Il bosco

Il bimbo tornava a casa con lo zaino in spalle. L’aria era fredda e secca, il vento soffiava, le foglie cadevano. Gli alberi erano rossi e lui scalciava le foglie mentre camminava. Tornava a casa dopo scuola, in un pomeriggio dove il sole stava piano piano calando e le ombre si allungavano.
Arrivato a casa entrò subitoin camera per gettare a terra lo zaino e buttarsi a letto. Restò a faccia in giù sul materasso per qualche secondo e poi alzò lo sguardo lasciando andare un sospiro: sopra il suo letto stava una mensola con i vecchi libri di suo nonno. Prese il suo preferito, un piccolo racconto d’avventura dove i protagonisti erano trasportati su un’isola nel mezzo all’oceano. Lo aprì su un’illustrazione di un gigantesco mostro, il corpo ricoperto di piume sgargianti, le fauci aperte su denti enormi e giallastri.
Il bambino sentì un rumore alla finestra. Si girò e vide una bambina che lo salutava dall’altra parte. Aveva addosso un maglione ed una sciarpa rossi, lunghi capelli neri, ed un sorriso sgargiante. La guardò con un interesse che sapeva non essere normale e andò ad aprire le ante. “Ciao, ti va di venire con me?” gli chiese. “Dove vuoi andare?” gli rispose il ragazzino. La bimba indicò dietro in alto alla sua destra “Andiamo lì, guarda”, e andò via indicandogli di seguirla.
Il bimbo saltò dalla finestra e si mise ad inseguirla. All’inizio le camminava dietro, ma lei aumentava il passo andando. Si girò indietro e lo guardo sempre sorridendo, “Avanti stammi dietro!” e si mise a correre. “Dove stiamo andando?” “L’albero in cima alla collina” rispose lei col fiatone e guardandolo adesso con gli occhi spalancati.
Avevano superato il prato e adesso si trovarono davanti all’inizio del bosco che saliva sulla collina. “Aspettami!” esclamò lui, e si fermò a riprendere fiato. Il bosco lo avevo sempre guardato da lontano, chiedendosi cosa ci fosse lì dentro: ogni tanto vedeva uno stormo uscire da quegli alberi e si chiedeva sempre se fosse le casa di quelli uccelli e di chissà cos’altro. “Vieni dobbiamo arrivare in alto, manca ancora tanto” gli esclamò da dietro il sottobosco la bambina. Alzò lo sguardo e la vide lì in fondo, ad aspettarlo, con la sciarpa impigliata in un ramo, il viso arrossato e il fiato corto.
Salì verso di lei calpestando le piante per farsi spazio. Appena passò il primo tronco qualunque rumore esterno si fece opaco. Adesso percepiva dei rumori tra gli alberi, appena udibili ma chiari e presenti nella sua mente.
La bambina gli venne incontro correndo, lasciando sul ramo la sciarpa senza accorgersene. “Vieni dai, che aspetti!” gli disse prendendolo per la mano e trascinandolo con sé. Lui la seguì inciampando parecchie volte sulle pietre e spezzando le piante che aveva davanti. Anche l’aria adesso era piena e la luce che proveniva da sopra gli alberi colpiva le foglie in maniera strana dandogli un verde che lui credeva di non aver mai visto.
Si fermarono di colpo, con lei che teneva gli occhi sbarrati e si portava l’indice alle labbra. Si guardò intorno e lo guardò sorridendo a bocca aperta: “Senti?” gli chiese. Si fermò e ascoltò anche lui: era un suono basso in lontananza, tanti esseri che si muovevano. “Sono oltre il picco, possiamo vederli se arriviamo in cima” disse lei e si precipitò via lasciandolo indietro.
Questa volta faticò a starle dietro, lei correva senza preoccuparsi più di nulla, saltando a piè pari i tronchi. Mentre si avvicinavano alla cima la boscaglia si faceva più rada ed un vento freddo aveva cominciato a farsi sentire.
L’albero era solitario lassù, lasciato in pace dagli altri, svettava su tutto. Le foglie di un verde dorato venivano mosse dal vento, le radici sbucavano dal terreno mentre il bimbo saliva. La bambina era già in cima e si sbracciava chiamandolo: “Dai vieni veloce, vieni a vedere prima che vadano via”. Lui le corse in contro, ora eccitato: uno strano odore proveniva dal gigantesco albero che, dolce e pungente, gli riempiva i sensi. Arrivato in cima la bimba andò dal lato opposto del tronco, lui la seguì e insieme guardarono giù: una mandria di animali pascolava nella vallata sotto di loro, i corpi lunghi e pesanti trascinati piano piano dalle loro zampe. Erano quadrupedi, con un lungo collo da cui sporgevano delle sacche che sembravano gonfiarsi col loro respiro. Dal capo fino alla punta della lunga coda erano ricoperti di sottili piume, che colpite dal sole variavano dal verde ad un giallo caldo; alcuni erano avevano tonalità più scure, altri quasi si confondevano con l’erba. Uno di questi animali alzò il collo e barrì profondamente: il bimbo lo sentì forte e chiaro da quella distanza e sentiva che se fosse stato più vicino gli sarebbe risuonato nelle ossa. L’animale cambiò direzione e si allontanò nella direzione opposta a quella da cui lo guardavano i due seduti adesso accanto al tronco sul colle: fu seguito mano a mano anche dagli altri.
Il bimbo guardò lontano e vide alla sua destra che la valle che stava osservando andava a finire verso un mare che non aveva mai saputo essere lì. Vedeva appena la spiaggia da lì lontano, ma scorse un gruppo di animali muoversi laggiù e prendere il volo subito dopo. Venivano verso di lui, probabilmente avrebbero attraversato il bosco che aveva appena passato. “Non c’era tutto questo” si ritrovò a dire senza rivolgersi a nessuno, poi guardò la bambina: i suoi occhi erano verdi e dentro la sua iride sembrava scorrere qualcosa che gli faceva cambiare colore, come un fiume che lento si muove. Il bambino la guardò meravigliato e spaventato allo stesso tempo, lei gli sorrise e portò di nuovo lo sguardo lontano oltre l’altura su cui si trovavano. “Bello vero?” disse lei.

