Parthenope: l’accidental baroque di Sorrentino

Parthenope
Sorrentino in “Parthenope” rappresenta mille sfaccettature, tipologie umane e maschere, in una ricerca quasi antropologica. – Voto UVM: 5/5

Dopo la prima in concorso al Festival di Cannes è nei nostri cinema dallo scorso 24 ottobre il nuovo film di Paolo Sorrentino con Celeste Dalla Porta, Silvio Orlando, Isabella Ferrari, Luisa Ranieri e Gary Oldman.

Parthenope: Sinossi

La bella Parthenope (Celeste Dalla Porta, da adulta con il volto di Stefania Sandrelli), ragazza partorita in mare, è così attraente da conquistare ogni uomo e donna e vive la gioventù in equilibrio tra una dimensione onirica e una realtà dolorosa. Dal 1950 al 2023, passando per il 1974 e il 1982, seguiamo un’epica del femminile senza eroismi, la cronaca del viaggio che è la vita.

Il “viaggio da fermo” di Paolo Sorrentino

Dice il regista: “a Napoli, dove puoi viaggiare stando fermo. Mi sembrava bellissimo questo meccanismo di identificazione fra una donna e la città stessa. ”

«È impossibile essere felici nella città più bella del mondo…».

Parthenope è il suo alter-ego e il riflesso di una Napoli ipnotica quanto problematica. C’è poi un cambio di scenario, che rappresenta l’età adulta della disillusione con i sobborghi della malavita: un presepe di povera gente allo sbando.

In questo film Sorrentino rappresenta mille sfaccettature, tipologie umane e maschere, in una ricerca quasi antropologica. E parallelamente c’è la storia di Napoli: il colera, il Sessantotto, lo scudetto.

I tanti volti dell’amore di Sorrentino

Parthenope vive la vita rincorrendo la poesia, la libertà della gioventù. “Non so niente ma mi piace tutto”, frase che spiazza e che tradisce, nella sua ingenuità, un’incredibile intelligenza.

Non si lega mai a nessuno, ma tra tutti quelli che la vogliono, la vediamo innamorarsi dell’intelletto e della profondità di tre soli uomini, gli unici a cui, tra l’altro, non si è mai concessa: il fratello Raimondo, il suo mentore e padre putativo, professore Marotta, e lo scrittore John Cheever.

Quest’ultimo, diventa un anello di congiunzione fondamentale tra il male di vivere suo e di Raimondo. “Raimondo vede tutto”, ha una sensibilità fuori dal comune e un’interiorità delicata quanto ingombrante. “Quando sai tutto muori triste e solo, hai conoscenze con l’indicibile”. Lo scrittore e il giovane sono dunque totalmente speculari.

Tra questi due estremi dell’emozione umana, troviamo Marotta, che esprime l’età adulta, la tranquillità in cui si comincia a “vedere”: non si è più tanto impegnati a vivere soltanto, e ci si può permettere il lusso di stare a guardare.

Parthenope
Frame di “Parthenope”. Regia: Paolo Sorrentino. Distribuzione: Piper Film.

La “grande bellezza” di Parthenope

La bellezza è come la guerra: apre le porte”, Cheever delinea la figura di una Parthenope talmente dirompente da sembrare sovrumana e misteriosa.

Il silenzio nei belli è mistero, nei brutti un fallimento”, dice ancora l’autore americano, prevedendo la complessa relazione che collega Parthenope al mondo: la sua carica erotica è anche l’ unica cosa che gli altri riescono a vedere, “le donne belle vengono sempre offese”, perché quando non si concede, viene sminuita. Nessuno sa interpretare i suoi silenzi: “a cosa stai pensando?” è la domanda più frequente, che si ripete in modo quasi assillante per tutto il film, e lei non risponde mai.

Libertà significa Solitudine: il complesso di Parthenope

Le sue scelte “distratte” di libertà, finiscono per farle terra bruciata intorno lasciandola invecchiare da sola: si fa specchio delle dive decadute che ha incontrato nel suo percorso: Flora Malva (Isabella Ferrari), e Greta Cool (Luisa Ranieri), che rappresentano l’inganno dell’apparenza, di chi non vive lo scorrere del tempo e resta bloccato nel proprio passato, rinnegando il mondo che cambia attorno a sé.

