Un cane è risultato debolmente positivo al Covid-19

È dall’inizio dell’epidemia da coronavirus che si ipotizzano contagi tra esseri umani e animali domestici, ma tutto ciò fino ad ora era stato categoricamente smentito. Oggi, però, il Governo di Hong Kong ha ufficializzato il primo caso di cane domestico positivo al coronavirus.

Il cane appartiene ad una donna di 60 anni, positiva anche lei alla malattia, dunque entrambi sono stati messi in quarantena. Dal cane sono stati raccolti campioni orali, nasali e rettali per il test del virus COVID-19, ed è stato visto che i campioni nasali e orali risultavano positivi al coronavirus, anche se in maniera debole.

In ogni caso, secondo quanto scritto sul comunicato ufficiale, al momento non c’è ancora certezza assoluta sulla malattia dell’animale. Continuerà ad essere monitorato per raccogliere ulteriori campioni per il test e per confermare se è davvero stato infettato dal virus o è solo il risultato delle contaminazioni ambientali della bocca e del muso del cane. Nel frattempo l’animale resterà in isolamento fino a quando risulterà negativo.

Il cucciolo non ha sintomi rilevanti, ed è l’unico esemplare in quarantena presso la struttura di mantenimento degli animali di Hong Kong. Al momento non c’è nessuna prova concreta che possa far pensare che animali come gatti e cani possano trasmettere il virus all’uomo ma, in via del tutto precauzionale, il ministero di Hong Kong ha dichiarato che gli animali domestici di persone infette devono anch’essi restare in quarantena per 14 giorni.

Il Governo di Hong Kong, inoltre, ricorda e consiglia ai proprietari di animali domestici di mantenere una buona igiene e lavarsi molto accuratamente le mani con sapone o disinfettante alcolico dopo essere entrati in contatto con essi. In caso di cambiamenti nella salute dell’animale ritenuti strani è bene rivolgersi nell’immediato ai veterinari.

Come sappiamo, in Cina è un’usanza comune mangiare la carne di cane. A Shenzhen, una importante città cinese, si starebbe elaborando una legge per vietare ai residenti di consumare questo tipo di carne così da migliorare il profilo di sicurezza alimentare, anch’essa minata dal Coronavirus. Se questa legge dovesse essere approvata sarebbe la prima volta nella storia del Paese.

Così facendo, anche l’annuale Yulin Dog Meat Festivaluno dei più controversi festival del cibo in Cina, che prevede cani brutalmente uccisi, scuoiati e mangiati dalle persone del posto verrebbe sospeso. Come detto ad oggi non c’è nulla che possa far pensare che gli animali domestici possano trasmettere il virus all’uomo, ma nell’incertezza generale, si sta ben pensando di prendere determinate precauzioni.

Secondo la proposta di legge ci sarà una lista bianca con su scritto i nove tipi di bestiame adatti al consumo: maiali, mucche, pecore, asini, conigli, galline, anatre, oche e piccioni. Tutto il resto verrà inserito in una lista nera, comprese carni considerate prelibatezze per molti cittadini, come il serpente e la rana. Sono previste multe tra i 250 e i 3000 euro per i trasgressori, mentre per i ristoranti che le servono fino a 6.500 euro di multa.

Oltre alla carne di cane, nei giorni scorsi è stato bandito il consumo di animali selvatici come i pipistrelli, da cui si pensa sia partita l’infezione. Non è la prima volta che vengono indicati come probabili serbatoi di virus pericolosi, poiché era già successo con la SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome) e l’ebola, ma non se ne è mai avuto la certezza assoluta.

Roberto Cali’

“Mamma non ho rifatto il letto… e menomale!”

Se fino a questo momento la scusa più accreditata da giovani sfaticati per non dover rifare il letto ogni mattina era: “Che lo sistemo a fare che tanto stasera devo tornarci?”, da oggi la Scienza corre in vostro soccorso: fare il letto potrebbe non essere così salutare come si pensa.

Letto sfatto – Giovanni Graziani

Le faccende domestiche sono da molti viste come un obbligo ed una tortura. Pochi sono infatti coloro i quali non possono iniziare bene la giornata se non è tutto al suo posto. I maniaci dell’ordine sapranno sicuramente come il primo passo per una camera sistemata è rifare il letto, vuoi perché è l’oggetto più in vista vuoi perché è quello che occupa più spazio.

