Làscaris e la rinascita italiana del greco.

Quest’articolo per la rubrica Personaggi, sarà dedicato a Costantino Làscaris, colui che si fece promotore della rinascita dello studio della lingua greca in Italia.

Costantino Lascaris, filologo e umanista bizantino, nacque a Costantinopoli tra il 14 giugno 1433-1434. Avviato agli studi letterari, frequentò le lezioni del maestro Giovanni Argiropulo. Il suo arrivo in Europa è legato a delle precise circostanze storiche: quando i Turchi presero Costantinopoli, il 29 maggio 1453, venne fatto prigioniero; riuscito a fuggire, diede inizio ad una lunga peregrinazione in Grecia passando per la città di Fere e le isole di Rodi e Creta.

Tra il 15 novembre e il 14 dicembre 1458 si stabilì a Milano e vi restò fino al 1465 ricoprendo la carica di insegnante di greco per la figlia di Francesco I Sforza, Ippolita.

Successivamente, Lascaris visse in varie città, sempre insegnando greco, probabilmente a Ferrara, sicuramente a Firenze e a Napoli, dove il re Ferdinando I d’Aragona lo nominò professore di retorica; continuò la sua attività di docente fino al giugno 1466. E’ possibile ipotizzare che tra le ragioni del suo trasferimento a Napoli vi fosse l’intenzione di rimanere al seguito di Ippolita Sforza, sua alunna che aveva sposato il duca di Calabria, Alfonso d’Aragona. Proprio a quest’ultimo dedicò le sue 35 biografie di filosofi calabresi, raccolte nelle Vitae illustrium philosophorum Siculorum et Calabrorum. Anche in questo caso non si conoscono le ragioni dell’improvvisa partenza da Napoli e dello scontento nei riguardi della città, comunque la sua presenza a Napoli segnò un risveglio e uno sviluppo notevole degli studi greci nella città.

Con l’intenzione di tornare in Grecia e di abbandonare definitivamente l’Italia, si recò nel 1466 a Messina, e grazie alle insistenze di Ludovico Saccano, si trattenne nella città peloritana. Messina era l’ultima città in Sicilia dove era ancora attivo l’insegnamento del greco, per via della presenza del monastero basiliano del Ss.mo Salvatore in lingua Phari; è lì che l’insegnamento fu affidato a Lascaris nel 1467.

I primi anni a Messina non furono facili, ma lentamente l’umanista si inserì nella vita locale e finì per restare a Messina fino alla sua morte. Non si spostò mai da Messina, se si eccettuano due viaggi a Napoli, nel 1477-78 e nel 1481.

La subita emarginazione dai grandi circuiti culturali umanistici, gli consentì di dedicarsi all’attività filologica e soprattutto sfruttare per le sue ricerche la miriade di codici greci rappresentata dalle raccolte librarie pubbliche e private dell’Italia meridionale e da manoscritti.

La sua fama è legata al ritrovamento della Gigantomachia, opera greca del poeta latino Claudiano. Lascaris ne rintracciò e ne copiò 77 versi, inframmezzati da una lacuna di 68 versi, che si ripromise di colmare grazie al ritrovamento del frammento dell’opera in alcuni manoscritti a lui donati.

La fama di Lascaris come insegnante si estese in tutta la Sicilia. In ringraziamento degli onori concessigli, donò la sua biblioteca al Senato e al popolo messinesi intorno al 1494. Il prestigio della sua scuola si diffuse per tutta la penisola e nel 1488 Ludovico il Moro lo invitò a tornare a Milano per insegnare. Molti giovani si recarono a Messina per seguire le sue lezioni, di cui si ricordano il piacentino Giorgio Valla e il grande poeta e letterato rinascimentale Pietro Bembo.

Nell’agosto 1501 Lascaris contrasse la peste per morire poco dopo, ed essere seppellito nella chiesa carmelitana di Messina.

I codici donati dal Lascaris rimasero nella cattedrale di Messina per quasi due secoli, per essere poi trasferiti a Palermo ed ancora a Madrid a seguito della rivolta antispagnola di Messina. La raccolta, denominata Fondo Uceda, contiene 99 codici, dei quali più di ottanta copiati dal Lascaris ed è attualmente conservata presso la Biblioteca Nacional de España.

Costantino Lascaris fu produttivo copista, come risulta dai molti suoi manoscritti autografi, e appassionato bibliofilo. Un problema a lui molto caro fu la mancanza di copisti esperti: all’epoca in cui Lascaris lavorava, la maggior parte dei copisti non conosceva il greco e si limitava a ricopiare alla cieca i caratteri che leggeva sugli antichi manoscritti, accompagnandoli con la dicitura latina “grecum est; non legitur” (è greco, non si capisce). Solo grazie al prezioso contributo di Lascaris e di diversi altri umanisti di origine greca, la lingua greca antica riuscì ad acquisire il ruolo di spessore nella formazione classica che tutt’oggi conserva. 

La sua opera maggiore è la Grammatica greca, iniziata al tempo del suo soggiorno milanese. La prima edizione è di Milano, 30 gennaio 1476: è il primo libro impresso a stampa in caratteri greci, a parte la prefazione in latino. Conteneva soltanto una prima versione breve dell’opera, la cosiddetta Epitome.

L’opera, grammatica di base per l’apprendimento della lingua greca, ebbe lunga gestazione e perfezionamenti. Divisa in tre libri, l’opera ebbe numerose edizioni tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento.

Nei secoli XV e XVI il manuale servì da modello alle grammatiche greche. Testimonianza non comune della sua fama è nell’Utopia di Thomas More, dove è elencata insieme con i grandi classici che Raffaele Itlodeo porta agli abitanti di Utopia affinché apprendano il greco.

Poco prima di morire, Lascaris vide uscire una delle sue poche opere a stampa, le citate Vitae illustrium philosophorum Siculorum et Calabrorum, che fu stampata proprio a Messina. L’opera comprendeva 66 biografie di filosofi siciliani e 35 di filosofi calabresi: il significato profondo dell’opera era il tentativo di recupero di una grande tradizione culturale che si andava spegnendo nell’incuria e nell’abbandono.

