Presentazione volume “Terrore e terrorismo. Saggio storico sulla violenza politica”

Venerdì 1 Marzo 2019, alle ore 15.30 nell’Aula dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti , sarà presentato il libro di Francesco Benigno, “Terrore e terrorismo. Saggio storico sulla violenza politica” (Einaudi, Torino 2018).
Benigno, ordinario di Storia Moderna alla Scuola Normale Superiore di Pisa, nel suo nuovo volume riflette sul significato dell’atto terroristico in diversi momenti della storia: dalla Rivoluzione francese, alle bombe anarchiche, all’attentato a Giovanni Paolo II, fino all’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001.

Da questo excursus storico, il gesto terroristico appare avere una costante nel tempo ossia lo scopo primario di richiamare alla lotta la propria comunità contro un nemico considerato più forte. Solo in seconda battuta l’azione terroristica mira a generare paura nel nemico e nel suo popolo.

Di questi temi l’autore discuterà con tre storici dell’Ateneo messinese: Salvatore Bottari (Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne), Luigi Chiara (Dipartimento di Scienze Politiche e Giuridiche), Giacomo Pace Gravina (Dipartimento di Giurisprudenza). Introdurrà e modererà i lavori Giovanni Moschella, prorettore vicario dell’Università di Messina.
L’iniziativa è promossa dall’Università degli Studi di Messina e dall’Accademia Peloritana dei Pericolanti.

Qui di seguito si allega la locandina dell’evento: locandina_37

Il Palazzo Reale di Messina: una grande storia durata sette secoli

All’incrocio tra la via I Settembre e il Viale San Martino oggi sorge il Palazzo della Dogana, costruito in stile Liberty, nel 1914, su progetto di Giuseppe Lo Cascio.
Vi è da sapere, però, che in quella stessa area in antichità si trovava una delle più maestose regge della Sicilia: il Palazzo Reale, voluto dai Normanni nella seconda metà dell’XI secolo e rimasto una delle principali residenze reali dei re e vicerè di Sicilia fino alla fine del XVIII secolo.

In realtà, molto probabilmente, il Palazzo aveva un’origine ancora più antica: i normanni, infatti, non avrebbero fatto altro che riedificare un preesistente castello arabo, dimora degli emiri durante la dominazione islamica della Sicilia. Ciò si evince da alcune iscrizioni arabo normanne del XII secolo, che verosimilmente ornavano una delle facciate della reggia e che oggi sono conservate al Museo regionale di Messina.
Ad ogni modo, il Palazzo Reale ebbe grande rilievo in epoca normanna: nel 1061, Messina fu la prima città siciliana conquistata da Roberto il Guiscardo e il fratello minore Ruggero (diventato poi il primo Conte di Sicilia). Proprio nella città dello Stretto, i sovrani normanni si stabilirono e cominciarono ad erigere fortificazioni, fra cui appunto la grandiosa reggia che divenne la loro residenza. Solo dopo la morte di Ruggero, sua moglie Adelasia del Vasto, regina madre e reggente, e l’erede al trono Ruggero II si trasferirono a Palermo.

La reggia messinese continuò comunque ad avere la sua importanza: il sovrano spesso tornava a soggiornarvi, essendo la città peloritana la seconda capitale di quello che divenne, nel 1130, il Regno di Sicilia. A cavallo tra il 1190 e il 1191, il Palazzo ospitó anche re Filippo II di Francia : diretto verso la Terra Santa, per combattere la Terza Crociata, le tempeste invernali lo costrinsero infatti a fermarsi a Messina per diversi mesi.

Nel corso dei secoli, la reggia subì diversi rimaneggiamenti. Nel periodo aragonese, più precisamente sotto il dominio di Federico III, fu eseguito un ampliamento.
Successivamente, dal 1565 al 1589 il Palazzo fu riconfigurato in chiave rinascimentale per volere del vicerè Garcia di Toledo e su progetto dell’architetto toscano Andrea Calamech. Mentre in epoca medievale l’edificio aveva probabilmente sei torri, nella ricostruzione attuata da Calamech si presentava poi con quattro torri, quattro logge e quattro saloni grandi.
Sempre in epoca spagnola ulteriori ampliamenti e rinnovamenti furono eseguiti per volere dei vari vicerè di Sicilia.

Nel 1714, cioè un anno dopo che l’isola era stata ceduta dallo spagnolo Filippo V al duca di Savoia Vittorio Amedeo II, il messinese Filippo Juvarra, architetto reale di casa Savoia, elaborò un progetto di ristrutturazione e ampliamento di quella che sarebbe stata la dimora del nuovo sovrano. L‘intenzione era quella di conferire alla reggia lo status e quindi le caratteristiche di una corte europea. Il progetto di Juvarra, tuttavia, non fu eseguito a causa del rientro della corte sabauda a Torino dopo pochi anni.
Da alcuni rilievi fatti sull’edificio per volere di Carlo IV di Borbone, nel 1751, sappiamo come al tempo era strutturato lo stesso e quindi possiamo anche provare ad immaginare come si svolgeva la vita al suo interno. Nei corpi bassi del palazzo si trovavano le rimesse, il carcere, la chiesa e la casa del custode; al piano terra i locali di servizio, ossia la lavanderia, la cucina, la cavallerizza, ecc.); al piano nobile gli uffici (la Segreteria di Stato, la Tesoreria, l’archivio); al terzo piano gli appartamenti reali, una cappella e un salone per le feste da ballo; al quarto livello, infine, gli alloggi per la servitù.

