Il teatro del Mare: il lungomare di Messina e la Palazzata

É difficile descrivere lo spettacolo a cui si assiste quando si raggiunge Messina dal mare. Sicuramente familiare a molti studenti fuori sede (specialmente quelli che vengono dall’altro versante dello Stretto), la vista della baia del Porto con la Madonnina, Cristo Re in alto e il profilo delle coste siciliane a perdita d’occhio accoglie oggi in città le tantissime persone che vi si recano, per i più svariati motivi, dal mare.
Eppure c’è qualcosa che manca, qualcosa che rendeva, ai visitatori di 100 o 200 anni fa, l’arrivo a Messina ancora più suggestivo. Se infatti oggi, girando lo sguardo al lungomare di Messina, si vedono solo grandi palazzoni anonimi (molti dei qual figli della cementificazione selvaggia degli anni ‘70 e ‘80), in passato ad attirare l’attenzione dei visitatori era una ampia e uniforme distesa di palazzi di marmo, che abbracciava a perdita d’occhio l’intera cortina del porto: la Palazzata.

Questo enorme complesso architettonico affonda le sue radici nei secoli d’oro della città di Messina, quando il suo porto era uno dei più grandi e trafficati del Mediterraneo. Si può considerare, come primo nucleo di questa struttura, la Loggia dei Mercanti: un palazzo pubblico destinato ai commercianti, opera di Jacopo del Duca datata 1589, che si trovava all’altezza dell’attuale Municipio, in corrispondenza della via omonima. Accanto al palazzo si trovava una grande porta monumentale, la Porta della Loggia, di fronte a cui era originariamente situata, sul lungomare e con le spalle rivolte allo Stretto, la celebre Fontana del Nettuno di Giovanni Angelo Montorsoli.

Qualche decennio dopo, nel 1622, l’allora viceré Emanuele Filiberto di Savoia diede ordine ad uno dei suoi architetti di fiducia, Simone Gullì, esponente di punta del barocco messinese dell’epoca, di unire in un unico registro stilistico l’intera cortina del porto, attraverso la costruzione di ben 13 edifici con 4 ordini di finestre, intervallati da grandi porte monumentali che mettevano in comunicazione il porto con la città. Il risultato, così come ce lo testimoniano numerosi dipinti d’epoca, era spettacolare: l’intera baia del porto si trovava serrata in un fitto susseguirsi di finestre, archi e porte, che convergevano al centro sulla Loggia dei Mercanti, con la sua Porta e la Fontana di fronte; il tutto unito tanto da potersi considerare un enorme, unico palazzo, con 18 porte e ben 1064 finestre (un numero da Guinness World Record, diremmo oggi!).

Di questa prima Palazzata, purtroppo, nulla è rimasto: seriamente danneggiata dal terremoto del 1783, Goethe, illustre visitatore, la ricorda con parole amare nel suo “Viaggio in Sicilia”, orribilmente scempiata dal sisma.

Fu nel 1803 che si decise per la ricostruzione della Palazzata, stavolta in stile neoclassico, su progetto di Giacomo Minutoli. Il nuovo progetto, ancora più grande e monumentale del precedente, presentava un maestoto prospetto scandito da colonne in ordine gigante. Ebbe purtroppo vita breve; ultimato negli anni successivi, dovette presto confrontarsi con la furia distruttiva del Terremoto del 1908.

Benchè ancora parzialmente recuperabili, i pochi palazzi superstiti furono rasi al suolo a partire dal 1909 in vista di una nuova ricostruzione: il progetto, in stile eclettico-liberty a cura di Luigi Borzì, includeva uno spettacolare colonnato  che avrebbe dovuto chiudere l’attuale piazza del Municipio e un lungo terrazzo percorribile. Purtroppo non fu mai realizzato: per attendere l’inizio dei lavori bisognerà aspettare gli anni ’30 quando, in pieno regime fascista, un nuovo progetto verrà presentato.

É la cosiddetta Palazzata del Samonà, ultimo tentativo di ricostruzione, fedele ai canoni dello stile razionalista. Rimasta incompiuta, passeggiando oggi sul lungomare si può ammirare l’unico palazzo completato: il palazzo dell’INA, con la sua ampia porta sul mare.

Ricordata nelle memorie dei visitatori ed immortalata da innumerevoli dipinti e stampe, la Palazzata, in tempi in cui il porto di Messina contava sul serio ed era la principale fonte di ricchezza della città, rappresentava il biglietto da visita con cui una città fiera, ricca e orgogliosa faceva bella mostra di se agli occhi di chi la raggiungeva dal mare: la sua decadenza attuale rispecchia quindi quella dell’immagine che la Città offre ai suoi visitatori. Non resta che sperare che questa immagine possa tornare ad essere bellissima come è sempre stata, e che una nuova Palazzata possa un domani tornarsi a specchiare nelle acque dello Stretto.

 

Gianpaolo Basile

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  1.  https://it.m.wikipedia.org/wiki/Palazzata_di_Simone_Gullì#/media/File%3AAbraham_Casembroot’s_View_of_Messina_Harbor_with_the_Palazzata%2C_designed_by_Simone_Gullì_in_1623.jpg
  2. https://commons.m.wikimedia.org/wiki/File:Porta_della_Loggia_(Giacomo_del_Duca)1.jpg
  3. https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Louis_François_Cassas%27s_View_of_Messina_Harbor_with_the_Palazzata,_designed_by_Simone_Gullì_in_1623.jpg
  4. https://it.m.wikipedia.org/wiki/Palazzata_di_Giacomo_Minutoli#/media/File%3AMessina%2C_palazzo_del_municipio_e_palazzata_dopo_del_terremoto_del_1908_(1).jpg
  5. https://commons.m.wikimedia.org/wiki/File:Messina_Palazzi1900.jpg#mw-jump-to-license
  6. https://it.m.wikipedia.org/wiki/Palazzata_di_Giuseppe_Samonà#/media/File%3AMessina_Other_Monument_34.jpg