Erika Santoddì

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Shakespeare era davvero messinese? Molto rumore… per nulla

William Shakespeare

Dietro le absidi del Duomo, in largo San Giacomo, una epigrafe riporta alcuni versi di una commedia di uno dei più importanti drammaturghi della letteratura inglese e internazionale: William Shakespeare. La commedia, “Molto rumore per nulla”, ha una trama intricata piena di colpi di scena e il tema amoroso la rende forse una delle più fortunate del suo genere; ma soprattutto, ha la caratteristica di essere ambientata proprio a Messina. 

Fino a qui, si dirà, nulla di strano; del resto, sono parecchie le opere del drammaturgo inglese ambientate in Italia. Un particolare, questo, che nel corso degli anni ha stuzzicato la curiosità di parecchi studiosi: alcuni dei quali, pronti a sostenere che il grande drammaturgo non fosse originario del paesino inglese di Stratford upon Avon, come vogliono le biografie più accreditate, ma addirittura italiano. E, fra le tante città “candidate” per aver dato i natali a cotanto poeta e letterato, udite udite, c’è anche Messina.

Shakespeare era messinese, sostiene qualcuno; e la notizia ghiotta non è certo passata inosservata all’opinione pubblica, tanto che diversi anni fa il Comune di Messina arrivò persino a nominare Shakespeare “cittadino onorario”. Ma sarà vero? Su cosa si basano queste teorie?

Andiamo con ordine. Come già detto, le teorie sulle origini messinesi del Bardo si inseriscono nel solco dell’acceso dibattito sulla paternità delle opere di Shakespeare. In sintesi, secondo alcuni ricercatori William Shakespeare, attore e drammaturgo proveniente da una famiglia di artigiani non particolarmente abbienti, dal piccolo paese di Stratford upon Avon, per come ci viene descritto dalle biografie tradizionali, non avrebbe mai potuto avere la cultura sufficiente della quale fa mostra nelle opere che gli sono attribuite. Da qui, tutta una serie di ipotesi sulla sua reale identità: chi dice che il cognome Shake-speare, “Scuoti-lancia”, fosse uno pseudonimo; chi ancora che si trattasse di un prestanome. E, a questo proposito, esiste una sconfinata letteratura che propone un altrettanto sconfinato elenco di personaggi che potrebbero avere scritto le opere a lui attribuite: e fra questi, troviamo anche il nome di un italiano, Giovanni Florio, e del padre di lui, Michelangelo Florio.

Tale Giovanni Florio, o John Florio, fu un importante intellettuale e traduttore di origini italiane, contemporaneo di Shakespeare, e autore di numerose traduzioni in inglese di opere letterarie e filosofiche. Suo padre, Michelangelo, era un esule fiorentino di religione calvinista, costretto a vagare per molti anni in giro per l’Italia e infine a rifugiarsi in Inghilterra, per via delle persecuzioni religiose. Il primo a sollevare l’ipotesi Florio come reale identità di William Shakespeare fu il giornalista Santi Paladino, che nel 1927 in un articolo sull’argomento sostenne che dietro lo pseudonimo di William Shakespeare si celasse Michelangelo Florio. Questi sarebbe stato autore delle opere teatrali durante il suo soggiorno in Inghilterra, e si sarebbe ispirato, per “Molto rumore per nulla”, a una commedia omonima in dialetto siciliano, “Tantu trafficu pi’ nenti”, che Florio avrebbe conosciuto a Messina e il cui testo sarebbe andato perduto. I limiti di questa teoria furono subito evidenti: oltre a non esserci, alla prova dei fatti, nessuna evidenza dirimente a supporto di questa speculazione e neanche dell’esistenza stessa di questa opera, Michelangelo Florio sarebbe nato nel 1515 e le tracce della sua esistenza si perdono intorno al 1565, mentre la nascita di Shakespeare è datata al 1564. Lo stesso Paladino, qualche anno dopo, corresse il tiro e Shakespeare, nella sua nuova ipotesi, divenne non più uno pseudonimo ma un prestanome, attore di Stratford, che avrebbe curato la pubblicazione delle opere di Michelangelo Florio con l’aiuto del figlio Giovanni. 

Qualche decennio dopo, negli anni ’50, l’ipotesi Florio viene ripresa da uno scrittore lombardo, Carlo Villa; Villa riprende la prima tesi di Paladino, quella dello pseudonimo, e aggiunge un dettaglio: Michelangelo Florio avrebbe assunto lo pseudonimo di William Shakespeare traducendo il cognome della madre, Giuditta Crollalanza. Anche stavolta, però, non viene citato nessun documento attendibile a favore di questa tesi.

La teoria delle origini messinesi si innesta su questa stessa falsariga. Proviene dalla penna di Martino Juvara, professore di italiano ispicese in pensione, che nel 2002 diede alle stampe un suo saggio sulle origini siciliane di Shakespeare. La versione di Juvara appare sostanzialmente come un mix vagamente confusionario delle tesi precedenti. Il nome Shakespeare sarebbe lo pseudonimo di Michelangelo Florio; non però il Michelangelo Florio nato a Firenze e padre di John Florio, ma un suo omonimo nato a Messina nel 1564, di origini palermitane, figlio di Giovanni Florio e Guglielmina Crollalanza.

Tale Michelangelo Florio, come il suo omonimo fiorentino, avrebbe dovuto affrontare numerose peregrinazioni perché ricercato dalla Santa Inquisizione per via di idee eretiche; finisce col rifugiarsi in Inghilterra, presso un cugino inglese della madre (Shakespeare), che gli assegna il nome del figlio scomparso prematuramente, cioè, appunto, “William Shakespeare”. Grandi assenti, ancora una volta, le prove documentarie; a supporto della tesi, solo una serie di suggestioni e coincidenze assortite.