Buona parte di tutto ciò andò distrutta nel terremoto della Calabria meridionale del 1783. Da lì ebbe inizio la parabola decisamente discendente di quella che un tempo fu un’imponente reggia. Ferdinando I delle Due Sicilie nel 1806 decise di spostare la sede del Palazzo Reale presso il Palazzo del Gran Priorato Gerosolimitano dell’Ordine di Malta. Mentre quel che rimaneva del vecchio edificio reale venne ulteriormente danneggiato nel 1848, durante la rivolta antiborbonica. A partire dall’anno dopo, le strutture che avevano resistito furono adibite a magazzini per il porto.
Il resto lo fece il terremoto di Messina del 1908: l’edificio fu raso al suolo, come del resto gran parte della città peloritana. Nel dopo-terremoto, poi, le parti superstiti vennero distrutte completamente per costruire su quella stessa area strategica, a ridosso del mare e del porto, il Palazzo della Dogana.
Oggi del Palazzo Reale non rimane altro che un nome e qualche testimonianza, perlopiù iconografica (raffigurazioni pittoriche, piante e progetti). Per molti, poi, “Palazzo reale” è solo una fermata del tram… Ma noi ci auguriamo che, dopo aver qui ripercorso la sua storia, ad ognuno, passando da quel luogo o anche solo leggendo o pensando a quelle due paroline, torni in mente che lì si è svolta una parte importante della storia siciliana e che da lì sono passati gli uomini che appunto hanno scritto tale storia.

Francesca Giofré

…due donne, Dina e Clarenza, salvarono Messina durante l’assedio angioino?

Avete mai fatto caso alle due statue in bronzo dorato che battono le ore e i quarti nel campanile del Duomo? Alte tre metri, rappresentano due donne: non figure angeliche, come potrebbe sembrare, né personaggi casuali. Si tratta di due donne che hanno a che fare con la storia di Messina e a cui la città è stata tanto grata da renderle immortali, rappresentandole su uno dei suoi monumenti più famosi. I loro nomi sono Dina e Clarenza e per raccontare la loro storia dobbiamo fare un lungo passo indietro, fino al XIII secolo.
Era il 1282: il 30 marzo, lunedì dell’Angelo, scoppiò a Palermo la rivolta contro gli odiati dominatori francesi, gli Angioini. L’insurrezione, passata alla storia con l’espressione “Vespri siciliani”, si propagò ben presto in tutta la Sicilia. Il 28 aprile, anche Messina, che era rimasta l’ultimo baluardo dei francesi, si ribellò al giogo straniero.
Non riuscendo a sedare la rivolta, Carlo I d’Angiò decise di intervenire militarmente. Forte di 200 navi e 75mila uomini, a luglio, prese d’assalto la città dello Stretto, considerata la chiave della Sicilia: caduta questa, era convinto che l’intera isola sarebbe capitolata. Ebbe così inizio lo storico assedio di Messina, durato sino alla fine di settembre, durante il quale la popolazione peloritana mostrò straordinario coraggio nel resistere e combattere contro il feroce nemico.
L’8 agosto, accadde che una parte delle mura, presso il colle della Caperrina, rimase scoperta perché gli uomini di guardia erano andati a mettersi al riparo da un terribile temporale. I francesi ne approfittarono e in poco tempo riuscirono ad oltrepassare le mura. I messinesi, però, immediatamente accorsi, li respinsero e subito dopo ripristinarono le barricate. Quella notte, poi, sulle mura le donne presero il posto degli uomini, stremati.
Due di esse, Dina e Clarenza, erano di guardia proprio presso la Caperrina e quando videro che i francesi si avvicinavano, mirando ad attaccare nuovamente in quel punto, si adoperarono per allertare i concittadini. Al grido di “all’arme”, Dina iniziò a rotolare massi per rallentare l’avanzata dei nemici, mentre Clarenza di corsa raggiunse la torre campanaria del Duomo e suonò le campane a stormo. La popolazione si precipitò sul colle e in poco tempo ricacciò le truppe angioine.
Alle due donne, dunque, venne riconosciuto il merito della salvezza della città.
Due vere e proprie eroine, di cui la storia ci ha tramandato solo i nomi, ma che nel tempo sono state celebrate in versi e canti popolari, oltre che rappresentate, appunto, nel campanile del Duomo e, inoltre, sulla facciata lato nord di Palazzo Zanca in due grandi bassorilievi.

Francesca Giofrè

Il teatro del Mare: il lungomare di Messina e la Palazzata

É difficile descrivere lo spettacolo a cui si assiste quando si raggiunge Messina dal mare. Sicuramente familiare a molti studenti fuori sede (specialmente quelli che vengono dall’altro versante dello Stretto), la vista della baia del Porto con la Madonnina, Cristo Re in alto e il profilo delle coste siciliane a perdita d’occhio accoglie oggi in città le tantissime persone che vi si recano, per i più svariati motivi, dal mare.
Eppure c’è qualcosa che manca, qualcosa che rendeva, ai visitatori di 100 o 200 anni fa, l’arrivo a Messina ancora più suggestivo. Se infatti oggi, girando lo sguardo al lungomare di Messina, si vedono solo grandi palazzoni anonimi (molti dei qual figli della cementificazione selvaggia degli anni ‘70 e ‘80), in passato ad attirare l’attenzione dei visitatori era una ampia e uniforme distesa di palazzi di marmo, che abbracciava a perdita d’occhio l’intera cortina del porto: la Palazzata.

Questo enorme complesso architettonico affonda le sue radici nei secoli d’oro della città di Messina, quando il suo porto era uno dei più grandi e trafficati del Mediterraneo. Si può considerare, come primo nucleo di questa struttura, la Loggia dei Mercanti: un palazzo pubblico destinato ai commercianti, opera di Jacopo del Duca datata 1589, che si trovava all’altezza dell’attuale Municipio, in corrispondenza della via omonima. Accanto al palazzo si trovava una grande porta monumentale, la Porta della Loggia, di fronte a cui era originariamente situata, sul lungomare e con le spalle rivolte allo Stretto, la celebre Fontana del Nettuno di Giovanni Angelo Montorsoli.

Qualche decennio dopo, nel 1622, l’allora viceré Emanuele Filiberto di Savoia diede ordine ad uno dei suoi architetti di fiducia, Simone Gullì, esponente di punta del barocco messinese dell’epoca, di unire in un unico registro stilistico l’intera cortina del porto, attraverso la costruzione di ben 13 edifici con 4 ordini di finestre, intervallati da grandi porte monumentali che mettevano in comunicazione il porto con la città. Il risultato, così come ce lo testimoniano numerosi dipinti d’epoca, era spettacolare: l’intera baia del porto si trovava serrata in un fitto susseguirsi di finestre, archi e porte, che convergevano al centro sulla Loggia dei Mercanti, con la sua Porta e la Fontana di fronte; il tutto unito tanto da potersi considerare un enorme, unico palazzo, con 18 porte e ben 1064 finestre (un numero da Guinness World Record, diremmo oggi!).

Di questa prima Palazzata, purtroppo, nulla è rimasto: seriamente danneggiata dal terremoto del 1783, Goethe, illustre visitatore, la ricorda con parole amare nel suo “Viaggio in Sicilia”, orribilmente scempiata dal sisma.

Fu nel 1803 che si decise per la ricostruzione della Palazzata, stavolta in stile neoclassico, su progetto di Giacomo Minutoli. Il nuovo progetto, ancora più grande e monumentale del precedente, presentava un maestoto prospetto scandito da colonne in ordine gigante. Ebbe purtroppo vita breve; ultimato negli anni successivi, dovette presto confrontarsi con la furia distruttiva del Terremoto del 1908.

Benchè ancora parzialmente recuperabili, i pochi palazzi superstiti furono rasi al suolo a partire dal 1909 in vista di una nuova ricostruzione: il progetto, in stile eclettico-liberty a cura di Luigi Borzì, includeva uno spettacolare colonnato  che avrebbe dovuto chiudere l’attuale piazza del Municipio e un lungo terrazzo percorribile. Purtroppo non fu mai realizzato: per attendere l’inizio dei lavori bisognerà aspettare gli anni ’30 quando, in pieno regime fascista, un nuovo progetto verrà presentato.

É la cosiddetta Palazzata del Samonà, ultimo tentativo di ricostruzione, fedele ai canoni dello stile razionalista. Rimasta incompiuta, passeggiando oggi sul lungomare si può ammirare l’unico palazzo completato: il palazzo dell’INA, con la sua ampia porta sul mare.

Ricordata nelle memorie dei visitatori ed immortalata da innumerevoli dipinti e stampe, la Palazzata, in tempi in cui il porto di Messina contava sul serio ed era la principale fonte di ricchezza della città, rappresentava il biglietto da visita con cui una città fiera, ricca e orgogliosa faceva bella mostra di se agli occhi di chi la raggiungeva dal mare: la sua decadenza attuale rispecchia quindi quella dell’immagine che la Città offre ai suoi visitatori. Non resta che sperare che questa immagine possa tornare ad essere bellissima come è sempre stata, e che una nuova Palazzata possa un domani tornarsi a specchiare nelle acque dello Stretto.

 

Gianpaolo Basile

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  1.  https://it.m.wikipedia.org/wiki/Palazzata_di_Simone_Gullì#/media/File%3AAbraham_Casembroot’s_View_of_Messina_Harbor_with_the_Palazzata%2C_designed_by_Simone_Gullì_in_1623.jpg
  2. https://commons.m.wikimedia.org/wiki/File:Porta_della_Loggia_(Giacomo_del_Duca)1.jpg
  3. https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Louis_François_Cassas%27s_View_of_Messina_Harbor_with_the_Palazzata,_designed_by_Simone_Gullì_in_1623.jpg
  4. https://it.m.wikipedia.org/wiki/Palazzata_di_Giacomo_Minutoli#/media/File%3AMessina%2C_palazzo_del_municipio_e_palazzata_dopo_del_terremoto_del_1908_(1).jpg
  5. https://commons.m.wikimedia.org/wiki/File:Messina_Palazzi1900.jpg#mw-jump-to-license
  6. https://it.m.wikipedia.org/wiki/Palazzata_di_Giuseppe_Samonà#/media/File%3AMessina_Other_Monument_34.jpg

Messina nelle parole di Giovanni Boccaccio

Non ci sono testimonianze scritte del passaggio da Messina di Giovanni Boccaccio, ma le tracce che l’autore lasciò dedicate o riferite alla città dello Stretto, fanno supporre alla fantasia che, almeno una volta nella vita, Boccaccio abbia conosciuto la realtà cittadina messinese.
I lasciti boccacceschi inerenti a Messina sono due, uno meno famoso dell’altro ma, comunque, assolutamente indicativi.
Siamo nella metà del 1300 e Giovanni Boccaccio, toscano di Certaldo, borgo appartenente, oggi, alla provincia di Firenze, era figlio di un mercante, il quale, lo portò con sé sin dalla tenera età, momento, a partire dal quale, il piccolo Giovanni ebbe modo di conoscere quasi tutti i principali porti mercantili italiani.
Queste esperienze gli torneranno utilissime quando, tra gli anni ’40 e ’50 del 1300, l’autore scriverà il Decameron, una raccolta di novelle che costituisce, per la Storia, il primo modello di “romanzo” della borghesia (che all’epoca era una classe nascente seppur non ancora esistente) e rappresenta l’unica opera linguisticamente “poliglotta” (data la presenza di numerosi dialetti diversi).
Tra le tante storie, spicca quella di “Lisabetta da Messina”, ambientata in una città dello Stretto che, all’epoca, era un centro mercantile che riuniva diverse comunità di naviganti-mercanti: in quella Messina si trovavano tutti gli avventurieri e i commercianti figli delle tante Repubbliche Marinare (sarà una costante sino a quasi tutto il 1500, come abbiamo trattato in precedenza, nel caso di Scipione Cigala) e, tra questi, di origine pisana, vi era anche la famiglia di Lisabetta.
La storia è caratterizzata da un amore osteggiato, sofferto e terminato in tragedia (e queste potrebbero essere già le sfumature di una moderna commedia siciliana), con Lisabetta che, in sogno, ritrova l’innamorato scoparso, il quale le rivela di essere stato ucciso dai fratelli di lei che, dopo, lo hanno seppellito in un bosco. La ragazza si reca sul luogo del delitto, riesuma il corpo dell’amato e ne mozza la testa che conserva in un vaso di basilico sul quale piangerà per giorni e giorni. Quando i fratelli scoprono il motivo dello strano comportamento della fanciulla e sradicano la pianta dal vaso, trovando così l’infelice contenuto, lasciano la città per paura di sfuggevoli pettegolezzi.
Di quella Messina, inutile dirlo, non rimane più nessuna testimonianza; sembra, piuttosto, una città diversissima da quella odierna, i cui fervori mercantili e cosmopoliti non animano più il quotidiano messinese e neppure ci son più comunità mercantili straniere che nella città esprimono il proprio benessere e la propria ricchezza con opere monumentali. Una di queste tracce, però, è costituita dalla Chiesa dell’Annunziata  dei Catalani, l’unica testimonianza di una Messina che vantava un ricco ed eterogeneo tessuto cittadino, in cui le varie comunità mercantili, riunitesi in confraternite, esprimevano orgogliosamente i propri simboli attraverso opere e ad architettura.
Altro lascito di Giovanni Boccaccio a Messina è una ricostruzione etimologica “artificiale” sulla toponomastica del termine “Faro di Messina”, che era il termine con il quale all’epoca si designava lo Stretto di Messina.
Come ha ben dimostrato Alessandro De Angelis, Professore presso il nostro Ateneo, Giovanni Boccaccio, in una nota della Commedia di Dante Alighieri, specifica che: “(…) Tra Messina in Cicilia e una punta di Calavria, ch’è di rincontro ad essa, chiamata Capo di Volpe, non guari lontana ad una terra chiamata Catona e a Reggio, è uno stretto di mare pericolosissimo, il quale non ha di largo oltre a tre miglia, chiamato il Fare di Messina. E dicesi “Fare” da “pharos”, che tanto suona in latino quanto “divisione”, perché molti antichi credono che già l’isola di Cicilia fosse congiunta con Italia e poi per tremuoti si separasse il monte chiamato Peloro di Cicilia dal monte Appennino, il quale, è in Italia, e con quella, che era terraferma, si facesse isola”.
Non ci sono prove che questo estratto possa valere come testimonianza di un passaggio di Boccaccio da Messina, ma è più probabile considerare che l’autore, nell’elaborazione di questa etimologia “artificiale”, abbia consultato i trattati scientifici dell’epoca, i quali sostenevano all’unanimità la tesi della separazione della Sicilia dal continente italico in seguito a terremoti avvenuti in epoche arcaiche.
Rimane, tuttavia, un prestigioso lascito da parte di un grande esponente della Letteratura Italiana alla nostra città, la quale non ricorda o non si impegna nel celebrare quelle virtù che il suo grande passato le ha attribuito.

Francesco Tamburello

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… uno dei romanzi più famosi al mondo è stato ideato a Messina?

Immaginate la scena: un giovanotto, di soli 24 anni, mosso forse dal bisogno di avventura, o da una fede militante, si arruola nell’esercito spagnolo che fa capo a Don Giovanni d’Austria per combattere gli Infedeli in quella che sarà conosciuta ai posteri come l’ultima grande guerra santa fra Cristiani e Musulmani: la battaglia di Lepanto.

É il 1571, e Messina é uno dei più importanti porti militari e commerciali del Mediterraneo, interfaccia fondamentale per gli scambi tra Oriente e Occidente. Non stupisce infatti che la flotta della Lega Santa sia partita proprio da lì. Ma la città non offre solo un porto: vi è anche il Grande Ospedale, massiccia struttura di ricovero nata dall’accorpamento di ben 15 ospedali gestiti da altrettante confraternite religiose. È lì, in un maestoso palazzo nuovissimo per l’epoca, situato dove ora c’è il Tribunale, che i reduci del sanguinoso scontro possono trovare soccorso e cura.

Tra questi feriti c’è proprio il nostro giovanotto, che durante la battaglia è stato colpito al braccio sinistro e al petto: rimarrà convalescente a Messina per sei interminabili mesi. Mesi che passerà leggendo, e pensando.

Il giovanotto si chiamava Miguel de Cervantes Saàvedra, ed è proprio durante il lungo soggiorno sulle rive dello Stretto che, probabilmente, ha preso vita il germoglio del suo capolavoro: “El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha”, romanzo considerato il capostipite della letteratura moderna, che consegnerà alla storia l’intramontabile personaggio di Don Chisciotte.

Certo, ci vorranno parecchi anni prima che l’opera veda la luce, nel 1605; di certo il ricordo di Messina deve essere rimasto a lungo nella mente dello scrittore, che rievoca (quasi autobiograficamente) le sue vicissitudini giovanili attraverso il racconto dello schiavo nel capitolo XXIX del primo libro.

La città viene nominata anche in delle opere successive: due delle Novelle Esemplari, edite nel 1613, e la raccolta intitolata Viaggio al Parnaso, del 1614.

Pare quasi di vederlo, un giovane sbarbatello annoiato dal riposo forzato, che passeggia per i giardini del Grande Ospedale e riflette sugli avvenimenti di una battaglia fuori da ogni tempo e da ogni logica; come fuori da ogni tempo e da ogni logica è il personaggio che sta prendendo forma nella sua mente, a due passi dall’assolato Stretto di Messina.

Renata Cuzzola

 

…dietro le origini della nostra Università si cela un primato mondiale?

Il portale dell’antico collegio, nel cortile interno della nuova sede universitaria

Ebbene sì, possiamo vantarcene: la nostra Università detiene un primato storico-culturale a livello mondiale! Fu fondata, infatti, dalla Compagnia di Gesù come primo collegio al mondo aperto esclusivamente ai laici. “Primum ac Prototypum collegium”: così si legge sull’iscrizione in latino posta sopra l’antico portale del collegio, unico elemento rimasto della struttura originaria e ancora oggi visibile nel cortile della sede centrale dell’università, passando da via Venezian. Non si trattava, dunque, solamente del primo istituto di formazione gesuita ma anche di un prototipo, un modello per le innumerevoli strutture che tale ordine religioso avrebbe costruito a seguire in tutto il mondo.

Le origini di quello che può considerarsi il nucleo storico della nostra Università risalgono al 1548. In quell’anno il Senato messinese, appoggiato dal viceré Juan de Vega, diede il suo consenso alla fondazione di un collegio gesuita. Ad interessarsi personalmente e a presentare istanza per la creazione dell’istituto di formazione presso il papa, Paolo III, fu sant’Ignazio di Loyola in persona.

Ignazio di Loyola in un dipinto di Pieter Paul Rubens

Il religioso spagnolo, fondatore nel 1534 della Compagnia di Gesù, si trovava allora in Italia con i suoi; qui si dedicava alle opere di carità e alla predicazione, attività principali del neonato ordine religioso. In Messina, posta tra l’Occidente e l’Oriente, scorse il terreno adatto in cui creare un importante centro culturale e religioso; così, il 16 novembre del 1548, ottenne l’istituzione formale dello Studium attraverso la bolla papale “Copiosus in misericordia Dominus”. Questa prevedeva che a gestire il collegio fosse proprio la Compagnia del Gesù, mentre spettava alla città finanziarne le attività.

Ovviamente ciò portò i gesuiti e le istituzioni locali ad avere non pochi contrasti, che si sarebbero risolti nel 1550 con la divisione dello Studium in due rami: uno laico, con gli insegnamenti di diritto e medicina, retto dal Senato; l’altro gesuitico, con gli insegnamenti di teologia e filosofia, retto dalla Compagnia di Gesù. Quest’ultima poi, nel 1565, verrà addirittura estromessa totalmente dalla gestione dello Studio, il quale aderirà al modello universitario “bolognese”.

Un altro ostacolo, non di poco conto, che la neonata Università messinese si trovò ad affrontare fu l’ostilità del Siciliae Studium Generale di Catania, che, istituito nel 1445, rivendicava solo per sé il diritto di conferire titoli dottorali in Sicilia. Solamente nel 1596, grazie all’intervento del tribunale della Sacra Rota, lo Studium di Messina conferì la sua prima laurea. Nello stesso periodo la città ottenne da Filippo II una cospicua donazione di 200 mila onze, che permise la rifondazione dell’Università.

Da allora ha inizio una storia che, passando tra varie chiusure e successive riaperture dello Studium, collegate alle vicissitudini storiche della città dello Stretto, porta ai nostri giorni ed a quella che è oggi la nostra Università. La quale, diciamolo, ha avuto degli albori tanto originali quanto gloriosi!

Francesca Giofrè

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  1. Giulia Greco
  2. Di Pieter Paul Rubens – Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=6675601

Messina da Leggere: la Città come parco letterario

 

 

In quanto porta della Sicilia, Messina, nei suoi quasi tremila anni di storia, è stata porto per antonomasia di flussi commerciali e culturali.

Poiché l’arte, evolutasi di pari passo con il progresso della società umana, è stata, spesso, ambasciatrice e voce espressiva del patrimonio culturale delle varie etnie succedutesi come dominatrici ed anima della nostra isola, questa rubrica vuole ripercorrere e rivalutare, attraverso l’indagine nel vasto mondo della letteratura, i luoghi della nostra città che quotidianamente appaiono abituali, talvolta anonimi allo sguardo del messinese, ma che, al contrario, proprio dietro il loro silenzio, nascondono una storia narrata dalla penna dei più grandi autori della nostra cultura di tutti i tempi.

Cercheremo, in questo modo, di ripresentare Messina come “parco letterario”, secondo l’idea che fu di Stanislao Nievo, il quale nel 1992, forgiò questo termine per indicare tutti quei luoghi che hanno ispirato un autore nella produzione di opere letterarie.

Il concetto di “parco letterario” si contrappone nettamente al pensiero disfattista e pessimista che spoglia Messina di ogni bellezza ed interesse. Per dare al lettore un’idea di cosa si intende per “parco letterario”, basti pensare alla fortuna che la città di Messina può vantare quotidianamente nell’affacciarsi sullo Stretto di Messina: proprio tra i due lembi di Sicilia e Calabria separati da una striscia di mare, l’aedo Omero narrò dei due famigerati mostri Scilla e Cariddi,  famelici divoratori di navi e marinai, tra le cui grinfie passò la ciurma dell’impavido Ulisse. Quello stesso scenario ritorna nei ricordi successivi di un turista Edmondo De Amicis che, nel 1866, scrisse nel suo diario di viaggio della: “La bella Messina, privilegiata d’una delle più favorevoli situazioni geografiche del mondo, dove due mari si congiungono (…)” – tracciando dei messinesi un profilo dettagliato degno di riguardo.

La dolce penna di De Amicis, testimone della precoce ripresa della città dal terribile terremoto che la rase al suolo nel 1783, segue proprio l’apocalittica cronaca del disastro sismico riportata da un altro grande padre della letteratura europea quale Wolfgang Goethe. Di una Messina che non esiste più ci parlano, ancora, le annotazioni del professor Giovanni Pascoli, il quale nel 1898, dal balcone della propria abitazione in Piazza Risorgimento (l’odierna Piazza Don Fano), scrisse della veduta attraverso la finestra di Palazzo Sturiale: “Si vede il forte Gonzaga sui monti…dall’altra finestra il mare, su l’Aspromonte…” , tessendo gli elogi della straordinaria natura geografica di Messina e del suo porto, che definì “il più bel porto del mondo” ; e fu proprio da quella posizione che, qualche decennio prima, il filosofo Friedrich Nietzsche, dalla stiva di una nave proveniente dal continente italiano, scrisse piccoli componimenti noti come “Idilli di Messina”. Benché i poemetti del filosofo non rechino alcun riferimento alla città, il lettore potrà rivivere senz’altro l’animo di Nietzsche recitando i brevi ed eccentrici versi davanti una cortina del porto che, a causa del sisma del 1908, non presenta più i caratteri che il pensatore poté ammirare dal ponte della nave. Allo stesso modo quei ricordi dell’allora elegante porto di Messina sormontato dalla raffinata e monumentale Palazzata, permangono nei diari di altri grandi intellettuali e scrittori che visitarono la nostra città, i quali le riconobbero un carattere cosmopolita del tutto unico rispetto agli altri capoluoghi siciliani, prerogativa che non intaccò mai lo stereotipo del messinese generoso, polemico e chiacchierone, tipicamente siciliano.

L’elevata considerazione di Messina da parte dei grandi intellettuali ed artisti della nostra storia, è dimostrata dalle cronache che ricordano un Richard Wagner e signora passeggiare frequentemente presso la piazza del Teatro Vittorio Emanuele; sempre a Messina,  in una non specificata chiesa a metà degli anni ’70 del 1800, si celebrò il matrimonio tra il grande poeta catanese Mario Rapisardi e la giovane Giselda Fojanesi, unione che causò, successivamente, l’attrito tra il Rapisardi ed il più giovane Giovanni Verga, instancabile dongiovanni e corteggiatore della Fojanesi.

Ben più importante valore hanno, di certo, le numerose dediche che vari intellettuali ed artisti rivolsero alla città all’indomani del terribile sisma del 1908: tra questi vanno ricordati Hermann Hesse, Ruggero Leoncavallo, il succitato Pascoli, Salvatore Quasimodo, Gabriele D’Annunzio e tanti altri monumenti della cultura che ebbero a cuore la nostra città e dei quali la nostra rubrica approfondirà emozioni, sentimenti e ricordi tangibili dai loro lasciti letterari.

Saranno proprio queste memorie a cui la rubrica porrà attenzione, ripercorrendo meno i funerei elogi della città distrutta, quanto più soffermandosi sul ricordo felice dei luoghi tutt’ora esistenti di Messina che testimoniano, silenti, i passi, le parole, i versi e le prose custodi di un passato ormai perduto ma che, nonostante ciò, ci appartiene come eredità identitaria del vero messinese, attraverso la testimonianza e le parole degli illustri.

Francesco Tamburello 

Nietzsche a Messina: un viaggio “alla fine del mondo”

Era il 31 marzo del 1882: una mattina come tante al porto di Messina, allora florido e importante approdo commerciale, a cui continuamente facevano scalo navi mercantili da tutta Italia e dal mondo. E, molto probabilmente, nessuno sapeva che quel mercantile appena arrivato da Genova trasportava con se un ospite davvero speciale. Proprio quella mattina, infatti, viene portato a terra in barella, stanco, provato da una notte insonne, dal mal di mare e dai dolorosi attacchi di emicrania di cui soffre ormai da diversi anni, uno dei personaggi più importanti e controversi della cultura europea e occidentale: Friedrich Wilhelm Nietzsche. 

Il soggiorno messinese del grande filosofo tedesco è una delle tappe forse meno conosciute della sua biografia: un po’ per la sua brevissima durata ( poco meno di un mese), e un po’ perché è scarsa la documentazione riguardante le ragioni della sua permanenza in Sicilia; tutto ciò che si sa a riguardo proviene dalla sua ricca corrispondenza privata con parenti ed amici, mentre pare che di questo viaggio temporaneo del grande pensatore, che pure all’epoca godeva già di una certa notorietà negli ambienti colti dell’epoca, non sia trapelato niente di pubblico. 

Facciamo un po’ di storia: in quel periodo, Nietzsche ha 38 anni ed ha già lasciato da alcuni anni l’insegnamento di Lingua e Letteratura greca all’Università di Basilea, per ritirarsi a vita privata nel famoso “rifugio” di Sils Maria, in Engadina. Le precarie condizioni di salute non gli consentono più di adempiere ai suoi doveri didattici: soffre infatti di violente emicranie con aura,  che oggi sappiamo essere probabilmente nient’altro che la fase prodromica di quella devastante malattia neurologica su base genetica (l’arteriopatia cerebrale ereditaria nota oggi con l’acronimo di CADASIL) che aveva già ucciso suo padre e che, di lì a qualche anno, lo porterà allo scompenso psicotico (il celebre “crollo mentale” di Torino del 1889, a seguito del quale scriverà i famosi “biglietti della follia”) e, successivamente, alla morte.

Un Nietzsche fisicamente fragile, quindi, ma intellettualmente in fermento: sono gli anni della sua piena maturazione dal periodo “wagneriano” del suo pensiero agli sviluppi nichilisti che lo renderanno, negli anni, così importante e rivoluzionario per la storia della filosofia occidentale.  Sono anni di intensa attività filosofica, punteggiati qua e là da frequenti viaggi, alcuni dei quali a scopo di cura termale, nelle vicine mete del Nord Italia (Venezia, Torino, Genova e la Liguria) e del sud della Francia. Ed è in questo contesto che si inquadra il viaggio a Messina, successivo, o forse addirittura contemporaneo, alla stesura dei suoi “Idilli di Messina”, la raccolta di poesie successiva alla sua celebre opera filosofica, “La gaia scienza”

Perché proprio Messina? Le certezze sono poche, ma le ipotesi, come al solito, si sprecano. Forse quel grande intellettuale, appassionato lettore di Goethe, era rimasto suggestionato dalla sua pittoresca descrizione della Sicilia nel suo “Viaggio in Italia” (non era forse Goethe a scrivere che “l’Italia, senza la Sicilia, non lascia nello spirito immagine alcuna?”). O forse intendeva incontrare il vecchio amico e compositore Richard Wagner, l’idolo della sua giovinezza filosofica, con cui da tempo aveva interrotto i rapporti, e che in quel periodo si trovava a Palermo e avrebbe in seguito raggiunto Messina, l’11 di Aprile del 1882. Non sono del tutto chiaro i motivi della partenza, ma quel che è certo è che per Nietzsche si trattava di una esperienza esaltante: all’amico e discepolo, il compositore Heinrich Koeselitz, quel “Peter Gast” che diventerà anche, dopo la sua morte, uno dei principali revisori della sua opera omnia assieme alla sorella, Nietzsche scrive: “Alla fine del mese, vado alla fine del mondo”.

A Messina Nietzsche, che pernotta nei primi tempi in un ostello vicino al Duomo, sembra trovarsi molto bene e provare persino un effimero giovamento dalle sue condizioni di salute. Dalle lettere alla famiglia e agli amici, si evince tutta la sua meraviglia riguardo la bellezza dei luoghi e l’ospitalità dei messinesi, insieme alle sue intenzioni di prolungare la permanenza fino all’estate, o anche oltre. Non si sa nulla di come impiegasse il suo tempo nell’Isola: è probabile che abbia girato a fondo la città e i dintorni, e  forse visitò anche Taormina, la città in cui Goethe partorì una delle opere che gli erano più care, il poema drammatico “Nausicaa”.

Nemmeno è noto se alla fine sia riuscito a incontrare Wagner; è verosimile infatti che l’eccelso musicista non sapesse nulla della sua presenza a Messina, mentre al contrario, la breve visita del compositore tedesco alla città dello Stretto ebbe una notevole e calorosa accoglienza da parte della stampa e del pubblico. Quel che è certo, invece, è la data della sua partenza: il 23 di Aprile del 1882, vinto dal caldo e dallo scirocco, che evidentemente non era abituato a sopportare, Nietzsche rientra da Messina per ricongiungersi, a Roma, con l’amico Paul Rée. 

Così finisce il breve viaggio “alla fine del mondo” di uno dei pilastri della storia del pensiero nella Sicilia del mito, della bellezza classica, del Mediterraneo; il suo viaggio nella calda e bella Messina della fine dell’800, del suo crepuscolo dorato prima della rovina, è forse una tappa insignificante di una delle tante peregrinazioni della sua travagliata vita; ma chissà se, come alcuni studiosi ipotizzano, alcune delle opere di questo colosso della filosofia, come “Così parlò Zarathustra” non abbiano visto la luce, o perlomeno il primo concepimento, proprio qui, sulle assolate rive dello Stretto… 

Gianpaolo Basile

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Làscaris e la rinascita italiana del greco.

Quest’articolo per la rubrica Personaggi, sarà dedicato a Costantino Làscaris, colui che si fece promotore della rinascita dello studio della lingua greca in Italia.

Costantino Lascaris, filologo e umanista bizantino, nacque a Costantinopoli tra il 14 giugno 1433-1434. Avviato agli studi letterari, frequentò le lezioni del maestro Giovanni Argiropulo. Il suo arrivo in Europa è legato a delle precise circostanze storiche: quando i Turchi presero Costantinopoli, il 29 maggio 1453, venne fatto prigioniero; riuscito a fuggire, diede inizio ad una lunga peregrinazione in Grecia passando per la città di Fere e le isole di Rodi e Creta.