 

Matteo Mangano

La nascita della scrittura. Tra Oriente ed Occidente

Quando l’essere umano concepì l’idea di gestire il territorio circostante più che sfruttarlo – ovvero quando egli sperimentò le prime tecniche di produzione agricola e di allevamento, a discapito delle tecniche di caccia e raccolta –, col tempo, raggiunse una sufficienza alimentare che permise ad una parte della società di dedicarsi ad altre attività, prima impensabili.

Chi, prima, occupava tutta la giornata con pericolose battute di caccia, adesso, se non coltivava i campi o badava agli animali, si occupava di fabbricare utensili e ceramiche, di gestire la comunità sempre più numerosa oppure entrava in contatto con gli dèi.

Nacquero, così, le prime civiltà.

Queste innovazioni contribuirono alla nascita delle prima grandi comunità dell’uomo. Eppure, se dovessimo metterle a paragone con un’altra, grande innovazione avvenuta qualche secolo dopo, ci renderemmo conto di quanto esse non siano, del resto, gli unici inneschi della civiltà umana.

Solchi nell’argilla

È parere concorde, tra gli studiosi, ritenere che la nascita della scrittura sia avvenuta nel Vicino Oriente Antico intorno al 3500 a.C. e che sia direttamente collegata alla sovrapproduzione alimentare che, innescando un aumento demografico, comportò la nascita di vari settori specializzati e di nuovi prodotti. Ne consegue il crearsi di nuove relazioni di interscambio tra queste comunità, anche molto distanti da loro.

L’evoluzione di questi rapporti socioeconomici, che noi comunemente chiamiamo commercio, produsse la necessità, per le comunità, di un mezzo che, oltre a facilitare le operazioni di calcolo delle sovrabbondanze, potesse registrare entrate ed uscite nelle relazioni commerciali. Fu, così, ideata la scrittura.

