Storia di un musicista errante: l’avventurosa vita di Giovanni Antonio Pandolfi Mealli, violinista a Messina

Gerrit van Honthorst, “L’allegro violinista”, 1623.

Da Montepulciano a Venezia, da Venezia a Innsbruck, da Innsbruck alla nostra Messina, e da lì non si sa dove, fino a finire alla corte del Re di Spagna. Aggiungiamoci tanta, tantissima musica, perchè di un musicista stiamo parlando: Giovanni Antonio Pandolfi Mealli, violinista e compositore. Poi, giusto per aggiungere un pizzico di torbido, la storia misteriosa di un omicidio… Come ambientazione, il Seicento europeo delle corti nobiliari, dei fasti e dei capricci del Barocco, il Seicento dell’epoca d’oro della storia di Messina e del suo crepuscolo.

Ce n’è abbastanza per un romanzo d’appendice, vero? E invece stiamo parlando di una storia vera, faticosamente ricostruita da archivi e fonti bibliografiche e confinata alla polvere e agli scaffali delle biblioteche; e stiamo parlando di alcuni spartiti, anch’essi poco più che muti fogli di carta, che però, nelle sapienti mani degli esperti, possono trasformarsi in musica; musica che ci parla di un’epoca e un mondo che non esiste più.

E’ a Montepulciano, in Toscana, che il nostro protagonista viene alla luce nel 1624, col nome di Domenico Pandolfi: il nome Giovanni Antonio, con cui diverrà noto in futuro, lo prenderà anni dopo, quando si farà prete, mentre il secondo cognome, Mealli, è quello del primo marito della madre, vedova e risposata con Antonio Pandolfi. Nel 1629, cinque anni dopo la sua nascita, il padre muore: è così che la famiglia si trasferisce a Venezia, dove Giovan Battista Mealli, il suo fratellastro, figlio di primo letto, lavora come cantore nella cattedrale di San Marco. Proprio qui il giovane, presumibilmente, apprende i rudimenti della musica.

Passano gli anni e Giovanni Antonio, divenuto sacerdote e valente violinista, si stabilisce a Innsbruck, alla corte dell’Arciduca d’Austria: è lì che vengono pubblicate, nel 1660, due raccolte di musica per violino, pezzi pregevoli scritti in uno stile irruento, capriccioso, espressivo e virtuosistico, nel pieno dei canoni barocchi dello “stylus phantasticus”, lo stile fantastico, in voga all’epoca nel Nord Europa. (qui una registrazione completa: https://www.youtube.com/watch?v=J2HSgxfN_ks )

Evaristo Baschenis, “Natura morta con strumenti musicali”, 1650

Nove anni dopo lo ritroviamo a Messina, violinista nella Cappella Senatoria del Duomo. Non si sa quali vicende lo abbiano portato a spostarsi dall’Austria alla città dello Stretto; ma sappiamo che in quel periodo Messina è una città florida, ricca e culturalmente vivace, il Senato è all’apogeo del suo potere politico, e la Cappella Senatoria, come riflesso di questo periodo di splendore, è una istituzione musicale fiorente e importante nel panorama siciliano e ospita musicisti da tutto il resto d’Italia e da Roma. In questo contesto di variopinta attività culturale possiamo anche inserire l‘Accademia le cui riunioni si tenevano nella residenza del nobile Giovanni La Rocca, principe d’Alcontres e marchese di Roccalumera, mecenate che si dilettava di musica (pare possedesse e suonasse il claviorgano, uno strumento dell’epoca ibrido fra un clavicembalo e un piccolo organo) e della cui cerchia Pandolfi faceva parte come protetto. A lui è infatti dedicata la raccolta di Sonate pubblicata a Roma nel 1669, l’unica opera che ci sia pervenuta dal suo periodo messinese. Una opera che documenta un netto cambio di stile rispetto ai lavori precedenti: scompaiono le capricciose evoluzioni del violino solista, cedendo il passo a danze e variazioni su temi: un genere che doveva essere molto di moda nella Messina del ‘600, dato che anche Bernardo Storace, che della Cappella del Duomo fu vice maestro e organista più o meno negli stessi anni in cui vi lavorò Pandolfi, ne fa largo uso in una raccolta di pezzi per organo e clavicembalo. Spesso sono scritti per più strumenti, chiaramente destinati ad essere suonati in gruppo, da piccole ensemble strumentali: secondo una usanza tipica dell’epoca, che Pandolfi adottò anche nei lavori del 1660, le singole sonate sono intitolate coi nomi dei colleghi ed amici della Cappella Senatoria di Messina, ed erano probabilmente destinate ad essere eseguite con loro, tanto in chiesa quanto nel contesto dell’Accademia.

Bartolomeo Bettera, “Natura morta con strumenti musicali”, XVII sec.

Poi, nel 1675, avviene un fatto misterioso che cambia la vita di questo musicista: un giorno, mentre si trova nel Duomo, ai piedi della scala della cantoria, ha una lite violenta con un cantante, il castrato Giovannino Marquett. Nulla si sa, e forse mai si saprà, di cosa sia successo tra i due, che peraltro dovevano essere stati in ottimi rapporti fino a qualche anno prima, dato che proprio a Marquett è dedicata una delle sonate del 1669, appunto intitolata “il Marquetta” (la trovi qui: https://youtu.be/VtydebLyFyE?t=1761 ). Quel che è certo però è che deve essersi trattato di una lite davvero seria: a un certo punto, dopo essere stato a lungo provocato, Pandolfi perde il controllo, sottrae la spada al cantante e lo colpisce a morte.

Costretto a scappare da Messina in seguito a questo omicidio sacrilego, Pandolfi scompare dalla circolazione, per poi ricomparire, qualche anno dopo, nientemeno che a Madrid, come violinista della Cappella Reale. Da questo momento in poi, le tracce della sua esistenza iniziano a diradarsi fino a perdersi nei meandri della Storia.

Cosa ci resta di questo musicista avventuroso dalla storia piena di punti interrogativi? Senza dubbio la musica: ma perché essa possa continuare a vivere e non tacere per sempre, bisogna che qualcuno la esegua. Se, infatti, dei lavori musicali di Innsbruck abbiamo diverse registrazioni ed esecuzioni, lo stesso non si può dire delle Sonate messinesi, sconosciute tanto al grande pubblico quanto, spesso, agli stessi addetti ai lavori, tanto che ad oggi manca una loro registrazione completa. Un altro frammento dell’enorme (e sottovalutato) patrimonio culturale della città di Messina, destinato forse a rimanere nell’oblio. 

Gianpaolo Basile

 

Una luce sul mare: la torre della Lanterna di San Ranieri

Zancle, “la Falce”, la chiamavano i nostri progenitori greci: a testimonianza di come Messina, città antichissima, abbia sempre avuto, fra le sue peculiarità, quel braccio di terra a forma di falce che si protende verso la Calabria e poi si volge di nuovo verso le sue spiagge, definendo così una ampia baia che ai nostri antenati deve essere sicuramente parsa provvidenziale, nel contesto di un mare capriccioso e difficile come lo Stretto. Un posto perfetto per costruirvi quello che sarebbe diventato e rimasto per secoli uno dei porti commerciali e militari più importanti del Mediterraneo. Su quel lembo di terra lambito dalle acque del mare, guardiano dello Stretto, da tempi immemori la Lanterna di San Ranieri continua a fare luce: per anni e anni ha guidato i naviganti, mostrando loro, in quelle pericolose acque, l’imboccatura di un porto sicuro. 

