Incastrati: un giallo siculo

 

Un giallo comico, dipinto con i colori della Sicilia – Voto UVM: 5/5

 

Anno nuovo vita nuova. Lo stesso vale per il duo comico Ficarra e Picone, che sono sbarcati su Netflix il 1 gennaio con la loro prima serie TV.

Un nome una garanzia:  i due siciliani sono sempre pronti a deliziarci col loro umorismo- non quello banale e volgare alla Pio e Amedeo– ma quello che fa riflettere e porre domande, sempre pronti a difendere i diritti degli italiani con l’arma dell’ironia.

 

Ficarra e Picone in una scena della serie Fonte: tvserial.it

Una storia ricca di imprevisti

“Voglio una vita piena di imprevisti”. Queste sono le parole che pronuncia Salvatore che voleva sfuggire dalla monotonia, avere una vita come il commissario di una serie tv, in cui non esiste la parola noia, ma solo tante avventure. Come non detto, il suo desiderio verrà esaudito, ma di certo non come aveva immaginato. Il caro Salvatore dovrà ricredersi. Per quale motivo? Andiamo a scoprirlo. 

Incastrati è una serie scritta e diretta da Ficarra e Picone- composta da sei puntate di 30 minuti ciascuna- e racconta l’avventura di Salvatore (Ficarra) e Valentino (Picone), due riparatori di elettrodomestici che col loro furgoncino girano di casa in casa.

Da un lato abbiamo Salvatore, sposato con Ester (Anna Favella), ossessionata dallo yoga e dalla vita salutista, che impone pure al povero marito, dall’altro Valentino (fratello di Ester e cognato di Salvatore), un uomo ingenuo ma dal cuore d’oro, che vive ancora con la mamma morbosa, che vuole il figlio tutto per sé e fa di tutto per tenerlo lontano dalle donne, viziandolo come un bambino.

I due, oltre ad essere cognati, sono pure grandi amici e, un giorno come un altro, si recano in una casa per lavoro, ma finiscono nei guai: si ritroveranno dentro la dimora di un ex mafioso, ammazzato dalla mafia stessa in quanto pentito.

Da quel momento in poi per i protagonisti inizierà veramente una vita piena di avventure e imprevisti. I due per non essere incolpati si cacceranno ancor di più nei guai e da semplici testimoni rischieranno di passare per probabili assassini.

Non piangere,  che le lacrime contengono DNA


Cast, luoghi e folklore

La serie è ricca di personaggi, interpretati da: Leo Gullotta (Procuratore Nicolosi), Marianna di Martino (Agata Scalia), Anna Favella (Ester), Tony Sperandeo (Tonino Macaluso), Maurizio Marchetti (il Portiere Martorana), Mary Cipolla (Antonietta), Domenico Centamore (Don Lorenzo), Sergio Friscia (il giornalista Sergione), Filippo Luna (vicequestore Lo Russo), Sasà Salvaggio (Alberto Gambino) e Gino Carista (Frate Armando).

Un cast che con il talento fa divertire il telespettatore, utilizzando un’ironia tutta siciliana.

Ficarra e Picone in una scena della serie Fonte: Today

La mafia viene descritta per quello che è: una barzelletta fatta di uomini stolti, privi di etica, un’organizzazione poco furba ma allo stesso tempo pericolosa.

Nota di merito va per la sceneggiatura che descrive nei minimi dettagli la terra del sole: Ficarra e Picone disseminano i tipici luoghi comuni che il sud è condannato a indossare a causa delle menti più arretrate. I due comici però ci offrono anche paesaggi immensi, strade abbellite da cittadini col loro accento, i loro colori, il cibo, e tanto altro che solo il mezzogiorno può offrire.

Un messaggio nascosto?

Usiamo il crimine per farvi ridere

Cosa vuol dire questa frase? Cosa vogliono farci intendere i due attori? La serie va vista non solo come una produzione comica, ma bisogna avere un occhio critico. Come citato sopra, al centro vi è il tema della mafia, un morbo della nostra società.

Forse i due comici ci vogliono portare un esempio di “pornografia del dolore”, che ipnotizza gli individui anche con scene drammatiche, scene agrodolci che deliziano gli animi delle persone, facendole rimanere inermi davanti alla prepotenza? I due protagonisti però non rimarranno di certo immobili e faranno trionfare la giustizia. Un dovere a cui pochi riescono ad adempiere.

Una serie così piacevole, che la si vede tutta in un colpo solo. Ci erano mancati Ficarra e Picone, due comici che hanno portato su Netflix non solo la loro ironia, ma anche la sicilianità, fatta di arancini(e), culture e paesaggi da far invidia al mondo intero.

                                                                                                 Alessia Orsa 

 

Coronavirus, il Sud chiede aiuto e Conte risponde: “entro il 15 aprile 400 milioni per buoni spesa”

Domenica 29 Marzo, stiamo per entrare oramai nella terza settimana di quarantena, quella che doveva essere l’ultima settimana e portarci al 3 Aprile, deadline che, neanche a dirlo, dovrà slittare a data da destinarsi. Purtroppo le misure restrittive varate dal Governo non hanno ancora raccolto i frutti sperati: la curva dei contagi (oltre 92 mila in Italia) e dei morti (superata ieri la triste soglia dei 10 mila), non ne vuole sapere di appiattirsi, ma che – secondo gli esperti – deve ancora raggiungere il suo picco.

In un momento del genere, però, quando l’incertezza e la paura iniziano a prendere il sopravvento, molte famiglie non sanno se temere più un potenziale contagio o le conseguenze di “rimanere a casa” per un periodo prolungato e non poter lavorare. Infatti l’ansia, per molti, è quella di non arrivare a sostenere economicamente questa pandemia già dal prossimo mese.