La collaborazione di Sorrentino con Saint Laurent per Parthenope

Il costumista del film ha lavorato con Anthony Vaccarello, attuale Direttore creativo di Saint Laurent, qui coinvolto in veste di Costume Artistic Director e produttore, di pari passo con quello del direttore della fotografia e dello scenografo.

“Non sono stati usati capi di repertorio di Saint Laurent: è stato realizzato tutto ex novo. Mi piace dare un colore a un personaggio per caratterizzarlo. Per Parthenope partiamo da colori forti quando è giovane. Nel finale, vanno a scemare, diventando sempre più pallidi.” – Anthony Vaccarello

Questa collaborazione è un chiaro esempio di come il cinema possa collaborare con la moda, forte del suo carattere evocativo, per raccontare una storia.

Frame di “Parthenope”. Regia: Paolo Sorrentino. Distribuzione: Piper Film.

Il gioiello cinematografico di Sorrentino

Questo film propone più volte campi lunghi in cui da Napoli passa su una Parthenope piangente che ci guarda e comincia a ridere mentre i suoni intorno a lei, da ovattati, si fanno sempre più chiari. Alcune volte la camera si sostituisce ai suoi occhi. Altre volte invece, c’è una rottura della quarta parete. In coda alla pellicola, Parthenope ci dice:

«A cosa stavo pensando? L’amore per provare a sopravvivere è stato un fallimento… forse non è così».

Tutta l’estetica del film è volta al bello, all’eccessivo, all’immaginifico. Sorrentino offre molti momenti d’alta cinematografia, come un quadro dal gusto “accidental baroque”: la ragazza in lacrime con i rivoluzionari alla ribalta alle sue spalle.

Colonna Sonora di “Parthenope”

Il film intreccia lingua italiana e inglese: gira il mondo senza muoversi da Napoli, attraverso la musica folk spagnola e la disco portoghese, approda in America con Frank Sinatra, e finisce col cantautorato di Gino Paoli e Cocciante. Centrale, di quest’ultimo, il brano Era già tutto previsto, che racchiude in sé il messaggio della pellicola: era già tutto previsto, bellezza da una parte e dolore dall’altra.

 

di Carla Fiorentino

È stata la mano di Dio – Sorrentino e l’esigenza del cinema

Sorrentino si racconta attraverso il suo film più intimo, spingendoci a non “disunirci” – Voto UVM: 5/5

 

Il cinema, la settima arte che da sempre ha avuto l’onere di raccontare ogni genere di storia, dalla creazione puramente immaginaria al racconto intimo e personale di una vita vissuta, trancia il filo che separa la finzione dalla realtà.

È il caso di Paolo Sorrentino e del suo ultimo capolavoro È stata la mano di Dio, campione d’incassi e nomination internazionali (speriamo anche di vittorie!), che ha portato l’Italia fino alla Hollywood degli Oscar.

Una lettera all’aldilà

” Chissà se, nell’aldilà, è consentito andare al cinema. Così mia madre potrebbe vedere la lettera che le ho scritto, attraverso questo film.”

Parole commoventi e commosse quelle pronunciate da Sorrentino, nella lettera pubblicata sulla “Repubblica”, che dedica il film alla madre, scomparsa insieme al padre in un tragico incidente quando il regista era solo un ragazzino.

Il cineasta nel mettersi a nudo, si lascia andare alla nostalgia dei ricordi, descrivendoci l’ironia della madre come un sollievo per qualsiasi problema: uno strumento per minimizzare e sdrammatizzare.

 “Da adulto, ho compreso. Mi è parsa l’unica strada. Minimizzare.”

La lettera si chiude con un consiglio che può solo portare a riflettere tutti noi:

“A costo di essere ridicoli, sentimentali e pieni di lacrime. È necessario, per diventare grandi, passare attraverso le porte del ridicolo e del pianto. Il pianto degli adulti. L’unico modo, per una madre, di ritrovare, davanti a sé, il bambino meraviglioso che tutti siamo stati. ”

Un primo piano del bravissimo Filippo Scotti nei panni di Fabietto Schisa. Fonte: Netflix

Tra il mare e la mano de Dios

Possiamo dire che il film colmi uno spazio che intercorre tra una distesa di profondo mare blu e il verde prato del San Paolo degli anni ’80, quando a solcare quel campo da calcio c’era lui: Maradona.

Il mare e Maradona diventano – ognuno a modo loro – costanti segni di mutamento che indicano punti cruciali della trama.

La pellicola si apre su un’immensa distesa blu, ricca di innumerevoli sfumature, con i suoi suoni e ritmi cadenzati che ripropone metaforicamente nel moto ondoso le stagioni della vita del protagonista, Fabietto Schisa (alter ego dello stesso Sorrentino). Il mare a cui vengono affidati i riti di passaggio, si fa sineddoche della stessa Napoli e della sua cultura senza trucco e senza inganno; si fa carico di quel surrealismo, raccontando l’autentica malinconia del cambiamento.

Dall’altra parte al Bipe de oro, il compito di metronomo dell’esistenza, testimone di gioia e dolore di Fabietto, al punto di essere rappresentato come una persona cara, di famiglia.

Le poche volte in cui appare al centro della scena, sembra parlare direttamente al protagonista quanto al regista e – indirettamente – anche a noi. Le punizioni di Maradona diventano metafora di vita e, seguendo traiettorie improbabili, ci spingono al bisogno di ostinazione, in quella parabola quasi impossibile mascherata da atto divino.

Dal dolore al racconto: la “nascita” di Sorrentino

Il film può essere simbolicamente diviso in tre parti.

1) Una ricetta di famiglia

La prima, piena di fragorose risate, dove ci viene presentata in tutta la sua bizzarria la famiglia Schisa raccontata per quella che è: una sorta di teatro disfunzionale.

Uno dei punti cardine della vita di Fabietto (Filippo Scotti) è la mamma Maria (Teresa Saponangelo), con il suo amore struggente, i suoi sorrisi, gli scherzi irriverenti ma anche i silenzi e il dolore, in un ritratto non tradizionale ma autentico che ribalta tutti i luoghi comuni sulle “mamme del sud”. Un altro è il padre Saverio (Toni Servillo), guitto e talvolta severo, che non sa davvero comunicare col figlio e non gli insegna davvero a vivere; eppure nella condivisione di alcuni momenti e in gesti d’amore imperfetto il ragazzo trova il suo senso di esistere.

Attorno al nucleo familiare centrale si affacciano altre figure, in un coro tragico che accompagnerà Fabio nel suo passaggio all’età adulta. Tra tutte lo zio Alfredo, presenza malinconica sincronizzata con l’anima della città. Personaggio di altissima intelligenza, sarà di fatto colui che traghetterà moralmente Fabio nel dolore.

Dall’altra parte la zia Patrizia (una bellissima Luisa Ranieri), considerata pazza, sarà con la sua anima cangiante la musa di Fabietto che lo condurrà invece nella dimensione del racconto.

La famiglia Schisa sulla vespa. Fonte: sorrisi.com

2) La realtà scadente

La seconda parte esplora l’ambiguità e la complessità dei legami, da quelli familiari a quelli d’amicizia, agli incontri intimi e alla fascinazione per il desiderio e l’amore. Ciò avviene in una serie di momenti assoluti, come un album di sequenze che non descrivono tanto un racconto di formazione, quanto un processo di decostruzione. Perché per ritrovarsi bisogna necessariamente perdersi.

Sorrentino in maniera magistrale fa coesistere risate sguaiate e lacrime brucianti. Sorprendente come tali momenti forti vengano rappresentati in maniera solenne, ma senza cadere nell’eccessività.

Perché bisogna accettare la perdita, bisogna accettare il crollo, come nel momento in cui, nel silenzio completo di una sala cimiteriale, si sente solo lo scatto di una serratura che rappresenta l’addio più doloroso che si possa vivere.

3) L’arte come esigenza, come salvezza

Nella terza parte, dopo le lacrime e il pianto, il cinema a quel punto diventa l’unico modo per unire gesto ed espressione, esigenza e necessità, arte e sopravvivenza.

Sorrentino cita e chiama in causa i suoi maestri, prima Fellini, “presente” durante la prima parte del film, e poi Antonio Capuano.

Capuano diventa un mentore capace di trasformare Fabietto in Fabio (e Fabio in Paolo, verrebbe da dire) in una delle sequenze più eloquenti del film, un feroce dialogo sulla ricerca d’identità, sul cinema e sul coraggio, che davvero segna le origini di Sorrentino come regista.

“Ma è mai possibile che ‘sta città non te fa venì in mente nient’ a raccuntà? Insomma, Schisa la tien’ coccos a ricer’? O si nu strunz come tutti quant’ llate?

È il racconto della nascita, la scoperta della vita, una vita in cui Fabio, dovrà capire come riuscire a non “disunirsi”, per trovare sé stesso e la sua voce.

Paolo Sorrentino e Filippo Scotti alla biennale del cinema di Venezia. Fonte: tgcom24news

 

Gaetano Aspa

Loro 2 di Paolo Sorrentino.

Che Sorrentino sia un autore totalmente restio a porsi limiti è ormai noto a tutti, che il suo ultimo intento è quello di piacere in maniera assoluta a tutti anche. Eppure con il suo ultimo lavoro ci ha stupiti, nel bene o nel male, ancora una volta. 

Il 24 aprile 2018 esce nelle sale Loro 1, seguito dalla seconda parte Loro 2, uscito invece il 10 maggio.
Superfluo ricordare chi sia il protagonista della tanto atea pellicola: “Lui”, l’emblema della politica italiana, Silvio Berlusconi.
Non si sapeva cosa aspettarsi da questo film, l’attesa era tanta, le aspettative altissime; ed è proprio per questo che l’esordio è stato il più redditizio per un film di Sorrentino.

A vestire i panni del premier troviamo un camaleontico Toni Servillo; il quale nella seconda parte interpreterà anche Ennio Doris, banchiere di fiducia di Silvio e anche un po’ il suo alter ego come si evince dalla forte scena del colloquio tra i due al tavolo, e dalla scelta del regista di far interpretare entrambi i ruoli dal medesimo attore.
Il film è stato presentato in due parti e si può affermare che la prima parte sia una sorta di lunga introduzione. “Loro 1” è infatti quasi interamente dedicato tutto e tutti coloro che fanno da cornice alla vita politica e privata del cavaliere.
Sesso, droga, soldi, ricerca assoluta e sconsiderato del potere.
Questo è ciò che trapela da questa prima parte, una “lunga macro sequenza” che vede come protagonista Sergio Morra (Riccardo Scamarcio), giovane arrampicate sociale che ha fatto del suo desiderio di conoscere il “capo” il suo primo obbiettivo di vita. Ed ecco allora che tutto diviene un giro di feste, di escort, tutto organizzato ad hoc per catturare la Sua attenzione.

Ma chi sono Loro? “Loro” sono quelli che contano.
È questa la definizione, la risposta che Sergio darà alla sua spregiudicata compagna di vita e di affari Tamara (Euridice Axen).

In Loro 1, Berlusconi farà la sua comparsa solo nelle ultime scene, in compenso però a lui, alla sua vita, alla sua carriera e al suo rapporto con la moglie sarà interamente dedicata la seconda parte.
A prescindere dalla impeccabile interpretazione di Servillo, la figura del premier è rappresentata in maniera del tutto atipica ma assolutamente fantastica.
È il 2006, Forza Italia non è più al governo, Berlusconi non è più al governo. Questa è proprio la sua preoccupazione più grande, preoccupazione che rivela a tutti coloro che si trovano a parlare con lui, come fosse alla ricerca di un consiglio, di un aiuto.

Sorrentino dipinge Silvio esattamente così, un uomo alla ricerca di qualcosa, di aiuto; non lo attacca politicamente, non lo critica, ne descrive ovviamente tutte le vicende più scomode (note a tutti) eppure lo fa in maniera quasi ironica, pur mantenendosi lontano dall’ esaltarne la figura.
Riesce, grazie ad un geniale lavoro di sceneggiatura, a descrivere la persona politica e al tempo stesso a raccontare il lato umano, il Silvio non solo politico corrotto e spregiudicato, ma uomo tormentato da conflitti interiori, preoccupato dalla freddezza della moglie Veronica Lario ( Elena Sofia Ricci ) che è ormai lontana anni luce da lui e finirà per chiedere il divorzio.

Come dimenticare la scena del litigio tra i due? Un fiume di riflessioni, di verità che sapevano l’uno sull’altro e che hanno il coraggio di rivelarsi solo ora, alla chiusura di quell’ultimo capitolo.

Tirando le somme il film è stato realizzato come forse nessuno si aspettava; la prima parte probabilmente delude un po’ e ci si chiede se tutto quello strafare fosse necessario, ma la seconda parte è una riabilitazione del tutto e poi la figura di Berlusconi è un 10 su 10. Convince. Piace.
La regia è quella inconfondibile del regista partenopeo: cenare straordinari, personaggi che anche se secondari vengono caratterizzati in maniera eccellente ed il tutto viene raccontato con quella tipica malinconia “sorrentiniana” che renderebbe poetica anche la più sciatta delle storie.
Non sarà forse il miglior lavoro del regista, ma è assolutamente da non perdere.

Benedetta Sisinni

My Cicero ed ATM, splendida combinazione. Peccato per la grammatica

sottomyciceroMessina si avvicina sempre di più alle altre grandi città italiane nel settore dei trasporti pubblici, finalmente i titoli di viaggio dell’ATM sono acquistabili anche da smartphone. Sembrano così lontani i tempi del minimo storico con una quindicina di Bus nel 2013, ormai le corse non vengono più saltate, girano per la città mezzi nuovi ed affidabili e quando si può si trova anche il tempo di istituire nuove corse o ripristinarne di vecchie.

Recentemente l’ATM ha presentato “Messina viaggia in smartphone”, informando la cittadinanza che è adesso possibile acquistare i biglietti per Bus e Trama tramite l’applicazione “myCicero”. Una volta scaricata, bisogna accedere alla sezione Trasporto e poi alla sezione Biglietteria, selezionare “Atm Messina”, e scegliere il biglietto più consono alle proprie esigenze e successivamente bisogna scegliere la modalità di pagamento ed il gioco è fatto. Non resta che obliterare il biglietto prima di salire a bordo premendo il pulsante Attiva presente nel titolo, oppure per i biglietti a corsa basta inquadrare il Qr-code presente sui pannelli informativi affissi sul mezzo.

MyciceroIn occasione della presentazione l’ATM ha anche rilasciato un video esplicativo per spiegare passo dopo passo come acquistare il biglietto con il proprio telefono. Ecco, questo è forse più simile ad un cortometraggio che non ad un tutorial di quelli che si trovano on-line. Poco accattivante per i ragazzi che sono rinomatamente molto intuitivi per quello che è il mondo delle applicazioni, ma di certo più che dettagliato per persone appartenenti a quelle generazioni che non sono propriamente nate con il telefonino in mano. A me in quanto Millennials però non è sfuggito un dettaglio più importante, un errore in una battuta di questa scena muta, precisamente quando la signora impreca “No! Ne ho perso UN’ALTRO”. Ecco, non è per fare il Paolo Sorrentino o il Tullio De Mauro della situazione, ma posto che le cose fondamentali sono la nascita, lo sviluppo e la resa di una idea, anche la comunicazione di questa è importante, no?

Comunque lodi e plausi per l’ATM che un passo dopo l’altro risale la china e ci da ogni giorno un motivo in più per rivalutare la nostra Messina…peccato per il video.

Alessio Gugliotta