La storia della Lanterna si perde nei secoli passati confondendosi con la leggenda. Così, se la storia ci attesta la presenza di alcuni monaci che risiedevano in questa penisola, sulla cui punta si trovava l’antico Archimandritato del Santissimo Salvatore, già a partire dall’XI secolo, è la leggenda a raccontarci del santo monaco Ranieri (o Rainieri), forse identificabile con quel san Ranieri da Pisa di cui le agiografie riportano un soggiorno a Messina, a metà del dodicesimo secolo. La tradizione vuole che il buon Ranieri si recasse ad accendere ogni giorno fuochi di segnalazione ai naviganti, per proteggerli dalle insidie del pericoloso gorgo detto “Garofalo”, che proprio lì, nelle vicinanze della Falce, mieteva le sue vittime fra i marinai.

Proprio nel luogo in cui secondo la leggenda san Ranieri accendeva i suoi fuochi, fu costruita, negli anni successivi alla sua morte, una cappella dedicata al suo culto, presso la quale si stabilì una comunità di monaci terziari francescani, i “Continenti di San Ranieri”: furono loro, nel 1310, i primi a costruire sulla penisola una struttura adibita a faro, che prende appunto il nome di Lanterna di San Ranieri. 

Della antica Lanterna e della cappella si perdono le tracce nel 1500: è in questo periodo che, a seguito della visita a Messina dell’Imperatore Carlo V, in clima di aperta tensione nei confronti dell’espansione ottomana, su impulso del vicerè Ferrante Gonzaga Messina si trasforma da porto prevalentemente mercantile a imprendibile piazzaforte militare; l’Archimandritato viene distrutto e al suo posto viene edificato il forte omonimo del Santissimo Salvatore, e al posto dell’antica Lanterna, presumibilmente ormai in rovina, sorge la massiccia torre quadrangolare a bugne che tutt’ora scruta silenziosamente, come un vigile guardiano, le acque del mare. 

Sulle vicende riguardanti la sua costruzione molto è stato scritto da parte di storici e studiosi, ma continua ad aleggiare una certa aura di mistero. Una tradizione che origina nell’Ottocento, per la precisione da Giuseppe La Farina, la attribuisce al celebre scultore e architetto fiorentino Giovanni Angelo di Michele, detto il Montorsoli: ed in effetti Giorgio Vasari, che del Montorsoli fu contemporaneo e biografo, parlando di lui nella sua edizione del 1568 delle sue “Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti” a proposito delle sue opere messinesi scrive in appena mezzo rigo “fu fatta in su la marina, di suo ordine, la torre del fanale”. Quel che è davvero misterioso è come mai tutte le altre fonti storiche fino all’Ottocento, parlando del Montorsoli, trascurano di identificare la Torre tra le sue opere. Ancora, nessun accordo vi è sulla data di costruzione: se una epigrafe, che si trovava affissa sull’edificio e che alcuni storici attribuiscono a Francesco Maurolico, pone la data al 1555, sotto l’impero di Carlo V, altre fonti parlano di una torre che fu restaurata e in seguito demolita nel 1556, altre ancora datano l’edificio al 1566, o ad altre date ancora; lungi dal voler scendere nei meandri un po’ oscuri della storiografia locale, quel che è certo è che, per quanto riguarda la sua costruzione, l’ultima parola non è ancora stata detta. 

Oggi la Torre della Lanterna, che da almeno 5 secoli resiste indenne ai terremoti e alle calamità naturali, è proprietà della Marina Militare Italiana e viene aperta al pubblico solo in particolari occasioni; sormontata da un faro moderno di costruzione successiva, con i suoi tre lampi bianchi ogni 15 secondi continua a segnalare le coste sicule alle navi che transitano nello Stretto, oggi come secoli fa. E anche se adesso il Garofalo non ci fa più paura e le mitiche Scilla e Cariddi, divoratrici di uomini, solidamente incatenate ai piedi del Nettuno nella celebre fontana, non sono più in grado di nuocere alle nostre grandi navi a motore, ogni volta che, passeggiando sulla banchina del Porto, posiamo lo sguardo sulla sua massiccia mole cinquecentesca, non possiamo fare a meno di pensare a quante vite, erranti sul mare, siano state tratte in salvo grazie alla luce soccorritrice della Lanterna di San Ranieri. 

Gianpaolo Basile

ph: Elena Anna Andronico

La chiesetta di San Tommaso il Vecchio: una amara rivincita del fato

Ci sono luoghi a Messina in cui la Storia fa capolino senza dare troppo nell’occhio, con discrezione, come una presenza silenziosa ma fedele che veglia su certi piccoli angoli di città. Capita così che passeggiando in pieno centro, a pochi passi dalla Galleria Vittorio Emanuele, su una delle prime traverse della via Cavour, Via Romagnosi, appaia ad un certo punto nel mezzo dei palazzi residenziali la sagoma quasi anonima di una piccola chiesetta, sulle cui mura in mattoni grezzi, dagli angoli contornati in pietra lavica, grava il peso di chissà quanti secoli: è la chiesa di San Tommaso il Vecchio.

Da quante centinaia di anni questa piccola chiesetta si trovi lì è qualcosa che gli storici non riescono ad oggi a determinare univocamente. Sulla facciata anteriore, che oggi è visibile solamente dai palazzi circostanti o dal cortile recintato, raramente aperto al pubblico, una iscrizione latina riporta la dedicazione a San Tommaso Apostolo e la data 1530; ma alcuni studiosi ritengono che si tratti di una costruzione molto anteriore. Del resto quella curiosa cupola sul suo timpano circolare, benchè oggi in parte alterata nella sua fisionomia dai restauri novecenteschi, tradisce quegli influssi arabo-bizantini che resero così ricca e variegata, nei secoli successivi all’anno mille, l’arte normanna in Sicilia; ed è dunque al Medioevo, e all’architettura medioevale, che con ogni probabilità va ad ascriversi questo piccolo ma elegante edificio, che forse apparteneva ad un cenobio basiliano.

Quel che è certo è che è è dal XVI secolo che la chiesa di San Tommaso fa il suo ingresso ufficiale nella storia messinese. Probabilmente solo restaurata nel 1530, nel 1585 viene annessa al Conservatorio delle Vergini Riparate, una pia istituzione dedicata all’educazione delle fanciulle, la cui sede si trovava nei dintorni. Circa vent’anni dopo, il Conservatorio delle Vergini passa in gestione ai padri Teatini, uno dei molti ordini religiosi sorti in seguito alla Controriforma, e con esso la chiesetta, che viene dunque a trovarsi inclusa nei giardini del convento.