Coronavirus, la GEOGRAFIA dell'epidemia: il Sud resta ai margini ...

 

Le preoccupazioni maggiori arrivano dal fragile e debole Sud. A tal proposito è intervenuto ieri con un intervista sulle pagine di Repubblica, il Ministro per il Sud e la Coesione sociale Giuseppe Provenzano il  quale ha gridato al rischio della tenuta democratica al Sud. Un allarme circostanziato dalle immagini dei supermercati assaltati in Sicilia e delle persone che perdono la testa perché non possono ritirare 50 euro.

“Ora dobbiamo mettere i soldi nelle tasche degli italiani a cui fin qui non siamo arrivati. Questa è la priorità del decreto di Aprile. […] Liquidità anche per le famiglie, per chi ha perso il lavoro e non ha tutele“. Pensa anche all’estensione del reddito di cittadinanza dicendo: “Per chi ha perso il lavoro dev’esserci una cifra equa rispetto alla cassa integrazione: 1000-1100 euro al mese. In tutti gli altri casi dev’essere un compenso che garantisca la dignità”. Quando invece gli viene chiesto se a Sud è più facile che la criminalità organizzata approfitti dell’emergenza risponde:

Già nella crisi precedente le cosche hanno fornito liquidità che mancava. Tocca alle istituzioni offrire l’alternativa. La tenuta democratica si esercita così. Vale al Sud ma, me lo lasci dire, il discorso riguarda tutta Italia”.

 

Covid-19 Sicilia, ressa al supermercato: “Non volevano pagare ...

Su quest’ultima affermazione si è speculato molto negli ultimi giorni (forse anche più del dovuto), non sottolineando invece un altro dato allarmante che dilania soprattutto il “Mezzogiorno”: secondo l’ultimo rapporto Istat, infatti, sono circa 3,7 milioni gli irregolari in Italia, con quasi l’80% del fenomeno concentrato al Meridione. L’Istituto ha inoltre sottolineato come 200 miliardi del Pil arrivino proprio dall’economia sommersa. Dunque la chiusura dei negozi avrebbe mandato in  crisi una larga fetta di lavoratori in nero ma anche di artigiani e liberi professionisti.

Ieri sera però, in conferenza stampa il premier Conte ha lanciato agli italiani un’ancora di salvezza attraverso Dpcm, con lo stanziamento di 4,3 miliardi del Fondo solidarietà ai Comuni con l’aggiunta di un ulteriore anticipo di 400 milioni per buoni spesa destinati solo alle famiglie più bisognose.

Siamo al lavoro per azzerare la burocrazia, stiamo facendo l’impossibile. Vogliamo mettere tutti i beneficiari della Cassa integrazione di accedervi subito, entro il 15 aprile, e se possibile anche prima”. (Republica)

A tal proposito esulta il sindaco di Napoli Luigi De Magistris per la decisione del governo di anticipare 400 milioni di euro – 6 dei quali destinati al capoluogo partenopeo – «vincolati» all’emissione di buoni spesa, da poter spendere negli esercizi commerciali, così da sostenere materialmente chi ha delle difficoltà e non spegnere il motore dell’economia.

Santoro Mangeruca 

Odi et amo Messina, una casa che sta stretta

Se mi venisse chiesto come definirei la terra di cui sono originaria, la Sicilia, unitamente alla mia città natale, cioè Messina, risponderei proprio citando i versi di una canzone popolare abruzzese che nell’immaginario collettivo si attribuisce di solito alla versione più nota rivisitata da Modugnoio vado via. Amara terra mia, amara e bella. Ho sempre interpretato queste parole un po’ come un appello, un composto grido di denuncia di un fenomeno che coinvolge tutti coloro che non si sentono più rappresentati dal luogo in cui si è nati e cresciuti e dove per natura si tenderebbe a restare. Può un luogo rivelarsi amaro e bello allo stesso tempo? Se sì, perché?

©RobertoInterdonato, libreria di Heidelberg, 2019

In effetti può sembrare paradossale, eppure è indice di ciò che riguarda una realtà, quella del sud e di Messina, che attanaglia centinaia di cittadini decisi a lasciarsela alle spalle, per costruire più dignitosamente la propria vita altrove. Ormai non se ne fa mistero, e i telegiornali, i programmi televisivi e le testate giornalistiche nazionali, al meridione e al settentrione, ne parlano frequentemente. Ognuno dice la sua, tra polemiche, punti di vista, giudizi, critiche più o meno costruttive. Ciò che al di là di tutto e senza dubbio non è edificante è stare in silenzio. Occorre riflettere, e non smettere mai di confrontarsi, sperando di smuovere le coscienze e scuotere gli animi di chi ha più potere rispetto all’autrice di questo articolo, per contribuire a cambiare le cose.

Sulla scia, tra l’altro non programmata, di due precedenti editoriali redatti dai miei colleghi Alessio Gugliotta e Giulia Greco, proseguo la digressione sul tema, come fosse un fil rouge, che evidentemente non capita a caso. Questo dibattere comune è sintomo di un disagio esteso in modo capillare nella generazione dei cosiddetti millennials. Senza alcuna intenzione di sfociare nella retorica, è arrivato anche per me il momento giusto di pubblicare i pensieri che annoto, raccolgo e conservo da quattro anni, e che sento il dovere morale di pubblicare in occasione del mio ultimo editoriale: una personalissima lettera d’addio che indirizzo a chiunque nelle mie parole possa ritrovarsi traendone ispirazione e conforto, ma anche a chi in tutta libertà voglia assumere una posizione diversa e contraria, che invito a manifestare e motivare. Dare risalto ad argomenti che risulteranno “scomodi” per alcuni non mi turba.