Ma per quanto l’occhio voglia la sua parte, rimettere le coperte in ordine appena svegli potrebbe essere controproducente, in particolar modo per i soggetti allergici.

Uno studio condotto dal team del dottor Stephen Pretlove dell’Università di Kingston ha dimostrato come lasciare il letto disfatto impedisca la proliferazione degli acari della polvere ed aiuti, inoltre, ad ucciderli.

Dermatophagoides pteronyssinus – Acaro della polvere

Gli acari della polvere, primo fra tutti il Dermatophagoides pteronyssinus, sono dei microrganismi causa della famosa allergia alla polvere, che spesso si complica, nei soggetti predisposti, con frequenti riniti che possono evolvere in asma, o con reazioni cutanee ed arrossamento oculare accompagnato da bruciore e frequente lacrimazione.

Il loro ciclo vitale e la loro sopravvivenza si basa sulle caratteristiche igrotermiche dell’ambiente che colonizzano e cioè sulla concentrazione di vapore acqueo e quindi di umidità nel loro habitat.

Le condizioni ideali al loro sviluppo sono:

  • Temperature superiori ai 20 °C
  • L’umidità relativa tra il 60% e l’80%. Un ambiente secco ne inibisce infatti la crescita, facendo disidratare l’acaro e portandolo a morte.

Le coperte, viene da sé, sono un luogo caldo ed il “richiuderle” appena svegli, col calore del corpo che le ha rese accoglienti, favorirebbe la creazione di un microclima ideale per la loro proliferazione che invece non sarebbe possibile se si lasciasse un letto sfatto a prendere aria.

Basti pensare alle nostre nonne e alle bisnonne che all’alba mettevano cuscini e coperte sui davanzali delle finestre per “fare prendere aria” alle stesse suppellettili oltre che alla stanza. Metodi antichi che sostituivano i climatizzatori estivi o i deumidificatori invernali dei nostri giorni.

Lo studio della Kingston Univeristy è stato inoltre stimolo per numerose aziende e per diversi ingegneri edili per progettare delle abitazioni con sistemi di riscaldamento, ventilazione ed isolamento finalizzati al monitoraggio delle condizioni di umidità, basandosi sempre sulle caratteristiche igrotermiche di idoneità.

Cari lettori, da oggi avete una scusa in più per sottrarvi alle faccende casalinghe, ma usatela con moderazione per non fare arrabbiare le vostre mamme! A tal proposito, meglio scappare dalla mia prima che si accorga di questo articolo e del mio letto sfatto!!

 

                                                                                                                                                                      Claudia Di Mento

L’oro verde della Sicilia: il pistacchio più pregiato

La provenienza del pistacchio e le sue proprietà: ce le spiega la chimica

Ingrediente capace di caratterizzare con il suo aroma gelati, granite, creme e dolci squisiti ma anche proposte più elaborate in cui è associato con la carne o li formaggio, il pistacchio rappresenta una fonte di nutrienti per il nostro organismo. Molto diffusi per le ricette dolci e salate, costituiscono un affascinante mondo in cui salute e squisitezza si abbinano perfettamente.

Pistacia vera, comunemente conosciuto con il nome di pistacchio, è un piccolo albero appartenente alla famiglia delle Anacardiaceae. Originario del Medio Oriente è ad oggi coltivato quasi in tutto il mondo. Ad essere i più utilizzati di questa pianta sono i suoi frutti, i pistacchi, composti da un piccolo seme di colore verde ricoperto da una sottile buccia violacea e racchiuso in un guscio sottile e duro.

Nell’ultimo periodo la produzione del pistacchio ha conosciuto una straordinaria crescita. Alimento molto popolare nel Medio Oriente, oggi è presente in tutte le cucine.

A fornire la maggior quantità di pistacchio sono l’Iran, USA e Turchia. Ma non bisogna dimenticare l’Italia che, anche se non è uno dei maggiori produttori, è molto conosciuta in questo settore, offre infatti uno dei pistacchi più pregiati: il pistacchio di Bronte. Denominato anche l’”oro verde” della Sicilia, riceve nel 2009 il riconoscimento del marchio DOP (Denominazione di Origine Protetta), marchio attribuito dall’Unione Europea ad alimenti che presentano caratteristiche qualitative che dipendono esclusivamente dal territorio in cui sono prodotti.