Ad un primo utilizzo di sigilli per garantire l’inviolato contenuto di lettere e magazzini, equivalenti ad una firma e rappresentanti scene di vita quotidiana, si passò ben presto ad incidere segni su una cretula (un pezzo globulare di argilla, posto sull’apertura del contenitore), che divennero col tempo sempre più complessi.

Questo nuovo mezzo richiedeva una conoscenza e una preparazione piuttosto elevata, posseduta da pochi membri della comunità. Pertanto, di pari passo alla scrittura, nacque anche la casta di coloro i quali erano gli unici a conoscerne i segreti: gli scribi. Questi funzionari, oltre ad annotare i rendiconti economici della comunità, iniziarono anche ad essere adoperati dal sovrano per scrivere missive da inviare ai subordinati e lettere ai propri pari.

La scrittura, in breve tempo, divenne pilastro fondante della società umana.

Questo è, per lo meno, il caso dell’Occidente.

Evoluzione della scrittura cuneiforme. Da Pastena, 2009.

E prese carta e penna

Quasi la totalità dei fenomeni umani si evolve e si distribuisce, nel mondo, per irradiamento. La lavorazione del ferro, nata nel Vicino Oriente Antico, a partire dal X-IX sec. raggiunse la Grecia, mentre il sistema di scrittura alfabetico, invenzione tipica delle comunità siro-fenicie del Levante, fu adottato, poi, dalle stesse popolazioni greche con cui i Fenici intrattenevano rapporti commerciali.

Qualsiasi meccanismo, innovazione tecnologica, cambiamento nasce per poi diffondersi in una traiettoria più o meno ampia di movimento. Eppure, esistono dei fenomeni che non sono vincolati dal meccanismo dell’irradiamento.

Pratiche come la produzione ceramica, la navigazione, la stessa agricoltura e, per finire, la scrittura sono delle attività antropiche molto complesse le cui zone aborigene sono inesistenti, proprio perché nacquero più o meno contemporaneamente in divere parti del mondo.

Per l’ultimo caso, nostro argomento in analisi, la scrittura nacque indistintamente sia in Occidente, nel Vicino Oriente Antico, sia nell’Estremo Oriente, in Cina. È interessante notare come l’emersione di questo fenomeno sia stato del tutto naturale ed indipendente, come se fosse parte del nostro patrimonio genetico.

Non ci fu nessun ipotetico contatto tra le popolazioni della Mesopotamia e quelle della Cina, eppure la scrittura nacque in entrambi i posti, seppur in tempi e per motivi diversi.

I segni del “Cielo”

Inventata nel corso del XIII sec. a.C., la scrittura cinese si sviluppò come supporto oracolare, estraniandosi, dunque, dal tipico utilizzo amministrativo mesopotamico. Sono simboli incisi su carapaci di tartarughe e scapole bovine, utilizzati dagli sciamani per avvicinare il mondo spirituale.

La scrittura, in Cina, si sviluppò con le stesse modalità con cui si svilupparono la scrittura maya, egizia e mesopotamica. Furono collegati a delle immagini dei suoni. I foni, o suoni, divennero parole. Successivamente, per poter indicare concetti più astratti, i Cinesi incominciarono ad utilizzare dei caratteri per indicare anche altri foni che suonassero simili, a mo’ di rebus.

In tal modo, una moltitudine di caratteri perse il suo significato originario, finendo per diventare  “impalcature” lessicali. I caratteri utilizzati dalla dinastia Shang, ovvero la prima dinastia “cinese” ad utilizzare – per quanto ne sappiamo – la scrittura, sono del tutto diversi da quelli usati oggi nelle città di Pechino, Shanghai e Hong Kong. Essi, infatti, erano utilizzati per fissare e, forse, intensificare i riti cultuali.

La scrittura era un potente amplificatore delle capacità spiritiche dell’oracolo o dello sciamano locale. Proprio per la loro complessità, la scrittura cinese si offre, nella sua fase embrionale, alle abilità di pochi elementi a corte, padroni di questa nuova “arte”.

Ci vorranno diversi secoli perché la scrittura sia effettivamente utilizzata in ambito amministrativo e diplomatico. La scrittura cinese nasce circa 2.200 anni dopo quella mesopotamica e viene adoperata dalle cancellerie cinesi solo quando Roma inizia la sua espansione nel Mar Mediterraneo.

