La vita di Pio La Torre e la necessità di riappropriarsi della nostra Sicilia

Tra gli enti pubblici a cui sono assegnati il maggior numero di beni confiscati alla mafia , spicca il piccolo comune di Roccella Valdemone in provincia di Messina. Con soli 657 abitanti ha in gestione ben 285 immobili e terreni sottratti a Cosa Nostra. A guidare la classifica è Palermo  con 1558  beni confiscati, seguita da Reggio Calabria con 374 beni.  Sui primi 10 comuni di questa graduatoria ,figlia di uno studio condotto dalla segreteria regionale dello Spi Cgil Sicilia e aggiornato al  novembre del 2023, 6 si trovano in Sicilia. L’isola detiene il 38,81% dei beni confiscati dalle organizzazioni criminali di stampo mafioso.

Una legge che parte da lontano e che bisogna applicare

La via della semplice repressione — che colpisce la escrescenza, ma che non modifica l’humus economico, sociale e politico nel quale la mafia affonda le sue radici — non ha portato e non poteva portare a risultati definitivi.

Così si esprimeva Pio la Torre nel 1976 ,nella relazione di minoranza per la commissione d’inchiesta antimafia. Una visione che metteva al centro la vita dei cittadini e cittadine ed il loro diritto al lavoro e al futuro, da perseguire anche grazie alla costruzione di spazi di giustizia sociale . L’attività politica e di sindacalista di Pio la Torre ha sempre avuto come faro la Sicilia e lo ha portato a diventare deputato del partito comunista italiano.

È lui che si fa portavoce di una proposta normativa innovativa : una definizione precisa  del reato di associazione criminale di stampo mafioso e l’introduzione delle misure di prevenzione patrimoniali.  Le quali permettevano di sottrarre tutto ciò che è stato strumento o profitto di azioni illecite agli indiziati  di azioni criminali di stampo mafioso. Sulla base della proposta di legge da lui presentata, venne promulgata la legge 13 settembre 1982, n.646 detta Rognoni-La Torre.

Pochi mesi dopo muore a Palermo , su mandato di Totò Riina e Bernardo Provenzano, come tutti gli uomini e le donne di cui la mafia ha avuto paura.

La mobilitazione di Libera

corteo di una manifestazione “Libera”

Libera è una rete di associazioni coinvolte in un impegno, non solo “contro” le mafie ma anche “per” la giustizia sociale, la ricerca della verità, per la tutela dei diritti. Sintomo di questo impegno propositivo è stata la raccolta firme iniziata nel 1995 e terminata un anno dopo, per presentare una petizione popolare a sostegno di un disegno di legge per il riutilizzo sociale dei beni confiscati ai mafiosi e ai corrotti. Dare nuova linfa alla visione sociale e comunitaria della lotta alla mafia introdotta da Pio La Torre, consentendo che queste ricchezze tornino alla comunità, sotto forma di opportunità di sviluppo economico e coesione sociale.  La proposta di legge verrà poi approvata il 7 marzo del 1997.

Da quel giorno molti passi in avanti sono stati fatti affinché questa legge trovi piena applicazione, attraverso la tutela dei lavoratori e delle lavoratrici delle aziende sequestrate e la trasformazione dei luoghi sequestrati in luoghi parlanti, segni di una nuova comunità, di impegno e reazione.

 

Giuseppe Calì

 

 

 

 

 

Gibellina: La Land Art più grande del mondo le dà nuova vita

Il terremoto e la ricostruzione

Gibellina, un comune della provincia di Trapani, situato nella suggestiva Valle del Belice, è il protagonista di una storia di rinascita straordinaria che affonda le radici nel tragico terremoto del 1978. Quell’evento devastante, che provocò centinaia di vittime e migliaia di feriti e senzatetto, segnò profondamente la comunità, lasciando dietro di sé solo macerie e ricordi dolorosi di perdita e distruzione.

Dopo il terremoto, Gibellina si trovò a dover affrontare la difficile sfida della ricostruzione e del recupero della propria identità. Ludovico Corrao, il sindaco del comune ormai distrutto, avvertì un profondo desiderio di riscatto tra gli abitanti. Fu lui a riconoscere nell’arte un potente mezzo per riportare dignità e speranza in un luogo che sembrava aver perso ogni cosa.

Difatti, Gibellina Vecchia si trovava in una posizione geografica scomoda, su una collina abbastanza isolata, motivo per cui, al di là del terremoto, stava subendo un inevitabile spopolamento. Si decise, dunque, di dedicare quel luogo esclusivamente alla memoria e di creare un nuovo nucleo abitativo a pochi minuti da essa, ma allo stesso tempo più vicino all’autostrada e, di conseguenza, decisamente più accessibile.

Il potere dell’arte

Il compito di trasformare le rovine in un simbolo di rinascita fu affidato all’artista Alberto Burri. Quest’ultimo, con grande sensibilità, concepì il monumento noto come il “Grande Cretto“. Utilizzando il cemento come medium, Burri creò un velo che avvolge le macerie degli edifici e percorre le strade del paese, trasformando il dolore in un’opera d’arte imponente. La semplicità dell’architettura lascia spazio alla memoria del luogo che diventa la protagonista dell’opera. Il Grande Cretto non solo rappresenta la più grande land art del mondo, grande orgoglio Siciliano, ma incarna anche un significato profondo, simbolo di resilienza e forza di una comunità determinata a emergere dalle sue ceneri.

Cretto di Gibellina
Cretto di Gibellina. Fonte: https://www.artwort.com/2016/07/20/speciali/cult/cretto-burri-gibellina/

Gibellina Nuova

Gli abitanti, intanto, diedero vita a Gibellina Nuova. Anche questa nuova comunità lascia ampio spazio all’arte, venendo concepita come un grande museo a cielo aperto. Si distingue per l’uso creativo del cemento, con cui sono formate gran parte delle strutture, che funge da collegamento tangibile con il Cretto di Gibellina Vecchia. Artisticamente curata, Gibellina Nuova ospita più di 60 opere ed installazioni realizzate da artisti e architetti di fama internazionale.

Arco d’ingresso a Gibellina Nuova. Fonte:https://www.quotidianocontribuenti.com/belice-e-altre-storie-la-stella-di-consagra-brilla-per-il-centenario/

All’ingresso un arco, la Stella del Belice, accoglie i visitatori, diventando il simbolo distintivo della città nuova.

Vi sono poi la Montagna del sale, una struttura in cemento, vetroresina e pietrisco con all’interno 30 statue di cavalli in legno, nata come scenografia dello spettacolo “La sposa di Messina”;

Il MAC, Museo Civico di Arte Contemporanea, che racchiude circa 400 opere di varie recenti correnti artistiche;

il Tappeto volante, realizzato con quasi 50 mila cordicelle di canapa che riproducono un effetto simile alle Muquarnas della Cappella Palatina di Palermo, oggi situato al Museo delle trame mediterranee, dedicato al sindaco che rese possibile una ripresa per il paese, Ludovico Corrao.

Il 2019 ha segnato un ulteriore passo avanti con l’inaugurazione del Museo del Grande Cretto di Gibellina, ubicato all’interno dell’unica struttura sopravvissuta al terremoto: la Chiesa di Santa Caterina.

La Chiesa Madre di Ludovico Quaroni – Gibellina Nuova. Fonte: https://www.spaghettievaligie.it/gibellina-museo-cielo-aperto/

Conclusioni

Arrivare alla collina che ospita questa grande opera non è semplice, ma il silenzio del luogo, immerso nella campagna dell’entroterra trapanese, lascia spazio ad una malinconica bellezza.

