Perché l’Italia non è pronta a TonyPitony?

Da X Factor ad Internet:

Chi è TonyPitony? Era il 2020, mentre eravamo chiusi in casa causa pandemia, molti di noi cercavano di distrarsi da ciò che stava accadendo nel mondo con i propri programmi preferiti, come ad esempio X Factor, il noto show di talenti musicali. É proprio nell’edizione di quell’anno nefasto che durante le audizioni, i giudici si trovarono davanti un personaggio inaspettato rispetto a tutti i giovani cantanti saliti fino a quel momento sul palco.

Davanti a loro, un uomo con una maschera di Elvis inizia a cantare una cover in chiave neomelodica di “Hallelujah”. Li lascia notevolmente di stucco… ma, purtroppo, gli diranno di no, non facendolo passare alle fasi successive del programma.
Nessuno però avrebbe detto che, qualche anno dopo quella apparizione, quell’assurdo cantante sarebbe diventato uno dei fenomeni più popolari dell’ultimo anno sui social media e uno degli artisti indie più ascoltati del 2025.
Il suo nome è TonyPitony.
Artista siciliano di cui non sappiamo molto, diventato conosciuto non solo grazie all’enorme successo che ha ricevuto il suo ultimo album. Ma anche grazie alla collaborazione con vari content creator conosciuti. (si pensi a Favij nel videoclip di “SESSONLINE, e alcune sue apparizioni diventate virali quali la canzone Triquila” con Marco Castello). In un certo senso è grazie al suo personaggio -e non alla sua persona- che TonyPitony riesce a comunicare un certo tipo di messaggio attraverso la musica. Ciò che molti pensano, ma che non hanno il coraggio di dire.

TonyPitony
fonte: Facebook

Una voce di rottura contro la musica mainstream

Il 25 aprile 2025, giorno della Festa della Liberazione, esce il secondo disco di TonyPitony, un self titled di circa 40 minuti dove tutto l’estro creativo dell’artista trova luogo di esprimersi.

“La liberazione da un sistema che impone volti scoperti ma menti conformi”,

come lo definisce l’artista stesso. Nelle 12 tracce di questo album, ci troviamo davanti ad un viaggio di liriche dissacranti e una mescolanza di generi continui, passando dalle atmosfere più elettroniche a dance a quelle più intime e tranquille del cantautorato. Ciò che impressiona di questo progetto sono due elementi.

Il primo è la performance dell’artista stesso, in quanto si sente che TonyPitony è una persona che conosce in maniera approfondita le tecniche musicali, egli stesso in varie interviste ha affermato di aver studiato canto e recitazione sia in Italia che all’estero, perciò in questo album abbiamo non solo un grande lavoro dal punto di vista canoro, ma anche una grande cura per i tempi comici e la creazione di un ambiente unico.


Il secondo elemento è il contenuto delle canzoni stesse: l’artista in questo album non si risparmia a trattare in maniera ironica e dissacrante argomenti che molti noi spesso troviamo a pensare ma che non diciamo a voce alta (il mondo lgbt, gli stereotipi razziali, il rapporto con le donne e così via). TonyPitony parla di tutto e attacca tutti, senza mezzi termini, facendo del nonsense e del black humor il suo cavallo di battaglia contro la musica mainstream, diventando così una voce di rottura contro un panorama musicale che non osa e non si evolve, prendendo in giro non solo gli altri artisti, ma anche l’ascoltatore stesso.

 

TonyPitony
Foto di Alberto Sapia

Perché la musica di TonyPitony funziona?

La musica di TonyPitony funziona perché non fa solo ridere, ma ha anche stesso il potere di diventare un meme. È qualcosa con cui la gente si può rivedere e riflettere. L’artista siciliano usa una narrazione che va oltre il surreale. Lascia sì spazio, di tanto in tanto, a dei momenti di probabile serietà, come accade in “STIMOLI” o in “CULO”, ma tutto questo dura poco. Lo scopo di TonyPitony non è quello di essere un artista che vuole essere preso sul serio. Non vuole lasciare un messaggio profondo, ma distruggere le aspettative dell’ascoltatore che lo pensa tale.

Perché TonyPitony, come il suo amato “UOMO CANNONE”, “spara mi****ate”. E a noi piace proprio per questo. Da tanto tempo in Italia mancava un artista che, come lui, non si prendesse sul serio e facesse musica solo per il gusto di farlo.

 

L’Italia è pronta a TonyPitony?

TonyPitony è un artista talentuoso che potrebbe essere capace di scrivere delle canzoni d’autore di notevole qualità. Ma questa strada probabilmente l’avrebbe portato ad essere dimenticato.

Perciò ha deciso di seguire una direzione opposta, quella della parodia. Segue la scia di altri artisti italiani che lo hanno preceduto con l’unione della commedia dissacrante alla musica (come ad esempio gli Elio e le Storie Tese).

Ma TonyPitony è forse un caso unico: in un 2025 saturo di artisti che pensano solo ai grandi numeri, lui irrompe per ciò che è. Si  tratta di un progetto che è speciale proprio perché è personale e fatto con le regole del suo personaggio, che non tutti possono capire.

Per concludere, no, l’Italia non è pronta a TonyPitony, ma va bene così, perché come lui stesso dice:

“Non sono l’icona che volete voi,
Non avete bisogno di uno come me”

(STIMOLI)

Giacomo De Salvo

Piccolo essere

Piccolo essere sono stato,
piccolo e con l’animo da guerriero.

Piccolo essere sono stato,
solo e con l’oceano negli occhi.

Piccolo essere sono stato,
rinchiuso in una gabbia d’odio.