Un pretesto che mi ha fornito lo spunto per questo editoriale è stato l’argomento scelto per la seconda edizione del TEDxCapoPeloro dal titolo “Casa: Equilibrio tra radici e desideri”. Essendo molto sensibile alla tematica, ho voluto partecipare con motivazione all’evento, che si è tenuto il 23 novembre scorso. La locandina reca un approfondimento: “Cosa vuol dire casa nel 2019? Cosa vuol dire casa quando si vive in un posto dove è più facile partire anziché restare? La casa come luogo degli affetti, del quotidiano e del lavoro. La casa come elemento naturale da rispettare, preservare e proteggere. Una casa che garantisca al tempo stesso protezione, sicurezza, comfort e benessere. Casa negata e casa da inventare, costruire e immaginare. Spesso altrove, a volte in un luogo che solo dopo anni riesci a chiamare casa. Qual è la casa che ci aspetta? Esiste già la casa che abiteremo? La casa è un luogo fisico o solo il nostro posto nel mondo?”.

©CristinaGeraci, TEDxCapoPeloro, Messina, 23 novembre 2019

Non appena ho scoperto che la tematica sarebbe stata affrontata in questo modo, mi sono sentita subito in sintonia con le idee che intendevo destinare all’editoriale, e mi sono ripromessa che avrei fatto menzione del TEDxCapoPeloro, come ulteriore elemento a supporto delle mie teorie. Così come auspicato dagli organizzatori, l’evento riesce nei suoi intenti. Apprezzo lo storytelling proprio perché stupisce, emoziona, e fa riflettere. In particolare, è il talk di Carmelo Isgrò a suggerirmi input stimolanti. Il biologo messinese dall’esperienza professionale eclettica ed eterogenea, rende poliedrico anche il significato del termine “casa”. Lo fa partendo dalla definizione di “casa”, e rendendosi conto che è un concetto che cambia a seconda delle specie di esseri viventi che abitano un determinato tipo di spazio. Lo speaker giunge anche alla conclusione che agli occhi dell’uomo stesso, “casa” ha concezioni molto relative. E se ci pensiamo bene, è proprio vero. Forse si tende a dare per scontato o a sottovalutare la declinazione di “casa”, senza accorgersi che mai come nel secolo attuale, la sua accezione è diventata invece sempre più labile, instabile, precaria.

Proprio avantieri ho letto che i koala sono una specie a rischio di estinzione a causa, tra le altre, della perdita del loro habitat naturale e dei cambiamenti climatici. Un habitat quindi può diventare inospitale, nel momento in cui vengono meno le condizioni minime necessarie per far vivere un certo tipo di soggetti che lo popolano. Quello dei koala e di altri animali è un caso estremo che purtroppo accade, anche per colpa dell’uomo, ma di questo passo ci andremo vicini anche noi esseri umani se continuiamo a maltrattare l’unica nostra vera casa: il pianeta, di cui siamo ormai più parassiti che graditi ospiti. Ma restringiamo il cerchio a Messina e proviamo a capire perché sono partita da così tanto lontano per spiegare il termine “casa”.

Da quando ho conseguito il diploma di scuola superiore ho avviato un percorso di crescita costituito da molte esperienze positive, alcune rinunce, una manciata di scelte sofferte e anche errori. Ora che di tempo ne è passato, posso fare un bilancio analizzando il presente con nuovi occhi, adesso più consapevoli, maturi e lucidi. In quattro anni, ogni volta che ho lamentato le condizioni in cui versa Messina – occupa da anni gli ultimi posti nella classifica delle città italiane per qualità della vita, oltre a essere definita la città più disoccupata d’Italia sulla Gazzetta del Sud e in emergenza di disoccupazione su MessinaToday – mi è stato detto e ho letto di tutto. Tra capri espiatori e colpevoli, si addossa la responsabilità della crisi del mezzogiorno, in particolare di Messina in questo caso, un po’ a tutto: alla mentalità dei messinesi, all’immigrazione, alla mafia, alla politica (che spesso corrisponde alla precedente), al fatto che il nord si arricchisce attraverso il sud e ne mina la crescita avallandone l’arretratezza. Segue chi individua una cattiva amministrazione del turismo, chi afferma che in fondo “a Messina non c’è nenti”, e chi più ne ha più ne metta.

©GiusyBoccalatte, Imperial War Museum, Londra, 2014

Tra dichiarazioni fondate e altre più discutibili, quando palesavo la mia voglia di andarmene dalla falce della Sicilia, alcuni mi rispondevano: “ma chi te lo fa fare? Almeno laureati qui”, oppure “criticare ciò che non va ma desiderare di lasciare Messina è da incoerenti, perché equivale a non avere il coraggio di restare per cercare di cambiare le cose”. Ammetto che quest’ultimo commento mi ha sempre infastidita, alimentando sensi di colpa e giudizi che come catene hanno anche se parzialmente contribuito a ritardare e rimandare la mia partenza. Poi un giorno mi sono svegliata, stanca più mentalmente che fisicamente, e come folgorata da un’illuminazione ho capito: quando di possibilità te ne dai e se ne danno troppe a un luogo, non vivi più, ma sopravvivi soltanto. È inevitabile che poi arrivi il momento in cui senti l’esigenza impellente di dare una svolta alla tua vita, scartando tutto ciò che non ti fa più stare bene, perché a prescindere che il problema possa anche essere la tua crisi identitaria e qualsiasi parte del mondo potrebbe non andarti bene, percepisci che qualcosa dove ti trovi adesso non funziona più, e che abiti un posto che non senti più casa tua e che ti sta stretto.