Insomma, alla fine dei conti, quella di Shakespeare messinese si rivela essere poco più che una ipotesi romanzesca, una speculazione; o, per dirla con le sue stesse parole, molto rumore… per nulla. 

Gianpaolo Basile

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Messina borghese e opulenta: lusso e Art Nouveau a Villa de Pasquale

Del terremoto del 1908 ci troviamo spesso a parlare, nella nostra rubrica, come di un evento che fu per la storia urbana messinese un tragico spartiacque fra la Messina dei secoli passati, con la sua fisionomia urbana e i suoi monumenti oggi in buona parte perduti, e la Messina post terremoto, la città in cui oggi viviamo, con le sue luci e le sue ombre. Dobbiamo però ricordare che il grande Terremoto non fu la fine di tutto e che, nei primi decenni del secolo scorso, la città intera fu animata da una incredibile ondata di tenacia e orgoglio, che si esprimeva nel desiderio di ricostruire Messina più grande e più bella di prima. Allo sforzo delle autorità cittadine si aggiungeva quello dei privati, della ricca borghesia: la fisionomia della città che conosciamo, con le sue vie squadrate ed i suoi grandi palazzi in stile eclettico, spesso non privi di un loro fascino e di un loro valore artistico, è proprio il frutto di questo grande slancio ricostruttivo.

Dietro ognuno dei grandi palazzi del centro storico possiamo immaginarci le centinaia di storie di borghesi, imprenditori, banchieri, aristocratici che facevano a gara fra loro nel fare sfoggio delle proprie ricchezze e del proprio potere, e al contempo a lasciare il proprio segno nella fisionomia della città in rinascita; spesso con il contributo di architetti blasonati, come il grande Gino Coppedè che a Messina lasciò molte opere pregevoli. È a uno di questi membri di quella borghesia rampante e vitale, l’imprenditore Eugenio De Pasquale, che si deve la costruzione di una delle più significative testimonianze di quel periodo storico: la preziosa quanto sconosciuta Villa De Pasquale.

 

È il 1912 quando Eugenio De Pasquale, imprenditore agrumario, dà inizio ai lavori per la costruzione di una sontuosa residenza privata. Il luogo designato non è però il centro storico, ma la periferia sud della città, quella che all’epoca ne costituiva la zona industriale: a pochi passi dai grandi agrumeti e dalle sue fabbriche, in cui si trasformavano gli agrumi e i fiori di gelsomino in essenze da usare in profumeria, che venivano rivendute in tutta Italia e nel mondo. È lì che la villa si trova ancora: a pochi passi dal torrente Larderia, in zona Contesse, lungo la antica via Consolare Valeria (oggi denominata in quel tratto via Marco Polo), a meno di un chilometro dall’odierno Policlinico Universitario.

 

La grande villa, restaurata e riaperta al pubblico in tempi relativamente recenti (circa un anno fa) dopo anni di decadenza e abbandono, consta di un ampio parco e di un palazzo in stile neorinascimentale, dalle linee architettoniche sobrie ed eleganti. Dietro il caratteristico cancello a forma di ragnatela, un lungo vialetto porta alla residenza padronale, in cima a una scenografica scalinata. L’atmosfera di serena compostezza dettata dalle linee essenziali della costruzione è la stessa che si respira negli interni ampi e luminosi, che conservano ancora il mobilio d’epoca.

Lontano dalle bizzarrie e dalle stravaganze di molto liberty contemporaneo, qui tutto sembra limpido e razionale, a richiamare gli ideali di bellezza neoclassica e rinascimentale che evidentemente dovevano rientrare nei gusti della ricca committenza; statue, mobili, decorazioni, fregi e dipinti, copie fedeli dalle opere dei grandi maestri del Rinascimento e del Manierismo italiano.

 

Poi il pezzo forte, al piano superiore, con la grande galleria resa trionfo di luce dalle ampie finestre che danno sull’esterno. Sul soffitto dello spazioso salone dipinto in verde, le grandi tavole di Salvatore De Pasquale riproducono capolavori di Tiziano Vecellio e Rubens; in lontananza, fuori, si stende l’abitato di Contesse e, sullo sfondo, la Calabria. Possiamo a stento immaginare quanto suggestivo potesse essere stato questo luogo, quando, nei primi decenni del secolo scorso, le case e i palazzi residenziali erano molto di meno, la campagna molta di più, da queste finestre, Eugenio De Pasquale e i suoi familiari potevano affacciarsi e vedere, in lontananza, la spiaggia e le acque dello Stretto.

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco

Museo di Messina: l’Italia è fatta, adesso bisogna fare gli Italiani

Il sabato scorso, dopo mesi e mesi di attesa trepidante, ho finalmente potuto varcare la soglia della sede definitiva del Museo Regionale di Messina, che dalle 20:30 alle 22:30 apriva i suoi battenti gratuitamente al pubblico: la prima apertura completa della struttura museale, a distanza di oltre cento anni dalla sua nascita. Insieme a me una folla notevole (lascio ai contabili del giorno dopo la stima dei numeri, per me erano e resteranno sempre “chio’ssai d’i cani i Brasi”, come si dice a Messina) composta da gente di ogni età, ceto e condizione sociale accorsa da tutta Messina e anche da fuori, anche a seguito della notevole campagna pubblicitaria che questa volta ha coinvolto anche le reti televisive nazionali.

Nel mio personale sentire, il Museo Regionale di Messina, fin dalle prime volte in cui lo visitai da piccolo, è sempre stato un luogo speciale, quasi sacro. Uno scrigno della memoria, come ebbi modo di scrivere in un articolo in occasione della apertura parziale di Dicembre. Un grande tempio laico dedicato a Messina. Mi piace pensare che nessun altro museo al mondo possa vantare una storia simile, anche se forse non è così. La sua storia si intreccia indissolubilmente con quella del Terremoto del 1908: prima era poco più che una pinacoteca comunale sorta dal confluire di collezioni private.