Sono stato piccolo
e con gli occhi chiusi,
vendevo speranza
ma non vedevo quelle luci,
e forse dietro ad un passato penso.
E se vedo ancora un po’ disperso
una memoria antica e un peso,
che ha sovrastato quelle montagne,
che vedevo da lontano.

Sono stato, dimentico,
un Piccolo essere.

Benedetto Lardo

Stereotipi di genere e media

I mezzi di comunicazione di massa giocano un ruolo fondamentale nella produzione e diffusione degli stereotipi.

Ma cosa sono gli stereotipi?

Per la psicologia sociale, uno stereotipo corrisponde a una credenza­­­­­ o a un insieme di credenze in base a cui un gruppo di individui attribuisce determinate caratteristiche a un altro gruppo di persone.

Lo stereotipo è la base su cui si sviluppa il pregiudizio.

Essi fanno parte della cultura di una comunità. Vengono acquisiti dai singoli e utilizzati per comprendere ciò che ci circonda.

Si tratta di costruzioni sociali della cultura, appresa tramite i processi di socializzazione — dall’educazione familiare a quella scolastica — che l’individuo “indossa” come disposizione naturale, rispecchiando una specifica società con le proprie condizioni storico-sociali.

Gli stereotipi vengono diffusi proprio mediante la società stessa che, talvolta in modo inconsapevole e talvolta consapevolmente, trasmette una certa immagine di alcuni concetti.

Ogni individuo ha una propria visione del mondo, basata su ciò che osserva e ascolta, le esperienze vissute, oltre che dalle intuizioni e credenze personali. Le identità di ciascuna persona sono elaborate anche attraverso i prodotti culturali, come la lettura di libri e giornali, la visione di un film, un documentario, uno spettacolo. Anche lo sport, le arti performative o le pubblicità possono essere considerati prodotti culturali.

In particolare, gli stereotipi di genere, vale a dire “idee preconcette secondo cui a maschi e femmine sono attribuite caratteristiche e ruoli determinati e limitati dal genere loro assegnato in base al sesso”, si manifestano in molteplici forme e, diffondendosi, influenzano profondamente la percezione della realtà.

È proprio attraverso la comunicazione interculturale e crossmediale che veicolano gli stereotipi.

 

Stereotipi di genere
Stereotipi di genere. (fonte: www.cristinabuonaugurio.it)

Stereotipi nei film e nelle serie tv

Un esempio evidente di stereotipi di genere si ritrova spesso nelle serie televisive e nei film. In molte commedie romantiche, ad esempio, la donna viene rappresentata come fragile, emotiva e in attesa dell’uomo “giusto” che la completi, mentre l’uomo appare forte, razionale e poco incline a mostrare sentimenti.

Serie come Friends o How I Met Your Mother, pur essendo amate dal pubblico, mostrano personaggi femminili spesso associati all’aspetto fisico o alla ricerca dell’amore, e personaggi maschili legati al successo, al lavoro e alla conquista. Anche nei film d’azione o in quelli di supereroi, come in James Bond o The Avengers, si osserva lo stesso schema: uomini protagonisti e donne in ruoli secondari, spesso ridotte a interesse romantico o a figura da salvare.

Wonder Woman
Wonder Woman. (fonte: www.leganerd.com)

Solo negli ultimi anni si è iniziato a proporre modelli femminili più complessi, indipendenti e autorevoli. Ad esempio, personaggi come Wonder Woman o Meredith Grey di Grey’s Anatomy, capaci di scardinare le rappresentazioni tradizionali.

Allo stesso modo, anche gli uomini che mostrano sensibilità o vulnerabilità vengono talvolta rappresentati come deboli o “diversi”. Questo dimostra quanto profondamente radicati siano gli stereotipi che collegano la mascolinità alla forza e al controllo delle emozioni.

 

Diffusione e riconoscimento degli stereotipi

Gli stereotipi hanno la capacità di orientare e alterare la valutazione dei dati che arrivano dalla società.

La forza attribuita agli stereotipi può essere valutata attraverso l’analisi del grado di condivisione sociale, ossia quanto un’immagine positiva o negativa sia diffusa e condivisa in relazione a una specifica cultura o società. Maggiore è la diffusione all’interno dei gruppi sociali, più uniformi diventano le manifestazioni di ostilità verso specifiche minoranze, e più aumenta la rigidità e la resistenza al cambiamento degli stereotipi.

Riconoscere l’esistenza degli stereotipi di genere è il primo passo per poterli superare. È importante sviluppare uno sguardo critico nei confronti dei messaggi che riceviamo ogni giorno dai media, dalla pubblicità e persino dal linguaggio comune. Solo attraverso l’educazione, la consapevolezza e il confronto possiamo contribuire a costruire una società più equa, in cui le differenze non diventino barriere ma ricchezze.

Superare gli stereotipi significa restituire libertà alle persone, permettendo a ciascuno di esprimere la propria identità senza essere intrappolato in ruoli imposti o preconcetti sociali.

 

Fonti:

https://eige.europa.eu/publications-resources/thesaurus/terms/1223?language_content_entity=it

https://www.sapere.it/

https://publires.unicatt.it/it/publications/luso-dello-stereotipo-di-genere-in-pubblicit%C3%A0-9

https://en.wikipedia.org/wiki/Media_and_gender

 

Sabrina Levatino

Il Messina Opera Film Festival si presenta a Roma: un ponte tra cinema e lirica alla Festa del Cinema

Roma, 23 ottobre 2025 – Lo Spazio Casa Alice dell’Auditorium Parco della Musica ospiterà, sabato 25 ottobre alle ore 18.00, la presentazione in anteprima nazionale della IX edizione del Messina Opera Film Festival (MOFF), in programma a Messina dal 29 novembre al 7 dicembre.