©CristinaGeraci, Francesco Biacca, TEDxCapoPeloro, Messina, 23 novembre 2019

Sono giovane e ho sicuramente tanto da imparare ancora e di cui essere davvero sicura, ma ho una certezza: Messina non mi rende più felice. La posizione geografica privilegiata in cui sorge non è più sufficiente. Il mare e le bellezze naturali che offre non mi bastano più, se ci si investe poco. Osservo alcune zone della città con sconcerto. Le vedo trascurate, povere di innovazione e di opportunità. Quando al mio ultimo anno di liceo, in letteratura inglese, mi sono imbattuta nello studio di “Gente di Dublino”, ho paragonato Messina alla capitale irlandese, al modo in cui Joyce la raccontava e descriveva come città paralizzata. Ecco, è così che vedo Messina adesso: statica, poco vivace, martoriata, sfruttata e rassegnata al suo destino. Mi sento appartenere a una categoria di altri miei coetanei che si alzano dal letto senza ricordare più un sogno, spenti, privi di speranza e fiducia in una politica losca e marcia, cancro di una terra in cui non c’è spazio per tutti, appannaggio di pochi e a favore di coloro che sempre hanno avuto e sempre avranno, a volte gli stessi che lasciano Messina e il sud più per moda che per necessità di affermarsi onestamente.

Forse mi verrà detto che non mi so accontentare, che non mi so adattare, e che avrei avuto comunque la voglia di esplorare il mondo e formarmi altrove, anche se Messina fosse stata migliore. Probabilmente è vero. Per mia personalità avrei sicuramente cercato un posto più conforme ai miei interessi e al mio stile di vita, e infatti è un altro tra i motivi che mi spinge a fare le valigie piene di tutto ciò che ho vissuto fino ad adesso e che mi servirà, per sradicare le radici da Messina, trasformarle in ali, e poi piantare nuove radici nei posti in cui andrò. Le mie prime radici però non verranno mai dimenticate. Non è mia intenzione rinnegarle o vergognarmene. Ma saranno conservate più nel mio cuore e nella mia mente. Tendere al cosmopolitismo non significa vantarsi di aver viaggiato in modo meramente turistico in mille posti del mondo, bensì vuol dire vivere quei posti apprezzandone le differenze culturali e vedendole come occasione per capire il proprio ruolo nel mondo e sviluppare una cittadinanza attiva. Non si fa peccato a sentire di abitare il mondo più che una casa singola.

©GiusyBoccalatte, Wild Duck, Dublino, 2019

La mia curiosità e il mio carattere spigliato e intraprendente mi hanno sempre agevolata e spinta a cogliere tutte le possibilità di viaggio di varia durata che mi si sono presentate fino ad oggi, realizzate prevalentemente grazie a progetti associativi e convenzioni, oltre che all’aiuto della mia famiglia. Non si tratta di nulla di eccezionale, nulla di lussuoso, nulla da ostentare. Per me non erano vacanze, ma viaggi di scoperta che mi hanno consentito di farmi portatrice della mia nazionalità e della mia Messina, senza annullarla, ma cercando di capire nuovi punti di vista che potessero allargare i miei orizzonti e rendere la mia mentalità più elastica e sostenibile. Ho seminato tante case tanti quanti sono i posti che ho visitato. Ritrovo casa in tutti quei posti dove ho lasciato pezzi di me e pezzi di cuore, che ho colmato con tutto ciò che la gente di quei luoghi e che quei luoghi stessi mi hanno donato.

A ogni ritorno, mi sono sentita straniera in quella che prima ritenevo essere la mia unica casa, fino a scoprire di trovarmi forse nel posto sbagliato per me, che non mi lascia esprimere come vorrei, che non sempre tira fuori il meglio di me, e che soffoca le mie ambizioni. I sogni non devono essere calpestati, quindi forse bisogna piantarli in un terreno più fertile per coltivarli. I koala purtroppo non hanno più le condizioni favorevoli per vivere, e forse potrebbe non esserci possibilità di salvezza per loro. Noi uomini, pur causando un male che danneggia l’intero ecosistema, siamo più fortunati e possiamo spostarci. C’è chi direbbe che le rivoluzioni si fanno restando a casa propria. Io dico invece che la vera rivoluzione è cambiare sé stessi, in qualsiasi posto, e riscoprirsi per conoscere meglio sé stessi e il mondo. Solo a questo punto i cambiamenti possono avvenire più facilmente, e magari, tornando un giorno nella propria casa natale, portare la propria esperienza per migliorare le cose.

 

Giusy Boccalatte

Fonte dell’immagine in evidenza: Daniele Passaro

 

Un angolo di Lombardia a Messina: il Quartiere Lombardo

©Andrea Rapisarda – Case Feltrinelli, Messina 2019

Posto in pieno centro, il Quartiere Lombardo nasconde una storia che in pochi conoscono, residenti e non della città dello stretto.

Una storia ricca di solidarietà e senso di unità nazionale, valori che al giorno d’oggi sembrano degli echi lontani che risuonano da una fonte ormai quasi esaurita.

Il nome infatti, così come i nomi delle vie che lo percorrono (Brescia, Cremona, Bergamo, Como), testimonia quanto sia stato importante l’apporto delle città lombarde nella ricostruzione di Messina dopo il disastroso terremoto del 28 dicembre 1908.

Fonte: storia della Croce Rossa

All’indomani della tragedia, si assistette a un’impressionante mobilitazione nazionale e internazionale, per provvedere alle immediate necessità della popolazione sopravvissuta.

Il clima di fervente solidarietà è espresso al meglio da un articolo del quotidiano Alinari: “sul vasto campo seminato di macerie e di cadaveri vedemmo piangere i fratelli di tutto il mondo, qui convenuti in nome di un sentimento che affratella uomini di diverse razze e di diverse parti. E fra questa gente noi ricordiamo oggi […] i buoni e generosi fratelli lombardi i quali […] vollero dare il primo esempio della resurrezione delle città distrutte”.