Poi accadde il disastro, e secoli interi della storia e del patrimonio artistico di Messina furono cancellati dalla faccia della Terra. Il moderno Museo Regionale nasce da quelle macerie, dal lavoro paziente di tanti messinesi che si misero a frugare in quelle rovine, a tirarvi fuori tutto ciò che potesse avere un qualche valore storico e artistico, ed ad ammucchiarlo, accatastarlo nella antica sede del convento del SS. Salvatore dei Greci, dove si trovava la filanda Barbera-Mellinghoff, che per tanti anni ne è stata la sede provvisoria. Il loro sogno era che un giorno tutto potesse tornare a vivere, che la antica Messina dei secoli d’oro, la Messina che il terremoto aveva sfregiata, distrutta, annichilita, potesse in parte tornare a esistere. Melior de cinere surgo: come l’araba fenice, anche Messina con la sua storia e la sua cultura sarebbe un giorno risorta dalle sue ceneri.

Ci sono voluti oltre cento anni affinché questo sogno divenisse realtà. Oggi, finalmente, Messina ha il suo Museo Regionale. Un percorso espositivo unico, fra i più estesi del Meridione, in grado di raccontarci secoli di storia: dalla Zancle greca al Medioevo arabo-normanno, dal Quattrocento della Scuola fiamminga e di Antonello fino al Rinascimento, Montorsoli, Calamech, Polidoro Caldara, Alibrandi, allievi di Michelangelo e Raffaello. E poi il seicento, Caravaggio e i caravaggeschi, gli splendori del barocco, gli argenti e i marmi a mischio del Settecento, la lenta decadenza dell’Ottocento. Un viaggio nella storia di Messina dalle origini ai giorni nostri attraverso i suoi capolavori più belli e preziosi. 

Insomma, l’Italia è stata fatta (e finalmente, aggiungerei). Adesso, però, si devono fare gli Italiani. L’apertura completa del Museo Regionale è senza dubbio un traguardo: ma deve essere il primo di una lunga serie. Un Museo così grande e importante come quello che ha appena aperto le sue porte rappresenta una risorsa invalutabile per quello che è e che sarà il turismo culturale nella Città dello Stretto e nei suoi dintorni. Non può né deve permettersi di restare confinato al margine della sua vita sociale; deve, al contrario, rivendicare orgogliosamente il ruolo e la posizione di fulcro, di guida e di punto focale per la rinascita culturale della città. 

Questa nuova apertura pone dunque alla direzione grandi responsabilità, apre nuovi orizzonti e offre nuove sfide. Una ad esempio potrebbe essere quella di porre il Museo, da sempre in una posizione periferica rispetto al centro storico, nel posto che si merita all’interno dei già ridotti circuiti turistici della città. La stagione estiva è alle porte, visitatori e croceristi cominciano timidamente ad affollare le vie del centro; se già adesso è difficile che si spingano oltre il “triangolo magico” incluso fra Piazza Duomo, l’Annunziata dei Catalani e Palazzo Zanca, e forse del Museo Regionale ignorano persino l’esistenza, chi li porterà fino al Torrente Annunziata per vederlo?

Insomma, il lavoro è appena cominciato e servirà un rinnovato impegno, e la formazione di nuove sinergie con il Comune e con gli enti pubblici, affinché il nuovo Museo possa sviluppare in pieno le sue potenzialità benefiche per l’intera città di Messina. A noi visitatori resta la speranza che la recente apertura completa si riveli non un comodo letto di allori su cui sdraiarsi a riposare, ma la prima tappa di un lungo percorso di rinascita: un percorso che abbia come obiettivo finale la riscoperta, agli occhi dei messinesi e del mondo intero, di Messina e della sua bellezza. 

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco

Palazzo Calapaj d’Alcontres: come viveva un nobile del 700?

Nel cuore del centro storico di Messina, appena alle spalle del Duomo, esattamente in Strada San Giacomo, sorge il Palazzo Calapaj-D’Alcontres: unico edificio della classe aristocratica sopravvissuto al terremoto del 1908.

Nella sua complessità, il palazzo a tre ordini, si presenta importante, massiccio, imponente: indicativo di chi lo abitava all’epoca della sua costruzione, sul finire del XVIII secolo; l’edificio infatti era stato pensato come residenza cittadina dei membri di una delle più antiche e influenti famiglie nobili cittadine, quella dei principi d’Alcontres.

Di nobiltà antichissima e origini che si perdono nel tempo, fino all’epoca normanna, il titolo di principi d’Alcontres nei Bruzi, assieme a quello di marchesi di Roccalumera e di conti di Quintana, originariamente appartenente alla famiglia La Rocca, era stato trasmesso alla casata messinese degli Stagno, a seguito di un matrimonio. La data di costruzione del palazzo è ignota, ma si ipotizza che sia stato costruito nella seconda metà del XVIII sec., intorno al 1770, e che sia appartenuto ai membri del ramo apparentato con la altrettanto nobile famiglia dei Calapaj. Senza perderci nei meandri delle genealogie, a noi basta sapere che chi risiedeva in questo palazzo apparteneva senz’altro a una delle più potenti e influenti famiglie di Messina, come testimonia la posizione privilegiata nel contesto urbano, a due passi dal Duomo, nel cuore pulsante della città.

Dei fasti e delle ricchezze di questa nobile famiglia, ma anche della loro quotidianità e della loro vita di tutti i giorni, il palazzo ci offre un interessante spaccato. Di architetto anonimo, il nostro palazzo, su due piani escluso il seminterrato, presenta il suo ingresso con un cancello in ferro battuto che, una volta varcato, dà libero accesso al cortile interno. Questo, in somma alle scalinate, dà la sensazione di una piazza privata; a sostegno della quale troviamo anche gli alloggi per le carrozze ed i cavalli e le dimore per la servitù, elementi presenti data la destinazione sociale del palazzo.