Diretto da Ninni Panzera, il MOFF è l’unico festival italiano interamente dedicato al rapporto tra cinema e opera lirica, e si è ormai affermato come evento di rilievo internazionale. Nel 2025 entra ufficialmente a far parte del Music Film Festival Network, la rete europea che riunisce le più importanti manifestazioni dedicate al film musicale.

Alla presentazione romana prenderanno parte, oltre al direttore artistico Panzera, alcuni dei protagonisti di questa nuova edizione, che si annuncia particolarmente ricca di appuntamenti e anteprime.

Un’edizione tra omaggi, rarità e capolavori del cinema d’opera

Tra gli eventi più attesi spicca lo spettacolo teatrale “Resta Diva – Omaggio a Maria Callas” con Enrico Lo Verso, un raffinato viaggio nel mondo affettivo e negli incontri maschili che segnarono la vita della grande diva della lirica.

Altro momento di rilievo sarà il tributo all’arte visionaria di Andrea Andermann, con la riproposizione dei suoi celebri film-opera in diretta: Tosca a Roma, Traviata a Parigi, Rigoletto a Mantova e Cenerentola. Queste produzioni hanno segnato una svolta nella fruizione televisiva dell’opera lirica, portandola in diretta nei luoghi in cui le storie erano ambientate.

Il programma del festival prevede circa cinquanta titoli tra film, documentari e cortometraggi, organizzati in sezioni tematiche:

  • Il canto silenzioso. L’opera al tempo del muto, con tre capolavori del cinema muto musicati dal vivo (Il fantasma dell’Opera, A Burlesque on Carmen, Jeanne d’Arc);

  • Giuseppe Verdi al cinema, con opere immortali come Giuseppe Verdi di Raffaello Matarazzo, Aida con Sophia Loren e Rigoletto di Carmine Gallone;

  • Carmen Day, una giornata interamente dedicata al mito di Carmen nel 150° anniversario della sua prima rappresentazione;

  • La sezione Documentari, che include Renato Cioni: La voce dell’Elba di Stefano Muti (in anteprima italiana), La forza del destino di Anissa Bonnefont e Enigma in tempo rubato. Un Mozart argentino, con il tenore Fabio Armiliato, anche tra i premiati del festival.

Premi e giurie internazionali

Il Premio Messina Cinema&Opera 2025 sarà assegnato ad Andrea Andermann, Barry Purves e Fabio Armiliato, tre figure che hanno saputo coniugare linguaggi artistici e innovazione visiva.

La giuria internazionale del concorso cortometraggi, presieduta dal compositore Paolo Vivaldi e composta dai registi Axel Ranisch e Antonia Bain, assegnerà il Premio Emi Mammoliti al miglior corto, selezionato tra quattordici opere provenienti da otto Paesi.

Un festival sostenuto dalle istituzioni e dalla cultura del territorio

Il Messina Opera Film Festival è prodotto dall’Associazione La Zattera dell’Arte, dal Teatro Vittorio Emanuele di Messina, dalla Sicilia Film Commission dell’Assessorato Regionale al Turismo, Sport e Spettacolo, dal Comune di Messina, dalla Fondazione Messina per la Cultura e dal Ministero della Cultura, con il sostegno di Unioncamere Sicilia, CNA Sicilia, Università di Messina e Conservatorio Corelli.

L’evento gode inoltre del patrocinio di Rai Sicilia e della media partnership di RAI, MYmovies e UniversoME.

Con questa anteprima romana, il MOFF conferma la propria vocazione a unire la grande tradizione operistica italiana con il linguaggio cinematografico contemporaneo, riaffermando Messina come punto di riferimento per la cultura audiovisiva e musicale internazionale.

Gaetano Aspa

C’era una volta il tempo. E ora?

«C’era un volta il tempo. Avete presente il tempo? Il tempo delle sveglie e quello del riposo, il tempo degli appuntamenti presi e saltati, il tempo che manca sempre, il tempo che non passa mai, il buon tempo di chi non ha niente da fare, i mala tempora che currunt senza andare da nessuna parte».

Si, purtroppo sappiamo a quale tempo si riferisce Simone Tempia, autore di “Vita con Lloyd”, la celebre raccolta di dialoghi tra Sir e il maggiordomo Lloyd.

Nel suo secondo libro “Il giardino del tempo”, Tempia ci accompagna alla scoperta del suo giardino: rigoglioso, pieno di fiori, alberi e frutti. Un giardino non sempre curato, a volte lasciato alle intemperie.

Il giardino si fa metafora del tempo, quel tempo che, come descriveva all’inizio, è un po’ frenetico, scandito dalla corsa della vita.

Siamo così bravi a correre e a rincorrere che potremmo diventare tutti maratoneti. Eppure poi esclamiamo “non ho neanche il tempo per andare a correre”. Un paradosso, insomma.

 

L’evoluzione del concetto del tempo

Ma andiamo indietro proprio nel tempo.

Il concetto di tempo è molto antico ed è stato uno degli oggetti di riflessione che più ha affascinato i grandi pensatori, tanto da studiarne ogni piccolo frammento. Componente centrale della nostra quotidianità ed esperienza del mondo, fa riferimento alla “dimensione con cui si concepisce, organizza, rappresenta e misura lo scorrere degli eventi e il susseguirsi di stati”.

Continuità illimitata ma suddivisibile, distinguibile in passato, presente e futuro.

Una suddivisione che Dickens traccia abilmente attraverso il suo romanzo “Christmas Carol”. Durante quella notte di Natale, il tempo si comprime e si dilata in un processo astratto e contraddittorio,  che fugge da ogni fondamento scientifico.

Periodo andato, istante trascorso, presente che svanisce, futuro incentro: è sempre una questione di tempo. Una fiamma che arde senza mai consumarsi, pronta a illuminare un passato coperto da fitte tenebre.