Messina nelle parole di Giovanni Boccaccio

Non ci sono testimonianze scritte del passaggio da Messina di Giovanni Boccaccio, ma le tracce che l’autore lasciò dedicate o riferite alla città dello Stretto, fanno supporre alla fantasia che, almeno una volta nella vita, Boccaccio abbia conosciuto la realtà cittadina messinese.
I lasciti boccacceschi inerenti a Messina sono due, uno meno famoso dell’altro ma, comunque, assolutamente indicativi.
Siamo nella metà del 1300 e Giovanni Boccaccio, toscano di Certaldo, borgo appartenente, oggi, alla provincia di Firenze, era figlio di un mercante, il quale, lo portò con sé sin dalla tenera età, momento, a partire dal quale, il piccolo Giovanni ebbe modo di conoscere quasi tutti i principali porti mercantili italiani.
Queste esperienze gli torneranno utilissime quando, tra gli anni ’40 e ’50 del 1300, l’autore scriverà il Decameron, una raccolta di novelle che costituisce, per la Storia, il primo modello di “romanzo” della borghesia (che all’epoca era una classe nascente seppur non ancora esistente) e rappresenta l’unica opera linguisticamente “poliglotta” (data la presenza di numerosi dialetti diversi).
Tra le tante storie, spicca quella di “Lisabetta da Messina”, ambientata in una città dello Stretto che, all’epoca, era un centro mercantile che riuniva diverse comunità di naviganti-mercanti: in quella Messina si trovavano tutti gli avventurieri e i commercianti figli delle tante Repubbliche Marinare (sarà una costante sino a quasi tutto il 1500, come abbiamo trattato in precedenza, nel caso di Scipione Cigala) e, tra questi, di origine pisana, vi era anche la famiglia di Lisabetta.
La storia è caratterizzata da un amore osteggiato, sofferto e terminato in tragedia (e queste potrebbero essere già le sfumature di una moderna commedia siciliana), con Lisabetta che, in sogno, ritrova l’innamorato scoparso, il quale le rivela di essere stato ucciso dai fratelli di lei che, dopo, lo hanno seppellito in un bosco. La ragazza si reca sul luogo del delitto, riesuma il corpo dell’amato e ne mozza la testa che conserva in un vaso di basilico sul quale piangerà per giorni e giorni. Quando i fratelli scoprono il motivo dello strano comportamento della fanciulla e sradicano la pianta dal vaso, trovando così l’infelice contenuto, lasciano la città per paura di sfuggevoli pettegolezzi.
Di quella Messina, inutile dirlo, non rimane più nessuna testimonianza; sembra, piuttosto, una città diversissima da quella odierna, i cui fervori mercantili e cosmopoliti non animano più il quotidiano messinese e neppure ci son più comunità mercantili straniere che nella città esprimono il proprio benessere e la propria ricchezza con opere monumentali. Una di queste tracce, però, è costituita dalla Chiesa dell’Annunziata  dei Catalani, l’unica testimonianza di una Messina che vantava un ricco ed eterogeneo tessuto cittadino, in cui le varie comunità mercantili, riunitesi in confraternite, esprimevano orgogliosamente i propri simboli attraverso opere e ad architettura.
Altro lascito di Giovanni Boccaccio a Messina è una ricostruzione etimologica “artificiale” sulla toponomastica del termine “Faro di Messina”, che era il termine con il quale all’epoca si designava lo Stretto di Messina.
Come ha ben dimostrato Alessandro De Angelis, Professore presso il nostro Ateneo, Giovanni Boccaccio, in una nota della Commedia di Dante Alighieri, specifica che: “(…) Tra Messina in Cicilia e una punta di Calavria, ch’è di rincontro ad essa, chiamata Capo di Volpe, non guari lontana ad una terra chiamata Catona e a Reggio, è uno stretto di mare pericolosissimo, il quale non ha di largo oltre a tre miglia, chiamato il Fare di Messina. E dicesi “Fare” da “pharos”, che tanto suona in latino quanto “divisione”, perché molti antichi credono che già l’isola di Cicilia fosse congiunta con Italia e poi per tremuoti si separasse il monte chiamato Peloro di Cicilia dal monte Appennino, il quale, è in Italia, e con quella, che era terraferma, si facesse isola”.
Non ci sono prove che questo estratto possa valere come testimonianza di un passaggio di Boccaccio da Messina, ma è più probabile considerare che l’autore, nell’elaborazione di questa etimologia “artificiale”, abbia consultato i trattati scientifici dell’epoca, i quali sostenevano all’unanimità la tesi della separazione della Sicilia dal continente italico in seguito a terremoti avvenuti in epoche arcaiche.
Rimane, tuttavia, un prestigioso lascito da parte di un grande esponente della Letteratura Italiana alla nostra città, la quale non ricorda o non si impegna nel celebrare quelle virtù che il suo grande passato le ha attribuito.

Francesco Tamburello

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… uno dei romanzi più famosi al mondo è stato ideato a Messina?

Immaginate la scena: un giovanotto, di soli 24 anni, mosso forse dal bisogno di avventura, o da una fede militante, si arruola nell’esercito spagnolo che fa capo a Don Giovanni d’Austria per combattere gli Infedeli in quella che sarà conosciuta ai posteri come l’ultima grande guerra santa fra Cristiani e Musulmani: la battaglia di Lepanto.

É il 1571, e Messina é uno dei più importanti porti militari e commerciali del Mediterraneo, interfaccia fondamentale per gli scambi tra Oriente e Occidente. Non stupisce infatti che la flotta della Lega Santa sia partita proprio da lì. Ma la città non offre solo un porto: vi è anche il Grande Ospedale, massiccia struttura di ricovero nata dall’accorpamento di ben 15 ospedali gestiti da altrettante confraternite religiose. È lì, in un maestoso palazzo nuovissimo per l’epoca, situato dove ora c’è il Tribunale, che i reduci del sanguinoso scontro possono trovare soccorso e cura.

Tra questi feriti c’è proprio il nostro giovanotto, che durante la battaglia è stato colpito al braccio sinistro e al petto: rimarrà convalescente a Messina per sei interminabili mesi. Mesi che passerà leggendo, e pensando.

Il giovanotto si chiamava Miguel de Cervantes Saàvedra, ed è proprio durante il lungo soggiorno sulle rive dello Stretto che, probabilmente, ha preso vita il germoglio del suo capolavoro: “El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha”, romanzo considerato il capostipite della letteratura moderna, che consegnerà alla storia l’intramontabile personaggio di Don Chisciotte.