 

 

I Teatini, infatti, pur preservando intatta la vecchia costruzione, preferiscono fare le cose in grande e iniziano la costruzione di una nuova chiesa, molto più grande e più bella, per il cui abbellimento viene chiamato a Messina, nel 1686, uno dei più grandi architetti del periodo, membro dell’Ordine dei Teatini e attivo in tutta Europa. Si tratta di Guarino Guarini, e la chiesa che il suo estro concepisce, l’Annunziata dei Teatini, con la sua facciata barocca esuberante e maestosa, diventerà il modello per moltissime altre chiese siciliane ad essa successive, tanto da venir considerata dagli storici dell’Arte il vero atto di nascita del barocco siciliano settecentesco.

 

È così che, mentre la nuova chiesa diventa una delle più importanti e belle della città (prima del 1908 era davanti ad essa che si trovava il monumento a Don Giovanni d’Austria oggi in Piazza Lepanto), la vecchia chiesa di San Tommaso il Vecchio, ormai inutile e dimenticata, vive un periodo di progressivo abbandono: per tutti i due secoli successivi resta in disuso, a mo’ di rudere, nel giardino dei Teatini assieme ai resti del Conservatorio, e quando, a seguito dell’Unità d’Italia, con le leggi eversive i beni dell’Ordine dei Teatini passano in mano allo Stato Italiano, la chiesa viene venduta a privati e diventa addirittura la sede di un forno.

Eppure, a riprova del fatto che talvolta il fato sembra essere dotato di un pessimo senso dell’umorismo, quando su Messina cala la falce del terribile terremoto del 1908, la chiesa dell’Annunziata dei Teatini viene rasa al suolo e di essa oggi (purtroppo) non resta traccia alcuna, mentre è proprio la piccola, dimenticata, maltrattata chiesa di San Tommaso Apostolo a restare in piedi nonostante i secoli di storia.

Pare dunque che la sorte abbia voluto offrire una sorta di rivincita a questo luogo: eppure si tratta di una vittoria che ha un sapore amaro. Non solo perché ci è costata la perdita di uno dei monumenti artistici più belli e importanti della Messina pre-terremoto, ma anche perché ad oggi, pur essendo stata in parte restaurata negli ultimi decenni del secolo scorso, la chiesa di San Tommaso si trova in condizioni tutt’altro che ottimali: sfregiata da discutibili interventi architettonici posteriori; nascosta alla vista, per quanto riguarda la semplice ma elegante facciata principale, da alti palazzi residenziali; recintata dietro una robusta cancellata in ferro che blocca l’accesso al cortiletto antistante; aperta al pubblico in occasioni estremamente rare; in una parola, oggi come allora, dimenticata.

Gianpaolo Basile

Ph: Fernando Corinto; Riccardo Figliozzi

Per la foto dell’Annunziata dei Teatini: https://it.wikipedia.org/wiki/Chiesa_della_Santissima_Annunziata_(Messina)#/media/File:Messina_Santa_Annunziata.jpg

Lepanto, 1571. Don Giovanni d’Austria, Messina e l’ultima Crociata.

Ritratto di Don Giovanni d’Austria

Impettito sul suo alto piedistallo di marmo, sorridente e trionfante nella sua ricca armatura cesellata, immortalato nel duraturo bronzo dalle sapienti mani di Andrea Calamech e della sua bottega, Don Giovanni d’Austria è ormai un simbolo della città di Messina al pari del più celebre Nettuno del Montorsoli o della Madonna del Porto; oltre che membro onorario, suo malgrado, della movida messinese che ogni weekend trova, ai piedi della sua statua, un insostituibile punto di ritrovo. Ma dietro il sorriso e lo sguardo fiero di questo condottiero di bronzo c’è una storia che merita di essere raccontata. È la storia che vede lui, e in parte anche la città di Messina, protagonisti di una delle grandi battaglie che segnarono il corso della Storia, quella con la S maiuscola: la battaglia di Lepanto.

 

Quando don Giovanni nasce, a Ratisbona, in Germania, nel 1547, nessuno può immaginare a quali imprese verrà legato il suo nome in futuro, anche se è il figlio di colui che, all’epoca, è l’uomo più potente del mondo intero, l’uomo sul cui impero non tramonta mai il sole: l’imperatore Carlo V d’Asburgo. Giovanni infatti, pur essendo figlio dell’Imperatore, è un figlio illegittimo, frutto di una relazione extraconiugale del monarca con una donna di sangue non nobile (Barbara Blomberg, figlia del sellaio della città), che al momento del concepimento ha appena 19 anni e viene presto abbandonata dall’altolocato amante.

Monumento a Don Giovanni d’Austria. Andrea Calamech, 1572. Messina, Piazza Lepanto. Ph: Giulia Greco.

Ma l‘Imperatore non si dimentica affatto del sangue del proprio sangue ed è così che lascia, fra le sue ultime volontà, che il figlio legittimo Filippo II, re di Spagna, riconosca il fratellastro come tale e gli assegni una rendita: il giovane viene quindi portato a Madrid, introdotto alla vita di corte, e muta il nome, diventando don Juan de Austria, don Giovanni d’Austria. Il re Filippo lo vorrebbe chiuso tra le mura di un convento, ma al giovane Giovanni la vita religiosa non piace affatto e preferisce dedicarsi al mestiere delle armi, scalando rapidamente le gerarchie dell’esercito spagnolo e distinguendosi come comandante in diverse operazioni militari.

 

È un periodo storico in cui gli scontri fra il mondo cristiano e il mondo musulmano sono più accesi che mai: l’Impero ottomano, infatti, è in piena espansione, le sue navi corsare minacciano i mercati delle grandi potenze marinare europee e i pirati barbareschi si abbandonano spesso a razzie sulle coste seminando il terrore fra i popolani.  La Repubblica di Venezia, che da anni si contende l’isola di Cipro con i Turchi, vacilla ogni giorno di più, e quando a raccogliere il grido d’aiuto dei Veneziani è addirittura il papa Pio V, preoccupato dalla inarrestabile espansione musulmana, la situazione si carica di connotati religiosi: si torna a parlare di crociata.

 

É Pio V a convincere la Spagna di Filippo II, da sempre difensore strenuo del cattolicesimo, ad intervenire. Per prendere in mano la situazione, tutt’altro che semplice, al re serve un uomo di fiducia e di indubbio talento militare: chi meglio di Don Giovanni d’Austria?

 

Nasce così la Lega Santa, triplice alleanza fra la Spagna, Venezia e il Papato, rafforzata anche dall’intervento dei Genovesi, di alcune città toscane e dell’Ordine di Malta, nemico giurato degli Ottomani. Ed è qui che entra in gioco la città di Messina: situata in posizione strategica per la partenza della spedizione, è qui che a partire dal luglio 1571 si stabilisce il quartier generale delle forze cristiane, che, secondo fonti locali, si giovarono anche del contributo di un grande intellettuale messinese, Francesco Maurolico, per procurarsi delle dettagliate carte nautiche.