 

Henri Bergson: uno scorrere continuo e indivisibile

Henri Bergson, filosofo francese del tardo XIX e inizio XX secolo, ha offerto una distinzione tra un tempo scientifico e misurabile, e un tempo vissuto, introducendo il concetto di durée”, come flusso continuo e indivisibile che è percorso internamente, riflettendone la coscienza e l’esperienza soggettiva.

Per Bergson la durata della vita è interna, fluida, indivisibile, al contrario dello spazio che risulta esterno, statico e divisibile.

La visione di Bergson pone l’accento sull’importanza dell’esperienza soggettiva e qualitativa del tempo, centrale per la nostra comprensione. Questa prospettiva invita a riconoscere che il tempo vissuto è fondamentale e non dovrebbe essere ridotto a una semplice dimensione misurabile come lo spazio.

La memoria ha un ruolo essenziale: collega il passato con il presente, mantenendo la continuità della durata.

Quindi, se per il filosofo francese lo spazio è una forma che frammenta e esteriorizza il flusso continuo, la durée abita dentro ognuno di noi, regolando la nostra coscienza. Questo mette in luce la profondità della nostra esperienza interna e critica la riduzione del tempo a una mera dimensione quantificabile.

 

Come sperimentiamo lo scorrere degli eventi?

«Scandisco la vita attraverso nuove unità di misura[..]. E così mi sono creato il mio tempo tutto verde. Un tempo che non è più fatto di numeri, ma di arbusti. Un tempo di ciò che cresce e anche i ciò che secca. Un tempo di cui aver cura. Un tempo che non cammina, ma che si attraversa, osservando tutto quello che c’è e quello che manca. Un tempo in cui tutto, a suo modo, ha un senso».

Attenzione, memoria ed emozioni sono i principali meccanismi cognitivi coinvolti nella codifica e nella manipolazione delle informazioni temporali. Si tratta di un fenomeno che guida tutta la nostra vita. Ci consente di organizzare ed eseguire le azioni, di orientarci in modo coerente a ciò che ci circonda.

Non è solo lo scorrere degli anni, dei mesi, delle settimane, dei giorni, delle ore, dei minuti e dei secondi. Non è solo una continuità quotidiana, una relazione con lo spazio in cui ci troviamo. Non è neanche una scatola vuota che dobbiamo riempire con tutta la nostra vita, con gli impegni, le preoccupazioni, i pensieri.

 

Il tempo della consapevolezza

Il maggiordomo Llyod definisce il tempo come un campo da coltivare, quello che scorre tra un prima e un poi. Fornisce un’idea di quanto qualcosa è cambiato nel suo divenire. Proprio come un giardino, che non dà subito i suoi frutti, non profuma all’istante di rosa o di lavanda.

Aristotele sostiene che per avere una percezione del tempo sia necessaria una mente capace di misurare, accentuando il nesso che intercorre tra tempo e anima.

Dunque, il tempo si definisce in relazione al soggetto che ne fa esperienza. E siamo noi i contadini che ci premuriamo di coltivare il nostro campo, senza fretta, aspettando quel soffio di vento che ci ridesti dalla frenesia di un tempo che si allontana dalla durée bergsoniana e dalla pazienza di Llyod.

Non importa quanto grande sia ciò che facciamo nel nostro tempo. O quanto grande pensiamo che debba sembrare.

Qualunque cosa fai, se sai come viverla e inserirla nel tuo tempo, può trasformarsi in un giardino ancora più verde.

 

Fonti:

https://www.treccani.it/enciclopedia/henri-louis-bergson/

 

Elisa Guarnera

Il genio e la malinconia di Cyrano de Bergerac al Teatro Vittorio Emanuele

Tra le opere più amate del teatro francese, Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand continua, a oltre un secolo dalla sua prima rappresentazione, a conquistare il pubblico di ogni età. È una commedia eroica e romantica, un inno alla parola, all’amore e al coraggio di essere se stessi, anche quando la realtà non corrisponde ai propri sogni.

Scritta nel 1897, l’opera è ambientata nella Francia del Seicento e racconta la storia di Cyrano, spadaccino e poeta dal talento straordinario, ma segnato da un naso tanto grande quanto il suo orgoglio. Innamorato perdutamente della bella cugina Rossana, Cyrano non osa dichiararsi, convinto che il suo aspetto lo renda indegno d’amore. Quando l’affascinante ma impacciato Cristiano chiede il suo aiuto per conquistare la donna, Cyrano sceglie di prestargli la sua voce e le sue parole, nascondendo così il proprio sentimento dietro la maschera dell’altro.

Il risultato è una tragedia dell’anima e dell’identità, in cui la bellezza esteriore e quella interiore si scontrano fino all’ultimo atto, in una delle scene più commoventi del teatro mondiale. La penna di Rostand alterna con maestria ironia e malinconia, duelli e dichiarazioni d’amore, in una partitura di versi musicali e potenti che rendono Cyrano de Bergerac un classico eterno.

Ancora oggi, ogni nuova messa in scena di Cyrano de Bergerac è una sfida per attori e registi. Il personaggio di Cyrano, in particolare, è un banco di prova per chiunque voglia misurarsi con uno dei ruoli più intensi e complessi del repertorio teatrale.

Mariapia Rizzo (Cirano) e Marina Cacciola (Rossana) durante una scena dello spettacolo. ©UniVersoMe

Il Cirano a Messina

Il capolavoro di Edmond Rostand rivive al Teatro Vittorio Emanuele di Messina, nella suggestiva Sala Laudamo, grazie alla compagnia Teatro dei Naviganti. Lo spettacolo, andato in scena il 16 ottobre alle ore 21, è una libera ispirazione firmata da Domenico Cucinotta e Mariapia Rizzo, che firmano rispettivamente la regia e l’adattamento. In scena, Marina Cacciola, Elvira Ghirlanda, Antonio Previti e Mariapia Rizzo, con quest’ultima anche in veste di assistente alla regia.