Certo, ci vorranno parecchi anni prima che l’opera veda la luce, nel 1605; di certo il ricordo di Messina deve essere rimasto a lungo nella mente dello scrittore, che rievoca (quasi autobiograficamente) le sue vicissitudini giovanili attraverso il racconto dello schiavo nel capitolo XXIX del primo libro.

La città viene nominata anche in delle opere successive: due delle Novelle Esemplari, edite nel 1613, e la raccolta intitolata Viaggio al Parnaso, del 1614.

Pare quasi di vederlo, un giovane sbarbatello annoiato dal riposo forzato, che passeggia per i giardini del Grande Ospedale e riflette sugli avvenimenti di una battaglia fuori da ogni tempo e da ogni logica; come fuori da ogni tempo e da ogni logica è il personaggio che sta prendendo forma nella sua mente, a due passi dall’assolato Stretto di Messina.

Renata Cuzzola

 

…dietro le origini della nostra Università si cela un primato mondiale?

Il portale dell’antico collegio, nel cortile interno della nuova sede universitaria

Ebbene sì, possiamo vantarcene: la nostra Università detiene un primato storico-culturale a livello mondiale! Fu fondata, infatti, dalla Compagnia di Gesù come primo collegio al mondo aperto esclusivamente ai laici. “Primum ac Prototypum collegium”: così si legge sull’iscrizione in latino posta sopra l’antico portale del collegio, unico elemento rimasto della struttura originaria e ancora oggi visibile nel cortile della sede centrale dell’università, passando da via Venezian. Non si trattava, dunque, solamente del primo istituto di formazione gesuita ma anche di un prototipo, un modello per le innumerevoli strutture che tale ordine religioso avrebbe costruito a seguire in tutto il mondo.

Le origini di quello che può considerarsi il nucleo storico della nostra Università risalgono al 1548. In quell’anno il Senato messinese, appoggiato dal viceré Juan de Vega, diede il suo consenso alla fondazione di un collegio gesuita. Ad interessarsi personalmente e a presentare istanza per la creazione dell’istituto di formazione presso il papa, Paolo III, fu sant’Ignazio di Loyola in persona.

Ignazio di Loyola in un dipinto di Pieter Paul Rubens

Il religioso spagnolo, fondatore nel 1534 della Compagnia di Gesù, si trovava allora in Italia con i suoi; qui si dedicava alle opere di carità e alla predicazione, attività principali del neonato ordine religioso. In Messina, posta tra l’Occidente e l’Oriente, scorse il terreno adatto in cui creare un importante centro culturale e religioso; così, il 16 novembre del 1548, ottenne l’istituzione formale dello Studium attraverso la bolla papale “Copiosus in misericordia Dominus”. Questa prevedeva che a gestire il collegio fosse proprio la Compagnia del Gesù, mentre spettava alla città finanziarne le attività.

Ovviamente ciò portò i gesuiti e le istituzioni locali ad avere non pochi contrasti, che si sarebbero risolti nel 1550 con la divisione dello Studium in due rami: uno laico, con gli insegnamenti di diritto e medicina, retto dal Senato; l’altro gesuitico, con gli insegnamenti di teologia e filosofia, retto dalla Compagnia di Gesù. Quest’ultima poi, nel 1565, verrà addirittura estromessa totalmente dalla gestione dello Studio, il quale aderirà al modello universitario “bolognese”.

Un altro ostacolo, non di poco conto, che la neonata Università messinese si trovò ad affrontare fu l’ostilità del Siciliae Studium Generale di Catania, che, istituito nel 1445, rivendicava solo per sé il diritto di conferire titoli dottorali in Sicilia. Solamente nel 1596, grazie all’intervento del tribunale della Sacra Rota, lo Studium di Messina conferì la sua prima laurea. Nello stesso periodo la città ottenne da Filippo II una cospicua donazione di 200 mila onze, che permise la rifondazione dell’Università.

Da allora ha inizio una storia che, passando tra varie chiusure e successive riaperture dello Studium, collegate alle vicissitudini storiche della città dello Stretto, porta ai nostri giorni ed a quella che è oggi la nostra Università. La quale, diciamolo, ha avuto degli albori tanto originali quanto gloriosi!

Francesca Giofrè

Vuoi saperne di più? Leggi anche questo articolo per approfondire!

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  1. Giulia Greco
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Messina da Leggere: la Città come parco letterario

 

 

In quanto porta della Sicilia, Messina, nei suoi quasi tremila anni di storia, è stata porto per antonomasia di flussi commerciali e culturali.

Poiché l’arte, evolutasi di pari passo con il progresso della società umana, è stata, spesso, ambasciatrice e voce espressiva del patrimonio culturale delle varie etnie succedutesi come dominatrici ed anima della nostra isola, questa rubrica vuole ripercorrere e rivalutare, attraverso l’indagine nel vasto mondo della letteratura, i luoghi della nostra città che quotidianamente appaiono abituali, talvolta anonimi allo sguardo del messinese, ma che, al contrario, proprio dietro il loro silenzio, nascondono una storia narrata dalla penna dei più grandi autori della nostra cultura di tutti i tempi.

Cercheremo, in questo modo, di ripresentare Messina come “parco letterario”, secondo l’idea che fu di Stanislao Nievo, il quale nel 1992, forgiò questo termine per indicare tutti quei luoghi che hanno ispirato un autore nella produzione di opere letterarie.

Il concetto di “parco letterario” si contrappone nettamente al pensiero disfattista e pessimista che spoglia Messina di ogni bellezza ed interesse. Per dare al lettore un’idea di cosa si intende per “parco letterario”, basti pensare alla fortuna che la città di Messina può vantare quotidianamente nell’affacciarsi sullo Stretto di Messina: proprio tra i due lembi di Sicilia e Calabria separati da una striscia di mare, l’aedo Omero narrò dei due famigerati mostri Scilla e Cariddi,  famelici divoratori di navi e marinai, tra le cui grinfie passò la ciurma dell’impavido Ulisse. Quello stesso scenario ritorna nei ricordi successivi di un turista Edmondo De Amicis che, nel 1866, scrisse nel suo diario di viaggio della: “La bella Messina, privilegiata d’una delle più favorevoli situazioni geografiche del mondo, dove due mari si congiungono (…)” – tracciando dei messinesi un profilo dettagliato degno di riguardo.