 

Quando la spedizione lascia Messina, a settembre, al comando di Don Giovanni d’Austria, che all’epoca ha appena 23 anni, c’è il più imponente dispiegamento di forze militari internazionali mai visto: oltre 200 galee di varia provenienza e 6 temutissime galeazze veneziane, autentici castelli in mare. Passa però quasi un mese prima che la battaglia decisiva abbia luogo, domenica 7 ottobre, nelle acque di Lepanto: e quando si arriva allo scontro gli animi sono ancora accesi dalla recente notizia della caduta di Famagosta, ultima roccaforte veneziana a Cipro, e del brutale massacro del comandante Marcantonio Bragadin e dei suoi ufficiali.

La battaglia di Lepanto in una carta geografica d’epoca. Ignazio Danti, 1572. Roma, Musei Vaticani.

Don Giovanni, che dà per primo il segnale di battaglia, comanda il corpo centrale dello schieramento sull’ammiraglia reale; al suo fianco ci sono la capitana di sua Santità, guidata dall’ammiraglio papale Marcantonio Colonna, suo luogotenente, e le navi capitane di Venezia, Genova e dell’Ordine di Malta, guidata dal priore di Messina; comanda il corno sinistro il veneziano Agostino Barbarigo, mentre il corno destro è affidato a Gianandrea Doria. Contro di loro, la Sublime Porta schiera oltre trecento navi in mano a tre dei più famigerati lupi di mare dell’epoca: il comandante delle flotte del Sultano, Ali Pasha, che comanda il corno centrale; il temibile corsaro Mehmet Shoraq, noto come “Scirocco”, sul corno destro, e il comandante di ventura Uluc Ali, detto “Uccialì”, sul corno sinistro. La battaglia infuria per ore e , quando si conclude, le perdite sono gravissime per l’esercito cristiano: ma quello turco ha perso oltre 25.000 uomini, Mehmet Shoraq è stato ucciso, e la testa di Ali Pasha svetta, a mo’ di macabro trofeo, sull’albero maestro della nave di don Giovanni d’Austria: è la vittoria.

Allegoria della Battaglia di Lepanto. Paolo Veronese, 1573. Venezia, Galleria dell’Accademia

 

Il ruolo della battaglia di Lepanto nella storia del Mediterraneo è tutt’oggi oggetto di acceso dibattito da parte di molti storici; quel che è certo è che all’epoca il mondo cristiano la percepì come una vittoria incredibile, quasi miracolosa, tanto che per celebrare la data della battaglia viene istituita la festa della Madonna della Vittoria, oggi detta Madonna del Rosario. Don Giovanni d’Austria, all’apice del suo prestigio, viene acclamato in tutte le città d’Europa: Messina gli dedica, nel 1572, il monumento, opera di Andrea Calamech, che oggi si trova in piazza Lepanto, ad eterna memoria del ruolo che ebbe la nostra città in questo importante fatto storico.

Gianpaolo Basile

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https://it.wikipedia.org/wiki/Don_Giovanni_d’Austria#/media/File:John_of_Austria_portrait.jpg

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Da Messina al Premio Nobel: l’avventurosa vita di Ilya Metchnicov, pioniere della patologia generale

1)Monumento a Metchnicov opera dello scultore sovietico Leonid Shervud, 1934 .
Monumento a Metchnicov opera dello scultore sovietico Leonid Shervud, 1934 .

Messina, dicembre 1882. È una bella giornata invernale, l’aria è limpida e il sole splende sul meraviglioso panorama dello Stretto. Sulla spiaggia del quartiere marinaro del Ringo cammina, lungo la battigia, un uomo solitario. Si chiama Ilya Ilich Metchnicov, ed è uno zoologo di origini russe che si è trasferito lì da poco.

 Nel suo laboratorio privato, allestito in una casa poco lontana dalla spiaggia, Metchnicov conduce ricerche sulle larve trasparenti di stella marina. Proprio in questi giorni, mentre osserva le piccole cellule mobili che si muovono all’interno delle larve al microscopio, ha una brillante intuizione: queste celluline mobili gli ricordano molto quelle che circolano nel sangue e nei tessuti degli esseri umani e degli altri mammiferi.

 E se fosse possibile studiare il modo in cui queste cellule reagiscono ad un attacco dall’esterno?

 È questo che si chiede, incuriosito ed eccitato, il biologo russo mentre cammina lungo la spiaggia messinese. Poi, di colpo, gli viene una idea per mettere alla prova la sua ipotesi: torna in casa, e, dopo aver prelevato alcune spine da un albero nel giardino, le conficca sotto la pelle di alcune delle sue larve trasparenti. Dopo una notte insonne, il mattino successivo Metchnicov torna al suo microscopio e quello che vede lo lascia attonito: le cellule mobili, come soldatini di un microscopico esercito, sono accorse intorno alla lesione e circondano in gran numero la spina. Colto dallo stupore, forse lo scienziato riesce appena ad immaginare che quella di quel mattino invernale è la scoperta che gli cambierà la vita.

 Una vita tutt’altro che semplice e tranquilla, la sua: nato nel paesino russo di Ivanovka (oggi in Ucraina) nel 1845, fin da bambino Metchnicov dà prova del suo genio e del suo interesse verso le scienze naturali. A 16 anni pubblica il suo primo articolo scientifico, a 21 si laurea in Biologia all’Università di Kharkov ( dando tutte le materie in soli due anni, contro i quattro previsti dall’ordinamento), a 23, dopo importanti esperienze di ricerca in Germania e a Napoli, è già professore universitario ad Odessa.

Ilya Ilich Metchnicov
Ilya Ilich Metchnicov

 

 Poi la tragedia: nel 1873 la prima moglie, di cui Metchnicov era follemente innamorato, al punto da sposarla nonostante fosse ammalata di tubercolosi, muore. È un periodo drammatico per la vita privata del giovane scienziato, che per prendersi cura della moglie malata aveva dovuto affrontare un periodo di ristrettezze economiche, prostrato anch’egli da una salute cagionevole e dal progressivo indebolimento della vista, che avrebbe potuto compromettere le sue ricerche. Metchnicov non riesce a riprendersi dallo shock e cerca di uccidersi con una overdose di morfina: ma, fortunatamente per lui (e per noi) scampa al suicidio e torna a Odessa. A salvarlo, ci pensano la passione per il suo lavoro e la gioia di un nuovo amore per una giovane studentessa, Olga Belokopitova, che diventerà la sua seconda moglie, la sua biografa, compagna di ricerche e di vita fino alla fine dei suoi giorni.

 Ma le difficoltà per lui non sono finite: nel 1882 Metchnicov, a seguito di screzi accademici, decide di dimettersi lasciando l’Università di Odessa. Si imbarca così, con la moglie, su una delle tante navi mercantili che all’epoca avevano rapporti commerciali con la città di Messina, deciso a rifarsi una vita nella città dello Stretto. Ma la carriera scientifica per lui è tutt’altro che finita e nel dicembre 1882 arriva la sua grande scoperta: le cellule circolanti presenti nel sangue e nei tessuti dei mammiferi, che Metchnicov ribattezza col nome greco di “fagociti”, cellule che mangiano, hanno per l’organismo una funzione difensiva dagli attacchi dall’esterno. Una serie di successivi esperimenti lo porta quindi a definire quella che sarà la prima teoria della fagocitosi: cioè che l’infiammazione non è altro che il meccanismo con cui il nostro organismo porta i fagociti nella sede di lesione, affinchè possano “mangiare” batteri ed eventuali corpi estranei.