All’esterno, ammiriamo invece motivi ottocenteschi quali festoni e acroteri sopra le finestre, cantonali agli angoli, cornicione poco aggettante che, in connubio al rettilineo leggermente incurvato, rappresentano elementi decorativi di rilievo.

Data la sua importanza storica e documentaria, il palazzo non è stato lasciato all’abbandono; oggi è abitato da privati. Posto in uno dei luoghi più suggestivi del centro storico, quasi sospeso fra il Duomo e l’Annunziata dei Catalani, il palazzo Calapaj d’Alcontres permette ancora a chi ne ammira l’elegante profilo di calarsi, con l’immaginazione, nei panni di un aristocratico del ‘700. 

Erika Santoddì

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco

Macalda di Scaletta: una dama guerriera nella Messina del Medio Evo

Nella folta schiera di personaggi che la Storia ha cristallizzato nella leggenda, trasformandone la memoria in un tutt’uno fra il mito, la diceria, l’aneddoto, l’epopea e la realtà storiografica, non può non rientrare il nome di Macalda di Scaletta. 

La sua è una storia affascinante, una autentica parabola che portò questa donna bella e ambiziosa, ricca e potente ma di umili origini, alla corte di uno dei più grandi monarchi di Sicilia, Re Pietro il Grande d’Aragona. Una storia fatta di intrighi e di tradimenti, sullo sfondo della caotica Sicilia dell’epoca dei Vespri Siciliani. 

Dalla montagna di scritti su Macalda è difficile capire dove finisce la leggenda e inizia la realtà. Si sa che nacque a Scaletta, vicino Messina, intorno al 1240, e che ereditò dal padre, Giovanni, il castello di Scaletta, solida roccaforte strategica sulla strada fra Catania e Messina, che tutt’ora si erge maestoso a guardia di quel tratto della riviera jonica. A differenza di quel che si potrebbe pensare però, le origini di Macalda erano umilissime: il nonno era un militare di bassa estrazione sociale, tanto da essere soprannominato “Matteo Selvaggio”, che aveva acquisito il castello dietro concessione reale e che aveva avuto la fortuna di arricchirsi grazie al rinvenimento di un tesoro nascosto al suo interno. 

Una famiglia di inarrestabili arrampicatori sociali di cui Macalda è degna discendente: dopo aver sposato in prime nozze un nobile caduto in miseria, Guglielmo Amico, alla morte del primo marito dà già mostra del suo carattere spregiudicato e indipendente, finendo a girovagare per la Sicilia travestita da frate francescano, fra espedienti e avventure amorose. 

“Molto bella e gentile, e valente nel cuore e nel corpo, generosa nel donare e, a tempo e luogo, valorosa nelle armi al par d’un cavaliere”: è questo il ritratto che fa di lei un suo contemporaneo, lo storico catalano Bernat Desclot. Qualche anno dopo, questa giovane dama guerriera viene data in moglie ad Alajmo da Lentini, anziano uomo d’arme e politico navigato alla corte angioina; a questo altrettanto spregiudicato e ambizioso personaggio, che già anni prima non aveva esitato a tradire Manfredi di Svevia per ottenere il favore degli Angioini, si deve parte del suo successo.

Di lì a qualche anno, infatti, Alajmo non esita a tradire anche Carlo d’Angiò schierandosi a favore dei siciliani insorti nella rivolta dei Vespri. Quando re Carlo scende alla testa dei suoi uomini per sedare la rivolta, è Alajmo, nelle vesti di Capitano del Popolo di Messina, a frapporsi fra lui e il suolo siculo e sarà lui il grande regista della difesa cittadina durante l’assedio di Messina del 1282, punto di svolta della prima guerra del Vespro e tappa fondamentale della storia della città, mentre alla moglie, in sua assenza, viene affidato il governo di Catania.

All’arrivo nell’isola di Pietro d’Aragona, acclamato dagli insorti Re di Sicilia, Alajmo da Lentini viene premiato per la sua strenua resistenza col titolo di Gran Giustiziere del Regno: lui e la moglie diventano così fra i più alti dignitari della nuova corte di Sicilia. Ma a Macalda non basta: quando il re entra in trionfo a Randazzo Macalda non si fa sfuggire l’occasione per farsi notare e gli viene incontro a cavallo, in armatura, con in mano una mazza d’argento. Ben presto diventano evidenti le sue intenzioni di sedurre il Re per diventarne la favorita: intenzioni che non sfuggono alla moglie, la regina Costanza di Hohenstaufen, legittima erede di Federico II di Svevia, con cui presto inizia una rivalità spietata, una autentica escalation di provocazioni e continui sfoggi di potere e ricchezza.

Così, quando Alajmo da Lentini, sospettato dell’ennesimo tradimento, cade in disgrazia presso il nuovo Re, anche Macalda ne condivide la sventura. Mentre il marito, dopo essere stato convocato in Spagna, viene fatto giustiziare, Macalda finisce i suoi giorni in prigionia, nel castello messinese di Rocca Guelfonia. Anche da prigioniera, i suoi comportamenti restano assolutamente sopra le righe: si racconta che destasse stupore per la vivacità e l’immodestia dei suoi abiti, mentre trascorreva le giornate intrattenendosi a giocare a scacchi con un altro nobile prigioniero del castello, l’emiro Margam Ibn Sebir.

Sublimato nella leggenda, il personaggio di questa straordinaria siciliana anche a distanza di secoli non esaurisce il suo fascino; nel tempo, la si ritrova come protagonista di diverse leggende e racconti popolari siciliani. Nell’Ottocento Michele Amari, storiografo siciliano, la riscopre come personaggio storico e riferisce con gusto prettamente romantico e dovizia di particolari tutti i particolari più rocamboleschi delle sue avventure; qualche decennio dopo, Macalda diventa addirittura la protagonista di poemi e melodrammi.

Femminista ante litteram o ambiziosa femme fatale? Spregiudicata arrivista o valorosa amazzone guerriera? Eroina romantica o donna del suo tempo? Macalda di Scaletta è stata un po’ di tutto questo e un po’ niente. La sua storia si perde nel mito e ne trasforma il personaggio in un archetipo, enigmatico e complesso, di indomita donna siciliana. 