In conclusione, Gibellina oggi, oltre ad essere un vero e proprio simbolo di rinascita, in grado di mostrare il potere dell’arte e di una comunità unita per far risplendere il proprio territorio, si mostra anche come grande attrazione turistica che, ogni anno, accoglie eventi culturali di vario genere.

 

Antonella Sauta

Fonti:

https://luoghidelcontemporaneo.beniculturali.it/grande-cretto-

https://luoghidelcontemporaneo.beniculturali.it/gibellina-nuova-

Isabella Tomasi e la lettera del Diavolo

Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nobile letterato siciliano del Novecento, tramite il valido contributo rappresentato dal suo emblematico romanzo Il Gattopardo, segna significativamente quello che è il panorama culturale della Sicilia del tempo, diventandone figura di spicco e fiero vessillo.

Il suo albero genealogico vanta illustri personalità, quali diplomatici, scienziati, cardinali e perfino una venerabile  suor Maria Crocifissa della Concezione, al secolo Isabella Tomasi. Una figura controversa da cui diversi scrittori traggono ispirazione, incluso lo stesso Tomasi, il quale ne omaggerà la memoria ritraendola nei panni della beata Corbera.

Scopriamo insieme la curiosa quanto macabra vicenda che la vede protagonista!

La vita da santa e la lotta contro il male

Isabella Tomasi, secondogenita del duca di Palma e principe di Lampedusa Giulio Tomasi, cresce in un ambiente rigorosamente cattolico. Non le viene mai tenuto segreto ciò a cui è destinata: così come il fratello, Giuseppe Maria, e le sorelle, Francesca e Antonia, Isabella avrebbe perso i voti e dedicato la vita al Signore, in un percorso che, più che alla santità, mirava alla legittimazione sociale della famiglia.

Divenuta suor Maria Crocifissa, sono svariate le doti soprannaturali che comincia a manifestare: carismi, estasi, visioni. Un dono di Dio e un ponte attraverso il quale riesce più volte a stabilire un contatto con la Madonna e l’Angelo custode

I poteri che ha ricevuto per grazia divina, però, non mancano di renderla vulnerabile oggetto di malevole attenzioni. Fino alla sua morte, il Diavolo cercherà di plagiarla, tentandola e vessandola con ogni suo mezzo.

 

Isabella Tomasi e la lettera del Diavolo
Isabella Tomasi attaccata dal Diavolo
Fonte: https://www.lasiciliainrete.it/wordpress/wp-content/uploads/2020/07/letteradeldiavolo2.jpg

 

È proprio in una simile circostanza che, l’11 agosto 1676, nel monastero di Palma di Montechiaro, viene scritta la Lettera del Diavolo.

La lettera del Diavolo

Quella notte, sola nella sua stanza, è in procinto di scrivere una relazione al padre confessore, quando alcune entità le si manifestano.

«Una gran numerosità di furibondi spiriti maligni, mandati per ordine di Lucifero infernale» si sarebbero impossessati di lei, facendone un misero corsiero: il suo corpo usato come canale per elargire un messaggio contro la Maestà Divina.

Viene ritrovata dalle altre monache a terra, svenuta, il viso imbrattato di inchiostro e della carta alla mano.

Scritta in una lingua sconosciuta e incomprensibile, un misto di greco, latino, cirillico e runico, l’unica parola leggibile in essa risulta essere “Ohimè”, nata dal tentativo della donna di opporsi alla volontà di quei demoni.

Più volte nel corso dei secoli si è tentato di decifrarne il contenuto; tuttavia, nessun linguista è ancora riuscito nell’intento. Secondo la stessa Maria Crocifissa la missiva esorterebbe Dio a lasciare gli uomini ai loro peccati e all’eterna dannazione.

La lettera del Diavolo
La lettera del Diavolo
Fonte: https://www.agrigentodoc.it/wp-content/uploads/2018/02/Lettera-del-Diavolo.jpg

 

Santità o pazzia?

Nel 2017, un gruppo di fisici e informatici catanesi, sottoponendo il testo a complessi algoritmi di decifrazione, sembra arrivare ad un punto di svolta. Il risultato della loro analisi rivela come l’alfabeto usato dalla suora sia stato inventato da lei: Ogni simbolo è ben pensato e strutturato. Ci sono segni che si ripetono, un’iniziativa forse intenzionale e forse inconscia” è la loro conclusione.

La perizia, inoltre, pare dimostrare che la donna soffrisse di problemi psichiatrici, forse un disturbo bipolare, scatenato o acuito dalla vita monacale.

Se sia santità o pazzia, non possiamo decretarlo con certezza.

La lettera, custodita nel monastero benedettino di Palma di Montechiaro, in provincia di Agrigento, continua, però, a suscitare interrogativi nei più curiosi.

❝Non mi domandate di questo per carità che non posso in verun modo dirlo, e nemmeno occorre dirlo io, che verrà tempo che il tutto udirete e vedrete.❞ 

Monastero di clausura delle Benedettine di Palma di Montechiaro
Monastero di clausura delle Benedettine di Palma di Montechiaro
Fonte: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/9/9f/Monastero_delle_Benedettine_-_Palma_di_Montechiaro.jpg/1600px-Monastero_delle_Benedettine_-_Palma_di_Montechiaro.jpg

 

Valeria Vella

Fonti:

https://www.santiebeati.it/dettaglio/91484

https://it.wikipedia.org/wiki/Isabella_Tomasi

La Trinacria: significato e origine del simbolo della sicilitudine

Souvenir Trinacria
Souvenirs raffiguranti la Trinacria
Fonte: https://i0.wp.com/images.liveuniversity.it/sites/2/2019/05/trinacria1.jpg?fit=1300%2C971&ssl=1

Dai souvenir alle ceramiche, dai tatuaggi alla stessa bandiera siciliana: la Trinacria è rappresentata ovunque nella nostra isola.

Ma in quanti conoscono il suo significato e il mito da cui prende vita?

Scopriamo insieme la sua storia!

Elementi 

La Trinacria, in araldica, è una figura femminile da cui si sviluppano tre gambe, piegate in apparente movimento.

La testa, elemento centrale dello stemma, è nello specifico una testa di Gorgone, creatura mitica dotata di uno sguardo capace di pietrificare chiunque lo fissasse direttamente. Per questo motivo, la testa di Gorgone sembrerebbe significare proprio la “pietrificazione” del male, ovvero il suo annientamento definitivo.

I serpenti sul suo capo sono, invece, una metafora del rinnovamento e della rinascita, data la capacità dell’animale di cambiare pelle, e le spine di grano con essi intrecciate auspicio di ricchezza e fertilità.

La triscele, infine, rappresenterebbe la ruota della vita: il passato, il presente e il futuro, in un continuo alternarsi.

 

La parola in sé, etimologicamente parlando, cela, però, un ulteriore e più preciso significato. Trinacria, infatti, deriva dalla parola greca trinacrios, che significa treis (tre) e àkra (promontori), un chiaro riferimento alla forma triangolare e ai tre punti estremi della regione: Capo Peloro, conosciuto anche come punta del Faro, in direzione Nord-Est, Capo Passero in direzione Sud e Capo Lilibeo in direzione Ovest. 

Sicilia
Fonte: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/1/1f/Cloudless_Sicily.jpg

La Trinacria e la Sicilia

Da che se ne ha memoria, la Trinacria è simbolo della sicilitudine, tanto che la stessa Sicilia è riconosciuta con il suo nome.