Questo “primo esempio” non è altro che il Quartiere Lombardo, in assoluto il primo post terremoto ad essere costruito in muratura e rispettando le norme antisismiche in quella che molti definirono la “città provvisoria” o “città di legno”, essendo costituita essenzialmente da baracche.

Rinascita urbanistica

Alla data dell’inaugurazione del quartiere (28 dicembre 1910), tra le macerie ancora in vista, gli edifici “si contavano ancora sulle dita di una mano”.

Case Lombarde e via Milano – Fonte: solnet.it

I cittadini, perso il patrimonio storico-monumentale-architettonico e con esso la loro stessa “messinesità”, avevano un disperato bisogno di una miccia che desse inizio a quel processo di rinascita edilizia in grado di restituire un volto alla città e alla comunità che essa ospitava.

Questa rinascita partì proprio dal quel nucleo di 23 edifici a due piani, tra i quali spiccava l’Orfanotrofio Lombardo, costruiti su un’area di 21.620 mq a ridosso del torrente Zaera (viale Europa).

In tutta la Lombardia, in particolar modo a Milano, si assisteva a una vera e propria gara di solidarietà, che coinvolse tanto le istituzioni quanto i privati cittadini, incoraggiati dal Corriere della Sera, che seguiva attentamente la mobilitazione, pubblicando ogni giorno la “lista dei sottoscrittori” con i nomi di coloro che decidevano di spendersi per la causa.

I protagonisti veri e propri dell’edificazione del quartiere furono:

  • L’Opera Pia Lombarda: con la donazione di 1.600.000 lire vennero costruite le 23 “Case Lombarde”, l’Orfanotrofio, l’asilo Carlo Castiglioni, intitolato al benefattore medaglia di bronzo al valore.
  • Il Comitato Lombardo: costituito dal senatore Ettore Ponti (ex sindaco di Milano), dal commissario Rusconi (industriale lombardo), dagli ingegneri Nava e Broggi che progettarono gli edifici. Si stima che il Comitato donò circa la metà dell’intero contributo materiale e finanziario nazionale pubblico e privato.

Anche il futuro santo Don Luigi Orione accorse immediatamente a Messina (e vi rimase dal 1909 al 1912) per soccorrere i superstiti e ricostruire un’identità religiosa ai margini del quartiere. Egli stesso celebrava messe in una delle prime chiese-baracche, Maria SS. Consolata, che divenne ben presto punto di riferimento della comunità locale.

 

Orfanotrofio Lombardo – Fonte: solnet.it

I materiali per edificare il quartiere furono forniti dalle società Ferrobenton S.p.A. e Fratelli Feltrinelli Legnami, entrambe fondate dal padre del noto editore Giangiacomo Feltrinelli.

Rinascita culturale

“Il Quartiere Lombardo fu la grata

dietro la quale

era rinchiuso il mondo.

Case senza radici

e senza storia

piccoli cubi di lardo salato

salso di mare

vento africano..”

Così recitano i versi del giornalista e poeta Giuseppe Longo (Messina 1910 – Roma 1995), che volle rendere omaggio in una raccolta omonima al quartiere dove visse all’indomani del terremoto.

In una città pervasa da un senso di sradicamento socio-culturale, il quartiere fu casa ospitale e centro di aggregazione per alcune delle più importanti personalità del mondo culturale italiano.

Numerosi movimenti d’avanguardia sorsero tra le Case Lombarde: dai futuristi messinesi (Jannelli, Vann’Antò, Vasari) tanto apprezzati dal padre del futurismo italiano Marinetti; ai poeti simbolisti, ai quali si deve la prima rivista simbolista d’Italia “Le Parvenze” (Calabrò, Camagna, Toscano, Restori).

Fino ad arrivare al premio Nobel Salvatore Quasimodo, all’intellettuale Giorgio La Pira, al poeta Tommaso Cannizzaro, al cronista Mario La Rosa e ancora al giurista Salvatore Pugliatti.

Il Quartiere Lombardo è stato quindi al centro della rinascita non soltanto strutturale, ma soprattutto intellettuale, di una Messina devastata dal terremoto.

 

Il Quartiere oggi

©Andrea Rapisarda – dettaglio Quartiere Lombardo, Messina 2019

Sebbene dei 23 edifici originali oggi siano solo 12 i superstiti, la città non ha mai dimenticato l’impegno profuso dai compatrioti lombardi.

Attualmente, il Quartiere si estende tra il viale Europa, via Salandra, via Catania e il Viale San Martino.

©Andrea Rapisarda – Quartiere Lombardo, Messina 2019

In via Brescia troviamo l’Istituto Don Bosco, che ha preso il posto dell’Orfanotrofio Lombardo nel 1930, oggi scuola e oratorio per centinaia di bambini e ragazzi. Due targhe commemorative, prima collocate nelle pareti dell’Orfanotrofio, sono state poste all’esterno della struttura nel 2008.

©Andrea Rapisarda – Quartiere Lombardo, Messina 2019

Immediatamente accanto è sito l’Istituto Don Orione, oggi casa di accoglienza, cinema-teatro e sede di uno storico cineforum, nonché una statua del santo.

©Andrea Rapisarda – Quartiere Lombardo, Messina 2019

Sul lato opposto  del viale Europa sorgono le Case Feltrinelli, donate dai fratelli omonimi, che recano una targa con parole di ringraziamento scritte da Cannizzaro.

In questo complesso intreccio di personaggi, istituzioni ed edifici, possiamo dunque ancora oggi ritrovare tutti i protagonisti di questa meravigliosa storia, semplicemente passeggiando per l’affollato centro messinese.