Gianpaolo Basile

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Largo San Giacomo: dalla Storia allo scavo

E’ l’estate del 2000 quando il Comune di Messina finanzia uno scavo con l’intento di svuotare dall’acqua la cripta della Cattedrale. A quest’opera di bonifica, tuttavia, si deve anche un altro merito: l’aver riportato alla luce una cripta settecentesca, edificata sui resti della Chiesa consacrata a San Giacomo Apostolo.

Le carte storiche di Messina, come la planimetria effettuata da Gianfrancesco Arena dopo il terremoto del 1783, confermano l’esistenza della struttura dietro al Duomo, e la vedono inglobata in un caseggiato alle sue spalle verso Est.

A causa della falda acquifera affiorante, non è stato possibile approfondire gli studi sullo scavo, ma si ipotizza l’edificazione dell’opera normanna intorno alla seconda metà dell’ XI e XII secolo; a sostegno di questa ipotesi, troviamo alcuni particolari stilistici, quali i pilastri che separano la navata, la tecnica di costruzione delle mura e la pavimentazione povera, aspetti che la avvicinano molto ad altre opere di periodo normanno, come la Chiesa di Santa Maria della Valle, comunemente conosciuta come “ ‘a Badiazza”.

Nel corso della sua storia, la Chiesa subì numerosi restauri dovuti anche ai frequenti straripamenti del torrente San Giacomo, scorrente in quella zona della città fino al 1548, anno in cui gli Spagnoli eressero una nuova cinta di mura. Tra il XV e il XVIII secolo, possono essere collocate le numerose sepolture rinvenute sotto i pavimenti: secondo i dati fornitici da Gallo, solo nel 1753 verrà costruita una vera e propria cripta per i defunti, identificabile in quella rinvenuta nel 2000.

 

Di questa cripta, grazie agli scavi odierni, è possibile distinguere chiaramente alcune parti restanti, fra cui dei particolari sedili forati: sono i cosiddetti colatoi. Per capire la loro funzione, dobbiamo rifarci all’usanza, diffusissima in Sicilia e in tutto il Meridione in generale, in particolare lungo il XVIII sec., della scheletrizzazione naturale dei cadaveri. Questa pratica antica, che oggi non potremmo fare a meno di definire decisamente macabra, bene si inquadra nel solco delle tradizioni tipicamente meridionali legate al culto dei defunti, come ad esempio la mummificazione, anch’essa praticatissima in Sicilia (si pensi al cimitero dei Cappuccini di Palermo o alle, più vicine, mummie di Savoca).

Nel caso della scheletrizzazione, però, i cadaveri venivano rivestiti con i loro abiti migliori e lasciati, in posizione seduta (grazie all’aiuto dei fori che tutt’ora è possibile vedere), a decomporsi naturalmente nelle apposite nicchie, finchè non ne rimanevano solo le ossa, che venivano a quel punto raccolte e messe in appositi ossari. Questo rituale, che agli occhi del lettore moderno potrà sembrare persino ripugnante, era all’epoca ammantato di un preciso significato religioso, legato al tema della caducità delle cose terrene, tanto che in alcuni luoghi era previsto che dei membri del clero, o anche i parenti stessi del defunto, si recassero periodicamente a visitare i colatoi per pregare e meditare sulla morte; come si può intuire, si trattava di una usanza tutt’altro che salutare, tanto che in vari modi nel corso degli anni le autorità provarono, spesso invano, a scardinarla. 

 

 

 

La primitiva Chiesa medievale era completamente sotto terra, proprio per questo se ne perse la memoria. Tuttavia, al suo interno, era contenuto qualcosa che ne conferma l’esistenza: un antichissimo marmo, oggi custodito nel Museo Regionale di Messina, che si pensa rappresenti l’apoteosi di un eroe o il mito di Icaro.

Sappiamo con certezza che, nella prima metà dell’Ottocento, la chiesa era ancora aperta al culto. Solo dopo, la sede parrocchiale fu trasferita nella chiesa della Madonna dell’Indirizzo e poi nella chiesa Santa Caterina Valverde. L’antica chiesa non esisteva più dal 1902, al suo posto si trovava la casa del Cav. Ruggero Anzà.

Con il terremoto del 1908 la Chiesa della Madonna dell’Indirizzo e la Chiesa di Santa Caterina furono distrutte. Vent’anni dopo, oltre il Torrente Zaera, fu edificata una chiesa in nome di San Giacomo Apostolo, la prima in muratura aperta al culto. Il nuovo complesso parrocchiale, in stile neoromanico, sorge sul primo comparto dell’isolato 54, delimitato dalle vie Reggio Calabria, Buganza, Napoli e Lombardia ed occupa un superficie di mq 1345 circa. Tra i tanti restauri, l’ultimo venne effettuato negli anni 1977-1978.

Fino a poco tempo fa godere dello spettacolo che questo scavo offre, era praticamente impossibile a causa di una distesa di verde dalla crescita incontrollata e di montagne di spazzatura. Oggi, fortunatamente, grazie ai volontari di “PuliAMO Messina” con l’affiancamento della Soprintendenza ai beni culturali e della direttrice dell’Orto Botanico, è stato restituito al monumento il proprio valore storico-culturale.

Erika Santoddì

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco

Edoardo Albinati per Taobuk. Intervista esclusiva al Premio Strega 2016

Si è svolto ieri al Rettorato il terzo appuntamento della rassegna “Leggere il presente” – organizzata dall’Ateneo, dall’Accademia Peloritana dei Pericolanti e da Taobuk – in cui è stato protagonista Edoardo Albinati. Lo scrittore ha presentato il romanzo “La Scuola Cattolica”, un’opera che traccia un ritratto dei “ragazzi bene” della Roma degli anni ’70, alla ricerca di precisi modelli di virilità, in un universo ovattato, creato appositamente per proteggerli e tutelarli. Un cosmo dal quale però uscirono anche gli assassini del massacro del Circeo (1975), alcuni dei quali erano stati compagni di scuola di Albinati. UniVersoMe è riuscita a sottoporre qualche domanda al vincitore del Premio Strega 2016.