 La scoperta della fagocitosi costituisce l’atto di nascita della moderna immunologia, e rappresenta per noi uno dei capisaldi dell’allora nascente Patologia generale, la scienza che studia il “perchè” e il “come” delle malattie, ossia le cause e i meccanismi con le quali esse alterano il funzionamento dell’organismo. Nonostante questo, all’epoca fu accolta con notevole scetticismo dalla comunità scientifica, che solo da poco tempo aveva iniziato a concepire il fenomeno dell’infiammazione come qualcosa di positivo per l’organismo e che ancora riteneva che le cellule del sangue facilitassero l’infezione da parte dei batteri e degli agenti patogeni, anzichè contrastarla. Persino il commediografo George Bernard Shaw, nella sua commedia “Il dilemma del dottore”, si prende burla di questa teoria nel personaggio di un medico che propone come cura a tutti i mali la “stimolazione dei fagociti”. Solo dopo anni di tentate confutazioni e vittoriose dimostrazioni la teoria di Metchnicov riesce ad ottenere il sostegno che meritava e Metchnicov, giunto alla fama, riceve nientemeno che da Louis Pasteur l’offerta di lavorare con lui a Parigi, città ove si trasferisce nel 1887.

Targa commemorativa apposta sul luogo in cui si trovava la casa/laboratoio di Metchnicov. Messina, 1988.
Targa commemorativa apposta sul luogo in cui si trovava la casa/laboratorio di Metchnicov. Messina, 1988.

 Nel 1908, insieme a Paul Ehrlich, riceve il Premio Nobel per la Fisiologia e Medicina ed è a Parigi che, ricco, famoso e acclamato, il grande scienziato si spegne nel 1916.

 Anche se per caso, dunque, la città di Messina è stata il teatro di una delle scoperte più importanti della storia della scienza e della medicina: oggi, infatti, sul luogo in cui si trovava la casa del grande scienziato russo, nel quartiere del Ringo, a pochi passi dalla chiesa di Gesù e Maria del Buon Viaggio, è possibile ammirare una targa che ne commemora la vita e le scoperte.

Gianpaolo Basile

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Monument to I. Mechnikov. 1934

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Giuseppe La Farina: strenuo propugnatore dell’unità e libertà d’Italia.

Giuseppe La Farina
Giuseppe La Farina

Avete presente quel viale lungo, lungo, lungo che, passato Tremestieri vi porta dritti dritti al centro di Messina? Si, proprio quello dove c’è traffico a qualsiasi ora del giorno e che funge da via di transito per tutti gli autobus diretti verso la Sicilia orientale: il rinomato Viale La Farina, dedicato, come si può intuire, a Giuseppe La Farina. Solitamente le piazze, i parchi e le strade vengono dedicate a chi, originario o non della città, si è comunque fatto ricordare compiendo grandi o piccole cose, ma dall’enorme significato morale. Ma chi era Giuseppe La Farina? Perché dedicargli una via?

Giuseppe La Farina nasce il 20 Luglio 1815 a Messina. Si dedica agli studi letterari e laureatosi in Giurisprudenza, diviene patriota, politico e scrittore.

La sfera patriottica e quella letteraria si fondono dopo i moti rivoluzionari del 1837, quando, costretto a rifugiarsi a Firenze, si dedica alla scrittura e pubblica diverse opere tra le quali: L’Italia nei suoi monumenti, ricordanze e costumi; Studi storici sul secolo XIII e Storia d’Italia narrata dal popolo italiano. A Firenze diresse anche un giornale, l’Alba, il primo di stampo democratico-sociale ma, lo scoppio della rivoluzione in Sicilia, lo riportò sull’isola per vederlo, nel 1848, deputato alla Camera dei Comuni.

Emigrato in Francia, scrisse una Istoria documentata della rivoluzione siciliana e una Storia d’Italia dal 1815 al 1850 . verso la fine del 1856 assieme a Daniele Manin e a Giorgio Pallavicino Trivulzio fondò la Società nazionale italiana, una associazione avente l’obiettivo di orientare l’opinione nazionale verso il Piemonte di Cavour. La Farina ebbe parte attiva alle annessioni del regno sabaudo e favorì la spedizione dei Mille in Sicilia.

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Sepolcro di Giuseppe La Farina, Messina, Cimitero Monumentale. Ph: Giulia Greco

Ritorna in Italia per fondare la Rivista contemporanea e scrive un romanzo storico. Nel 1856, aderisce alla monarchia, divenendo fidato collaboratore di Cavour, la cui politica appoggiò la Società nazionale italiana, precedentemente fondata. Eletto deputato al primo parlamento italiano, nel 1860 fu nominato Consigliere di Stato, successivamente Ministro dell’istruzione, dei lavori pubblici dell’interno e della guerra. Inoltre, fu membro di alcune Logge massoniche di Torino, tra cui: “Ausonia”, “Il Progresso” e “Osiride”. Nello stesso 1860, si recò in Sicilia per affrettarne l’annessione al Piemonte, ma Garibaldi lo espulse clamorosamente. Non riuscì più a ritornare in Sicilia per via dell’ostilità delle fazioni autonomista e repubblicana. Dopo la morte di Cavour, passò all’opposizione. Si spense nel 1863, tumulato a Torino tra le tombe di Vincenzo Gioberti e Gugliemo Pepe, le sue ceneri furono trasferite a Messina nel 1872 per l’inaugurazione del Gran Camposanto per giacere nel Famedio degli uomini illustri.

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Cenotafio del La Farina nel chiostro della Basilica Santa Croce, Firenze

La vita di Giuseppe La Farina, è stata maggiormente vissuta, come si può intuire, in due delle città itliane più illustri; proprio per questo, a Firenze, sul lato nord del chiostro della Basilica di Santa Croce, è presente un monumento a lui dedicato riportante sul fronte la seguente iscrizione:

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Monumento a La Farina, Torino, Piazza Solferino.

«A Giuseppe La Farina – messinese – Amò il vero gli uomini la patria – patì dolori disinganni esili – operò con fede costante alle sorti nuove dell’Italia combattendo col braccio e coll’ingegno – soldato poeta istorico sostegno dell’italica gloria moriva il 5 settembre 1863 di anni 47 – alle vegnenti generazioni esempio imitabile»

A Torino, invece, nella centralissima Piazza Solferino, è stato eretto in suo onore un monumento in marmo bianco che lo effigia nell’atto di leggere un documento. L’iscrizione recita:

«storico illustre antesignano e strenuo propugnatore dell’unità e libertà d’Italia»

Nel 1932, a Messina è stato intitolato in suo onore, il “Liceo Classico La Farina-Basile”.