La dolce penna di De Amicis, testimone della precoce ripresa della città dal terribile terremoto che la rase al suolo nel 1783, segue proprio l’apocalittica cronaca del disastro sismico riportata da un altro grande padre della letteratura europea quale Wolfgang Goethe. Di una Messina che non esiste più ci parlano, ancora, le annotazioni del professor Giovanni Pascoli, il quale nel 1898, dal balcone della propria abitazione in Piazza Risorgimento (l’odierna Piazza Don Fano), scrisse della veduta attraverso la finestra di Palazzo Sturiale: “Si vede il forte Gonzaga sui monti…dall’altra finestra il mare, su l’Aspromonte…” , tessendo gli elogi della straordinaria natura geografica di Messina e del suo porto, che definì “il più bel porto del mondo” ; e fu proprio da quella posizione che, qualche decennio prima, il filosofo Friedrich Nietzsche, dalla stiva di una nave proveniente dal continente italiano, scrisse piccoli componimenti noti come “Idilli di Messina”. Benché i poemetti del filosofo non rechino alcun riferimento alla città, il lettore potrà rivivere senz’altro l’animo di Nietzsche recitando i brevi ed eccentrici versi davanti una cortina del porto che, a causa del sisma del 1908, non presenta più i caratteri che il pensatore poté ammirare dal ponte della nave. Allo stesso modo quei ricordi dell’allora elegante porto di Messina sormontato dalla raffinata e monumentale Palazzata, permangono nei diari di altri grandi intellettuali e scrittori che visitarono la nostra città, i quali le riconobbero un carattere cosmopolita del tutto unico rispetto agli altri capoluoghi siciliani, prerogativa che non intaccò mai lo stereotipo del messinese generoso, polemico e chiacchierone, tipicamente siciliano.

L’elevata considerazione di Messina da parte dei grandi intellettuali ed artisti della nostra storia, è dimostrata dalle cronache che ricordano un Richard Wagner e signora passeggiare frequentemente presso la piazza del Teatro Vittorio Emanuele; sempre a Messina,  in una non specificata chiesa a metà degli anni ’70 del 1800, si celebrò il matrimonio tra il grande poeta catanese Mario Rapisardi e la giovane Giselda Fojanesi, unione che causò, successivamente, l’attrito tra il Rapisardi ed il più giovane Giovanni Verga, instancabile dongiovanni e corteggiatore della Fojanesi.

Ben più importante valore hanno, di certo, le numerose dediche che vari intellettuali ed artisti rivolsero alla città all’indomani del terribile sisma del 1908: tra questi vanno ricordati Hermann Hesse, Ruggero Leoncavallo, il succitato Pascoli, Salvatore Quasimodo, Gabriele D’Annunzio e tanti altri monumenti della cultura che ebbero a cuore la nostra città e dei quali la nostra rubrica approfondirà emozioni, sentimenti e ricordi tangibili dai loro lasciti letterari.

Saranno proprio queste memorie a cui la rubrica porrà attenzione, ripercorrendo meno i funerei elogi della città distrutta, quanto più soffermandosi sul ricordo felice dei luoghi tutt’ora esistenti di Messina che testimoniano, silenti, i passi, le parole, i versi e le prose custodi di un passato ormai perduto ma che, nonostante ciò, ci appartiene come eredità identitaria del vero messinese, attraverso la testimonianza e le parole degli illustri.

Francesco Tamburello 

Nietzsche a Messina: un viaggio “alla fine del mondo”

Era il 31 marzo del 1882: una mattina come tante al porto di Messina, allora florido e importante approdo commerciale, a cui continuamente facevano scalo navi mercantili da tutta Italia e dal mondo. E, molto probabilmente, nessuno sapeva che quel mercantile appena arrivato da Genova trasportava con se un ospite davvero speciale. Proprio quella mattina, infatti, viene portato a terra in barella, stanco, provato da una notte insonne, dal mal di mare e dai dolorosi attacchi di emicrania di cui soffre ormai da diversi anni, uno dei personaggi più importanti e controversi della cultura europea e occidentale: Friedrich Wilhelm Nietzsche. 

Il soggiorno messinese del grande filosofo tedesco è una delle tappe forse meno conosciute della sua biografia: un po’ per la sua brevissima durata ( poco meno di un mese), e un po’ perché è scarsa la documentazione riguardante le ragioni della sua permanenza in Sicilia; tutto ciò che si sa a riguardo proviene dalla sua ricca corrispondenza privata con parenti ed amici, mentre pare che di questo viaggio temporaneo del grande pensatore, che pure all’epoca godeva già di una certa notorietà negli ambienti colti dell’epoca, non sia trapelato niente di pubblico. 

Facciamo un po’ di storia: in quel periodo, Nietzsche ha 38 anni ed ha già lasciato da alcuni anni l’insegnamento di Lingua e Letteratura greca all’Università di Basilea, per ritirarsi a vita privata nel famoso “rifugio” di Sils Maria, in Engadina. Le precarie condizioni di salute non gli consentono più di adempiere ai suoi doveri didattici: soffre infatti di violente emicranie con aura,  che oggi sappiamo essere probabilmente nient’altro che la fase prodromica di quella devastante malattia neurologica su base genetica (l’arteriopatia cerebrale ereditaria nota oggi con l’acronimo di CADASIL) che aveva già ucciso suo padre e che, di lì a qualche anno, lo porterà allo scompenso psicotico (il celebre “crollo mentale” di Torino del 1889, a seguito del quale scriverà i famosi “biglietti della follia”) e, successivamente, alla morte.