Nell’affrontare il tema dei delitti di femminicidio, lei dice che la società mette troppa pressione addosso alle persone fino ad un “eccesso di reazione”, macchiandosi così di un crimine nefando. Lei da dove inizierebbe per cercare di far diminuire questa pressione?

“La pressione è molto forte sugli individui, però è anche vero che questi non la reggono. Perciò la pressione dovrebbe essere di meno, ma è imprescindibile una sorta di educazione al fallimento, alla precarietà. Qualcuno che dica a tutti che: la vita è precaria ed è fatta in grande parte di delusioni, mancanze e di insoddisfazioni, ergo non c’è nulla di terribile in questo poiché è costitutivo della vita stessa. Probabilmente in questo modo verrebbero accettate in maniera meno drammatica le frustrazioni e non ci sarebbe questa reazione violenta ogni qual volta si viene privati di qualcosa. Sembrano bambini che privati del proprio giocattolo tirano fuori il coltello e uccidono i genitori; chiaramente questo non è accettabile. “

Nel suo libro lei parla di una generazione diventata adulta negli anni settanta nel mezzo di una crisi valoriale e dell’esplosione della violenza non solo politica. Cosa pensa di questa generazione, nata secondo alcuni: senza bellezza, senza valori, impregnata di omologazione?

“In realtà queste stesse cose si dicevano della mia generazione. Già io, avrei dovuto essere un figlio della televisione omologato a questa, quindi se questo è un processo, è iniziato già da molto tempo. Ai ragazzi di oggi non abbiamo nulla da rimproverare perché i primi a guardare la TV e a seguire dei modelli consumistici siamo stati noi, i cosiddetti baby boomers, quelli nati negli anni ’50 e ’60. Sì è vero, vige il brutto nella società di oggi. È vero anche gran parte del nuovo è brutto, ma questo non è iniziato adesso. Voglio dire il moderno non è certo iniziato oggi.”

Lei descrive la mascolinità da un punto di vista innovativo, quasi rivoluzionario per i tempi dicendo che se c’è un sesso debole, è quello maschile. Che pensa della frase del critico Philipe Daverio su un ipotetico stravolgimento delle camere di governo, relegando gli uomini esclusivamente a parlamentari data al loro tendenza all’elucubrazione, al contrario le donne al Governo perché più capaci di portare le cose a termine?

“Trovo sia una boutade quella del prof. Daverio: il  Parlamento fatto di uomini e il Governo fatto di donne, si può dire tutto il contrario di tutto. Proprio oggi però leggevo una impressionante statistica sul fatto che i paesi che hanno un maggior numero di donne nel Parlamento sono quei paesi in cui la libertà femminile è minore. Esempio: in Etiopia il 40% dei parlamentari è di sesso femminile ma l’Etiopia non è nemmeno tra i primi cento paesi al mondo per emancipazione. Quindi l’idea che l’emancipazione femminile si misuri con le persone che stanno in Parlamento pare sia fallace. Tuttavia è vero che le donne nella società italiana occupano molto raramente posizioni di potere. Questo non solo per quel che riguarda la politica ma anche nell’industria e nel lavoro in generale, quindi la donna è in una posizione minorità in Italia esattamente come i giovani. Trovo impressionante quanto la nostra realtà politica, economica e sociale sia di fatto una gerontocrazia di maschi.”

Alessio Gugliotta

Dove terra e mare si congiungono: Il Santuario della Madonna di Dinnammare

Messina sarà sicuramente piena di bei posti dai quali ammirare i paesaggi che la terra e il mare ci offrono, ma quale posto migliore del monte Dinnammare per ammirare la bellezza degli abissi?

Sembra, infatti, che il nome “Dinnammare” derivi dal termine latino “bimaris”, poiché dalla sua vetta è possibile avere visuale del mar Jonio e del mar Tirreno, ammirare la città di Messina in tutta la sua grandezza e lo Stretto nella sua maestosità.

Facente parte della catena montuosa dei Peloritani e alto 1127 m, il monte ospita sul suo imponente cucuzzolo il Santuario della Madonna di Dinnammare. La sua edificazione in loco è spiegata da due leggende.

La prima narra di un pastore, che trovandosi un giorno sulla montagna, inciampò su una tavoletta di marmo con su impressa l’immagine della Vergine Maria. Tornato a casa con la tavoletta, la mattina seguente, non la trovò più; iniziò a cercarla, e infine la ritrovò nello stesso posto in cui il giorno prima ebbe la fortuna di imbattersi. Il parroco di Larderia, paese di origine del pastore, una volta venuto a conoscenza del fatto, volle che questa miracolosa lastra di marmo fosse conservata nella chiesa del paese. Così fu fatto; ma anche da lì la tavoletta scomparve per essere ritrovata sul monte, nel medesimo luogo. A quel punto la decisione da prendere fu semplice: tutti furono d’accordo che la lastra di marmo fosse destinata a quel monte, e che dovesse essere edificata una chiesa per custodire e pregare la Madonna di Dinnammare.

La seconda leggenda riporta, invece, che la sacra Immagine provenisse dal mare, trasportata da due mostri marini, i quali la lasciarono sulla spiaggia di Maregrosso. Alcuni pescatori iniziarono ad adorare l’icona, e nel tempo quel tratto di spiaggia si trasformò in un santuario, tanto era il numero dei fedeli che si riunivano in preghiera. In seguito, su iniziativa degli stessi pescatori, l’immagine della Madonna fu portata sul monte, dove adesso sorge la chiesetta.

Nonostante questo, non sappiamo di preciso il periodo di costruzione della chiesetta, ma si preferisce l’epoca bizantina.