 

Erika Santoddì

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San Francesco all’Immacolata: la chiesa che incantò Antonello

Antonello da Messina, "Cristo in pietà con tre angeli", 1475, Museo Correr, Venezia. Dettaglio. (da http://www.frammentiarte.it/2014/18-pieta-con-tre-angeli/, modificata)
Antonello da Messina, “Cristo in pietà con tre angeli”, 1475, Museo Correr, Venezia. Dettaglio.
(da http://www.frammentiarte.it/2014/18-pieta-con-tre-angeli/, modificata)

Il “Cristo in pietà con tre angeli”, oggi custodito al Museo Correr a Venezia, è secondo la critica una delle opere tarde di Antonello da Messina, verosimilmente dipinta durante il suo soggiorno veneziano, nel 1475. Della vita di Antonello sappiamo poco, ma una delle cose più assodate è  il suo lungo viaggio nel centro Italia e a Venezia: eppure ci piace pensare, con un po’ di bonario campanilismo (che non guasta mai, a patto di sapere quando fermarsi), che il Maestro messinese abbia voluto in qualche modo ricordare la sua terra patria, nella quale secondo alcune fonti tornerà e finirà i suoi giorni, nel 1479 . In effetti, fra le ali dell’angelo piangente a destra, in mezzo ai molti dettagli che Antonello, con la sua attenta e quasi maniacale sapienza miniaturistica rubata all’arte fiamminga, inseriva nei suoi dipinti, ce n’è uno che, forse anonimo per i più, fa sussultare chi conosce Messina: una massiccia struttura con tre absidi che, in maniera quasi inequivocabile, possono essere identificate come quelle di una delle più antiche e grandi chiese messinesi, San Francesco all’Immacolata.


Monumento antichissimo
, era il 1254 quando fu stabilita la sua costruzione, per intervento di un gruppo di monaci francescani che già nel 1212, quando san Francesco era ancora in vita, si erano stabiliti nella città dello Stretto, nella preesistente chiesetta di san Leone. Proprio presso questa comunità, secondo una pia tradizione, soggiornò sant’Antonio da Padova quando, nel 1221, di ritorno dall’Africa fece naufragio sulle coste sicule.  Ad appena 28 anni dalla morte del Poverello d’Assisi, in clima di piena espansione del suo culto, i conventi francescani di tutta la penisola fanno quasi a gara nella costruzione di imponenti chiese dedicate al santo e la comunità di Messina certo non può essere da meno: la prima pietra di questo poderoso edificio, seconda chiesa in Messina per dimensioni dopo il Duomo, arriva da Napoli, nel 1255, dopo esser stata benedetta nientemeno che da Papa Alessandro IV in persona.

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Nel XIV secolo, la chiesa cresce e si sviluppa secondo le linee rigorose ed austere di quello stile che i libri di storia dell’Arte codificheranno col nome di “Gotico francescano“, sotto l’occhio vigile del re Federico III d’Aragona, nipote per parte di madre di quel Federico II “meraviglia del mondo”: sotto questo monarca la chiesa diventa il luogo di sepoltura della famiglia reale e vi trovano requie le spoglie del nipote e successore, Federico IV d’Aragona, della nuora, Elisabetta di Carinzia, e dei due figli cadetti, Guglielmo e Giovanni, duchi di Randazzo.

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Un altro periodo di splendore di questa chiesa fu nel corso del Cinquecento, quando, nominata cappella reale dall’Imperatore Carlo V, si arricchì di opere pregevoli dei grandi maestri del Rinascimento siciliano, Gagini, Rinaldo Bonanno, Mazzola, Guinaccia. In questo periodo viene anche concluso il chiostro del convento. Ulteriori modifiche alla chiesa, stavolta in stile barocco, vengono effettuate a cavallo fra Sei e Settecento. L’inarrestabile declino, invece, inizia a seguito dell’esproprio del convento in periodo post-unitario, a seguito delle leggi eversive; nel 1884 un incendio devasta gli interni distruggendo molte delle opere che vi erano custodite; nel 1908, il Terremoto del 28 dicembre le assesta il colpo di grazia, radendola quasi interamente al suolo; solo parte delle absidi, proprio quelle absidi dipinte da Antonello, resiste alla sua furia distruttiva.

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Così inizia la ricostruzione, una ricostruzione faticosa e paziente perché condotta secondo criteri di fedeltà storica, riutilizzando, ove possibile, i conci e la pavimentazione d’epoca secondo il principio dell’anastilosi. Oggi le tombe reali sono perdute, forse per sempre, e le opere superstiti all’incendio del 1886 sono custodite al Museo Regionale, fatta eccezione per una statua in marmo di sant’Antonio, che si trova oggi nel giardino sotto le absidi, e una statua in legno e argento del XVIII sec., raffigurante l’Immacolata, che è tutt’oggi oggetto di venerazione popolare. Ma è grazie a questa ricostruzione, conclusa nel 1928, che possiamo oggi ammirare la mole austera del Tempio con un aspetto e una struttura  il più possibile fedele a quella trecentesca, e, salendo dal mare lungo il viadotto Boccetta, possiamo fermarci anche noi ad ammirare quelle possenti absidi che incantarono Antonello da Messina… 

Gianpaolo Basile

Foto: Erika Santoddì

Dalla scienza alla poesia, dalla storia alla tecnica: Francesco Maurolico, l’uomo del Rinascimento a Messina

V0003929 Francesco Maurolico.
Francesco Maurolico. Incisione di M.Bovis, copia da un perduto ritratto di Polidoro Caldara da Caravaggio.

Quando pensiamo al Rinascimento, a questo periodo storico fertile di idee che proiettò la cultura europea, fra Quattrocento e Cinquecento, ai primi albori della modernità, pensiamo innanzitutto a una sorta di graduale trasformazione culturale, alla nascita di un nuovo modello di cultura e di una nuova concezione del sapere e del sapiente. Semplificando, se il dotto medievale se ne stava ben chiuso tra le mura del suo monastero dedito alla contemplazione di una Verità vissuta come unica e immutabile, il colto intellettuale del Rinascimento si volge verso l’esterno, riscopre l’antichità classica e le sue grandezze, rinnova il suo interesse verso la matematica e le scienze naturali, guarda con occhi nuovi alla volta celeste e al Cosmo, ed inizia anche a conquistarsi un proprio ruolo nelle dinamiche politiche della città in cui vive e a cui appartiene. Anche Messina, che pure viene considerata una sorta di periferia geografica di questo cambio di paradigma culturale (che inizia nel centro Italia, a Firenze, a Roma, per poi espandersi a tutta l’Europa), ha visto l’opera di un personaggio in grado di incarnare quasi per eccellenza questa nuova visione della cultura: Francesco Maurolico.

È a Messina che Maurolico nasce, nel 1494, da una ricca e potente famiglia borghese, forse di origine greca, i Maurolì o Marulí; sarà poi egli stesso a mutare il suo cognome, latinizzandolo (o meglio grecizzandolo) in Maurolycus. Il padre Antonio, funzionario della Zecca e allievo del grande grecista bizantino Costantino Lascaris (alla cui scuola si formò anche il letterato veneziano Pietro Bembo), ne cura per primo una ricca e completa educazione che passa, come di norma per l’epoca, dall’apprendimento delle arti liberali (grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, geometria, astronomia e musica) oltre che del latino e del greco.