Evoluzione della scrittura cinese antica.

Le diverse esigenze degli abitanti della Mesopotamia e della città di Anyang (sito delle prime testimonianze di scrittura cinese) costituirono due punti di partenza diversi verso la stessa meta, uno strumento che potesse semplificare le mansioni più complesse per le società del periodo, il commercio e la divinazione.

Pertanto, a profonde differenze si alternano interessanti analogie. che sembrano essere presenti in tutte le scritture del mondo. La nascita della scrittura è, difatti, sempre uguale nelle sue modalità.

 

Fonti:
Mario Liverani, Antico Oriente: storia, società, economia. Laterza, 2009.
Federico Giusfredi, Il Vicino Oriente antico: breve storia dalle origini alla caduta di Babilonia. Carrocci, 2020.
Kai Vogelsang, Cina: una storia millenaria. Einaudi, 2017

https://www.treccani.it/enciclopedia/la-nascita-e-l-evoluzione-della-scrittura_(Storia-della-civilt%C3%A0-europea-a-cura-di-Umberto-Eco)/

Vite nascoste

Il fiore era stupendo, si ergeva con tutta la sua magnificenza. Sembrava che non potesse morire mai. Non era come i classici fiori mortali, che alla fine del loro ciclo di vita appassiscono. Questo gli attribuiva un’aura di bellezza collaterale: il tempo scorreva, ma i petali non perdevano il colore rosso intenso. Ma ecco che ad un certo punto Denise iniziò a percepire qualcosa. Una mano si allungava per prendere il fiore e cominciava a staccarne i petali, che cadevano così per terra. Tutti i petali caddero e perirono, ma solo uno rimase attaccato al ricettacolo. La mano scomparve, al suo posto ne apparirono migliaia e Denise non riusciva a riconoscerne l’appartenenza. All’improvviso quel luogo, inizialmente cosi soave e puro, non le apparve più familiare e lei cercò di fuggire. Ma tornò la mano minacciosa, che voleva stritolare il fiore e questa volta Denise non poté più scappare.

Si destò improvvisamente. Attorno contorni poco chiari, ma a poco a poco la stanza assunse i suoi colori. Lo sguardo si posò sull’orologio: le 05:18, praticamente l’alba. Si alzò, si lavò e si vestì. Non prendeva mai caffè, poiché la notte faceva fatica a dormire. Accese la televisione e trovò le repliche di un programma di cucina. Passati dieci minuti si abbandonò di nuovo sullo schienale della poltroncina. Non voleva riaddormentarsi per paura degli incubi, ma il morbido della stoffa la cullava ed era caldo come….

Le sue labbra e lei si lasciò andare a quella sensazione. Le loro labbra si staccarono dopo una ventina di secondi e lei incrociò di nuovo il suo sguardo. Era bello abbandonarsi a quella sensazione, che la trascinava lontano dalla vita e dai problemi. “Hai incontrato mio padre ieri?” gli chiese. Suo padre era stato arrestato alcune settimane prima e ora il suo fidanzato, che si preoccupava sempre per lei, si era offerto di andare a fargli visita al suo posto. Dal canto suo, Denise non provava il desiderio di vedere un uomo che non sentiva più come genitore. Non dopo ciò che era successo, non dopo quello che aveva fatto. Aveva, però, bisogno di sapere se il suo fidanzato era andato ad incontrarlo. “Sai che certe cose non te le posso raccontare, Denì. Lo faccio per farti sentire al sicuro. Però si, ieri sono dovuto andare, perché era importante” concluse lui. Un triste pensiero attraversò il volto della ragazza e la ricondusse alla realtà. Sua madre era scomparsa, lei l’aveva cercata insistentemente, senza riuscire ad avere sue notizie, ed era giunta alla triste conclusione che probabilmente non c’era più. L’unico che poteva sapere qualcosa era suo padre, che ora si trovava dietro le sbarre. Lei era rimasta con i dubbi e la sola compagnia del suo ragazzo a consolarla. “Andiamo in spiaggia” le propose lui, per smorzare la tensione. Effettivamente era proprio ciò di cui avevano bisogno. La spiaggia era satura dell’odore della salsedine ed entrambi rimasero stesi sulla sabbia per un paio d’ore. Ma qualcosa interruppe quel momento, unica nota positiva di una canzone che pareva annunciare solo tragedie. In lontananza si sentirono le sirene di due volanti. “E ora che cosa succede?” disse Denise. Lui posò lo sguardo prima sul mare, poi su di lei e nuovamente verso il mare. “Quello che ti potevo dire te l’ho detto, ma il resto non te l’ho mai rivelato perché non ne avevo il coraggio” disse. “Che cosa c’é di così grave che non mi hai detto? Perché mi nascondete sempre tutto?” rispose frustrata, mentre le volanti si fermavano sul ciglio della strada antecedente la spiaggia. Scesero dei carabinieri e, senza proferire parola, presero il suo fidanzato, che nemmeno reagì, in custodia. Uno di loro le parlò. “Denise, mi dispiace molto per quello che sta succedendo, ma per motivi di sicurezza devi venire con noi”. Scossa e in lacrime, si lasciò andare sul sedile dell’altra volante, con lo sguardo ancora posato su quelle sirene.