©Andrea Rapisarda – Quartiere Lombardo, Messina 2019

Le vicende del Quartiere Lombardo prendono così nuovamente vita, nella sempre più concreta convinzione che l’Italia abbia bisogno, ora più che mai, di reali esempi di solidarietà tra Nord e Sud, per superare ogni differenza, diffidenza e disparità.

 

Emanuele Chiara

 

Bibliografia

Sergio Di Giacomo, “Il Quartiere Lombardo, la nobile Milano e la Lombardia per la risurrezione di Messina dal terremoto del 1908” e la bibliografia in esso citata.

Se rimani non giudichi, se te ne vai non giudichi

Una delle poche certezze che ha Messina è la retorica di fine estate. C’è sempre il poeta polemico di turno, la scrittrice nostalgica, lo zio d’America che sentenzia, sul finir di Agosto. Molte testate dello Stretto hanno preso questa abitudine – noi forse l’abbiamo addirittura iniziata questa tradizione – di pubblicare le lettere “rendiconto” delle condizioni e delle sensazioni che si provano quando si ritorna e si parte da Messina. 
Quando si supera la soglia dei 30 giorni di permanenza in quel di Zancle, scatta l’impellente necessità delle parole di farsi spazio tra le dita.

Premetto che questo filo narrante di analisi di critica costruttiva riguardo i movimenti migratori dal Sud non era stato deciso ma si è creato da solo: già da Settembre avevo in mente di affrontare tale argomento dal punto di vista “interno”, mentre il mio collega Alessio Gugliotta, penna dell’editoriale precedente, ha riportato nero su bianco dati rilevanti e critici della nostra attuale comunità, senza esserci messi d’accordo.

Che il mio discorso non venga travisato perché riconosco esserci tanti, troppi punti di vista: chi voglio affrontare sono quei cittadini che rimangono ma puntano il dito senza fare distinzione, sostenendo che tutti coloro che se ne sono andati siano deboli. Le ragioni dell’emigrazione sono diverse e personali, chi si permette di giudicare chi rimane sbaglia, sopratutto se ha avuto l’opportunità di andarsene senza la necessità di farlo, e viceversa chi rimane pur avendo la possibilità di andarsene ma preferisce giudicare come moralmente scorretto chi riempie la valigia. Questa forma di bullismo antiquata e sempre più ancorata nel dilagante malcontento generale che sconvolge i rapporti sociali, alimenta l’aggressiva reazione di una parte di nazione che viene illusa continuamente come se fosse drogata. Ed il primo punto di riflessione che sorge spontaneo è: quanto noi giovani meridionali subiamo e soffriamo le condizioni precarie offerte dalla nostra terra? I punti di vista sono infiniti, e più che opinioni sono critiche elevate a giudizi supremi che vanno in netto contrasto tra loro.

Partendo da chi sceglie di rimanere: mi chiedo perché chi rimane è meglio di chi se ne va? L’assunto incontestabile che ognuno è artefice del proprio destino nel momento in cui prende una decisione deve essere il sottofondo di lettura di questa opinione, cari lettori.

Ho notato che chi continua a vivere al Sud è sinonimo di chi crede nel territorio, di chi non abbandona le radici, di chi lotta, di chi ha sani principi. Sono quelli del “nonostante tutto”, del “il problema non è la mia città ma i cittadini, le istituzioni”, del “io amo la mia cittàslogan che ormai hanno perso identità. Come in questa lettera l’autrice sente la necessità di dire la sua che lievemente sfocia nell’accento sulla mancata valorizzazione del territorio. Io stessa mi sono ritrovata a scrivere qualcosa su quello che di buono c’è, che può aiutarci a vivere armoniosamente un luogo indipendente e selvaggio, ma la dura verità che noi non accetteremo mai è che viviamo una terra che sta implodendo e continuerà  fino a quando non si inizierà a fare fronte comune.

Non è giusto che io mi debba sentire in colpa perché sono figlio del mondo e come tale voglio conoscerlo. Se la mia colpa è quella di scegliere di essere chi non posso essere dove sono nato, devo obbligarmi ad essere chi non sono perché altrimenti sono un disertore delle radici?

Perché deve essere visto come una sconfitta andarsene? Siamo figli di questa terra, cittadini del mondo e come tali abbiamo l’obbligo morale di conoscerlo, visitarlo, esprimere il meglio di noi stessi attraverso la conoscenza del nostro ecosistema, un luogo che stiamo pian piano distruggendo a causa di una radicalizzazione controproducente. Tutte le buone intenzioni si trasformano in ipocrisia. É una croce per tutti il prendere una valigia e partire senza sapere come andrà, con la consapevolezza che quel biglietto di andata non avrà un ritorno. 

La più grande paura dei “terroni” è il cambiamento, un cambiamento che perde di significato nel momento il cui viene bloccato in tutti i modi. Si ne sono consapevole, subiamo ingiustizie e vessazioni solo per il fatto di essere nati in un punto geograficamente troppo ricco per poter essere appieno sfruttato, è un territorio scomodo per il Mangiafuoco di turno. 

Forse c’è troppa carne sulla brace, ma ciò che vorrei “mangiaste” è solo l’atteggiamento supponente e presuntuoso che ognuno di noi ha nei confronti di novità che vediamo solo dall’esterno o che, peggio, influenziamo con le nostre esperienze elevandoli a concetti supremi. 

Il confronto è le fondamenta di una comunità che vuole crescere, migliorarsi e cambiare ciò che di male c’è. 