Dobbiamo questa attribuzione ad Omero, il quale nell’Odissea, e più precisamente in un dialogo tra Ulisse e la maga Circe, predicendo l’arrivo dell’eroe sull’isola, la dipinge con questi termini:

❝ Allora incontro ti verran le belle
Spiagge della Trinacria isola, dove
Pasce il gregge del Sol, pasce l’armento.❞

 

Il mito 

Secondo il mito, la nascita dei tre promontori all’origine della etimologia della parola Trinacria e, quindi, dello stesso legame fra questa e la nostra Sicilia, sono frutto della magia di tre ninfe giramondo.

Dopo aver viaggiato il lungo e in largo e aver raccolto ciò che di più bello la natura avesse a disposizione per loro, queste, arrivate nel luogo che oggi è la Sicilia, decisero qui di stabilirsi. Sparsero tutto ciò che avevano in tre punti diversi del mare e fecero aprire le sue acque, dalle quali emersero le tre montagne in questione e l’intera isola.

In Sicilia

La Trinacria è presente nel nostro territorio da millenni.

Monete raffiguranti la Trinacria
Monete raffiguranti la Trinacria
Fonte: https://www.stoasicula.it/images/001-syracuse-Triskeles-Triscele-su-una-moneta-siracusana-del-tempo-di-Agatocle-con-gorgonion-al-centro.jpg

Arriva ufficialmente con Agatocle di Siracusa, nel III secolo a.C., il quale, secondo lo storico Adolfo Holm, ha una speciale predilezione per il simbolo, tanto da riportarlo anche sulle sue monete.

Se ne ha già traccia, però, ancora più indietro nel tempo: è rinvenibile in antiche pitture, come quelle delle ceramiche gelesi databili al VII secolo a.C., e anche in anfore panatenaiche, del V secolo a.C., raffiguranti Athena e la Trinacria incisa sul suo scudo.

Valeria Vella

Fonti: https://www.sicilia.info/trinacria/

https://ecointernazionale.com/2021/02/trinacria-simbolo-sicilia-mito-storia-leggenda/

Lucio Piccolo, il poeta dell’ancestrale

 Nel vasto panorama letterario italiano, sono tantissime le figure di letterati che sfuggono al canone o che, per considerazione della critica, rientrano nella definizione di “poeti minori”

Tra questi, troviamo Lucio Piccolo, poeta, esoterista e musicologo italiano.  

Biografia

Lucio Piccolo nacque il 27 ottobre 1901 a Palermo, ultimo dei tre figli del barone Giuseppe Piccolo di Calanovella e della duchessa Teresa Mastrogiovanni Tasca Filangeri di Cutò (di antica discendenza principesca, risalente ai Normanni), imparentati con l’alta nobiltà siciliana

Il poeta trascorse la sua giovinezza a Palermo, dove frequentò il liceo classico, dimostrando una grande curiosità e una straordinaria capacità di apprendimento. In seguito, non andrà all’università, approfondendo da autodidatta le conoscenze linguistiche, di musica, poesia, filosofia ed esoterismo, insieme ai fratelli Casimiro e Giovanna.

«Pertugi, sgabuzzini, ambienti / nascosti tra le quinte / dove monomania / di specchi in ombra / accolse i sedimenti / d’epoche smorte, di fasi sbiadite / che il riflusso dei giorni in un torpore / lasciò fuori del sole»

(“Gioco a nascondere”, in Gioco a nascondere, Canti barocchi e altre liriche, Mondadori, Milano, 1960).

 

Due eventi inaspettati, quale la morte del padre avvenuta nel 1928 e la grave crisi economica del ’29, scombussolarono la famiglia Piccolo, che fu costretta a vendere la villa a Palermo per trasferirsi a Capo d’Orlando, in una villa di campagna (che attualmente ospita la casa-museo di Villa Piccolo). 

«Il palazzo di Capo d’Orlando più che una casa sembrava una favola campata in aria. Onde marine, nubi, folate di vento, gabbiani, corvi, gatti neri, spiriti, anime di crociati, anime in pena e santi vagabondi stanchi di paradosi dividevano con il nostro poeta quella solitudine dorata»

(Gonzalo Alvarez Garcia, Le zie di Leonardo, Scheiwiller, Milano, 1985).

 

Lucio Piccolo e Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Importante per la crescita culturale del giovane Lucio, fu il rapporto con il cugino primo di parte materna e futuro fortunato autore de Il Gattopardo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Tra i due vi sarà un sodalizio che durerà tutta la vita. Sulla natura del loro rapporto, basta leggere le parole rilasciate dallo stesso Lucio Piccolo nell’intervista a Ronsisvalle:

«C’era fra di noi una sorta di gara, a chi fosse più abile scopritore di interessanti novità. Ricordo che fu così a proposito del grande poeta Yeats, il grande poeta d’Irlanda che fui io il primo a leggerlo prima ancora di Lampedusa […] E così ci siamo accaparrati tutta la letteratura contemporanea europea, tedesca, francese. Ricordo anzi che fu proprio Lampedusa a introdurre a Palermo, nella Palermo colta, Rilke […] Poi passarono Joyce, Proust. Di Proust mi ricordo che una volta mi disse “Sai, c’è uno scrittore francese il quale per fare due passi da lì a qui ci impiega dieci pagine”. La prima immagine che io ho avuto di Proust è stata questa».

Lucio Piccolo e Giuseppe Tomasi di Lampedusa su una panca nella stradella di accesso a Villa Piccolo, Capo d’Orlando. Fonte: wikimedia.org

La consacrazione letteraria

Nel 1954, Lucio Piccolo, alla soglia dei 53 anni, pubblica una silloge di 9 liriche che invia ad Eugenio Montale, il quale rimane colpito dalla perfezione stilistica dei versi, al punto da presentare Piccolo nel prestigioso convegno letterario di San Pellegrino Terme

Al convegno, accompagnato dal cugino principe Lampedusa, Lucio diventa centro dell’attenzione di tutti, passando da sconosciuto barone siciliano a famoso poeta consacrato da Montale e dagli altri “marescialli di Francia”, così definiti da Tomasi.  

«Quella coppia stranissima di titolati siciliani, goffi e un po’ traballanti, suscitò immediatamente la curiosità di ognuno: quasi un’apparizione carnevalesca di piena estate, un intermezzo in costume con due personaggi di fine secolo in cerca di autore».

 

Il Piccolo, ottenuto il successo della critica, pubblica nel 1956 i Canti Barocchi, editi da Mondadori; successivamente, nel 1960, Gioco a Nascondere. In seguito pubblicherà altre due raccolte, Plumelia (1966) e l’opera in prosa poetica Le Esequie della Luna

Lucio Piccolo muore improvvisamente il 26 maggio 1969, lasciando diverse opere inedite, tra cui una composizione musicale del Magnificat, d’ispirazione wagneriana, ancora oggi inedita. 

 

Lucio Piccolo
Lucio Piccolo a Villa Piccolo. Fonte: fondazionepiccolo.it

La poetica

Nella poetica di Piccolo s’intrecciano cristianità, paganesimo e religioni orientali, al punto da creare il contatto con un’altra realtà.  Nella stesura dei versi che riempivano il bianco delle pagine, avveniva un trasferimento ancestrale, si passava da una percezione del reale al mondo surreale, solamente attraverso l’unicità di quell’atto creativo attuato da Lucio. 

«Scrivevo versi come altri passeggia o sta alla finestra: era un fatto naturale».

Nelle liriche di Lucio Piccolo, caratteristiche sono la musicalità, il fine gioco letterario delle assonanze e delle dissonanze, oltre il frequente uso degli interrogativi che l’uomo si pone. Come, ad esempio, le domande poste davanti alle ombre fisiche e concrete, ricavate dal gioco di luci, così come quelle ombre provenienti dall’ignoto, espletate in Gioco a nascondere: 

«Hai visto come al varcare la soglia / il lume ch’era nella mano manca / mentre l’altra fa schermo, ha dato uno svampo / leggero dal vetro s’è spento. / Tardo il passo né fu colpo di vento, / forse ha soffiato qualcuno, un volto / subito svaporato nell’aria? […] Ma non c’è nessuno / e sai che non bisogna tentare / il buio: rimemora, ha nostalgie, imprevisti, / l’ombra e le ombre, meglio pregare / a quest’ora, quel che gioco / sembra di giorno fa vero / di notte la notte che sogna – […] I morti / non hanno cifre per i nostri tesori, / singulti hanno in noi, / veglie / di fiamme basse, aneliti, / d’angoscia verso un nodo di vita / incompreso, e a volte una sera / che scende dall’alto a candori infiniti»

Questo esempio, esplicita i poli cardine dell’indagine metafisica di Lucio Piccolo, racchiusa nei suoi versi: da una parte l’esteriorità attraverso la natura ammaliatrice e seduttrice, dall’altra l’interiorità, la coscienza che si materializza attraverso i richiami simbolici. 

 

«Ci sono uomini che in determinate epoche arrivano alla perfezione, sciogliendosi dall’ambiente in cui vivono e dalle cose del loro tempo, assumendo coscienza della fine e salvandosene nel distacco, nella superiorità, nell’autosufficienza. E in questo senso, Piccolo partecipa di una tale perfezione, nella sua vita come nella sua poesia»

(Leonardo Sciascia, “Le soledades di Lucio Piccolo”in La corda pazza, Einaudi, Torino, 1976).

 

Gaetano Aspa

Fonti:

www.fondazionepiccolo.it 

http://www.flaneri.com/2013/01/12/lucio_piccolo_poeta_tra_le_ombre/

 

In libreria la nuova edizione del romanzo “La paura di Montalbano”

Camilleri è un maestro dell’immaginazione poliziesca, impossibile deludere le aspettative creatasi. Questo perchè Montalbano non si muove più dalla penna di Camilleri, ma la penna di Camilleri si muove ad immagine e somiglianza del suo essere, diretto e vero. – Voto UVM: 5/5

 

Il 18 Aprile ritorna tra gli scaffali italiani, in una nuova veste, uno dei romanzi più celebri della serie del Commissario Montalbano La Paura di Montalbano, edito dalla Sellerio Editore.

Pubblicato per la prima volta dalla Mondadori nel 2002, il commissario più famoso della televisione italiana si presta in questa raccolta di tre racconti brevi e tre racconti lunghi, capace ancora una volta di fiutare il mistero e svelarne le radici intrinseche circondato dall’atmosfera siciliana di cui fa da contorno.

Copertina del romanzo di Andrea Camilleri “La paura di Montalbano”, edito da Sellerio editore, pubblicato nel 2023. Fonte: sellerio

Lo scrittore poliedrico

Nato nel 1925 a Porto Empedocle (AG), è attore, regista teatrale, sceneggiatore, scrittore e poeta. Impossibile non conoscere Andrea Camilleri, che ha portato la bellezza della Sicilia tra le pagine dei suoi romanzi e, successivamente, in TV.

La sua carriera inizia davanti al palcoscenico teatrale come regista, per poi spostarsi dietro la cinepresa. E’ stato anche attore, interpretando il ruolo di un vecchio archeologo nel film La strategia della maschera (1999). Ha inoltre recitato presso il Teatro Greco di Siracusa nel 2018 col monologo Conversazione su Tiresia, in cui ripercorre la vita dell’indovino cieco collegandola alla sua sopravvenuta cecità.

Solo più tardi varcherà le soglie per il mondo della letteratura. Nel 1978 esordisce nella narrativa con Il corso delle cose, pubblicato dalla Lalli Editore. Nel 1980 pubblica con Garzanti Un filo di fumo, primo di una serie di romanzi ambientati nell’immaginaria cittadina siciliana di Vigata a cavallo fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Grazie a quest’ultima opera Camilleri riceve il suo primo premio letterario a Gela.

Camilleri fa il suo exploit nel 1998: titoli come La concessione del telefono e La mossa del cavallo (1999) vanno a ruba. Da quest’ultimo è stato tratto il film TV La mossa del cavallo-C’era una volta Vigata trasmesso da Rai 1 il 26 febbraio 2018. È la prima trasposizione televisiva di un romanzo storico dello scrittore.

Il successo del Commissario Montalbano risale nel 1994, quando Camilleri dà alle stampe La forma dell’acqua, primo romanzo poliziesco con protagonista il commissario Montalbano. Il filone narrativo del Commissario Montalbano è destinato a una conclusione in quanto nel 2006 Andrea Camilleri ha consegnato all’editore Sellerio l’ultimo libro con il finale della storia, chiedendo che questo venisse pubblicato dopo la sua morte.

montalbano
In foto: Andrea Camilleri. Fonte: Ennapress

Un ritorno al passato

Nella raccolta di racconti La paura di Montalbano, come accennato prima, si susseguono 3 racconti brevi, di poche pagine, alternandosi a 3 racconti più lunghi:

  • Giorno di febbre

In questo primo racconto, il commissario Montalbano si sveglia con una forte influenza e, non riuscendo a trovare un termometro a casa, decide di procurarselo in farmacia. Nell’attesa, sente esplodere due colpi di pistola all’esterno della farmacia: un commerciante è intervenuto in uno scippo sparando sui delinquenti che hanno provato a scippare ad un’anziana, ma invece di colpire loro ha colpito ad una gamba una bambina che passava. Montalbano, dimenticando il malessere, si precipita a soccorrerla ma viene preceduto da un barbone, Lampiuni, che con precisione certosina blocca l’emorragia e salva la bambina.

Solo all’arrivo dei soccorsi, potrà finalmente riposare. Apprende più tardi da Fazio che il sindaco della città intende assegnare al misterioso Lampiuni un appartamento del comune, in segno di riconoscenza per il suo tempestivo intervento. Qui, Montalbano decide di incontrare Lampiuni nei pressi della stazione ferroviaria e lo apostrofa scherzosamente come “dottore”. Questi gli confessa la sua vera identità ma prega il commissario di non rivelarla. Montalbano lo rassicura ma in cambio gli chiede il favore di misurargli la febbre.

  • Ferito a morte

Riceve una telefonata da Catarella. L’omicidio di Gerlando Piccolo è avvolta dal mistero: in casa abitavano in due, lui e la nipote. L’assassino riesce a fuggire ma è chiaramente ferito. Le indagini partono, Piccolo era un usuraio e quelli che avrebbero voluto vederlo morto erano in tanti, ma il mandante dell’omicidio sarà una delle persone più insospettabili, proprio come l’effettivo esecutore materiale.

  • Un cappello pieno di pioggia

Montalbano si dovrà recare a Roma in seguito di una richiesta da parte del Sottosegretario. All’aeroporto, però, viene smarrita la sua valigia ed è costretto quindi a girare per Roma per rifarsi il guardaroba. All’uscita di un negozio incontrerà un vecchio compagno di scuola, Lapis, uno di quelli definito “di cattiva compagnia”, destinato a finire in galera. Lo invita a cena ma si inventerà una scusa per non accettare.

Finirà il suo colloquio col Sottosegretario, e nella sua stanza d’hotel riceverà una telefonata dallo stesso Lapis rinnovandogli l’invito. Non potrà più rifiutare e si recherà all’appuntamento. Durante il cammino però trova un cappello a terra pieno d’acqua a causa del temporale, e neanche il tempo di afferrarlo che l’azione avventata del proprietario lo coglierà alle spalle.

  • Il quarto segreto

Un incubo sveglierà nel cuore della notte il commissario. Nel sogno, Catarella muore in uno scontro a fuoco. Spera che non sia un sogno premonitore, le morti sul lavoro sono tristemente all’ordine del giorno anche a Vigata. Ma qualcosa di vero c’è: Montalbano sarà chiamato ad indagare sulla morte di un operaio albanese caduto da un’impalcatura. Il dubbio lo assale: è stato un incidente oppure un omicidio?

  • La paura di Montalbano

Montalbano si trova in vacanza in un habitat che per lui non è per nulla familiare: in montagna. Così, lasciando la fidanzata Livia a letto, parte alla scoperta della montagna che gli si presenta bella ma anche orrida nei suoi strapiombi. Sarà proprio qui, nella tranquillità della natura che sentirà un’invocazione d’aiuto.

  • Meglio lo scuro

Una vecchia ospite di una costosa casa di riposo in punto di morte confessa una verità scomoda al prete del paese, che contatta subito Montalbano e lo coinvolge nell’indagine. A quanto pare, la signora aveva commesso un crimine per il quale ha pagato un innocente ed ora il prete è riuscito a convincerla a raccontare tutto al commissario.
Un indagine vecchia di 50 anni, un avvelenamento che avvelenamento non era.
Il prete sa che Montalbano non potrà resistere e indagherà fino a sapere la verità.

Montalbano “è” e non può non essere

Lui aveva paura, si scantava di calarsi negli ‘abissi dell’animo umano’, come diceva quell’imbecille di Matteo Castellini. Aveva scanto perché sapeva benissimo che, raggiunto il fondo di uno qualsiasi di questi strapiombi, ci avrebbe immancabilmente trovato uno specchio. Che rifletteva la sua faccia.

Lo stile di Camilleri è inconfondibile: nella sua semplicità riesce a descrivere la Sicilia in tutte le sue forme e le sue bellezze. L’utilizzo di termini siciliani, spesso criticato per la difficoltà di traduzione, è in realtà del tutto azzeccato: l’autore non vuole scrivere il testo perfetto, ma il romanzo nella sua realtà. Una trasposizione del territorio in cui fa vivere ed agire, nel bene e nel male, tutti i personaggi nati dalla sua immaginazione.

Il commissario Montalbano è così: sarcastico, diretto, schietto, senza peli sulla lingua, arguto. Impossibile non amarlo. E’ così e non può non esserlo, proprio perchè vive in un contesto letterario, in un background narrativo che gli consente di essere così.

In un’intervista, lo stesso Camilleri confessa che Il nome Montalbano venne scelto dall’autore in omaggio allo scrittore spagnolo Manuel Vázquez Montalbán, padre di un altro famoso investigatore, Pepe Carvalho: i due personaggi hanno in comune l’amore per la buona cucina e le buone letture, i modi piuttosto sbrigativi e non convenzionali nel risolvere i casi e una storia d’amore controversa e complicata con donne anch’esse complicate.

La narrazione è leggera, sincera, scorrevole. Non ha intenzione di giraci troppo attorno, una delle sue caratteristiche è proprio quella di voler eliminare le descrizioni troppo superflui per dar spazio ai dialoghi, che non si elevano in un registro altolocato, ma mostrano il vero carattere della sua scrittura. Il protagonista, nella maggior parte dei casi, non ricade sempre sul commissario: viene considerato come un antieroe, un uomo sofferente nella sua posizione del mondo. Un uomo che ha paura e non nega di esserlo, una paura per l’ignoto, per il domani. Non sa cosa potrebbe aspettarsi e vive nella sofferenza dei suoi giorni. 

Andrea Camilleri è sempre stato una certezza. Se voleste intraprendere un viaggio nella conoscenza del vasto mondo del Commissario Montalbano, “La paura di Montalbano” potrebbe essere ciò che fa al caso vostro.

Victoria Calvo

Un inno all’Amore da parte di Giuseppe Fiorello

Non un mero film storico ma una vera e propria testimonianza! – Voto UVM: 5/5

 

Sono tante le nuove perle che il mondo del cinema ci ha regalato e ci sta regalando nel corso di questo mese di aprile, tra le tante possiamo annoverare la sorprendente animazione di Super Mario Bros (qui la nostra recensione), l’avventura di stampo storico de I tre moschettieri – D’Artagnan, ma uno dei titoli più emozionanti ce lo regala senza alcun dubbio il cinema italiano con un meraviglioso Giuseppe Fiorello alla regia di Stranizza d’amuri.

Una storia vera

Uscito nelle sale il 23 marzo è tratto da una tragica storia vera e da un tremendo fatto di cronaca.

La pellicola racconta dell’amore che sboccia tra due ragazzini, Gianni Accordino (Samuele Segreto) e Nino Scalia (Gabriele Pizzurro) in una coloratissima e inebriante Sicilia dell’ ’82.

Una Sicilia che non può accettare, per motivi sacri legati all’onore e alla famiglia, che due ragazzini possano provare, l’uno per l’altro, un amore così profondo e puro, ma tuttavia i sentimenti più veri non conoscono limiti e in un atmosfera tanto folkloristica quanto pesante, i due giovani si ostinano ad andare avanti, seguendo il loro cuore, in barba a tutto il resto del loro mondo che si ostina a remargli contro, finché due spari, due secchi colpi di pistola, non mettono brutalmente la parola fine ad una semplice e meravigliosa storia d’amore così pura e delicata: la fine di due poveri ragazzi colpevoli solo di amarsi.

Nino e Gianni in una scena del film
Nino e Gianni in una scena del film. Fonte: Fenix Entertainment

Una lotta per l’amore, tra realtà e finzione

“Non è un film d’amore, è l’Amore”

Sono le parole di Giuseppe Fiorello che ha, con questo film, esordito nella sua prima esperienza alla regia. Un inizio si potrebbe dire “col botto” per l’esito schiacciante degli incassi e la risposta del pubblico che a distanza di tempo dall’uscita del film ancora riempie le sale!

L’intento è, innanzitutto, quello di riportare a galla un cupo delitto sul quale, ancora, a distanza di anni, aleggia il mistero più totale. Ma non si tratta di un delitto qualsiasi, si tratta dell’uccisione di Giorgio Agatino Giammona e di Antonio Gatalola detti “i ziti di Giarre” dai loro compaesani, trovati morti mano nella mano il 31 ottobre 1980, vale a dire il primo delitto omofobo della Storia.

Un delitto che ha fatto rumore, che ha fatto scalpore, turbando gli animi di molta gente tra cui un piccolo gruppo che il 9 dicembre di quell’anno fondò a Palermo la comunità Arcigay. La prima comunità che si sarebbe da allora battuta per i diritti LGBT è nata in Sicilia.

Luci ed ombre di una Sicilia anni ‘80

È anche di questo che Fiorello ci vuole parlare in questo film, girato interamente nelle zone della sua infanzia da Marzamemi a Pachino.

Ci vuole raccontare la sua terra, la Sicilia com’era e invitarci ad un confronto su quanto è cambiato oggi, immergendoci, dunque, in un inebriante atmosfera piena di suoni e di colori che si riflettono negli sfiniti occhi di Gianni che insieme con Nino ha avuto per un attimo l’impressione di aver finalmente trovato un posto chiamato casa, un qualcuno da chiamare famiglia e qualcosa chiamata felicità.

È un attimo, però, che dal sentire la freschezza del mare e la torbida calura del sole, arriviamo a sentire anche le malelingue della gente del bar e dei paesani, lo sdegno e lo “sfottò” di tutti coloro che un “puppu cu bullu” non lo vogliono avere e non lo vogliono vedere, etichettandolo aspramente e segnandolo in eterno come diverso da loro.

È questa l’angosciante realtà che Nino ma soprattutto Gianni si trovano costretti a vivere in quel dorato angolo di Sicilia.

Gianni mentre viene importunato in una scena del film
Gianni mentre viene importunato in una scena del film. Fonte: Fenix Entertainment

Un dramma che persiste

È qui che parte inevitabilmente un altro tema che Fiorello ha voluto mettere in luce con questo film: la denuncia alla discriminazione degli omosessuali e in generale della comunità LGBT.

È, dunque, questo un film che vuole ricordarci che nonostante il tempo trascorso, l’omofobia è un grave dramma che persiste tutt’oggi.

Forse è proprio questo lo scopo principale del film: riuscire a scuotere il pubblico così come avvenne quando nei lontani anni ’80 vennero ritrovati i corpi senza vita di questi due poveri ragazzini.

Fiorello: una garanzia di sensibilità e un film testimonianza

Ambientato nella leggendaria atmosfera dell’82 anziché, come la storia vorrebbe, nell’80, Fiorello decide di inserire questo misterioso, e quasi sconosciuto, fatto di cronaca nell’atmosfera di un grande evento invece di rilevanza internazionale in quel periodo. Si parla dei mondiali dell’82 e della vittoria dell’Italia, evento che si incastra perfettamente con gli avvenimenti del film.

Il cast ci regala figure come Fabrizia Sacchi, Enrico Roccaforte, Simona Malato e tanti altri ma soprattutto degli straordinari Samuele Segreto (già noto per il ruolo di Sebastiano in In guerra per amore di Pif nel 2016 e recentemente come concorrente ad Amici) e Gabriele Pizzurro nel ruolo dei protagonisti.

Ruolo rilevante lo detiene anche la colonna sonora con le musiche dell’intramontabile Franco Battiato (a cui è dedicato il titolo del film) che accentuano maggiormente la poesia e l’inebriante atmosfera estiva che pervade tutto il film.

Cos’altro aggiungere? Ancora una volta Giuseppe Fiorello ci dà dimostrazione della purezza del suo animo e della profonda bontà del suo cuore regalandoci quello che a tutti gli effetti possiamo considerare, non un mero film storico, ma un film testimonianza; il racconto di una storia antica e moderna al tempo stesso che ha l’intento di svegliarci e farci aprire gli occhi, per fare in modo, una volta per tutte, che mai più saremo costretti ad ascoltare storie come questa: l’amore, in ogni sua forma, non dev’essere più considerato un difetto!

 

Marco Castiglia

Federico II: il sovrano che diede lustro alla Sicilia

Il sentire comune definisce la Sicilia terra di mare, buon cibo e arretratezza d’economia e di pensiero. Agli albori del 1200 un sovrano le regalò lo splendore che essa meritava. Sotto il dominio di Federico II di Svevia la Sicilia fiorì dal punto di vista economico e culturale trasformando la corte di Palermo nella sede di intellettuali, artisti e poeti più rinomati di tutto il regno.

Federico II di Svevia e il lustro di Sicilia

La corte era organizzata attorno ad una serie di funzionari regi che promuovevano la sua affermazione economica e culturale. Grazie all’ambiente costruito da Federico II nasce la prima esperienza letteraria in volgare ispirata alla lirica provenzale: la scuola poetica siciliana.

I temi più ricorrenti sono l’amore e la passione espressi attraverso la forma metrica del sonetto. La lingua utilizzata era quella siciliana dal punto di vista fonetico arricchita di latinismi e provenzalismi.

Federico II promosse una serie di iniziative artistiche che avrebbero dovuto abbellire il regno di Sicilia con la loro raffinatezza ed eleganza. Primo fra tutti il Castel del Monte, una costruzione iniziata nel 1240 dotata di una pianta i cui vertici di ogni lato possedevano una torre angolare. Risalta all’occhio l’ampio cortile centrale e l’arco acuto tipico dell’architettura gotica.

A continuazione il Castel Maniace, situato a Siracusa e realizzato nel 1234, presenta una pianta regolare con delle torri angolari nonostante il progetto originario fosse quello di realizzare un grande spazio voltato con delle campate quadrate. Da notare alcuni aspetti sofisticati come la compattezza planimetrica e i dettagli ornamentali.

Interno di Castel Maniace con veduta delle campate e dei capitelli “a crochet”. Fonte: stupormundi.it

Lo “Stupor Mundi” – l’uomo moderno del Medioevo

Le riforme di Federico II non si concentrarono unicamente sull’architettura e sull’arte bensì su tutto il territorio.

A cominciare dal progetto di unificazione del regno per poi passare al rafforzamento del potere monarchico e alla creazione di una legislazione universale. Il codice di leggi da lui adottato si rifaceva al diritto romano e a quello normanno; ciò conferì al regno un carattere autoritario e centralizzato.

Una centralità che giovò anche dal punto di vista socio-culturale e svolse il ruolo di compattezza e integrazione della popolazione che finalmente si sentì parte di un territorio non più frammentato.

Nonostante tali cambiamenti, nella scuola siciliana il tema politico è totalmente assente. Il tema dell’amore viene posto su un gradino superiore a causa del suo particolare prestigio. I poeti manifestano il desiderio di vivere l’amore con distacco dal contesto sociale facendo prevalere la sfera intima e privata.

L’uomo dell’inizio – Giacomo da Lentini

Nella scuola poetica siciliana di Federico II, sono numerosi gli illustri letterati che ne fanno parte ma, quello che può essere definito il capostipite di un’intera tradizione, è Giacomo da Lentini.

Incipit della canzone di Giacomo da Lentini “Madonna dir vo voglio”, Manuscript Palatino 418, (ora Banco Rari 217, c. 21v ). Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Fonte: wikimediacommons.org

 

Egli, come suggerisce il nome, nacque a Lentini, una cittadina in provincia di Siracusa, fu notaio presso la corte di Federico II e questo gli valse l’appellativo di “notaro”, così citato anche da Dante nel XXIV canto della Divina Commedia.

“O frate, issa vegg’io”, diss’elli, “il nodo
che ’l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!”

La poetica di Giacomo Lentini, espressa nel suo Canzoniere, riunisce tutti i temi e le soluzioni formali che ebbero diffusione tra tutti i poeti siciliani. In esso si trova il paradosso dell’incomunicabilità, secondo cui il poeta non può dichiarare il suo amore senza svilire sé stesso e la donna amata, riassunta mirabilmente nel verso:

 Amor non vole ch’io clami
merzede c’onn’omo clama,
né che io m’avanti c’ami,
c’ogn’omo s’avanta c’ama

(Amor non vole ch’io clami)

Ma anche il motivo che sarà cardine del “stilnovismo” dell’ineffabilità del sentimento espressa nella canzone Madonna, dir vo voglio:

Lo meo ’namoramento
non pò parire in detto

Al Notaro è attribuito anche il vanto d’essere l’iniziatore di una tradizione poetica complessa e definita “chiusa” (trobar clus, ripresa dalla tradizione provenzale) che avrà il suo culmine in Guittone d’Arezzo.

Infine, e non per ordine d’importanza, al poeta federiciano è attribuita l’invenzione di una forma metrica che sarà alla base di tutta la tradizione poetica italiana, il sonetto.

 

Alessandra Cutrupia

Gaetano Aspa

 

 

Una tragedia nel catanese: Elena, bimba di 5 anni, uccisa dalla madre. Non si trattava di rapimento

Non si trattava di rapimento, ma di un orrore ben più grande, che era quasi impossibile immaginare. La piccola Elena, la bambina di 5 anni di Tremestieri Etneo, di cui era stato denunciato un rapimento, è stata trovata senza vita. A macchiarsi dell’atroce delitto, la stessa madre, Martina Patti.

La piccola Elena e la madre Martina Patti (fonte: www.tgcom24.mediaset.it)

La confessione dopo ore di interrogatorio

Dopo una notte di interrogatori, la ventitreenne Martina Patti, madre della bambina scomparsa due giorni fa, ha confessato. La ragazza aveva sporto denuncia per rapimento, raccontando di esser stata assalita da tre uomini incappucciati, di cui uno armato, i quali le avevano portato via la figlia che era lì con lei, circa alle ore 15: dopo aver bloccato la vettura che lei conduceva lungo via Piave, il presunto gruppo l’avrebbe minacciata con una pistola o una mazza, sottraendole poi la bambina e dichiarando di volerla uccidere.

Stamane, alla fine è emerso che la piccola Elena sia stata uccisa proprio dalla madre. Gli inquirenti hanno rivelato di aver protratto per un’intera notte l’interrogatorio: la ricostruzione del tragico avvenimento fatto da Martina Patti aveva suscitato dei dubbi sin da subito. Il rapimento era una copertura dell’omicidio.

Nell’interrogatorio “erano state contestate varie incongruenze“, aveva affermato il pm Carmelo Zuccaro, prima della definitiva dichiarazione confessoria. Sin dall’inizio vi erano molti sospetti, suscitati dalla mancanza di testimoni, oltre lei stessa: l’ipotesi che la piccola Elena fosse stata rapita da un gruppo di uomini incappucciati è stata smentita dalle telecamere di sorveglianza, che non avevano registrato alcun tipo di situazione simile a quella raccontata.

Inoltre, non era stata fatta alcuna telefonata alle forze dell’ordine subito dopo l’aggressione, ma Patti si è direttamente recata, con dei familiari, al comando di Mascalucia per presentare la denuncia. Perciò i Carabinieri hanno insistito con le domande.

Quest’ultima, sotto pressione, dopo ore di interrogatorio, infatti, ha ammesso: “Sono stata io” e “Vi porto da Elena”.

In lacrime, ha così portato gli investigatori nel posto in aveva occultato il corpicino della figlia, un terreno incolto, in via Turati, a circa 600 metri dalla propria abitazione dove viveva da sola proprio con la bambina.

 

Le “anomalie” nella ricostruzione del rapimento

Omicidio premeditato pluriaggravato e soppressione di cadavere: queste le accuse rivolte dalla Procura di Catania alla reo confessa, che è stata trasportata alla casa circondariale di Catania “Piazza Lanza”. Gli inquirenti pensano anche a una premeditazione. Nella prima fase dell’inchiesta, è stato anche contestato il reato di false informazioni al pubblico ministero, avendo mentito.

Martina Patti ha chiarito la dinamica del delitto, anche se non del tutto, dichiarando di aver anche rimosso alcune fasi, come se non fosse realmente cosciente di ciò che stesse facendo. Non ha, invece, svelato il movente.

La donna si è dichiarata unica colpevole del delitto e ha fornito la ricostruzione reale dei fatti, seppur frammentaria: dopo aver preso la figlia all’asilo, aveva deciso di dirigersi a casa della madre, la nonna di Elena, aggiungendo che da quel momento in poi non ricordasse bene ciò che era accaduto. Alla fine ha detto:

Le ho dato un budino, guardava i cartoni, poi l’ho colpita“.

Sul corpicino di Elena, sono stati trovati segni di fendenti inferti un coltello da cucina e forse con un altro oggetto. La bimba senza vita era stata poi trasportata nel luogo del ritrovamento, posta in dei sacchi neri e nascosta nella terra e ricoperta di cenere vulcanica, ma non in profondità.

L’assenza di un riscontro tra immagini di telecamere che attestassero il passaggio di un gruppo armato nell’orario indicato da Patti è stata la conferma iniziale ai sospetti. I carabinieri della sezione Investigazioni Scientifiche stavano svolgendo dei sopralluoghi nell’abitazione della donna, quando questa ha confessato.

La donna non rivela il movente

Il padre della bambina, il ventiquattrenne Alessandro Nicodemo Del Pozzo, recatosi sul luogo del ritrovamento del corpo della figlia è scoppiato in lacrime. Con Martina Patti non vivevano più insieme da tempo. Le stesse indagini hanno rilevato il “quadro di una famiglia non felice, in cui la gioia della figli a non ha compattato la famiglia”. A rivelare quanto detto è stato il comandante del reparto operativo dei Carabinieri di Catania, il colonnello Piercarmine Sica, il quale ha confermato l’esclusione di un complice nel delitto.

Lo stesso comandante è ritornato sulla questione del movente, non dichiarato dalla reo confessa: gli inquirenti hanno ipotizzato che possa esser stata gelosia, o meglio, la gelosia nei confronti della nuova compagna dell’ex convivente, a cui la figlia si era profondamente affezionata e verso cui dimostrava affetto. Elena sarebbe stata “troppo felice” con i nonni paterni, il padre e la sua nuova compagna.

Ancora si dovrà indagare, nulla è confermato. Intanto, l’avvocato di Martina Patti ha annunciato di voler far visitare l’assistita da uno psichiatra molto noto, per verificarne le condizioni di salute mentale.”.

 

Le dichiarazioni dei nonni e della zia paterna fanno luce su una situazione difficile

I familiari di Elena, da parte paterna, appresa la realtà di quanto accaduto hanno dichiarato che sarebbe stato impossibile immaginare una cosa del genere. “La madre di Elena era una ragazza molto chiusa, ma non riesco a spiegarmi il motivo di quello che è accaduto” ha detto il nonno paterno di Elena.

Avevamo creduto alla storia degli uomini incappucciati: non avevamo ragione di non credere.” ha dichiarato, invece, la nonna paterna, Rosaria Testa, sul luogo del ritrovamento della nipotina. Proprio la donna ha rivelato dettagli che potrebbero confermare il movente della gelosia: Martina Patti sarebbe stata ossessionata con l’ex compagno, il figlio della signora.

Anche la zia paterna di Elena, Martina Del Pozzo, ha apportato racconti che testimonierebbero comportamenti strani da parte di Martina Patti:

“La mamma di Elena voleva incastrare mio fratello. Un anno fa mio fratello fu accusato ingiustamente di una rapina, ma fu scagionato completamente. Quando dal carcere passò ai domiciliari, sotto casa trovammo un biglietto di minacce con su scritto “Non fare lo sbirro, attento a quello che fai”. Mio fratello non sa nulla di nulla. A quel biglietto la madre della bimba ha fatto riferimento dicendo che avevano rapito Elena. Martina disse che quelle persone incappucciate avevano fatto riferimento al biglietto dicendo “non ti è bastato il biglietto? Digli a tuo marito che questa è l’ultima cosa che fa: a sua figlia la trova morta”.”

Del Pozzo era stato accusato di rapina effettuata in una gioielleria di Catania, per cui fu arrestato il 15 ottobre 2020, ma assolto per non aver commesso il fatto. A questo avvenimento, la ventitreenne Patti avrebbe fatto riferimento, nelle prime dichiarazioni, riconducendo il rapimento della figlia – da lei inscenato – a una conseguenza di questo fatto accaduto all’ex compagno. Potrebbe essersi, dunque, trattato di un tentativo di incastrare il ventiquattrenne.

Insomma, la donna fu più volte colta in atteggiamenti strani, come quando, secondo quanto raccontato dalla donna paterna: “Un giorno la mamma le stava dando botte (ad Elena, ndr) e gliela abbiamo dovuta togliere dalle mani”. Però, mai era stata fatta una segnalazione agli assistenti sociali. Il sindaco della cittadina Vincenzo Magra, ha spiegato che a Mascalucia non si conosceva bene la famiglia, perché da pochi anni lì trasferitasi.

Sicuramente questo caso sottolinea, come altri, quanto sia necessario seguire da vicino persone, in momenti fragili della propria vita, come giovani madri, ma anche giovani padri, nelle prime fasi della genitorialità, quando queste si svolgono in condizioni complicate.

Rita Bonaccurso

La Sicilia: “fìmmina” raggiante e lussuosa

Un omo può campare per cent’anni allato a ‘na fìmmina, dormirici ‘nzemmula, farici figli, spartirici l’aria, cridiri d’avirla accanosciuta come meglio non si po’ e alla fini farisi pirsuaso che quella fìmmina non ha mai saputo com’è fatta veramenti.” 

Determinate, coraggiose, passionali, affettuose.

Le donne di Camilleri non sono figure che appaiono tacitamente per poi scomparire dopo poche battute. Sono personaggi autentici, dalle mille sfaccettature, ammalianti e ardenti. 

Sono così vive che il lettore può sentirne il profumo, il tono di voce, la cadenza ritmica dei passi e persino l’andatura dei battiti. Ogni parola, mai volgare, le esalta nella loro interezza di fìmmine suscitando nel lettore quella magnetica attrazione che lo spinge a voltare incessantemente pagina, mosso da un insaziabile istinto famelico di curiosità.

Una brama così potente, che s’egli potesse, trasformerebbe quei dipinti creati dalla fantasia dell’autore, in una realtà alterata.  

Livia e Angelica: due facce della stessa medaglia

Che siano ladre, assassine, amanti o nemiche del Commissario Montalbano, le donne hanno un ruolo da non sottovalutare. E per quanto il nostro protagonista si sforzi di osservarle, di comprenderle, di risolvere l’enigma che ogni donna cela dentro di sé, rimangono sempre contornate da una sfera di mistero.

A cominciare da Livia, fidanzata, amante, amica e discreta confidente di Salvo, che di fronte a lei non ha bisogno di interpretare il ruolo di commissario, né di alzare le barriere di coraggio necessarie sul posto di lavoro. Di fronte a Livia, crollano le incertezze di omo che egli ha sempre dovuto reprimere; la paura di non essere all’altezza della sua donna lo pervade soprattutto quando incontra Angelica Cosulich, trentenne vittima di un furto narrato nel romanzo Il sorriso di Angelica, che esercita un’attrazione fatale nei confronti del Commissario di Vigàta. 

Se Livia rappresenta “il grande bacino di Venere” in grado di contenere i suoi più oscuri istinti, Angelica al contrario rappresenta quel desiderio sfrenato di consumare un amore giovanile ritrovato tra le pagine illustrate del poema di Ariosto, con l’unica differenza che l’Angelica dell’Orlando furioso Montalbano non aveva mai potuto vederla in carne ed ossa di fronte a sé. 

Livia sul set cinematografico de “Il commissario Montalbano” – Fonte: repubblica.it

 

“Livia era l’unica al munno che l’accapiva come manco lui arrinisciva ad accapirisi”; averla tradita con Angelica lo faceva sentire meno uomo di quel che credeva essere diventato. 

Ridicolo! Si stava addimostranno un omo ridicolo! ’Nnamurarsi accussì d’una picciotta che potiva essiri sò figlia! Che spirava d’ottiniri? Doveva troncari subito. Non era dignitoso per un omo come lui!

Eppure, proprio quando credeva si trattasse solo di un’infatuazione, Angelica si presentò a Marinella, in casa del Commissario, ed egli non riuscì a resistere.

Montalbano, con lintizza, raprì la porta. E sapiva, mentri che lo faciva, che non stava sulo raprenno la porta di casa, ma macari quella della sò pirsonali dannazioni, del sò inferno privato.

Il profilo di Angelica sembrava “addisignato da un mastro d’opira fina” e lo stesso Salvo ammette che anche se tutto il suo essere la desiderava, un parte del suo cervello ancora opponeva resistenza. Un’opposizione dovuta alla lealtà nei confronti di Livia o nei confronti del suo essere omo

Margharet Madè  interpreta Angelica ne “Il commissario Montalbano” – Fonte:tvzap.kataweb.it

 

Montalbano sapeva che se esisteva una persona al mondo a cui poteva raccontare tutto, persino di averla tradita, quella era Livia. Eppure, una volta rivelato il peccato commesso, una vivace risata sconvolse il Commissario dall’altro capo del telefono: Livia s’era convinta che il suo amato fosse in vena di scherzare, poiché si sarebbe fatto scuoiare vivo piuttosto che ammettere di essere stato con un’altra donna!

Eppure, Montalbano con un’altra donna c’era stato. E l’unica cosa che aveva capito era che principalmente aveva tradito se stesso.

Cosa, dunque, può accomunare Livia e Angelica? Due donne tanto diverse cui principio fautore delle loro azioni risiede nella fedeltà.

Fedeltà in primis a loro stesse; Livia, in quanto fidanzata, rimane coerente per ciascun romanzo al ruolo di sincera innamorata del Commissario. 

Angelica, in quanto seduttrice spudorata di una serie indefinita di uomini con cui condivide la sua intimità, rimane fedele al suo irrinunciabile appetito sessuale.

L’errore di Montalbano in definitiva, consiste nell’aver sovrapposto l’immagine di Angelica con quella dell’eroina di Ariosto, credendo di essere ancora un giovane che può concedersi il lusso di contraddirsi come solo un omo innamorato può fare!

Ingrid: impavida amica del Commissario

Svedese, attraente, coraggiosa e audace. Ingrid Sjöström diventa, sin dal primo romanzo di Camilleri “La forma dell’acqua”, amica e complice del Commissario.

Il volto cinematografico di Ingrid –  Fonte:screenweek.it                                             

Vittima di un marito che non la ama abbastanza da notare le violenze sessuali che il suocero le riserva, qualcuno cerca di incastrarla sfruttando a proprio vantaggio i suoi modi sensuali e disinibiti per mettere in atto un ingarbugliato delitto avvenuto a Vigàta.

Sarà proprio il nostro Commissario a capire l’innocenza di Ingrid al punto di distruggere le prove create dal presunto colpevole. 

Nonostante l’autore descriva principalmente la giovane come “una vera fìmmina da copertina”, ciò che emerge maggiormente dalla narrazione è il suo animo astuto e impavido che non rinuncia al desiderio di padroneggiare del suo corpo senza vergogna e lotta fino allo stremo per rivendicare il diritto di disporre della sua sessualità in maniera libera e spregiudicata

Ingrid è una donna che non si arrende alle meschinità di quelli che lei rifiuta di considerare veri òmini.

Cos’è dunque la Sicilia, se non una fìmmina che mette in ginocchio chiunque provi a calpestare ed offuscare il suo valore?

 

Alessandra Cutrupia