Questa, d’ispirazione medievale, è stata ricostruita nel 1899 dai militari che l’avevano abbattuta per edificare l’omonimo forte, che doveva servire per il controllo di tutta l’area dello stretto dalle incursioni provenienti da sud e da nord.

Recenti restauri hanno riportato alla luce, dopo aver tolto tutti gli intonaci, la naturale bellezza delle murature in mattoni a faccia vista. Al suo interno si conserva un rilievo marmoreo dell’‘800 raffigurante la “Madonna di Dinnammare”: l’iconografia è quella tipica, la Madonna col Bambino in trono, retta da due mostri marini o delfini. Semplice, completamente in pietra e poco luminosa, ogni anno, il 3 Agosto, ospita il pellegrinaggio che parte di notte dal Villaggio Larderia per giungervi sulle prime ore del mattino, attraverso sentieri tracciati nella montagna, con in testa il quadro della Madonna; il 5 Agosto il quadro ritorna, ripercorrendo gli stessi passi dell’andata, alla chiesa di San Giovanni Battista, a Larderia, nella quale avviene l’emozionante ingresso tra le navate.

Erika Santoddì

Ph: Giulia Greco

Il De Motu Animalium e la nascita della biomeccanica: l’eredità di Borelli.

E’ impossibile essere sicuri di qualcosa, se non della nascita di Borelli a Messina e del suo insegnamento nell’Ateneo peloritano, e sulla prima ho ancora dei dubbi.

Il perché, lo scoprirete continuando a leggere sulla vita di Giovanni Alfonso Borelli, altro celebre personaggio legato a Messina, forse, sin dalla nascita.

Matematico, astronomo, fisiologo e filosofo, il Borelli lascia poche notizie della sua vita; di fatto, tutto ciò che sappiamo, lo dobbiamo all’epistolario scambiatosi con personaggi noti dell’epoca, tra cui Marcello Malpighi, che anch’egli fu docente all’Università di Messina.

Nasce il 28 Gennaio del 1608 e, per quanto riguarda la città d’origine, troviamo a competere Castel Nuovo di Napoli e Messina, che potrebbe però essere la città natale del fratello minore.

In seguito all’esilio del padre e al conseguimento della laurea in medicina, Borelli si trasferisce a Roma. Qui inizia ad interessarsi alla fisica ed alla meccanica, interesse che lo aiuterà a sviluppare la metodologia di pensiero secondo la quale l’applicazione della matematica, della meccanica e del metodo sperimentale, può risolvere i problemi biologici.

Nel 1635 Borelli fu chiamato dal senato accademico dell’Università di Messina, al fine di occupare la nuova lettura de matematiche.

Tra il 1647 e il 1648, scoppiò un’epidemia in Sicilia che diede l’occasione a Borelli di scrivere la sua prima opera da medico: “Cagioni delle febbri maligne in Sicilia negli anni 1647-1648”.

Nella primavera del 1656 Borelli lasciò Messina al fine di occupare la cattedra di matematica all’Università di Pisa. Per sottolineare l’importanza del soggiorno pisano, è giusto considerare che il territorio di Pisa ha visto passare i più illustri scienziati del tempo, tra i quali Andrea Vesalio e Galileo Galilei. La tradizione galileiana traeva nuove risorse grazie alla fondazione dell’Accademia del Cimento che ha costituito un evento di notevole importanza per l’evoluzione del pensiero scientifico. Di questa facevano parte Vincenzo Viviani, Carlo Roberto Dati, Alessandro Segni, Francesco Redi, Evangelista Torricelli, Antonio Oliva e Giovanni Alfonso Borelli che diede un contributo notevole a ogni importante esperienza dell’accademia.

Parallelamente alle esperienze di matematica e fisica, Borelli si occupò di anatomia e soprattutto di fisiologia.

Quest’ultime compiono in questi momenti dei progressi significativi, soprattutto grazie all’applicazione del metodo sperimentale alla fisiologia. Grazie anche a Borelli, nasce un nuovo movimento: la scuola iatromeccanica, che postula l’applicazione delle leggi fisiche per l’interpretazione dei fenomeni fisiologici.

Tuttavia, già nel 1665 sorgevano i primi dissidi e le prime inimicizie tra gli accademici del Cimento, per cui Borelli cominciava a maturare il convincimento di ritornare a Messina.

Copertina della prima edizione, postuma (1710) del De Motu Animalium di Giovanni Alfonso Borelli, testo considerato l’atto di nascita della moderna biomeccanica

 

Qui riprese l’attività di docente impegnandosi sullo studio dei fenomeni riguardanti l’astronomia e la fisiologia, ma termina il suo periodo più fecondo di risultati. Durante il soggiorno messinese, Borelli frequentò la casa del Visconte Ruffo, luogo nel quale, a quanto sembra, si cospirava contro il regime spagnolo. Per le sue idee e per il suo operare in nome della libertà e dell’indipendenza, Borelli fu accusato di ribellione e dovette espiare la sua colpa a Roma, un territorio non dominato dalla corona spagnola.

Esule e povero, arrivò a Roma nel 1674. Nonostante tutto, non abbandonò l’attività letteraria e riuscì a portare a termine la sua più grande opera, il De Motu Animalium, pubblicata postuma,  con la quale cercò di spiegare il movimento del corpo animale basandosi su principi meccanici e tentando di estendere all’ambito biologico il metodo di analisi geometrico-matematico elaborato da Galileo in ambito meccanico. Grazie a questo trattato, Borelli è considerato il fondatore della moderna biomeccanica, tanto che ad oggi il premio istituito dalla American Society of Biomechanics per le migliori ricerche in questo settore scientifico porta il nome di “Borelli Award”.

A Roma morì il 31 dicembre 1679.

 

Erika Santoddì

Immagini:

https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Portrait_of_Giovanni_Alfonso_Borelli_Wellcome_L0010325.jpg

https://en.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Alfonso_Borelli#/media/File:Borelli_-_Motu_Animalium.jpg