che è stato composto prendendo elementi anche dal sequel (sempre diretto da Oshii nel 2004), Innocence.
Fuggendo la mania della fedeltà, la trama di GITS riesce a catturare lo spettatore, a patto che si sforzi appunto di dimenticare l’originale. La pellicola si presenta radicalmente divisa in due partinella prima riesce ad accrescere sequenza dopo sequenza l’interesse di chi osserva per la bellezza del grande Waste Land futuribile, dove i fantasmi culturali del passato aleggiano insieme a spot pubblicitari e ai fumi della metropoli.
Dal momento in cui il villain di Pitt si rivela, invece, inizia lo straniamento rispetto al film di Oshii, che qui non si vuole criticare per l’eccessiva libertà nelle direzioni fatte prendere al plot in sé, quanto per quella che è la conclusione filosofica, esasperata dal finale manieristico, che tradisce la natura stessa di Ghost in the Shell.
Alla fusione tra un’intelligenza artificiale che vuole farsi umana e dunque mortale con un’umana che ha fatto di tutto per non essere più tale, Sanders preferisce omettere la fusione e relegare l’identità del maggiore alla nostalgia di un passato perduto. Passato umano e luddista. Reazionaria rivolta contro il mondo moderno che schifa la tecnologia vista esclusivamente come opprimente tecnocrazia e celebra l’identità umana, mancando quell’appuntamento con la rete, assoluto informatico – hegeliano delle coscienze già in veste industrial nel Tetsuo di Tsukamoto, cui così magistralmente il film di Oshii consegnava la propria chiusura, aprendo ad interrogativi, paure e opinioni tanto discutibili quanto prolifiche. La necessità di rendere GITS un prodotto hollywoodiano rovina così tutto il potenziale dibattito che la cultura nipponica, di posizione storicamente progressista per quel che riguarda l’etica (fanta)scientifica, aveva trasmesso ai fan dell’anime: il ruolo della tecnologia viene ridotto considerevolmente e limitato allo scopo di un abbraccio tra una madre e la figlia perduta.


La scelta di Scarlett Johansson, paventata da molti e accusata di white washing (polemica inutile che sta, almeno secondo la Paramount, causando il flop al botteghino), risulta in realtà vincente dal punto di vista recitativo e coreografico, ma l’implicita attenzione pubblicitaria verso la bellezza della diva, poi censurata da Sanders con una banale tuta di latex che sostituisce squallidamente il nudo integrale mostrato da Oshii, fagocita l’insensatezza del corpo umano trasmessa originariamente, togliendo a quel gesto così espressivo della spoliazione del maggiore la sua fredda estemporaneità.
Il “non visto”, secondo il classico meccanismo di oggettivazione del corpo femminile che Hollywood attua da sempre, ha come è noto l’effetto opposto, focalizza cioè l’attenzione sulla sensualità. Nel caso di GITS ciò è fuori luogo, data la netta sensazione di asessualità che trasmetteva il cyborg di Oshii e la controparte villain, cui viene peraltro dato un aspetto maschile (nell’originale era femminile), col risultato di recuperare un’identità di genere puramente finalizzata allo stereotipo. Insomma, Scarlett Johansson l’avremmo preferita davvero nuda, chi per un motivo chi per un altro.

All’insegna dello stereotipo anche il ruolo di Juliette Binoche, nei panni della creatrice del maggiore con una stima viscerale verso la propria creatura e una forma di venerazione per il superomismo cibernetico.

Da notare invece il ruolo di Kitano, che al momento di entrare in azione sfodera un enorme revolver “old school”, con buona pace di mitra compattabili e pelli sintetiche in grado di rendere invisibili. Cocktail d’azione incredibilmente credibile, sporcato di noir e gradevolmente vicino al personaggio di un altro celebre anime, Toshimi Konakawa in Paprika del compianto Satoshi Kon. Ma il richiamo principale è ovviamente alla filmografia dello stesso Kitano.
Tirando le somme, Ghost in the Shell di Rupert Sanders è un remake che merita di essere visto nonostante difetti, fanservice ed eccessi che paiono ad un esame più attento come il canto del cigno non solo dei suoi personaggi cupi ed alla ricerca di un sé perduto, ma di un’industria cinematografica tutta (Hollywood) in piena crisi creativa se non ancora economica, furto maldestro da un Oriente che avanza sotto il punto di vista artistico ed espressivo, rinnovandosi a discapito di un Occidente granitico e sterile che perde la capacità di fondere arte e popolarità – dovendo spesso sacrificare una delle due – e quindi di intendere il cinema per ciò che sempre è stato: arte popolare.

Andrea Donato