Un Nietzsche fisicamente fragile, quindi, ma intellettualmente in fermento: sono gli anni della sua piena maturazione dal periodo “wagneriano” del suo pensiero agli sviluppi nichilisti che lo renderanno, negli anni, così importante e rivoluzionario per la storia della filosofia occidentale.  Sono anni di intensa attività filosofica, punteggiati qua e là da frequenti viaggi, alcuni dei quali a scopo di cura termale, nelle vicine mete del Nord Italia (Venezia, Torino, Genova e la Liguria) e del sud della Francia. Ed è in questo contesto che si inquadra il viaggio a Messina, successivo, o forse addirittura contemporaneo, alla stesura dei suoi “Idilli di Messina”, la raccolta di poesie successiva alla sua celebre opera filosofica, “La gaia scienza”

Perché proprio Messina? Le certezze sono poche, ma le ipotesi, come al solito, si sprecano. Forse quel grande intellettuale, appassionato lettore di Goethe, era rimasto suggestionato dalla sua pittoresca descrizione della Sicilia nel suo “Viaggio in Italia” (non era forse Goethe a scrivere che “l’Italia, senza la Sicilia, non lascia nello spirito immagine alcuna?”). O forse intendeva incontrare il vecchio amico e compositore Richard Wagner, l’idolo della sua giovinezza filosofica, con cui da tempo aveva interrotto i rapporti, e che in quel periodo si trovava a Palermo e avrebbe in seguito raggiunto Messina, l’11 di Aprile del 1882. Non sono del tutto chiaro i motivi della partenza, ma quel che è certo è che per Nietzsche si trattava di una esperienza esaltante: all’amico e discepolo, il compositore Heinrich Koeselitz, quel “Peter Gast” che diventerà anche, dopo la sua morte, uno dei principali revisori della sua opera omnia assieme alla sorella, Nietzsche scrive: “Alla fine del mese, vado alla fine del mondo”.

A Messina Nietzsche, che pernotta nei primi tempi in un ostello vicino al Duomo, sembra trovarsi molto bene e provare persino un effimero giovamento dalle sue condizioni di salute. Dalle lettere alla famiglia e agli amici, si evince tutta la sua meraviglia riguardo la bellezza dei luoghi e l’ospitalità dei messinesi, insieme alle sue intenzioni di prolungare la permanenza fino all’estate, o anche oltre. Non si sa nulla di come impiegasse il suo tempo nell’Isola: è probabile che abbia girato a fondo la città e i dintorni, e  forse visitò anche Taormina, la città in cui Goethe partorì una delle opere che gli erano più care, il poema drammatico “Nausicaa”.

Nemmeno è noto se alla fine sia riuscito a incontrare Wagner; è verosimile infatti che l’eccelso musicista non sapesse nulla della sua presenza a Messina, mentre al contrario, la breve visita del compositore tedesco alla città dello Stretto ebbe una notevole e calorosa accoglienza da parte della stampa e del pubblico. Quel che è certo, invece, è la data della sua partenza: il 23 di Aprile del 1882, vinto dal caldo e dallo scirocco, che evidentemente non era abituato a sopportare, Nietzsche rientra da Messina per ricongiungersi, a Roma, con l’amico Paul Rée. 

Così finisce il breve viaggio “alla fine del mondo” di uno dei pilastri della storia del pensiero nella Sicilia del mito, della bellezza classica, del Mediterraneo; il suo viaggio nella calda e bella Messina della fine dell’800, del suo crepuscolo dorato prima della rovina, è forse una tappa insignificante di una delle tante peregrinazioni della sua travagliata vita; ma chissà se, come alcuni studiosi ipotizzano, alcune delle opere di questo colosso della filosofia, come “Così parlò Zarathustra” non abbiano visto la luce, o perlomeno il primo concepimento, proprio qui, sulle assolate rive dello Stretto… 

Gianpaolo Basile

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Làscaris e la rinascita italiana del greco.

Quest’articolo per la rubrica Personaggi, sarà dedicato a Costantino Làscaris, colui che si fece promotore della rinascita dello studio della lingua greca in Italia.

Costantino Lascaris, filologo e umanista bizantino, nacque a Costantinopoli tra il 14 giugno 1433-1434. Avviato agli studi letterari, frequentò le lezioni del maestro Giovanni Argiropulo. Il suo arrivo in Europa è legato a delle precise circostanze storiche: quando i Turchi presero Costantinopoli, il 29 maggio 1453, venne fatto prigioniero; riuscito a fuggire, diede inizio ad una lunga peregrinazione in Grecia passando per la città di Fere e le isole di Rodi e Creta.

Tra il 15 novembre e il 14 dicembre 1458 si stabilì a Milano e vi restò fino al 1465 ricoprendo la carica di insegnante di greco per la figlia di Francesco I Sforza, Ippolita.

Successivamente, Lascaris visse in varie città, sempre insegnando greco, probabilmente a Ferrara, sicuramente a Firenze e a Napoli, dove il re Ferdinando I d’Aragona lo nominò professore di retorica; continuò la sua attività di docente fino al giugno 1466. E’ possibile ipotizzare che tra le ragioni del suo trasferimento a Napoli vi fosse l’intenzione di rimanere al seguito di Ippolita Sforza, sua alunna che aveva sposato il duca di Calabria, Alfonso d’Aragona. Proprio a quest’ultimo dedicò le sue 35 biografie di filosofi calabresi, raccolte nelle Vitae illustrium philosophorum Siculorum et Calabrorum. Anche in questo caso non si conoscono le ragioni dell’improvvisa partenza da Napoli e dello scontento nei riguardi della città, comunque la sua presenza a Napoli segnò un risveglio e uno sviluppo notevole degli studi greci nella città.

Con l’intenzione di tornare in Grecia e di abbandonare definitivamente l’Italia, si recò nel 1466 a Messina, e grazie alle insistenze di Ludovico Saccano, si trattenne nella città peloritana. Messina era l’ultima città in Sicilia dove era ancora attivo l’insegnamento del greco, per via della presenza del monastero basiliano del Ss.mo Salvatore in lingua Phari; è lì che l’insegnamento fu affidato a Lascaris nel 1467.

I primi anni a Messina non furono facili, ma lentamente l’umanista si inserì nella vita locale e finì per restare a Messina fino alla sua morte. Non si spostò mai da Messina, se si eccettuano due viaggi a Napoli, nel 1477-78 e nel 1481.

La subita emarginazione dai grandi circuiti culturali umanistici, gli consentì di dedicarsi all’attività filologica e soprattutto sfruttare per le sue ricerche la miriade di codici greci rappresentata dalle raccolte librarie pubbliche e private dell’Italia meridionale e da manoscritti.