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Prima edizione della Cosmographia di Francesco Maurolico, con la dedica a Bembo. Venezia, 1543.

È però all’ottica che inizialmente il Maurolico si interessa, dopo aver preso nel 1521 gli ordini sacerdotali, componendo due trattati che rimaneggerà a lungo nel corso della sua vita e che verranno pubblicati postumi, nel 1611. Nel frattempo, arrivano le sue prime opere pubblicate, come un trattato di grammatica datato 1528. In quell’anno, Maurolico riceve un mandato pubblico di insegnamento delle discipline matematiche a Messina. Inizia così un periodo importante di produzione scientifica: Maurolico studia infatti, come i suoi contemporanei, la geometria, la matematica e l’astronomia dai testi classici in latino e in greco di periodo ellenistico, come Tolomeo, Euclide e molti altri; di questi stessi testi, però, Maurolico compila compendi e ricostruzioni che non si limitano all’aspetto filologico, ma ne innovano, ampliano e rivisitano i contenuti. È in questi testi che sono contenuti i suoi più ampi contributi al pensiero matematico e scientifico dei suoi tempi: una autentica valanga di documenti, alcuni dei quali (come la monumentale Cosmographia del 1543, dedicata a Bembo) vengono pubblicati a stampa, mentre altri sono pubblicati postumi o restano tutt’ora sotto forma di manoscritto.

Negli anni ’40 del ‘500 Maurolico, ormai famoso e affermato intellettuale, tocca l’apice della sua produzione culturale. I suoi interessi molteplici non si arrestano alle matematiche e all‘astronomia, ma toccano filosofia, storiografia, storia della letteratura, ingegneria, teoria musicale… Il suo sapere non è però qualcosa di astratto e lontano dalla realtà dei suoi tempi, ma viene sempre messo al servizio della comunità, che difatti lo ricompenserà, nel corso della sua vita, con la nomina ad Abate e con lauti vitalizi. Quando nel 1535 Carlo V entra in trionfo a Messina dopo la vittoria di Tunisi, è lui, assieme al pittore Polidoro Caldara da Caravaggio, che cura gli allestimenti temporanei in suo onore; presentato di persona al cospetto dell’Imperatore, viene da lui stesso incaricato di occuparsi delle fortificazioni della città, contribuendo così alla progettazione del Forte Gonzaga; assieme al fiorentino Montorsoli concepisce la struttura delle due più belle fontane rinascimentali di Messina, quella di Orione e quella del Nettuno, e scrive di suo pugno i versi latini che le adornano; è a lui che il Senato si rivolge per scrivere un trattato di storia siciliana che permetta alla città di Messina di competere con la rivale Palermo per il ruolo di Capitale della Sicilia, il Sicanicarum rerum compendium; ed è con lui che si mettono in contatto i Gesuiti di Ignazio di Loyola quando, negli anni ’50, decidono di far nascere a Messina una istituzione di insegnamento che in seguito diventerà il nucleo dell’Università. Persino quando nel 1571 la flotta della Lega Santa è a Messina pronta a salpare verso la battaglia di Lepanto, è proprio all’ormai anziano Maurolico che i comandanti dell’armata cristiana si rivolgono per la realizzazione di carte nautiche…

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Il sepolcro di Francesco Maurolico, opera di Rinaldo Bonanno, situato nella chiesa di San Giovanni di Malta a Messina. Ph: Giulia Greco

 

 

Quando Maurolico muore, nel 1575, lascia ai posteri una produzione letteraria sconfinata. Il suo corpo è sepolto nella chiesa di San Giovanni di Malta, ma il suo sapere attraverserà i secoli: nel 1651 l’astronomo Riccioli gli dedica addirittura un cratere sulla Luna (Maurolycus); a seguito della rivolta antispagnola e dell’intervento francese (1674-1678), molti dei suoi manoscritti affascinano il primo ministro del Re Sole, Colbert, che li vuole nella sua biblioteca personale, e tutt’ora si trovano a Parigi per questo motivo. Un gruppo di ricerca internazionale guidato dall’Università di Pisa sta ad oggi curando la pubblicazione estensiva e digitalizzata delle sue opere: a prova dell’importanza che ha avuto, e continua ad avere, questa grande mente messinese, nella storia del pensiero scientifico e culturale europeo. 

Gianpaolo Basile

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 https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Francesco_Maurolico._Line_engraving_by_M._Bovis_after_Polido_Wellcome_V0003929.jpg?uselang=it

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Galleria Vittorio Emanuele III: gran tesoro dell’inconsapevole Messina

img_7268Uno dei quattro monumentali edifici che danno forma circolare alla caratteristica piazza Antonello, sul corso Cavour, è il Palazzo della Galleria Vittorio Emanuele III. Unica nel suo genere nel Meridione, insieme alla Galleria Umberto I di Napoli, è espressione di quello stile liberty, ma eclettico allo stesso tempo, tipico del periodo della ricostruzione post-terremoto del 1908.

La sua storia prende il via nei primissimi anni Venti, allorquando gli interessi pubblici del Comune, desideroso di restituire a Messina uno spazio che rivitalizzasse il centro urbano nelle ore diurne e serali, si sposarono con quelli privati della Società Generale Elettrica della Sicilia, che finanzierà i lavori, nella speranza di dare finalmente una sede decorosa e definitiva ai propri uffici. Il progetto fu affidato all’architetto e ingegnere messinese Camillo Puglisi Allegra, noto e operativo in tutta Italia. I lavori, intrapresi nel 1924 e conclusi nel 1929, consegnarono alla città un edificio prestigioso, che fu intitolato “al nome Augusto del Sovrano”.

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img_2026L’ingresso principale, posto su Piazza Antonello, è costituito da un portico con un monumentale arco segnalato da robuste paraste e da un fastigio sopraelevato. All’interno, la Galleria si compone di tre bracci, che conducono ai tre ingressi, e che danno all’edificio la forma di una “Y”. Le volte a botte che sovrastano i bracci hanno dei lucernai a vetri colorati. Le ripartizioni geometriche della pavimentazione, realizzata con tesserine a mosaico, sono in armonia, se non addirittura in diretta relazione, con le forme e le composizioni della copertura sovrastante.

I tre bracci confluiscono, al centro, in uno spazio esagonale su cui, in asse, sitrova una cupola vetrata. Si tratta in realtà di una doppia volta, protettiva all’esterno, artistica all’interno, ideata al fine di mitigare le escursioni termiche. Il telaio metallico di sostegno delle vetrate artistiche, a differenza di altre monumentali Gallerie italiane ed europee, è ancorato ad una struttura intelaiata in cemento armato, anziché in ferro o ghisa.img_2023

Altra peculiarità progettuale della struttura è la presenza di una scalinata interna all’estremità del braccio che porta all’ingresso di via Oratorio della Pace, elemento atipico per una Galleria del genere ma necessario per far fronte alla differenza di altezza tra leimg_2012 strade urbane. In ogni caso, ai tempi fu considerato un edificio d’avanguardia, grazie alle stupefacenti decorazioni (opera degli scultori Ettore Lovetti, Giuseppe Ajello e Antonio Bonfiglio) e alle innovative soluzioni tecniche: prime fra tutte le reti idriche, elettriche e telefoniche, con installazione completamente incassata.