Il rumore della televisione la scosse all’improvviso. Si era di nuovo addormentata, mentre in tv andava in onda un poliziesco. C’era una volante impegnata in un inseguimento e il volume era alto, si sentivano suonare le sirene. Non ricordava esattamente il nome della fiction, ma osservando l’orologio si rese conto che erano le nove del mattino. Aveva dormito un po’ alla fine. Fece le pulizie e verso le undici si sedette con in mano un libro. Un suono, proveniente dalla porta, scosse la quiete del mattino. Potevano essere solo loro. Aprii, salutò il capitano, il quale le chiese se andasse tutto bene, se avesse bisogno di qualcosa. I carabinieri erano sempre a disposizione per qualsiasi esigenza, le ricordò. Lei confermò che era tutto ok, che davvero, aveva già fatto colazione e, salutato il capitano, tornò al suo romanzo. Lesse un altro paio di pagine, poi si dedicò alla lavatrice. Mise il detersivo, avviò il tutto e contemplò i giri della centrifuga…

Che non funzionava. Lea aveva dovuto chiamare un tecnico per ripararla. Mentre preparava la colazione e la figlia Denise era ancora a letto, suonò il campanello. Entrò il tecnico, si salutarono e lui si recò a dare un’occhiata alla lavatrice. Quindi Lea, dopo aver preparato il caffè, lo offrì al tecnico, il quale le chiese di passargli un attrezzo. Lei si chinò a rovistare dentro la borsa, ma non si accorse che il tizio si era voltato e si ergeva alle sue spalle. Le afferrò la gola all’improvviso e iniziò a stringere. Lea fu colta di sorpresa, ma non vacillò. Ci fu una colluttazione, durante la quale lei andò a sbattere la testa contro il muro, facendo volare la tazzina, che andò in frantumi riversando il caffè sul pavimento. Quando sembrava sul punto di perdere i sensi, qualcosa intervenne e fermò il tizio. Era Denise, che, probabilmente svegliata dal rumore, si era accorta che qualcosa non andava ed era intervenuta, lanciandosi addosso all’uomo. Lea si accasciò a terra, mentre l’aggressore fuggì. Una volta rialzatasi, corse a verificare le condizioni della figlia. “Stai bene?” le domandò, visibilmente preoccupata. “Si, mamma, sto bene. Ma tu sanguini!!” esclamò con voce tremante Denise. Dopo aver medicato la fronte, dovette rispondere ai molti interrogativi della figlia. “Chi era quello? Ha cercato di farti del male!! Voleva ucciderti? E perché?”. Lea le spiegò i motivi per i quali erano sempre in fuga, perché lei non poteva avere una vita normale e che per fortuna il tipo non aveva aggredito anche lei. Dopo la spiegazione e la medicazione alla testa, Denise fece colazione masticando toast…