La sua fama è legata al ritrovamento della Gigantomachia, opera greca del poeta latino Claudiano. Lascaris ne rintracciò e ne copiò 77 versi, inframmezzati da una lacuna di 68 versi, che si ripromise di colmare grazie al ritrovamento del frammento dell’opera in alcuni manoscritti a lui donati.

La fama di Lascaris come insegnante si estese in tutta la Sicilia. In ringraziamento degli onori concessigli, donò la sua biblioteca al Senato e al popolo messinesi intorno al 1494. Il prestigio della sua scuola si diffuse per tutta la penisola e nel 1488 Ludovico il Moro lo invitò a tornare a Milano per insegnare. Molti giovani si recarono a Messina per seguire le sue lezioni, di cui si ricordano il piacentino Giorgio Valla e il grande poeta e letterato rinascimentale Pietro Bembo.

Nell’agosto 1501 Lascaris contrasse la peste per morire poco dopo, ed essere seppellito nella chiesa carmelitana di Messina.

I codici donati dal Lascaris rimasero nella cattedrale di Messina per quasi due secoli, per essere poi trasferiti a Palermo ed ancora a Madrid a seguito della rivolta antispagnola di Messina. La raccolta, denominata Fondo Uceda, contiene 99 codici, dei quali più di ottanta copiati dal Lascaris ed è attualmente conservata presso la Biblioteca Nacional de España.

Costantino Lascaris fu produttivo copista, come risulta dai molti suoi manoscritti autografi, e appassionato bibliofilo. Un problema a lui molto caro fu la mancanza di copisti esperti: all’epoca in cui Lascaris lavorava, la maggior parte dei copisti non conosceva il greco e si limitava a ricopiare alla cieca i caratteri che leggeva sugli antichi manoscritti, accompagnandoli con la dicitura latina “grecum est; non legitur” (è greco, non si capisce). Solo grazie al prezioso contributo di Lascaris e di diversi altri umanisti di origine greca, la lingua greca antica riuscì ad acquisire il ruolo di spessore nella formazione classica che tutt’oggi conserva. 

La sua opera maggiore è la Grammatica greca, iniziata al tempo del suo soggiorno milanese. La prima edizione è di Milano, 30 gennaio 1476: è il primo libro impresso a stampa in caratteri greci, a parte la prefazione in latino. Conteneva soltanto una prima versione breve dell’opera, la cosiddetta Epitome.

L’opera, grammatica di base per l’apprendimento della lingua greca, ebbe lunga gestazione e perfezionamenti. Divisa in tre libri, l’opera ebbe numerose edizioni tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento.

Nei secoli XV e XVI il manuale servì da modello alle grammatiche greche. Testimonianza non comune della sua fama è nell’Utopia di Thomas More, dove è elencata insieme con i grandi classici che Raffaele Itlodeo porta agli abitanti di Utopia affinché apprendano il greco.

Poco prima di morire, Lascaris vide uscire una delle sue poche opere a stampa, le citate Vitae illustrium philosophorum Siculorum et Calabrorum, che fu stampata proprio a Messina. L’opera comprendeva 66 biografie di filosofi siciliani e 35 di filosofi calabresi: il significato profondo dell’opera era il tentativo di recupero di una grande tradizione culturale che si andava spegnendo nell’incuria e nell’abbandono.

Erika Santoddì

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Shakespeare era davvero messinese? Molto rumore… per nulla

William Shakespeare

Dietro le absidi del Duomo, in largo San Giacomo, una epigrafe riporta alcuni versi di una commedia di uno dei più importanti drammaturghi della letteratura inglese e internazionale: William Shakespeare. La commedia, “Molto rumore per nulla”, ha una trama intricata piena di colpi di scena e il tema amoroso la rende forse una delle più fortunate del suo genere; ma soprattutto, ha la caratteristica di essere ambientata proprio a Messina. 

Fino a qui, si dirà, nulla di strano; del resto, sono parecchie le opere del drammaturgo inglese ambientate in Italia. Un particolare, questo, che nel corso degli anni ha stuzzicato la curiosità di parecchi studiosi: alcuni dei quali, pronti a sostenere che il grande drammaturgo non fosse originario del paesino inglese di Stratford upon Avon, come vogliono le biografie più accreditate, ma addirittura italiano. E, fra le tante città “candidate” per aver dato i natali a cotanto poeta e letterato, udite udite, c’è anche Messina.

Shakespeare era messinese, sostiene qualcuno; e la notizia ghiotta non è certo passata inosservata all’opinione pubblica, tanto che diversi anni fa il Comune di Messina arrivò persino a nominare Shakespeare “cittadino onorario”. Ma sarà vero? Su cosa si basano queste teorie?

Andiamo con ordine. Come già detto, le teorie sulle origini messinesi del Bardo si inseriscono nel solco dell’acceso dibattito sulla paternità delle opere di Shakespeare. In sintesi, secondo alcuni ricercatori William Shakespeare, attore e drammaturgo proveniente da una famiglia di artigiani non particolarmente abbienti, dal piccolo paese di Stratford upon Avon, per come ci viene descritto dalle biografie tradizionali, non avrebbe mai potuto avere la cultura sufficiente della quale fa mostra nelle opere che gli sono attribuite. Da qui, tutta una serie di ipotesi sulla sua reale identità: chi dice che il cognome Shake-speare, “Scuoti-lancia”, fosse uno pseudonimo; chi ancora che si trattasse di un prestanome. E, a questo proposito, esiste una sconfinata letteratura che propone un altrettanto sconfinato elenco di personaggi che potrebbero avere scritto le opere a lui attribuite: e fra questi, troviamo anche il nome di un italiano, Giovanni Florio, e del padre di lui, Michelangelo Florio.