Proprio ieri su Repubblica di Bari è stata pubblicata questa pillola 

https://bari.repubblica.it/cronaca/2019/11/02/foto/murales-240066470/1/#1 

L’opera artistica dello street artist Daniele Geniale è stata realizzata e dedicata a chi è costretto a lasciare la propria terra per ragioni di lavoro, e solo loro riconoscono il motivo della coraggiosa decisione. 

 

 

Immagine in evidenza: fonte La Repubblica, Bari

 

Giulia Greco

L’istruzione in discussione: il valore della laurea negli atenei del sud

Con voce tonante Matteo Salvini ha annunciato di volere rimettere mano a una questione che riguarda da vicino il futuro e l’inserimento nel mondo lavorativo dei giovani neolaureati o in procinto di laurearsi. Nella fattispecie la proposta in materia non rappresenta uno scenario nuovo; si tratta di dare avvio a una riforma, già discussa in passato, che intende abolire il valore legale della laurea e dei titoli di studio. Alla Scuola di Formazione Politica della Lega, lo scorso 12 novembre, il vicepremier ha usato queste parole: “Negli ultimi decenni sia la scuola che l’università sono stati considerati serbatoi elettorali e sindacali, semplici fornitori di documenti”. In spiccioli, il Ministro dell’Interno, ha detto che i luoghi in cui viene impartita l’istruzione sono dei vacui erogatori di titoli, degli spazi adatti a incastrare consensi politici. L’appello non è scivolato in basso, come le foto che Matteo Salvini posta su Instagram mentre si trova a cena (per fare un giro nei suoi social, dai un’occhiata qui), ma ha ricevuto una replica da Marco Bussetti, Ministro dell’istruzione: “È un tema di cui si dibatte da tanti anni, per adesso non è in programma, ma non è detto che in futuro non possa essere analizzato”. Almeno per ora la faccenda pare essersi sciolta in un grande nulla di fatto, l’ennesima misura grossolana e azzardata che attrae e incanta chi è in attesa di un forte scossone da parte della coalizione gialloverde.

Non è senz’altro la prima volta che la Lega si incammina su questa strada. La messa in discussione del titolo di studio è un tema che aveva già appassionato Umberto Bossi, e non senza però una valida e maliziosa attenuante, se ricordiamo la lunga trafila del figlio Renzo per ottenere il diploma, ma anche le più recenti notizie riguardo una laurea che avrebbe conseguito in Albania (link). Anche Maria Stella Gelmini aveva sollevato la questione che ha continuato in seguito a stare a cuore alla squadra del Prof. Mario Monti. I pentastellati, Beppe Grillo in primis, sono fautori di analoghe opinioni sulla faccenda, tanto che il 31 luglio scorso Maria Pallini, deputata del Movimento 5 Stelle ha depositato una proposta di legge che prevede «il divieto di inserire il requisito del voto di laurea nei bandi dei concorsi pubblici».

Ma prima di analizzare i motivi di questa posizione, chiariamo subito cosa si intende per valore legale della laurea:

Il principio del valore legale dei titoli universitari è sintetizzato nel Testo unico delle leggi sull’istruzione superiore (R.D. 31.8.1933, n.1592, art. 167). La riforma universitaria in Italia (DM 509/1999) che ha introdotto i nuovi titoli accademici di ‘laurea’ e di ‘laurea specialistica’, ha voluto confermare esplicitamente il principio del valore legale affermando che i titoli conseguiti al termine dei corsi di studio dello stesso livello, appartenenti alla stessa classe, hanno identico valore legale (art. 4.3) (fonte Wikipedia)

Quindi, il valore legale del titolo di studio indica il grado di ufficialità riconosciuto ai sensi della legge a un determinato certificato ottenuto in una Università. Abolire questo principio consente di mettere sullo stesso piano due lauree conseguite in due branche differenti, attribuendo un maggiore rilievo a caratteristiche diverse che non rientrano nelle conoscenze e nelle nozioni acquisite nel piano del corso universitario. In un documento, risalente al 2013, che si può trovare sul sito della Lega (link), ci sono alcuni dei motivi che hanno orientato questa scelta: “Oggi una laurea presa in una qualsiasi Università italiana ha lo stesso identico valore, ma sappiamo bene che diversi Atenei, soprattutto meridionali, offrono un servizio nettamente inferiore alla media. Questo squilibrio provoca la mancanza di concorrenza tra Atenei, ma soprattutto si ripercuote sul meccanismo dei concorsi pubblici che penalizza sistematicamente chi proviene dalle Università del Nord”. Nel libero mercato rappresenterebbe un progresso, secondo i fautori, perché in questo modo le università, chiamate a puntare sulla concorrenza e sulla qualità, farebbero a gara tra loro per primeggiare sulle altre in materia di formazione, accelerando così un processo virtuoso che porterebbe a uno sviluppo del sistema dell’istruzione superiore.

Peccato che Matteo Renzi aveva gridato che ci sono di fatto in Italia università di serie A e serie B già alcuni anni fa all’inaugurazione dell’anno accademico al Politecnico di Torino (link). Le differenze tra gli atenei verrebbero ad aumentare a dismisura, e ciò comporterebbe una ulteriore svalutazione delle università del sud, vessate da problemi reali e presunti, sulla scia anche di luoghi comuni non sempre fondati. Come avviene negli USA sarebbero valutati positivamente, nelle assunzioni ai concorsi, non tutti i laureati in una disciplina che hanno il massimo dei voti, ma solo coloro che provengono da conclamate istituzioni accademiche, collocate quasi tutte al nord. Questo porterebbe a un netto divario tra i ceti, fornendo “un’istruzione all’altezza” soltanto a chi può permettersela. Una soluzione quindi che ha poco di equilibrato, considerato anche il fattore discrezionale per stabilire quali sono i parametri che definiscono un’istruzione di qualità, e che, se diventasse una possibilità concreta, provocherebbe un ulteriore declino di un sud già penalizzato.