Al formaggio. Dopo un piatto di pasta, ogni tanto ne preparava uno. Almeno c’erano Giorgio e Carla a tenerle compagnia. Denise ripensò a quando i toast li preparava sua mamma, la mattina a colazione, ma anche a quei momenti che passava insieme a lei, a quando ridevano insieme ed erano spensierate. Giorgio e Carla erano, oltre che amici, i carabinieri della scorta. Lui, diplomato ragioniere, a 22 anni aveva deciso che la sua carriera era destinata alle forze armate, e lei, invece, aveva iniziato quel percorso già all’età di 18 anni, dopo essersi diplomata al liceo Classico. Oggi, entrambi sulla cinquantina, la proteggono da una decina d’anni. Quando lei era in vena, Giorgio si esibiva in delle imitazioni. Era davvero bravo, in un’altra vita avrebbe potuto fare quello di mestiere. Sarebbe stato fantastico anche per lei, pensare di poter vivere un’altra vita, onesta e libera. Era quello che avrebbe voluto sua madre, lasciarsi alle spalle tutto e ricominciare, magari in…

“Australia!!! Dovremo andare lì!! Ripartire da zero, così che tu possa veramente andare a scuola, uscire con le amiche, avere una vita normale!!”. Lea si lasciò andare sul divanetto di una delle tante case che avevano cambiato da quando lei, nel 2002, aveva deciso di farsi mettere sotto protezione. Ma secondo Lea questa protezione non serviva a molto, perché aveva subìto qualche attacco e spesso era agitata perché aveva paura per lei e sua figlia. Sapere che non potevano incontrare e vedere nessuno, che non potevano nemmeno fare la spesa senza guardarsi le spalle. Tutto questo lei non lo voleva più. Non voleva che sua figlia vivesse una vita di fughe e nascondigli continui. Dal canto suo, Denise non sapeva cosa fare. Non voleva che sua madre soffrisse in quel modo, ma adesso era più consapevole del pericolo che correvano. “Basta, non possiamo andare avanti così. Bisogna trovare una soluzione, dobbiamo uscire da questo paese”. Si recarono allora a Milano, dopo aver rifiutato il programma di protezione. Lea aveva deciso di incontrare suo padre e mettere fine alla fuga e alla relazione una volta per tutte. Si incontrarono così una sera a Milano e suo padre invitò sua madre a cena. “Non preoccuparti, Denise, ci vedremo tra poco” le disse sua madre. Denise però aveva un brutto presentimento. Non sapeva che quella era l’ultima volta che avrebbe visto sua madre. Lei rimase a cenare con la zia e verso le 23 inviò un sms a Lea. C’era però un problema, che Lea non rispondeva, mentre il tempo passava. “Magari si starà godendo la serata, non essere infantile, lasciali in pace per una volta” le disse la zia. Ancora, verso mezzanotte, Denise non ricevette risposta. Allora chiamò. Nessuna risposta. Dov’era sua madre? Era successo qualcosa, Denise ne era certa. Di lì a una decina di minuti sentì il motore di una macchina, scese di sotto e vide suo padre, che la salutò. “Tutto bene la cena? Dov’è mamma?” gli chiese. “Mamma è andata un secondo a comprare le sigarette” rispose lui. A quell’ora era assai improbabile. A quel punto, Denise iniziò a urlare il suo nome ovunque. Niente da fare, la mamma non tornava e lei aveva paura. “Tranquilla, Denise, ora mamma torna. Puoi già salire in macchina, così ti accompagno in albergo”. A lei non rimase altro che salire sull’auto…

Che si fermò sul vialetto di fronte l’abitazione. I due agenti che le avevano tenuto compagnia a pranzo avevano il cambio. Ce n’erano già altri quattro fuori, davanti e sul retro. Lei, dopo averli salutati, li osservò allontanarsi. Rimasta di nuovo sola, mise i piatti nella lavastoviglie e accese la televisione. Solo telegiornali a quell’ora. La richiuse e tornò a immergersi nella lettura. Presto però si assopì e scivolò in una sorta di dormiveglia, perché non ce la faceva proprio ad addormentarsi.

Non aveva dormito quella notte. Come poteva, dal momento che stava andando a testimoniare contro suo padre e altre persone, tra le quali il suo stesso fidanzato, che erano state accusate dell’omicidio di sua madre? Come poteva riprendersi dal fatto che quel ragazzo, di cui si era fidata, era in realtà un aguzzino? Sua madre era stata uccisa, questo lo aveva capito da molto tempo. Aveva anche compreso chi era stato e nonostante sapesse i fatti era rimasta in silenzio, per paura che potessero uccidere anche lei. Fino a quando non aveva incontrato il pubblico ministero, i carabinieri, persone che le avevano dato una speranza per affermare che sua madre non era morta invano, che la giustizia in qualche modo bisognava pur farla trionfare. Ora, che si trovava nell’aula bunker dove si sarebbe tenuto il processo, realizzava appieno ciò che stava accadendo. Da quel momento in poi la sua vita sarebbe cambiata, ma del resto non era mai stata una vita normale. Ricordava i pochi momenti in cui lei e sua madre erano felici, quando l’aveva colta a fumare e ridendo l’aveva rimproverata. Al giudice disse tutto quello che sapeva e alla fine la condanna fu confermata. Non provava più nulla ormai, non gioiva per quella piccola vittoria appena ottenuta. Quanto gli era costata! L’unica cosa che poteva fare era riposare e lasciarsi finalmente alle spalle quell’esistenza. Adesso sua madre sarebbe stata orgogliosa? Lei voleva un futuro migliore per la figlia e aveva lottato tanto per questo. Ora, però, mentre osservava il giudice leggere la sentenza definitiva, la sua mente vagò in quei ricordi, così particolari e tornò all’abbraccio con sua madre, lasciandosi trasportare da quel calore che l’aveva sempre protetta, a modo suo.

Roberto Fortugno

*immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Immagina

Immagina di essere solo, nascosto sotto un muro retto da una trave arrugginita, con la polvere addosso che ti sgorga dagli occhi insieme alle lacrime, che serpeggia tra le tue dita, che si mischia al sangue delle ginocchia sbucciate.

Immagina di essere uomo, donna, vecchio o bambino. Di respirare, bere e mangiare come ogni essere umano, ma sentendo dentro di te un vuoto, qualcosa che ti manca, che fa di te qualcosa di dimezzato.

Immagina di ascoltare la radio in un lurido scantinato, ascoltando il grande uomo bianco, il padrone dei padroni, affermare che è dovere aiutare chi viene aggredito, chi è vittima del bullo, chi è soggetto a persecuzione.

Immagina un cielo oscuro illuminato da fiori in fiamme, tempeste di pollini, rombi di api, e poi il silenzio. Mortale silenzio, per un attimo o due, e poi urla levarsi nella notte.

Immagina di essere un puntino nella folla oceanica, in processione dietro una bara bianca. Con le ambulanze che scorrazzano qua e là, e due schiere di cavalieri di carta con scudi di plastica a spingerti ora da una parte, ora dall’altra.

Immagina di essere un padre, una madre, un nonno o un figlio, e di riuscire a contare nella tua vita più funerali che feste di compleanno. Di avere almeno un lutto in casa, un martire laico da ricordare o vendicare.

Immagina di essere figlio di nessuno, padre di niente, cittadino del nulla. Essere vivente solo perché ancora in grado di respirare, ma privato d’ogni cosa che rende l’uomo un uomo.

Immagina di esserti fidato dell’uomo bianco. Delle sue promesse mancate, delle sue prese di posizione, dei suoi finti moti di sdegno.

Immagina di essere tu l’aggredito. Tu la vittima del bullo. Tu la persona da sostenere. E immagina il tuo volto nel vedere che no, il grande uomo bianco sostiene l’aggressore, sostiene il bullo.

Immagina di essere un Gazawi. Padre, figlio e fratello di uomini senza diritti né patria. Senza una bandiera intorno a cui raccogliersi, una terra da difendere e tramandare, un governo da sostenere o contestare.

Avresti potuto immaginarlo.
Ma ieri casa tua è stata colpita da un missile.
Sei morto tu, tua moglie, tua figlia di sei anni e tuo figlio di tre.