Tale Giovanni Florio, o John Florio, fu un importante intellettuale e traduttore di origini italiane, contemporaneo di Shakespeare, e autore di numerose traduzioni in inglese di opere letterarie e filosofiche. Suo padre, Michelangelo, era un esule fiorentino di religione calvinista, costretto a vagare per molti anni in giro per l’Italia e infine a rifugiarsi in Inghilterra, per via delle persecuzioni religiose. Il primo a sollevare l’ipotesi Florio come reale identità di William Shakespeare fu il giornalista Santi Paladino, che nel 1927 in un articolo sull’argomento sostenne che dietro lo pseudonimo di William Shakespeare si celasse Michelangelo Florio. Questi sarebbe stato autore delle opere teatrali durante il suo soggiorno in Inghilterra, e si sarebbe ispirato, per “Molto rumore per nulla”, a una commedia omonima in dialetto siciliano, “Tantu trafficu pi’ nenti”, che Florio avrebbe conosciuto a Messina e il cui testo sarebbe andato perduto. I limiti di questa teoria furono subito evidenti: oltre a non esserci, alla prova dei fatti, nessuna evidenza dirimente a supporto di questa speculazione e neanche dell’esistenza stessa di questa opera, Michelangelo Florio sarebbe nato nel 1515 e le tracce della sua esistenza si perdono intorno al 1565, mentre la nascita di Shakespeare è datata al 1564. Lo stesso Paladino, qualche anno dopo, corresse il tiro e Shakespeare, nella sua nuova ipotesi, divenne non più uno pseudonimo ma un prestanome, attore di Stratford, che avrebbe curato la pubblicazione delle opere di Michelangelo Florio con l’aiuto del figlio Giovanni. 

Qualche decennio dopo, negli anni ’50, l’ipotesi Florio viene ripresa da uno scrittore lombardo, Carlo Villa; Villa riprende la prima tesi di Paladino, quella dello pseudonimo, e aggiunge un dettaglio: Michelangelo Florio avrebbe assunto lo pseudonimo di William Shakespeare traducendo il cognome della madre, Giuditta Crollalanza. Anche stavolta, però, non viene citato nessun documento attendibile a favore di questa tesi.

La teoria delle origini messinesi si innesta su questa stessa falsariga. Proviene dalla penna di Martino Juvara, professore di italiano ispicese in pensione, che nel 2002 diede alle stampe un suo saggio sulle origini siciliane di Shakespeare. La versione di Juvara appare sostanzialmente come un mix vagamente confusionario delle tesi precedenti. Il nome Shakespeare sarebbe lo pseudonimo di Michelangelo Florio; non però il Michelangelo Florio nato a Firenze e padre di John Florio, ma un suo omonimo nato a Messina nel 1564, di origini palermitane, figlio di Giovanni Florio e Guglielmina Crollalanza.

Tale Michelangelo Florio, come il suo omonimo fiorentino, avrebbe dovuto affrontare numerose peregrinazioni perché ricercato dalla Santa Inquisizione per via di idee eretiche; finisce col rifugiarsi in Inghilterra, presso un cugino inglese della madre (Shakespeare), che gli assegna il nome del figlio scomparso prematuramente, cioè, appunto, “William Shakespeare”. Grandi assenti, ancora una volta, le prove documentarie; a supporto della tesi, solo una serie di suggestioni e coincidenze assortite.

Insomma, alla fine dei conti, quella di Shakespeare messinese si rivela essere poco più che una ipotesi romanzesca, una speculazione; o, per dirla con le sue stesse parole, molto rumore… per nulla. 

Gianpaolo Basile

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Messina borghese e opulenta: lusso e Art Nouveau a Villa de Pasquale

Del terremoto del 1908 ci troviamo spesso a parlare, nella nostra rubrica, come di un evento che fu per la storia urbana messinese un tragico spartiacque fra la Messina dei secoli passati, con la sua fisionomia urbana e i suoi monumenti oggi in buona parte perduti, e la Messina post terremoto, la città in cui oggi viviamo, con le sue luci e le sue ombre. Dobbiamo però ricordare che il grande Terremoto non fu la fine di tutto e che, nei primi decenni del secolo scorso, la città intera fu animata da una incredibile ondata di tenacia e orgoglio, che si esprimeva nel desiderio di ricostruire Messina più grande e più bella di prima. Allo sforzo delle autorità cittadine si aggiungeva quello dei privati, della ricca borghesia: la fisionomia della città che conosciamo, con le sue vie squadrate ed i suoi grandi palazzi in stile eclettico, spesso non privi di un loro fascino e di un loro valore artistico, è proprio il frutto di questo grande slancio ricostruttivo.

Dietro ognuno dei grandi palazzi del centro storico possiamo immaginarci le centinaia di storie di borghesi, imprenditori, banchieri, aristocratici che facevano a gara fra loro nel fare sfoggio delle proprie ricchezze e del proprio potere, e al contempo a lasciare il proprio segno nella fisionomia della città in rinascita; spesso con il contributo di architetti blasonati, come il grande Gino Coppedè che a Messina lasciò molte opere pregevoli. È a uno di questi membri di quella borghesia rampante e vitale, l’imprenditore Eugenio De Pasquale, che si deve la costruzione di una delle più significative testimonianze di quel periodo storico: la preziosa quanto sconosciuta Villa De Pasquale.

 

È il 1912 quando Eugenio De Pasquale, imprenditore agrumario, dà inizio ai lavori per la costruzione di una sontuosa residenza privata. Il luogo designato non è però il centro storico, ma la periferia sud della città, quella che all’epoca ne costituiva la zona industriale: a pochi passi dai grandi agrumeti e dalle sue fabbriche, in cui si trasformavano gli agrumi e i fiori di gelsomino in essenze da usare in profumeria, che venivano rivendute in tutta Italia e nel mondo. È lì che la villa si trova ancora: a pochi passi dal torrente Larderia, in zona Contesse, lungo la antica via Consolare Valeria (oggi denominata in quel tratto via Marco Polo), a meno di un chilometro dall’odierno Policlinico Universitario.

 

La grande villa, restaurata e riaperta al pubblico in tempi relativamente recenti (circa un anno fa) dopo anni di decadenza e abbandono, consta di un ampio parco e di un palazzo in stile neorinascimentale, dalle linee architettoniche sobrie ed eleganti. Dietro il caratteristico cancello a forma di ragnatela, un lungo vialetto porta alla residenza padronale, in cima a una scenografica scalinata. L’atmosfera di serena compostezza dettata dalle linee essenziali della costruzione è la stessa che si respira negli interni ampi e luminosi, che conservano ancora il mobilio d’epoca.