Eulalia Cambria

 

Game Over: ultime memorie di un (quasi) neo laureato

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Game over. È finita (quasi). Mi sto per laureare. Veramente molto bello. No dai, una buona fetta di sarcasmo ce la metto perché non è bello manco per niente. È come trovarsi alla fine della maratona, dopo aver percorso 42 km e aver faticato tantissimo per un lungo periodo di tempo e iniziare a vedere davanti a te, finalmente, il traguardo. Peccato questa sia la maratona di Boston.

Ebbene sì, ho deciso di congedarmi con una buona dose di black humor. E, suvvia, non fate i moralisti proprio adesso, sto scherzando. Però la metafora rende perfettamente il concetto. Sì, perché ho faticato veramente tanto in questi tre anni, ho fatto esami, seguito lezioni e altre cose stupende che si fanno all’università. E adesso sono qui, con la mia manina protesa a prendere “il mio bel pezzo di carta” che dovrà darmi un futuro, ma il futuro non lo vedo. No dai, non voglio farvi deprimere, lo siete già abbastanza probabilmente. Cioè siete studenti universitari, per lo più, non può essere altrimenti. La mia è solo una considerazione sulla vita, sul futuro, sulle possibilità del nostro paese.

Vi confesso subito una cosa: io non ci capisco molto di politica e non sono nella posizione di fare un’analisi sull’argomento. Ma me ne frego altamente e la faccio lo stesso: BENVENUTI IN ITALIA, SE NON VI STA BENE EMIGRATE CHE QUI STIAMO DIVENTANDO UN PO’ TROPPI. Già, alla faccia del Fertility Day. Ma torniamo a noi, il futuro. Ora, visto che ho aperto il mio cuore con voi e sapete bene che non ho le conoscenze adatte per parlare del futuro di un giovane laureato in Italia, mi limiterò ad utilizzare un’espressione che su entrambe le rive dello stretto viene adoperata per descrivere al meglio la situazione: “Non c’è nenti”.

Esatto, la sentite la satira? Tutto in una frase, poche parole ed hai già detto tutto. Argomentare? Pff, lasciamolo fare a quei cervelloni che governano il paese. Ma, ora, mi chiedo se sia veramente così… Beh probabilmente sì. Mi riferisco soprattutto al sud, dove le alternative spesso mancano e dove i giovani sono costretti ad emigrare. E lo fanno veramente. Secondo una statistica, fatta da me, 3 ragazzi su 3 una volta finita la triennale al sud decidono di proseguire gli studi al nord. Ok, ammetto che non ho fatto un gran lavoro di ricerca. Ho chiesto ai miei tre colleghi che si stanno laureando con me dove pensano di proseguire gli studi e mi hanno risposto: “Lontano da qui!”. Pensavo bastasse come ricerca statistica. Forse non ho seguito al meglio i corsi di statistica sociale.

Eppure non sono completamente convinto che qui, al sud, non ci sia niente. Basta avere un po’ di fantasia, estro e creatività. Non vedete possibilità? Createle voi! Alzate il vostro bel culetto dal divano e cercate di cambiare le cose. Beh sì, forse mi faccio sgamare un’altra volta, ma non è che sono la persona più adatta di questo mondo per dire una cosa del genere. Ehi, non biasimatemi però, non è colpa mia se Netflix decide di aggiornare il suo catalogo ogni santo giorno. EHILÀ VOI DI NETFLIX? QUI C’È UN’ORDA DI GIOVANI CHE STA CERCANDO DI COSTRUIRSI UN FUTURO. POTETE, PER FAVORE, SMETTERLA DI PRODURRE COSÌ TANTI PRODOTTI DI QUALITÀ? GRAZIE. Già sempre a dare la colpa agli altri… Ho già detto “benvenuti in Italia”?

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Ed eccomi che mi trovo qui, in procinto di prendere una laurea considerata sfigata (anche più sfigata di quella in “Scienze della comunicazione”, quella quantomeno a furia di prenderla in giro è diventata famosa), che mi guardo indietro e ripenso a questi anni passati qui all’università. Sono stati dei begli anni. Beh forse lo devo dire per forza, non posso mica dire che mi hanno fatto schifo… Vi immaginate se dovessi ricevere qualche denuncia o qualche querela per questo? Sono troppo povero per potermi permettere di pagare un avvocato e se mi dovessi difendere da solo continuerei a dire qualcosa del tipo: “Ehm mi appello all’Articolo 21… quello sulla libertà d’espressione… o almeno credo sia il 21… no no, ne sono sicuro è il 21… l’ho studiato all’università… vedete, qualcosa l’ho imparata!” Non finirebbe tanto bene per me.

Però anche se probabilmente “il mio pezzo di carta”, di questi tempi, non mi garantisce un futuro lavorativo, sono contento di aver passato questi anni all’università. È un’esperienza e come ogni esperienza ti segna nel profondo. Ora, per i più svariati motivi personali (di cui non ve ne frega niente), probabilmente non utilizzerò le conoscenze acquisite in questi anni nel mondo del lavoro. Ho semplicemente deciso di cambiare percorso. Ma non sono abbattuto, anzi sono felice di aver provato questa esperienza e di aver vissuto così tante cose. E credetemi ne ho viste di cose strane e assurde all’università, dagli esami, alle lezioni, ai professori, alle code in segreteria. Tutte queste cose mi hanno formato e mi hanno fatto crescere, in un modo o nell’altro. Potrei raccontarvene tantissime e rimanere qui a discutere per ore. Ma vi ricordate il discorso sull’avvocato, l’articolo 21, ecc…? Ecco, come vi dicevo, sono stati veramente degli anni bellissimi.

Nicola Ripepi