Diranno che eri un terrorista. O che nascondevi un terrorista o che in ogni caso, in quanto palestinese, eri un potenziale terrorista.

Non è poi così difficile prendere un uomo, spogliarlo di ciò che è, vestirlo di ciò che non è, ucciderlo per ciò che lo si è fatto diventare.

Ora che hai finito di soffrire, libero dalle catene bianche e azzurre, lontano dai cavalieri dagli elmi stellati, scommetto che puoi vedere noi, uomini bianchi, riempirci la bocca di buone intenzioni e le mani di banconote insanguinate.

“Hai visto?” ti immagino dire a tuo figlio “Quanto sono poveri quegli uomini bianchi, che pur essendosi arricchiti d’ogni cosa hanno perso il bene più importante: la coscienza”.


Giuseppe Libro Muscarà

*immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Pioggia di spine

Piove a dirotto sull’angelo del campanile,

mentre cammino sotto un cielo terso,

vengo trafitto da migliaia di spine,

nessun segno di Dio,

ma solo un altro singhiozzo.

Ogni minuto è un pugno di terra

gettato sulla mia tomba,

guarda come lotto,

guarda ciò che perdo,

sono fatti di lacrime e sangue

i miei giorni all’inferno.

Mentre Messina sembra sparire,

vorrei solo amarti per sempre

sotto questa pioggia

che non vuole finire.

 

Gaetano Aspa

 

*Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Diario di una fuorisede superstar 6° parte

“Sentirsi grandi

Eravamo giovani, e stanchi di sentirci dire – dovete crescere -.
Eravamo belli, annoiati di dover prenderci la vita oppure lei avrebbe preso noi.
Fuori dai cassetti tutti i sogni, gettati poi nei cassonetti.
E via con le lauree, i lavori, i master, il matrimonio e la dipendenza da serie TV e da quel bar.
Avevamo paura di crescere ma eravamo più terrorizzati all’idea di rimanere piccoli per sempre.
I nostri sogni ci tormentavano, ci facevamo l’amore insieme agli appunti degli esami, le notti opache, svegli fino alle quattro con le cuffie alle orecchie e quel messaggio non visualizzato.
Visualizzavamo gli obiettivi a lungo termine e ignoravamo quelli a termine breve.
La colazione fuori, un caffè e una sigaretta.
Il tramonto oltre i tetti.
Un 30 senza lode.
Un amore ricambiato ma sciupato in poche sere.
Quell’amore disgraziato ma bandito dalle sue stesse crepe.
Poche cose ci rendevano felici ma molte insoddisfatti, non leggevamo più lettere scritte a mano, eravamo troppo distratti.”

-È bellissima, Oscar- Penny lo guardava, erano seduti sul divano della casa di lui; fuori pioveva.
Penelope gli restituì la poesia; Oscar l’aveva scritta in un foglio a quadri, strappato da un vecchio quaderno.
-Beh, tu di più- disse lui poco prima di baciarla.

Ilaria Piscioneri

Studenti, professori e giornalisti a confronto sulla figura di Mario Francese, a quarant’anni dal suo omicidio

Si svolgerà mercoledì 13 febbraio, alle ore 10.30  presso la Sala dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti, un seminario sul tema “Il giornalista con la schiena dritta. Riflessioni su Mario Francese a quarant’anni dall’uccisione”.

Ospite dell’incontro Giulio Francese, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti Sicilia; interverranno il prof. Giovanni Moschella, Presidente del Centro sulle Mafie, il prof. Luigi Chiara, Direttore del Centro sulle Mafie, il prof. Marco Centorrino, docente di Sociologia della Comunicazione, Claudia Benassai, giornalista e Alessio Gugliotta, coordinatore UniVersoMe,  testata giornalistica degli studenti Unime.

L’evento, organizzato dalla redazione di UniVersoMe, si concluderà nel pomeriggio in Sala Senato con un workshop giornalistico rivolto agli studenti dell’Ateneo.

Qui di seguito si allega il link del form che deve essere compilato per potersi iscrivere all’evento: https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLSeLklSWHXVkXcCNu__x9jhB4FsEV4TjXkwnA355sPL2oSXRkw/viewform