Lontano dalle bizzarrie e dalle stravaganze di molto liberty contemporaneo, qui tutto sembra limpido e razionale, a richiamare gli ideali di bellezza neoclassica e rinascimentale che evidentemente dovevano rientrare nei gusti della ricca committenza; statue, mobili, decorazioni, fregi e dipinti, copie fedeli dalle opere dei grandi maestri del Rinascimento e del Manierismo italiano.

 

Poi il pezzo forte, al piano superiore, con la grande galleria resa trionfo di luce dalle ampie finestre che danno sull’esterno. Sul soffitto dello spazioso salone dipinto in verde, le grandi tavole di Salvatore De Pasquale riproducono capolavori di Tiziano Vecellio e Rubens; in lontananza, fuori, si stende l’abitato di Contesse e, sullo sfondo, la Calabria. Possiamo a stento immaginare quanto suggestivo potesse essere stato questo luogo, quando, nei primi decenni del secolo scorso, le case e i palazzi residenziali erano molto di meno, la campagna molta di più, da queste finestre, Eugenio De Pasquale e i suoi familiari potevano affacciarsi e vedere, in lontananza, la spiaggia e le acque dello Stretto.

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco

Museo di Messina: l’Italia è fatta, adesso bisogna fare gli Italiani

Il sabato scorso, dopo mesi e mesi di attesa trepidante, ho finalmente potuto varcare la soglia della sede definitiva del Museo Regionale di Messina, che dalle 20:30 alle 22:30 apriva i suoi battenti gratuitamente al pubblico: la prima apertura completa della struttura museale, a distanza di oltre cento anni dalla sua nascita. Insieme a me una folla notevole (lascio ai contabili del giorno dopo la stima dei numeri, per me erano e resteranno sempre “chio’ssai d’i cani i Brasi”, come si dice a Messina) composta da gente di ogni età, ceto e condizione sociale accorsa da tutta Messina e anche da fuori, anche a seguito della notevole campagna pubblicitaria che questa volta ha coinvolto anche le reti televisive nazionali.

Nel mio personale sentire, il Museo Regionale di Messina, fin dalle prime volte in cui lo visitai da piccolo, è sempre stato un luogo speciale, quasi sacro. Uno scrigno della memoria, come ebbi modo di scrivere in un articolo in occasione della apertura parziale di Dicembre. Un grande tempio laico dedicato a Messina. Mi piace pensare che nessun altro museo al mondo possa vantare una storia simile, anche se forse non è così. La sua storia si intreccia indissolubilmente con quella del Terremoto del 1908: prima era poco più che una pinacoteca comunale sorta dal confluire di collezioni private.

Poi accadde il disastro, e secoli interi della storia e del patrimonio artistico di Messina furono cancellati dalla faccia della Terra. Il moderno Museo Regionale nasce da quelle macerie, dal lavoro paziente di tanti messinesi che si misero a frugare in quelle rovine, a tirarvi fuori tutto ciò che potesse avere un qualche valore storico e artistico, ed ad ammucchiarlo, accatastarlo nella antica sede del convento del SS. Salvatore dei Greci, dove si trovava la filanda Barbera-Mellinghoff, che per tanti anni ne è stata la sede provvisoria. Il loro sogno era che un giorno tutto potesse tornare a vivere, che la antica Messina dei secoli d’oro, la Messina che il terremoto aveva sfregiata, distrutta, annichilita, potesse in parte tornare a esistere. Melior de cinere surgo: come l’araba fenice, anche Messina con la sua storia e la sua cultura sarebbe un giorno risorta dalle sue ceneri.

Ci sono voluti oltre cento anni affinché questo sogno divenisse realtà. Oggi, finalmente, Messina ha il suo Museo Regionale. Un percorso espositivo unico, fra i più estesi del Meridione, in grado di raccontarci secoli di storia: dalla Zancle greca al Medioevo arabo-normanno, dal Quattrocento della Scuola fiamminga e di Antonello fino al Rinascimento, Montorsoli, Calamech, Polidoro Caldara, Alibrandi, allievi di Michelangelo e Raffaello. E poi il seicento, Caravaggio e i caravaggeschi, gli splendori del barocco, gli argenti e i marmi a mischio del Settecento, la lenta decadenza dell’Ottocento. Un viaggio nella storia di Messina dalle origini ai giorni nostri attraverso i suoi capolavori più belli e preziosi. 

Insomma, l’Italia è stata fatta (e finalmente, aggiungerei). Adesso, però, si devono fare gli Italiani. L’apertura completa del Museo Regionale è senza dubbio un traguardo: ma deve essere il primo di una lunga serie. Un Museo così grande e importante come quello che ha appena aperto le sue porte rappresenta una risorsa invalutabile per quello che è e che sarà il turismo culturale nella Città dello Stretto e nei suoi dintorni. Non può né deve permettersi di restare confinato al margine della sua vita sociale; deve, al contrario, rivendicare orgogliosamente il ruolo e la posizione di fulcro, di guida e di punto focale per la rinascita culturale della città. 

Questa nuova apertura pone dunque alla direzione grandi responsabilità, apre nuovi orizzonti e offre nuove sfide. Una ad esempio potrebbe essere quella di porre il Museo, da sempre in una posizione periferica rispetto al centro storico, nel posto che si merita all’interno dei già ridotti circuiti turistici della città. La stagione estiva è alle porte, visitatori e croceristi cominciano timidamente ad affollare le vie del centro; se già adesso è difficile che si spingano oltre il “triangolo magico” incluso fra Piazza Duomo, l’Annunziata dei Catalani e Palazzo Zanca, e forse del Museo Regionale ignorano persino l’esistenza, chi li porterà fino al Torrente Annunziata per vederlo?

Insomma, il lavoro è appena cominciato e servirà un rinnovato impegno, e la formazione di nuove sinergie con il Comune e con gli enti pubblici, affinché il nuovo Museo possa sviluppare in pieno le sue potenzialità benefiche per l’intera città di Messina. A noi visitatori resta la speranza che la recente apertura completa si riveli non un comodo letto di allori su cui sdraiarsi a riposare, ma la prima tappa di un lungo percorso di rinascita: un percorso che abbia come obiettivo finale la riscoperta, agli occhi dei messinesi e del mondo intero, di Messina e della sua bellezza. 

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco