Stereotipi di genere e media

I mezzi di comunicazione di massa giocano un ruolo fondamentale nella produzione e diffusione degli stereotipi.

Ma cosa sono gli stereotipi?

Per la psicologia sociale, uno stereotipo corrisponde a una credenza­­­­­ o a un insieme di credenze in base a cui un gruppo di individui attribuisce determinate caratteristiche a un altro gruppo di persone.

Lo stereotipo è la base su cui si sviluppa il pregiudizio.

Essi fanno parte della cultura di una comunità. Vengono acquisiti dai singoli e utilizzati per comprendere ciò che ci circonda.

Si tratta di costruzioni sociali della cultura, appresa tramite i processi di socializzazione — dall’educazione familiare a quella scolastica — che l’individuo “indossa” come disposizione naturale, rispecchiando una specifica società con le proprie condizioni storico-sociali.

Gli stereotipi vengono diffusi proprio mediante la società stessa che, talvolta in modo inconsapevole e talvolta consapevolmente, trasmette una certa immagine di alcuni concetti.

Ogni individuo ha una propria visione del mondo, basata su ciò che osserva e ascolta, le esperienze vissute, oltre che dalle intuizioni e credenze personali. Le identità di ciascuna persona sono elaborate anche attraverso i prodotti culturali, come la lettura di libri e giornali, la visione di un film, un documentario, uno spettacolo. Anche lo sport, le arti performative o le pubblicità possono essere considerati prodotti culturali.

In particolare, gli stereotipi di genere, vale a dire “idee preconcette secondo cui a maschi e femmine sono attribuite caratteristiche e ruoli determinati e limitati dal genere loro assegnato in base al sesso”, si manifestano in molteplici forme e, diffondendosi, influenzano profondamente la percezione della realtà.

È proprio attraverso la comunicazione interculturale e crossmediale che veicolano gli stereotipi.

 

Stereotipi di genere
Stereotipi di genere. (fonte: www.cristinabuonaugurio.it)

Stereotipi nei film e nelle serie tv

Un esempio evidente di stereotipi di genere si ritrova spesso nelle serie televisive e nei film. In molte commedie romantiche, ad esempio, la donna viene rappresentata come fragile, emotiva e in attesa dell’uomo “giusto” che la completi, mentre l’uomo appare forte, razionale e poco incline a mostrare sentimenti.

Serie come Friends o How I Met Your Mother, pur essendo amate dal pubblico, mostrano personaggi femminili spesso associati all’aspetto fisico o alla ricerca dell’amore, e personaggi maschili legati al successo, al lavoro e alla conquista. Anche nei film d’azione o in quelli di supereroi, come in James Bond o The Avengers, si osserva lo stesso schema: uomini protagonisti e donne in ruoli secondari, spesso ridotte a interesse romantico o a figura da salvare.

Wonder Woman
Wonder Woman. (fonte: www.leganerd.com)

Solo negli ultimi anni si è iniziato a proporre modelli femminili più complessi, indipendenti e autorevoli. Ad esempio, personaggi come Wonder Woman o Meredith Grey di Grey’s Anatomy, capaci di scardinare le rappresentazioni tradizionali.

Allo stesso modo, anche gli uomini che mostrano sensibilità o vulnerabilità vengono talvolta rappresentati come deboli o “diversi”. Questo dimostra quanto profondamente radicati siano gli stereotipi che collegano la mascolinità alla forza e al controllo delle emozioni.

 

Diffusione e riconoscimento degli stereotipi

Gli stereotipi hanno la capacità di orientare e alterare la valutazione dei dati che arrivano dalla società.

La forza attribuita agli stereotipi può essere valutata attraverso l’analisi del grado di condivisione sociale, ossia quanto un’immagine positiva o negativa sia diffusa e condivisa in relazione a una specifica cultura o società. Maggiore è la diffusione all’interno dei gruppi sociali, più uniformi diventano le manifestazioni di ostilità verso specifiche minoranze, e più aumenta la rigidità e la resistenza al cambiamento degli stereotipi.

Riconoscere l’esistenza degli stereotipi di genere è il primo passo per poterli superare. È importante sviluppare uno sguardo critico nei confronti dei messaggi che riceviamo ogni giorno dai media, dalla pubblicità e persino dal linguaggio comune. Solo attraverso l’educazione, la consapevolezza e il confronto possiamo contribuire a costruire una società più equa, in cui le differenze non diventino barriere ma ricchezze.

Superare gli stereotipi significa restituire libertà alle persone, permettendo a ciascuno di esprimere la propria identità senza essere intrappolato in ruoli imposti o preconcetti sociali.

 

Fonti:

https://eige.europa.eu/publications-resources/thesaurus/terms/1223?language_content_entity=it

https://www.sapere.it/

https://publires.unicatt.it/it/publications/luso-dello-stereotipo-di-genere-in-pubblicit%C3%A0-9

https://en.wikipedia.org/wiki/Media_and_gender

 

Sabrina Levatino

Tra cura e slancio: costruire consapevolezza sessuale e affettiva

Piangere è da deboli? Amore e possesso sono due facce della stessa medaglia? È giusto fare carriera o occuparsi della famiglia? Se lo chiedono solo le donne o anche gli uomini? La donna è per sua natura legata alla casa mentre l’uomo porta il pane e i pantaloni? Il mito del controllo ha ancora ragion d’essere? Perché il secondo sesso deve nascondere le mestruazioni e il primo le emozioni? Un no può voler dire sì? Le etichette assicurano ordine o si rivelano spazi angusti? È possibile rimanere incinta al primo rapporto? I preservativi servono solo a evitare gravidanze indesiderate? L’educazione sessuale e affettiva chiarisce.

Sessualità e affettività

La sessualità rappresenta un aspetto centrale lungo tutto l’arco della vita. Considerarla come una dimensione immorale e proibita concorre a creare falsi miti, stereotipi e paure. Comprende il sesso, l’identità, i ruoli di genere, l’orientamento sessuale, l’erotismo, il piacere, l’intimità e la riproduzione. Le dimensioni biologiche e riproduttive non sono le sole su cui far luce per comprenderne la complessità. Aspetti psicologici, sociali, culturali, economici, politici e religiosi concorrono a delinearne i confini.
L’affettività indica l’insieme di emozioni, sentimenti e stati d’animo. Identificarli e saper dare loro un nome è un aspetto fondamentale per ciascun essere umano. La conoscenza della propria vita interiore- così come del proprio corpo- rappresenta il primo passo verso la promozione della salute sessuale.

Corpo, emozioni e identità

Tradizionalmente, l’educazione sessuale si è focalizzata su rischi e aspetti preventivi, come gravidanze indesiderate e infezioni sessualmente trasmesse. Pur riconoscendone l’importanza, un approccio che predica l’astinenza e proclama il pericolo non risulta funzionale. Nelle sue linee guida sulla Comprehensive Sexuality Education, l’UNESCO sottolinea la necessità di fornire conoscenze accurate e adeguate all’età sul corpo e le sue potenzialità. Integra aspetti cognitivi, emotivi, fisici e sociali per mettere al centro un’idea positiva legata al benessere e al consenso. Per sviluppare una vita affettiva e sessuale che sia soddisfacente, libera da stereotipi e false credenze. E paure. Per maturare atteggiamenti responsabili e rispettosi. L’educazione diventa così uno strumento per costruire la propria identità, prendersi cura della salute- propria e altrui- e gestire e riconoscere le emozioni.

L’educazione sessuale e affettiva è un diritto. E in quanto tale va rispettato. Eppure, i dati riportati dal Global Education Monitoring Report-GEM (UNESCO, 2023) raccontano un’altra storia. Delle 50 nazioni valutate, solo il 20% dispone di una normativa sull’educazione sessuale. Appena il 39% ha definito una strategia chiara.

Il quadro italiano

La situazione italiana è controversa. Le attività di educazione sessuale e affettiva rientrano nell’ambito dell’autonomia decisionale delle singole istituzioni scolastiche. Nel maggio 2025, il Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, ha presentato un ddl in materia di consenso informato in ambito scolastico. L’intervento deriverebbe dalla necessità di informare le famiglie sulle attività che abbiano ad oggetto tematiche inerenti alla sessualità. Il testo richiama l’articolo 30 della Costituzione, che stabilisce il dovere e diritto dei genitori di istruire ed educare i figli.

Ma che ne è della Convenzione sui diritti dell’infanzia dell’ONU (1989), che tutela il diritto dei minori a ricevere le informazioni necessarie per la propria salute e il proprio benessere? Che ne è del testo Standard per l’Educazione Sessuale in Europa (2010)? E della Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia nel 2013, per il contrasto alla violenza di genere attraverso la sensibilizzazione della collettività? Sembra che le priorità siano altre. Come la lotta alla cosiddetta ideologia gender.

Paura del cambiamento

Mettere in discussione ciò che abbiamo sempre considerato normale fa paura. Un’educazione sessuale olistica scandalizza chi vede qualcosa di diverso e minaccioso per l’immagine che si è costruito di sé. Tuttavia, “c’è sempre possibilità di capire le cose. Le cose che capiamo, non scandalizzano […]. Una credenza che sia stata conquistata con l’uso della ragione e con un esatto esame della realtà è abbastanza elastica da non scandalizzarsi mai. Se è ricevuta senza analisi, accettata per tradizione, pigrizia, educazione passiva, è conformismo.” (Moravia, in Comizi d’Amore, Pasolini 1964)

Perché è necessaria?

Viviamo seguendo i binari tracciati dalla tradizione e dall’educazione a noi impartita. Le rappresentazioni che costruiamo sin dalla prima infanzia circa la sessualità e l’affettività plasmano il rapporto con noi stessi e con l’altro. Tra le fonti cui attingiamo, prima tra tutti è la famiglia. Le modalità relazionali dei genitori offrono un modello concreto, insegnano come funziona – o non funziona – una relazione. Quali sono i ruoli di genere. In che misura esprimere emozioni e bisogni. Quando eludono certe domande, i genitori insegnano qualcosa. Il silenzio può comunicare disagio. Chiarire le curiosità del bambino in maniera adeguata all’età, mostra che la sessualità è un tema naturale. Contribuisce a sviluppare un atteggiamento sano verso il proprio corpo.

 

Barbara Kruger, Untitled (We Dont’t Need Another Hero), 1987. © Barbara Kruger Per gentile concessione della Mary Boone Gallery, New York

 

Inoltre, una nuova fonte ha fatto capolino: internet. I giovani sono esposti a contenuti che contribuiscono a creare immagini distorte e disfunzionali. Possiamo negare di dover fare i conti con questo cambiamento. Ma ne stiamo già pagando le conseguenze. Adescamento online, revenge porn, bodyshaming, incel, chat su Telegram e Facebook. Tutto questo rende l’intervento dei professionisti  indispensabile.

Decostruire norme e stereotipi

Educare significa sovvertire le norme che contribuiscono a perpetuare la violenza. Il problema è strutturale. Urge un rinnovamento radicale che parta proprio delle più giovani generazioni. Come? Attraverso la decostruzione di stereotipi di genere, il rovesciamento delle dinamiche di potere e delle aspettative sociali legate al ruolo. Siamo figli del nostro tempo. Nipoti di un’epoca in cui il delitto d’onore e il matrimonio riparatore erano riconosciuti dalla legge. Solo nel 1996 lo stupro, da reato contro la moralità pubblica, venne riconosciuto come reato contro la persona.

C’è chi crede che i problemi sessuali vadano considerati nella loro giusta misura, cioè di riproduzione ed esaltazione della famiglia. Ma la sfida dell’educazione consiste nel trovare un equilibrio tra cura e slancio. Educare significa da un lato accogliere, contenere, avere cura dell’altro, dall’altro incoraggiare e invitare a venire fuori (Zamengo, 2017). Solo così l’educazione sessuale e affettiva diventa una risorsa.

 

 

Federica Virecci Fana

 

 

 

Fonti:

Save the Children

Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO

Prevenire la violenza di genere: il ruolo dell’educazione sessuale olistica (CSE) come strumento di contrasto, Bovini e Demozzi

R. Caso, Educare alla sessualità e all’affettività nella scuola media. L’esperienza di Giovanna Righini Ricci, insegnante e scrittrice (2017). Pedagogia più Didattica.

Sarà colpa di noi selvaggi coi tatuaggi

Una oziosa serata di una oziosa domenica estiva, forse la prima senza esami. Avrete sicuramente passato la giornata a mare, con la famiglia, con gli amici a fare selfie imbarazzanti e godervi l’estate, oppure siete tra quegli studenti che devono ancora terminare la sessione estiva. 11117013_897372300323510_574339505_n

Che apparteniate all’una o all’altra categoria, dopo aver dipinto una classica domenica stereotipata (guarda un po’, abbiamo già stravolto il senso della rubrica dopo poche righe..) speriamo di alleviarvi la giornata con un nuovo viaggio tra gli stereotipi più discussi: LE PERSONE TATUATE.

Prima di procedere con le nostre antitesi, vi consigliamo di dare un’occhiata alle uscite precedenti:
Le 5 cose che il taglio di capelli NON vuol dire,
5 miti da sfatare sugli aspiranti giornalisti.

Oggi vi presentiamo una lista di ben 8 affermazioni, miti, stereotipi, da sfatare in merito alle persone tatuate.

  • I tatuaggi non rendono i ragazzi dei galeotti. O almeno non sempre. Ce ne ho messo di tempo per spiegarlo a mia mamma: una scritta o un disegno sul mio corpo non mi trasferiranno automaticamente a Gazzi.
    In realtà, abbiamo semplicemente trovato un compromesso: non tatuerò mai sulla mia schiena le tamarrissime ali di Djibril Cissè.

 

  • Le uniche donne che si tatuano sono le prostitute. Perchè, epoche che furono, le donne si tatuavano per far intendere che potevano essere abusate. Si parla degli ultimi anni dell’800. Quando mia madre mi disse se avevo deciso di divenire una battona rimasi rincretinita per qualche secondo: non penso che noi tatuate abbiamo velleità di questo tipo (con, per carità, tutte le eccezioni del caso). Comunque, per bypassare il problema, evitate di tatuarvi frasi tipo ‘‘Sono in Vendita”.

 

  • Non è una perversione di chi prova piacere con il dolore. Oh ma fa male? Da uno a dieci? Da mille a diecimila? Da mignolo contro il mobile a braccio amputato?”. Calmi, non vi angosciate. A meno che non il vostro tatuaggio non sia di un metro, o in zone particolarmente sensibili (o le ali di Cissè..), non vi farà così male. Poi, è chiaro che il dolore sia soggettivo, e non è prevedibile quanto una persona possa soffrirne.
    In caso chiedete ad Elena, non credo abbia la perversione per il dolore.

 

  • Te Ne Pentirai. “Ricordati che devi morire”. Scontatamente tutti noi tatuati ce ne pentiremo. Arriverà, sembra, un giorno della nostra vita in cui ci guarderemo allo specchio e inizieremo a strapparci con un coltello la pelle. Ve lo giuro che siamo tutti in grado di intendere e volere, sappiamo tutti che stiamo andando a fare una cosa indelebile ma, quanto meno, è una cosa bella al contrario della vostra stupidità (anch’essa indelebile). E siamo anche consapevoli del fatto che diventeremo vecchi e rugosi. Cosa faremo? Nulla. Come dice il mio tatuatore ” noi non abbiamo paura del per sempre”.

 

  • I concorsi pubblici. Questa, invece, l’ho dovuta spiegare a mio papà, partendo da un presupposto importante: NON FARO’ MAI CONCORSI PUBBLICI IN VITA MIA. A furia di ripeterlo, mi è sembrato che si fosse convinto anche lui. Sì, poi in realtà ho anche usato la mia spavalderia e il mio orgoglio di cartone, riferite alla potenziale mancata tolleranza di un ipotetico datore di lavoro: “Intanto voglio essere il datore di lavoro di me stesso, e poi non accetterei mai lavoro da chi mi giudica per una scritta sul corpo”, o magari due, tre, un dragone, le ali di Cissè. tattooed-elderly-people-cover-526x268

 

 

 

  • Ma quindi non sei una persona seria. Ah, che belli gli stereotipi. Etichettati tutti come pochi di buono per dei disegni. A me , durante questi 5 lunghi anni di Medicina, non so quante volte è stato ribadito che non posso fare il medico. E così, non si può fare l’avvocato, il notaio, il politico (fossero i tatuaggi il problema). Posso parlare a nome di tutti i tatuati quando dico che gli unici aghi che utilizziamo sono per colorarci e non per drogarci.

 

  • Il significato. Quasi tutti i tatuaggi hanno un significato. Non tutti i tatuati vogliono rivelare il significato del proprio.
    E sfatiamo questo mito: se non voglio rivelartene il significato non è correlato alla mia ex: i tatuaggi, spesso, sono una cosa intima. Lo sono e devono restarlo.
    Anche se spesso mi chiedo il significato delle ali di Cissè.

 

  • Il numero dispari è solo una scusa. La leggenda vuole che il marinaio che partiva per la prima volta, si tatuasse nel porto di partenza, poi una seconda volta nel porto di destinazione e, infine, una terza volta fatto ritorno di nuovo a casa. E la storia si ripeteva per i viaggi successivi. Il marinaio, quindi, si trovava nella situazione di avere un numero pari di tatuaggi solo quando era giunto nel porto di destinazione, cioè nel punto più lontano da casa, quando la nostalgia della propria terra si faceva sentire di più. Una volta tornato a casa quella situazione veniva immediatamente cancellata con un nuovo tatuaggio, che riequilibrava, ecco perchè il numero dispari.

Quindi la prossima volta che penserete che i tatuaggi dispari sono solo una scusa, ricordatevi che noi che utilizziamo la nostra pelle come una tela abbiamo dentro un lungo percorso interiore, ci sentiamo un po’ come i marinai. Poi, se voi andaste per mare e non tornaste più non sarebbe malaccio.

Un abbraccio.

Elena Anna Andronico

Alessio Micalizzi

Abbatti lo Stereotipo: la nuova rubrica di UniVersoMe

6gc3d1Il nostro ruolo non è quello di essere per o contro; è di girare la penna nella piaga.

 

Questa ve la devo raccontare.

Era una graziosa mattina di maggio quando mi sono trovata catapultata in una città nordica. Beh, in realtà ci sono andata per cambiare aria prima della reclusione da sessione estiva. Adoro il nord e l’Europa, sapete perché? Perché non vengo reputata una persona “strana”. Alternativa magari, o, semplicemente, una banana di niente, considerando che ognuno si fa i fatti suoi.

E quindi, durante questa graziosa mattina, ho mandato un messaggio vocale al mio amico vegetariano per raccontargli di come ero contenta di essere là e se lui stesse coccolando le sue carote. Perché, giustamente, essendo vegetariano, DEVE (nella mia, forse, mente perversa) coccolare le sue carote.

Così è cominciato tutto, così è nata l’idea di ‘’Abbatti lo Stereotipo’’. Due stereotipi viventi che si dicevano frasi stereotipate. Si è accesa la lampadina: siamo degli pseudo scrittori in un contesto un tantinello medioevale, quindi perché non cercare di abbattere tutti gli stereotipi dai quali siamo circondati? Cambiamo il mondo. Ok, magari non esattamente IL MONDO, ma mettiamo le cose in chiaro, strappiamo queste inutili etichette.

Via, bando alle ciance, cominciamo.

Il primo stereotipo che voglio abbattere con l’inaugurazione di questa rubrica è quello secondo cui il taglio di capelli esplica per forza chi sei o chi non sei nella vita. Il taglio di capelli, il colore o l’acconciatura possono dare un input sul mio stile, ma niente di più. I punkabbestia hanno i capelli alti e con il gel fino al soffitto, gli emo il ciuffo davanti, le barbie la paglia bruciata. Sono stili, mode, correnti che vogliono un determinato modo di vestire, di fare.

E quindi, ecco le 5 cose che i capelli NON vogliono dire:

1-    Se sono un uomo ed ho i dreadlock posso essere o non essere un raggea. Questo non implica per forza che io sia un drogato o che io non sia una persona capace di intendere e volere. Magari sono un drogato, ma potrei anche essere laureato per quanto vi riguarda. Stessa cosa per le donne: non sono per forza un’eroinomane. E non sono una persona sporca, giuro. I dreads si lavano, semplicemente si usano shampoo che non siano schiumogeni. Un ragazzo italiano in erasmus a Madrid, signori a MADRID, non è stato fatto entrare in discoteca perché reputato PERICOLOSO solo per i suoi dreads.

 

2-    Se sono uomo ed ho i capelli lunghi, lunghissimi, non sono per forza un barbone o un poveraccio. No, veramente. Un mio collega se li dovette tagliare perché il professore era convinto venisse dalla Caritas. Vi è mai passato per la mente che sono semplicemente un pigro di pupù o un tirchio che si secca spendere soldi dal barbiere? Allo stesso tempo non vuol dire che io sia un selvaggio alla tarzan, padre natura o un artista bohèmien: magari sono solo un morto di fig…

 

 

3-    Passiamo alle gradazioni di colore. Se sono bionda non sono per forza stupida e oca, non sono una prostituta. Se ho i capelli biondi e gli occhi azzurri non sono un angelo misericordioso. Se sono castana e occhialuta non sono scontatamente intelligente come Rita Levi di Montalcini. Se sono mora e porto il rossetto rosso non ho velleità da bocca di rosa. Se sono con la mia amica bionda non siamo rispettivamente lei il bene e io il male. Se sono rossa non sono un irascibile e inaffidabile diavolo assetato di sangue e vendetta.

 

4-    Parliamo delle donne con i capelli a spazzola. Allora, che io abbia i capelli a spazzola non implica per forza la parola CANCRO. Anni fa una modella, tale Stefania Ferrario (potete trovare il video su youtube), dovette smentire la malattia mortale di cui si diceva fosse affetta sui social. Semplicemente lavoro, campagne di sensibilizzazione, i suoi gran c***i, le hanno fatto decidere di tagliarseli a zero. Similmente, un uomo con i capelli a zero non ha il cancro, non è un militare. Magari è semplicemente calvo, o magari no, magari vuole recuperare 10 minuti la mattina per dormire un altro po’.

 

5-    Dulcis in fundo, la categoria a cui tengo di più: le ragazze con i capelli corti. Tutte noi con i capelli corti siamo lesbiche. Ma, dio santo, perché mai questa idea malsana? Partendo dal presupposto che ognuno di noi è liberissimo di fare, sotto le proprie lenzuola o nel sedile posteriore dalla propria macchina, il cavolo che gli pare con chi e con cosa gli pare… Esattamente, i capelli, con tutto questo, cosa c’entrano? Me lo dovete spiegare. Perché una ragazza omosessuale, che magari ha dei meravigliosi capelli neri, ricci e lunghissimi, dovrebbe andare a tagliarsi i capelli a maschio giusto per fare sapere, A VOI, che è omosessuale? O, al contrario, perché una ragazza eterosessuale non dovrebbe andare a tagliare i propri capelli, magari rovinati da anni di piastra e cloro, solo perché, sempre VOI SIMPATICONI, andate a pensare che sia omosessuale? Io, veramente, non comprendo. Considerando che non possiamo girare con un cartello al collo con scritto ‘’MI PIACE IL PENE’’ (e, probabilmente, pensereste che lo usiamo solo per coprire, a maggior ragione, il nostro orientamento sessuale), potreste, ad esempio, pensare di rivalutare un po’ tutta la vostra mentalità? Un abbraccio.

 

 

Elena Anna Andronico