Per il suo pregio, l’edificio è stato dichiarato nel 2000 bene d’interesse storico- artistico ai sensi della legge 1089/39.

Ma qual è stato il suo ruolo negli anni? Pensata come piccolo cuore pulsante della città, ricco di uffici e negozi, in realtà ad oggi la Galleria è adibita solamente a luogo di ristorazione e cocktail bar. Inoltre, per anni, ha versato in uno stato di pressoché totale abbandono: ha dato rifugio agli sbandati ed è stata valvola di sfogo per i vandali. Tutto questo nonostante i tre restauri, eseguiti negli anni 60, 90 e nei primi anni 2000.

L’ultimissimo restauro, invero, si è concluso proprio in questo dicembre. I lavori, voluti dal Comune e sostenuti dalla Soprintendenza ai Beni Culturali e da diversi gruppi privati, hanno impegnato anche alcuni ragazzi dell’Istituto professionale Verona-Trento che sono stati gli esecutori materiali dell’opera di riqualificazione e abbellimento della Galleria. La speranza è che questa sia la volta buona e che a nessun messinese (e non solo) pianga più il cuore nel vedere una tale bellezza deturpata. Che, insomma, sia la vera rinascita della Galleria! 

Francesca Giofré

Foto di Giulia Greco

 

Dal XIII secolo uno sguardo dall’alto su Messina: il Santuario di Montalto

img_9853Uno dei luoghi più belli e ricchi di storia a Messina è sicuramente il Santuario di Montalto. Bello perché si staglia alto, sul colle della Caperrina, con la sua caratteristica facciata affiancata da due campanili cuspidi e, così, si rende visibile e si fa riconoscere da diversi punti della città. Ricco di storia perché la sua nascita e la sua presenza a Messina sono legate a diversi episodi storici che hanno scandito la vita della città.

 

 

 
Le sue origini, innanzitutto, sono da ricercare secoli addietro: durante i Vespri Siciliani, allorquando anche Messina, il 28 aprile 1282, un mese dopo Palermo, decise di ribellarsi alla dominazione degli Angioini. Tradizione vuole che la Madonna, sotto le vesti di una Signora Bianca, rincuorasse la popolazione messinese, con il suo manto proteggesse le mura della città e, con le mani, deviasse le frecce dei nemici. Fu proprio la Madonna a volere la costruzione del santuario: apparve nel 1294 ad un fraticello, un eremita di nome Nicola, e gli ordinò di radunare sul colle della Caperrina la cittadinanza. Lì, il 12 giugno, a mezzogiorno, una colomba bianca con il suo volo disegnò il perimetro della chiesa da costruire. Alla posa della prima pietra partecipò anche la Casa reale Aragonese, con la Regina Costanza. Nel 1295 la chiesa fu terminata e dedicata a Santa Maria dell’Alto, poi divenuta S. Maria di Montalto. L’8 settembre 1300 giunse a Messina, su una nave proveniente dall’Oriente, un quadro raffigurante la Vergine Maria col Bambino. Doveva essere donato alla Cattedrale, tuttavia divenne così pesante che nessuno riuscì a spostarlo. Una “Signora Bianca” apparve in sogno ad un marinaio e gli confidò di voler vedere quel quadro nella chiesa a lei dedicata. L’icona così, ridiventata leggera, fu portata subito nel Santuario di S. Maria dell’Alto e lì ancora si trova: dopo i danni subiti a causa del terremoto del 1908 (la manta d’argento che ne rivestiva il corpo l’ha in parte protetto, ma i visi sono stati irrimediabilmente rovinati) e il restauro degli anni ’80, è stata posta sull’altare maggiore della chiesa.

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img_9854Durante la battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571), poi, il popolo messinese si raccolse in preghiera proprio a Montalto. A perpetua memoria dell’aiuto materno dato alla città in quella occasione, il Senato messinese fece scolpire una statua marmorea della Madonna che fu posta su una torre accanto alla chiesa, e ora si trova sulla facciata del nuovo santuario fra le due torri campanarie. Ogni anno, il 12 giugno, in occasione della festa della Colomba, viene issato lo stendardo della città nelle mani della Madonna, come a volersi affidare costantemente a Lei.

Un’altra data storica legata a questo santuario è il 1743: in quell’anno la peste imperversava a Messina, così il Senato si rivolse direttamente alla Vergine perché liberasse la città e fece voto di offrire ogni anno un cero. Un voto, o una semplice tradizione oramai, che ancora oggi viene rispettata: nel giorno della festa della Colomba, infatti, l’Amministrazione comunale offre alla Vergine di Montalto un cero votivo di 25 libbre.

Arriviamo ora alla storia recente, in particolare al terremoto del 1908 che fece con questo santuario quello che fece con la maggior parte degli edifici di Messina: lo ridusse ad un cumulo di macerie. Nel 1911, però, la chiesa era di nuovo in piedi, la prima a risorgere dalle rovine.
Nel 1928 si operò un ampliamento dell’edificio, secondo il progetto dell’architetto Francesco Valenti, che comportò anche qualche modifica alla struttura originaria. Oggi l’architettura della chiesa si presenta come un misto di romanico e gotico.

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Nelle due torri campanarie ci sono ben 27 campane: due sono state salvate dal terremoto; le altre 25 sono state ottenute, nel 1929, fondendo il bronzo dei cannoni tolti ai nemici nella guerra del ‘15/’18 e donati dal Governo al Vescovo di Messina, S.E. Mons. Paino. Le campane sono di grandezza differente (la più grande pesa 19 quintali e ha un diametro di 1,5 m, la più piccola pesa 23 kg e ha un diametro di 36cm) e possono riprodurre qualsiasi melodia; ogni campana ha un nome, la figura del Santo a cui è dedicata, un motto e l’anno di fusione.
Dal piazzale antistante la chiesa si può godere di una vista mozzafiato su Messina e lo Stretto. Un panorama che lasciò estasiato anche papa Wojtyla, quando, nel corso della sua visita nella città peloritana, nel giugno del 1988, ebbe modo di conoscere anche questo luogo. Ed è per tenere viva la memoria di quell’avvenimento che nel 2014 una statua ad altezza naturale di Giovanni Paolo II è stata posta nel punto esatto dove, posando la mano sulla ringhiera, egli espresse il suo stupore dinanzi a cotanta meraviglia.

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In conclusione, possiamo dire che il Santuario di Montalto rappresenta uno dei simboli di Messina, tanto che esso compare anche nello “spettacolo” di musica e automi in bronzo a cui dà vita ogni giorno a mezzogiorno l’orologio astronomico del Campanile del Duomo. In particolare, ad essere rappresentata è la tradizione della fondazione: una colomba sorvola un colle e subito dopo da questo, lentamente, emerge il Santuario. Tutto ciò a riprova del fatto che Montalto è una tappa imprescindibile se si vuole tracciare una storia della città dello Stretto.

Francesca Giofrè

Foto Giulia Greco