Una versione innovativa

Confesso di essere sempre un po’ diffidente di fronte alle “libere ispirazioni” dei grandi classici, spesso il rischio è quello di snaturarne la complessità e, in qualche modo, rovinarne il fascino in nome di un’attualizzazione forzata.
Eppure, questa volta, sono rimasto sinceramente sorpreso. La rilettura del Cyrano de Bergerac proposta dal Teatro dei Naviganti riesce a rispettare lo spirito dell’opera originale pur trovando una voce propria, fresca e contemporanea.

Il punto di forza dello spettacolo è senza dubbio la sua dinamicità: la continua rottura della quarta parete crea un dialogo vivo con il pubblico, rendendolo parte integrante della narrazione. Così come l’utilizzo della platea come palco “secondario”, fa vivere negli spettatori una sorta di esperienza immersiva, con voci fuori campo e scene svolte direttamente tra la sedute del pubblico.

Un altro elemento riuscitissimo è l’uso delle canzoni “moderne”, per citarne una “Con una rosa” di Vinicio Capossela. 
Gli attori e le attrici, poi, sono straordinari nel restituire la profondità e la tensione emotiva della storia: ognuno riesce a rendere palpabile la complessità dei personaggi, dall’orgoglio malinconico di Cirano alla dolcezza irrisolta di Rossana.

Il risultato è uno spettacolo coinvolgente, intelligente e sincero, capace di far ridere e commuovere, di unire poesia e ritmo, parola e musica.

Un Cyrano che parla al presente senza tradire il passato e che dimostra come, anche quando un classico viene reinventato, ciò che conta davvero è la verità delle emozioni.

Gaetano Aspa

L’uomo nell’età della crudeltà…gentile

Dimmi la verità, non ti senti anche tu stanco del mondo?

Non del lavoro, non dei giorni che si ripetono uguali, ma di quella stanchezza più profonda, quella che tocca la coscienza.

Ti sei mai chiesto, davvero, in che epoca viviamo?

No, non parlo di date, di secoli, di “postmodernità”. Parlo di te, di me, del nostro respiro quotidiano. Parlo di questo tempo che non promette niente e pretende tutto.

Hai notato? Ti sei accorto che non ti sorprendi più di nulla? Che puoi leggere di un bambino morto sotto le macerie di Gaza e dopo cinque secondi aprire un video di cucina?

Non è colpa tua, mi dirai. È il mondo.
Ma il mondo — te lo dico con amarezza — il mondo siamo noi.

E no, non è cattiveria. È abitudine. Ci siamo abituati al dolore. È questa la vera tragedia del presente: la guerra non ci scandalizza più, il male ci sfiora ma non ci interessa, la morte non ci riguarda.

In Palestina si muore ogni giorno. Nella vicina Ucraina il fronte non tace. In Sudan, Yemen, Myanmar, Congo, guerre dimenticate, che non trovano spazio nemmeno in un titolo, perché al momento non fanno audience e non possono essere strumentalizzate. Anche alle porte e dentro la nostra civilissima Europa, l’uomo continua a distruggere l’uomo. E noi, spettatori, osserviamo la rovina come se fosse un film già visto. Ormai consumiamo la sofferenza come mero intrattenimento.

Viviamo nel tempo del “tutto subito”, ma ci manca tutto.  E intanto milioni di persone non riescono a pagare un affitto, milioni di giovani non immaginano un futuro. L’1% della popolazione mondiale possiede un terzo della ricchezza. Gli altri, cinque miliardi di esseri umani che vivono sulla soglia della povertà, si arrangiano. I giovani lavorano per sopravvivere, non per vivere.
E quando il futuro non si mostra, alcuni decidono di non aspettarlo più. Il suicidio è oggi una delle prime cause di morte tra i ventenni. Abbiamo creato una società che misura il valore di un essere umano in base a quanto produce.
La dignità è diventata un costo e la libertà un privilegio.

E intanto il pianeta si consuma, brucia, si sfalda. Le alluvioni, gli incendi, le siccità. Ogni anno i disastri climatici si moltiplicano e ogni volta ripetiamo lo stesso mantra: “Bisogna fare qualcosa”.
Ma chi, esattamente? Tu? Io? Lo Stato? Le aziende? Tutti lo dicono, nessuno comincia.
Ci siamo convinti che il tempo non sia una risorsa comune, ma un diritto individuale: “Finché non tocca a me, non è un problema mio.” E invece ci toccherà. Ci sta già toccando.
 Ma poi niente cambia. Abbiamo fatto della catastrofe un’abitudine meteorologica.

Milioni di persone scappano da terre ormai invivibili, li chiamiamo “migranti climatici”.
Ci basta una nuova parola per non dover provare compassione. Nel Mediterraneo le barche continuano a ribaltarsi e ogni volta che succede ci indigniamo per due giorni (se va bene), poi torniamo a dormire.
Abbiamo imparato a convivere con la morte degli altri, purché sia lontana, purché non sporchi la nostra quotidianità ordinata.

Ma la crisi più profonda non è nelle economie o nei governi, è nei sentimenti. Le relazioni si consumano come sigarette, rapide e usa-e-getta. Ci si incontra su uno schermo, ci si ama con un filtro, ci si lascia con un messaggio.
L’amore è diventato un’esperienza estetica, non più morale. Si vuole piacere, non conoscere; riempire, non condividere. Abbiamo paura di legarci, perché legarsi significa restare, e restare oggi è un atto di coraggio.
La tenerezza è scambiata per debolezza, la profondità per pericolo. I giovani si dicono soli anche quando hanno mille contatti. Gli adulti smettono di cercarsi, convinti che l’intimità non esista più.