Tra il 15 novembre e il 14 dicembre 1458 si stabilì a Milano e vi restò fino al 1465 ricoprendo la carica di insegnante di greco per la figlia di Francesco I Sforza, Ippolita.

Successivamente, Lascaris visse in varie città, sempre insegnando greco, probabilmente a Ferrara, sicuramente a Firenze e a Napoli, dove il re Ferdinando I d’Aragona lo nominò professore di retorica; continuò la sua attività di docente fino al giugno 1466. E’ possibile ipotizzare che tra le ragioni del suo trasferimento a Napoli vi fosse l’intenzione di rimanere al seguito di Ippolita Sforza, sua alunna che aveva sposato il duca di Calabria, Alfonso d’Aragona. Proprio a quest’ultimo dedicò le sue 35 biografie di filosofi calabresi, raccolte nelle Vitae illustrium philosophorum Siculorum et Calabrorum. Anche in questo caso non si conoscono le ragioni dell’improvvisa partenza da Napoli e dello scontento nei riguardi della città, comunque la sua presenza a Napoli segnò un risveglio e uno sviluppo notevole degli studi greci nella città.

Con l’intenzione di tornare in Grecia e di abbandonare definitivamente l’Italia, si recò nel 1466 a Messina, e grazie alle insistenze di Ludovico Saccano, si trattenne nella città peloritana. Messina era l’ultima città in Sicilia dove era ancora attivo l’insegnamento del greco, per via della presenza del monastero basiliano del Ss.mo Salvatore in lingua Phari; è lì che l’insegnamento fu affidato a Lascaris nel 1467.

I primi anni a Messina non furono facili, ma lentamente l’umanista si inserì nella vita locale e finì per restare a Messina fino alla sua morte. Non si spostò mai da Messina, se si eccettuano due viaggi a Napoli, nel 1477-78 e nel 1481.

La subita emarginazione dai grandi circuiti culturali umanistici, gli consentì di dedicarsi all’attività filologica e soprattutto sfruttare per le sue ricerche la miriade di codici greci rappresentata dalle raccolte librarie pubbliche e private dell’Italia meridionale e da manoscritti.

La sua fama è legata al ritrovamento della Gigantomachia, opera greca del poeta latino Claudiano. Lascaris ne rintracciò e ne copiò 77 versi, inframmezzati da una lacuna di 68 versi, che si ripromise di colmare grazie al ritrovamento del frammento dell’opera in alcuni manoscritti a lui donati.

La fama di Lascaris come insegnante si estese in tutta la Sicilia. In ringraziamento degli onori concessigli, donò la sua biblioteca al Senato e al popolo messinesi intorno al 1494. Il prestigio della sua scuola si diffuse per tutta la penisola e nel 1488 Ludovico il Moro lo invitò a tornare a Milano per insegnare. Molti giovani si recarono a Messina per seguire le sue lezioni, di cui si ricordano il piacentino Giorgio Valla e il grande poeta e letterato rinascimentale Pietro Bembo.

Nell’agosto 1501 Lascaris contrasse la peste per morire poco dopo, ed essere seppellito nella chiesa carmelitana di Messina.

I codici donati dal Lascaris rimasero nella cattedrale di Messina per quasi due secoli, per essere poi trasferiti a Palermo ed ancora a Madrid a seguito della rivolta antispagnola di Messina. La raccolta, denominata Fondo Uceda, contiene 99 codici, dei quali più di ottanta copiati dal Lascaris ed è attualmente conservata presso la Biblioteca Nacional de España.

Costantino Lascaris fu produttivo copista, come risulta dai molti suoi manoscritti autografi, e appassionato bibliofilo. Un problema a lui molto caro fu la mancanza di copisti esperti: all’epoca in cui Lascaris lavorava, la maggior parte dei copisti non conosceva il greco e si limitava a ricopiare alla cieca i caratteri che leggeva sugli antichi manoscritti, accompagnandoli con la dicitura latina “grecum est; non legitur” (è greco, non si capisce). Solo grazie al prezioso contributo di Lascaris e di diversi altri umanisti di origine greca, la lingua greca antica riuscì ad acquisire il ruolo di spessore nella formazione classica che tutt’oggi conserva. 

La sua opera maggiore è la Grammatica greca, iniziata al tempo del suo soggiorno milanese. La prima edizione è di Milano, 30 gennaio 1476: è il primo libro impresso a stampa in caratteri greci, a parte la prefazione in latino. Conteneva soltanto una prima versione breve dell’opera, la cosiddetta Epitome.

L’opera, grammatica di base per l’apprendimento della lingua greca, ebbe lunga gestazione e perfezionamenti. Divisa in tre libri, l’opera ebbe numerose edizioni tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento.

Nei secoli XV e XVI il manuale servì da modello alle grammatiche greche. Testimonianza non comune della sua fama è nell’Utopia di Thomas More, dove è elencata insieme con i grandi classici che Raffaele Itlodeo porta agli abitanti di Utopia affinché apprendano il greco.

Poco prima di morire, Lascaris vide uscire una delle sue poche opere a stampa, le citate Vitae illustrium philosophorum Siculorum et Calabrorum, che fu stampata proprio a Messina. L’opera comprendeva 66 biografie di filosofi siciliani e 35 di filosofi calabresi: il significato profondo dell’opera era il tentativo di recupero di una grande tradizione culturale che si andava spegnendo nell’incuria e nell’abbandono.

Erika Santoddì

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