La solitudine non è mancanza di compagnia, è mancanza di ascolto. Viviamo accanto, ma non insieme.
Eppure, paradossalmente, desideriamo l’amore più che mai, come un bene raro, come un sogno che non si osa pronunciare.

E allora ti chiedo: da quanto tempo è che non ti indigni davvero? Non per moda, non per apparire “sensibile”, ma per quella rabbia autentica che spinge a cambiare qualcosa?
Perché se smettiamo di provare vergogna, di provare dolore, allora siamo già finiti.
Senza vergogna non c’è morale. Senza dolore non c’è compassione.

Sì, forse ti sto accusando. Ma accuso anche me.
Siamo tutti complici di questa passività raffinata, di questa anestesia morale.
Viviamo come sonnambuli dentro una catastrofe che chiamiamo routine.

Viviamo nell’epoca della violenza non esplicita, ma in quella della crudeltà gentile. Non si uccide con le armi, ma con la distrazione. Non si umilia con la forza, ma con l’indifferenza. L’uomo moderno non distrugge, dimentica.
Scorre, passa oltre, lascia che tutto muoia nel rumore continuo del nulla. È la crudeltà che sorride, quella che ti accarezza mentre ti svuota. Ti dice: “Non pensarci, non serve, non è affar tuo.”
E tu obbedisci, quasi sollevato.

Forse non cambieremo il mondo, ma possiamo smettere di esserne complici. Possiamo scegliere di restare svegli, di non farci addomesticare dalla rassegnazione. Possiamo scegliere la lentezza, la compassione, la presenza.

E se scrivere oggi, significa ancora assumersi la responsabilità di disturbare, non per sadismo, ma per richiamare alla coscienza. Se la letteratura è ancora un tribunale, allora dobbiamo condannare la banalità della compassione che si limita a osservare. Dobbiamo, in qualche modo, restare umani e, dato il “panorama scheletrico del mondo” odierno, è la forma più alta di resistenza. Nell’epoca che ci vuole distratti, ricordare, sentire e amare sono i gesti più sovversivi che ci siano.

Gaetano Aspa

Un volto tra le onde : Jeanne Baret e la spedizione Bougainville

Verso l’ignoto: una moderna Odissea

“Quando ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga, fertile in avventure e in esperienze.”

Itaca”, ossia la terra promessa. Il punto, cerchiato in rosso, su una vecchia e ormai usurata cartina. Ulisse cerca di scorgere i confini all’orizzonte, ignorando la marea e il canto delle Sirene. Intanto annota sul suo diario prima quell’emozione, ora questo pensiero. L’intrepido Odisseo, sembra voler sfidare l’ignoto dinnanzi a sé. Levando l’ancora, ha lasciato alle sue spalle la furia di Poseidone.

Ora, con la saggia Atena alle sue spalle, squarcia il velo di Maya, sospinto dalla leggera brezza della conoscenza. Con lo sguardo perso nel vuoto, neanche s’accorge d’aver superato i confini della sua stessa mente.

Sembra ripercorrerne i passi Louis de Bougainville, iniziando da Nantes la sua Odissea. Da lui prese il nome una pianta, dai “grandi e sontuosi fiori viola”, che ancora oggi adorna il suolo sudamericano. Ogni ramo, proteso verso l’alto, sembra puntare verso degli immaginari limiti, ormai valicati dalla nave della conoscenza.

Francobollo raffigurante l’avventuriero francese. Sullo sfondo la Boudeuse, una delle navi salpate da Nantes

 

Tappa nello Stato di natura: Tahiti

“Noi siamo innocenti, noi siamo felici; e tu non puoi che nuocere alla nostra felicità.”

Poche parole, pronunciate debolmente, con un filo di voce. A parlare è un uomo magro, dal viso smunto, quasi una cornice di quell’espressione impassibile. Quindi, nella quiete, osserva la figura davanti a sé.

Bougainville, invece, è robusto, il volto pesante, dai lineamenti marcati cui fanno da contorno dei corti capelli bianchi. Sembra quasi l’antitesi dell’anziano che si trova sotto i suoi occhi.

L’arrivo in quel lembo di terra, apparentemente così isolato dal resto del mondo, fu un fulmine a ciel sereno per tutto l’equipaggio della Boudeuse. Appariva come un luogo fuori dal tempo, immerso in un eterno istante che ne lasciava intatti i colori.

Anni dopo, ricordandone la bellezza, Bougainville ne parla come fosse una moderna Citera. Allontaniamoci, però, dalla Grecia. Non ci troviamo nella “banale El Dorado”, come la definì Baudelaire.

Quell’isola, dall’aspetto “cupo e selvaggio”, viene chiamata Tahiti dai suoi stessi abitanti. L’esploratore francese, sembra aver trovato un angolo del globo che, in un impeto antistorico, sembra ancorato ad un primitivo stato di natura.

Rimane, però, colpito dall’accoglienza dei tahitiani, descritti come “ospitali” e “innocenti”. Il resoconto di Bougainville, confluito nel suo “Voyage autour du monde”, offre uno spiraglio nella vita del “buon selvaggio”, riprendendo Rousseau.

Sarà, poco tempo dopo, Diderot a rileggere le parole dell’esploratore suo contemporaneo, da una prospettiva diversa. L’ammiraglio parigino e il pensatore illuminista, sembrano muoversi verso la netta contrapposizione fra Tahiti e l’Europa. Ma ad uno sguardo più analitico, il leitmotiv è invece un acceso confronto tra civiltà e natura.

Didereot affida le sue osservazioni alle pagine del “Supplement”, opera pubblicata poco dopo la rimpatriata di Bouganville.

A sua detta, la civilizzazione dell’uomo passa per l’azione del “tiranno”. Costui è la figura a cui è affidato il difficile compito di “avvelenarlo” con quella che definisce come una “moralità contraria alla natura”.

Ormai, l’epopea di Bouganville, è cristallizzata nel suo “voyage”. Intanto, il grande libro della storia lo ricorda per la circumnavigazione del globo.

Tuttavia, alcune, seppur brevi, righe menzionano il nome di una figura spesso trascurata. Si chiama Jean Baret.

Stampa d’epoca. Ci parla della tappa tahitiana della spedizione Bougainville

 

Tra il fiore e l’onda: Jean Baret

Nei diari di bordo, il suo nome compare sporadicamente. Quasi sempre, è affiancato da quello del botanico Philibert Commerson. Quest’ultimo, uomo di scienza nonché naturalista, accettò l’invito nonostante la cagionevole salute. Accettò di imbarcarsi, a Rochefort, solo col suo “assistente” al seguito.

Baret, non lasciò lettere o testimonianze scritte di suo pugno, rischiando di essere l’ennesima comparsa di una pièce lontana dall’atto finale.

Solo un unico, anonimo, ritratto è sopravvissuto fino a noi. Mostra una figura slanciata, dai lineamenti delicati ma decisi. Indossa un completo da marinaio, come voleva la moda del suo tempo, mentre salta subito all’occhio una giacca blu. Tiene fra le mani, osservandole, delle piante dall’aspetto singolare. Sicuramente, pochi istanti prima, decoravano l’inospitale suolo tahitiano o del Brasile, entrambe tappe della lunga traversata di Bougainville.

Sulla Boudeuse ne osservavano la “scrupolosa modestia” con cui si comportava.

Sovente si dedicava allo studio e alla catalogazione di piante ed erbe, talvolta anche a supporto del lavoro di Commerson. In quell’Eden terrestre, d’altronde, era facile rimanere ammaliati da quella primitiva quanto selvaggia natura.

Il tempo, tuttavia, sembra cancellare le poche tracce della sfuggente Baret, come impronte sulla sabbia. In particolare, dopo lo sbarco a Tahiti, nemmeno Philibert ne fa più menzione.

Probabilmente, quest’assenza di informazioni deriva da un singolare episodio. A parlarcene è François Vives, medico di bordo. Egli richiama l’incontro con alcuni indigeni tahitiani che, sospettosi, scrutano l’aiutante di Commerson. Uno di loro, Ahutoru, non ha dubbi: sulla Boudeuse, viaggia anche una donna.

La giovane Penelope francese, attratta dall’Ignoto, aveva deciso di lasciarsi alle spalle la sua Itaca. Partita da un piccolo villaggio della Borgogna, era riuscita a ottenere un ruolo nel teatro della storia. Ora, tuttavia, è costretta a gettare la maschera.

Bougainville, per evitare lo scandalo, permette alla “donna delle erbe” di lasciare l’equipaggio, uscendo definitivamente di scena.

Oltre un secolo dopo, la troviamo affianco ai nomi di Simone de Beauvoir e Alice Milliat. Siamo alle Olimpiadi francesi del 2024. Chissà se, la giovane Jeanne, avrebbe mai immaginato tutto questo.

 

                                         Unico ritratto della giovane Baret, attribuito a Giuseppe dell’Acqua

 

Fonti:

https://www.britannica.com/biography/Jeanne-Baret

https://www.inomidellepiante.org/storie/con-bougainville-in-viaggio-intorno-al-mondo

https://static-prod.lib.princeton.edu/visual_materials/maps/websites/pacific/bougainville/bougainville.html

https://data.over-blog-kiwi.com/0/99/95/54/20180125/ob_8a956e_lecture-analytique-du-texte-de-diderot.pdf

https://www.schoolmouv.fr/fiches-de-lecture/supplement-au-voyage-de-bougainville-denis-diderot/fiche-de-lecture

 

Manuel Mattia Manti

Dietro il personaggio: Dr. Jekyll e Mr. Hyde

“Ti accorgerai a tue spese che nel lungo cammino della vita incontrerai molte maschere e pochi volti.

Le parole di Pirandello dettano la sceneggiatura nel teatro dell’esistenza. Ognuno aderisce al proprio ruolo, rifuggendo lo sguardo del pubblico. La platea osserva sorpresa i suoi attori.

Lo disse anche Schopenhauer: sul palco “nessuno si fa vedere com’è“. Sembrerà di osservare un novello Dr. Jekyll tentare di nascondere l’impetuoso Mr. Hyde.

Si alza il sipario sulla surreale pièce di cui il dualismo è leitmotiv. Immaginiamo, per qualche istante, di essere parte della folla accalcata sotto il palco.

Un riflesso sotto la maschera

Ecco recitare il primo dei protagonisti. Entra in scena un uomo alto e robusto, dall’aspetto impeccabile. “Liscio in volto“, la sua espressione lascia trasparire “comprensione e bontà“. Jekyll indossa, tuttavia, una grottesca maschera che ne cela l’io recondito. Ad ogni gesto sembra che Hyde chieda a gran voce di essere liberato.

Al centro del teatro, la luce riflette la sua mostruosa ombra sugli spettatori terrorizzati. Sfondo di questa grottesca pièce è la cupa Londra vittoriana.

Al calar del sole, un timido riflesso si proietta sull’ampolla che Jekyll tiene tra le mani. Una figura dall’aspetto “detestabile” compare, mentre il pubblico osserva spaesato. Il rispettabile dottore ha trangugiato in un sorso quella strana pozione, perdendo di colpo se stesso.

“l’uomo non è in verità uno, ma duplice.” La mano trema, lasciando cadere al suolo la fiala. Questa frase risuona nei corridoi della mente di Jekyll. Il rispettabile dottore londinese, ormai smascherato, rivela la sua vera natura.

Hyde, grottesca faccia dell’altra medaglia, prende il sopravvento. Il pubblico guarda disgustato la repentina trasformazione. L’attore al centro del palco, sembra non avere nulla che si possa definire umano.

Basso e pallido, dava una peculiare “impressione di deformità”. Il viso di Jekyll è a malapena coperto da quella maschera esteriore che inibisce ogni suo primitivo istinto. Si riescono a distinguere solo pochi frammenti di quest’anima tormentata.

Se il mondo è teatro, l’austero dottore è interprete d’eccellenza.

In una gelida serata invernale, la fitta nebbia di Londra, fa da contorno a questo lugubre quadro. Intanto i lugubri edifici, appaiono quasi come mostri addormentati. Un silenzio tombale soffoca la città, ma viene rotto dai passi del malvagio Hyde.

In quello stesso momento, sotto lo sguardo di Erebo, qualcosa si muove anche nella lontana Edimburgo. Una figura, con passo elegante ma deciso, si muove nell’oscurità. Un ghigno illumina il suo volto. Sa che ora, col favore delle tenebre, potrà agire indisturbato. Non ha bevuto alcuna pozione, eppure, anche lui partecipa a questa lugubre pièce.

Dalla platea, ad osservarlo, c’è anche Stevenson. Probabilmente, in quel momento, la storia del tormentato Jekyll prende forma tra i suoi pensieri.

Si mormora un nome, ormai dimenticato tra le pagine della storia. La gente lo chiama William Brodie.

 

                                            Poster d’epoca, raffigurante i due protagonisti

“Deacon” Brodie: il vero dr. Jekyll

Immaginiamo, seppure per qualche istante, di trovarci nei panni di un contemporaneo di Brodie. Nella sua Edimburgo, ci accorgiamo che quest’uomo è, in realtà, benvoluto e rispettato.

Mentre Londra, la “metropoli d’incubo”, fa da contorno alle vicende del Dr. Jekyll, ora ci spostiamo in Scozia. Il giovane Brodie lavora come ebanista, professione ereditata dal padre. Inoltre, è lo stimato leader – o Diacono, il soprannome Deacon deriva da questo suo titolo – della “Corporazione di falegnami e scalpellini“.

Nel teatro della vita, tuttavia, anche lui recita inconsapevolmente la sua parte. A stento la maschera aderisce al volto.

Durante il giorno, lavora per quella stessa nobiltà che, durante la notte, è incauta vittima delle sue incursioni. Inizialmente il suo travestimento gli permette di recitare questa parte indisturbato. Al calar del sole, però, l’inganno è svelato.

In una Londra ancora assopita, la furia di Edward Hyde esplode contro Danvers Carew. In quello stesso momento, Brodie, si aggira per i vicoli della sua Edimburgo. La luce della luna, a malapena, ne sfiora l’ombra.

Guardingo, si aggira per Cowgate, nella parte bassa della sua città natale. Gettati gli utensili da carpentiere, eccolo apparire la sua vera natura. “Deacon” Brodie si mescola con mille altri uomini, distratti dal vizio.

Ivi, si abbandona ad uno stile di vita sregolato. Stevenson ne parlerà menzionando la “montagna di contraddizioni” che lo opprime. Ben presto, infatti, sarà la sua “sordida avarizia” a tradirlo.

Brodie, per anni, era riuscito a sfruttare le sue abilità: di giorno installava meccanismi di sicurezza e serrature nelle case dei più abbienti cittadini di Edimburgo; la sera, invece, sfruttava i duplicati delle chiavi che, con altrettanta maestria, produceva.

Aiutato da due complici, George Smith e John Brown, le sue azioni incutono “terrore nei cuori dei ricchi”. La storia di Brodie, tuttavia, ha raggiunto l’atto finale. Il Diacono e i suoi seguaci tentano, invano, di prendere d’assalto l’Ufficio delle Accise. Il tentativo di rapina, si conclude con un nulla di fatto. I colpevoli, in un goffo tentativo di fuga, si disperdono.

Una “fuga per un pelo”, gli permette di raggiungere l’Olanda. Qui, ad Amsterdam, termina la sua epopea. Ricatturato, viene condannato alla forca. Un curioso aneddoto racconta che fu proprio lui a costruire quello stesso patibolo.

Cala, così, il sipario. Tuttavia, anni dopo, c’è chi giura di aver incrociato lo sguardo, per le strade di Londra, con un uomo “alto e ben vestito”. Che si trattasse di un redivivo Brodie?

Un ritratto di William “Deacon” Brodie, ripreso da “An Account of the Trial of William Brodie: And George Smith”

                    Manuel Mattia Manti

Fonti

https://www.historic-uk.com/HistoryUK/HistoryofScotland/Deacon-William-Brodie/

https://archive.org/details/trialofdeaconbro00brod/mode/2up

https://www.britishlibrary.cn/en/articles/man-is-not-truly-one-but-truly-two-duality-in-robert-louis-stevensons-strange-case-of-dr-jekyll-and-mr-hyde/

https://www.forbes.com/sites/abrambrown/2019/10/25/bogeyman-and-gentleman-the-real-life-dr-jekyll-and-mr-hyde/

https://www.undiscoveredscotland.co.uk/usebooks/steveson-edinburgh/chapter04.html

https://archive.org/details/trialofdeaconbro00brod/page/8/mode/2up

Manuel Mattia Manti