Il pistacchio di Bronte è coltivato in un’area attorno al vulcano Etna dove la terra lavica ed il clima permettono la produzione di un pistacchio molto aromatico caratterizzato da un colore verde molto intenso.

Il frutto pregiato del piccolo comune siciliano alle pedici dell’Etna è molto apprezzato nei mercati internazionali. È presente in parecchie gelaterie, pasticcerie e supermercati; molti ristoranti propongono sempre più spesso squisiti piatti contenenti il famoso pistacchio di Bronte. Ma bisogna stare molto attenti! Non sempre ciò che noi andiamo a comprare è originale.  Il pregiatissimo “oro verde” siciliano è una produzione limitata, ricopre soltanto l’1% di quella  mondiale.

È possibile distinguere i pistacchi di Bronte dagli altri ?

Secondo lo studio di un gruppo di ricercatori dell’Università di Messina la determinazione della porzione polifenolica del pistacchio potrebbe dare informazioni sull’origine geografica dei vari tipi di pistacchio. I polifenoli sono una famiglia di molecole organiche, rappresentati da strutture molto complesse in cui sono associati più gruppi fenolici (composti organici che hanno un gruppo ossidrilico -OH legato ad un anello aromatico). Utilizzando una particolare tecnica cromatografica (LC X LC cromatografia liquida comprehensive) sono riusciti ad identificare particolari caratteristiche chimiche, specifiche del pistacchio di Bronte.

Lo studio è rivolto all’analisi della frazione polifenlica di quattro tipi di pistacchio di diversa provenienza (Iran, Turchia, California e Bronte).  La variazione quantitativa di vari composti polifenolici ha permesso di determinare marcatori chimici per ogni tipi di pistacchio.

Per quanto riguarda il pistacchio verde di Bronte possono essere considerati marcatori luteolin -4-O-glucoside e apigenina. Il primo è un composto che si trova anche nel pistacchio proveniente dalla Turchia, però in quantità inferiore rispetto a quello siciliano. La seconda è una molecola presente soltanto nel pistacchio di Bronte. Dimostra quindi di essere un alimento particolare, è infatti l’unico ad essere coltivato su terreni di origine vulcanica!

                  Apigenina
                  Luteolin -4-O-glucoside

Che il pistacchio dia origine a moltissimi piatti gustosi ne siamo tutti a conoscenza ma, sono ancora più di questo. Oltre a stimolare le nostre papille gustative è considerato un alleato del benessere. Grazie alle sue proprietà nutrizionali, questo delizioso snack è ritenuto un alimento funzionale (alimento che naturalmente contiene molecole aventi proprietà protettive e benefiche per l’organismo).

Quali sono i composti che lo rendono un alimento funzionale?

I pistacchi rappresentano un ricca risorsa di polifenoli. Come lo dimostrano anche vari studi, sono molecole responsabili di molte proprietà biologiche. Tra questi ricordiamo gli antociani che, oltre a dare il colore rosso porpora della buccia, presentano attività antiossidante , antiinfiammatoria e anticarcinogenica. Anche le catechine sono provviste di attività antiossidante, infatti diminuiscono l’ossidazione delle LDL (soprannominato il “colesterolo cattivo”), ciò indica che previene la formazione delle placche arterosclerotiche. Da non dimenticare gli isoflavoni, sembra che essi  abbiano la capacità di proteggere da alcune forme tumorali.

A dare il colore giallo-verde sono i carotenoidi, in particolare betacarotene (precursore della vitamina A), luteina e zeaxantina. Da citare sono anche i tocoferoli, i principali composti della vitamina E, che come i carotenoidi, vantano buone proprietà antiossidanti.

Risulta chiaro che il profilo chimico dei pistacchi è ricco di molecole altamente importati per difendere il nostro organismo. Consumare pistacchio non è solo un piacere per il nostro palato, ma è anche un modo per mantenere in un stato di benessere il nostro organismo. Questo piccolo frutto riesce a coniugare benissimo gusto e salute!

Georgiana Florea

 

Perché i girasoli di Van Gogh stanno appassendo

Notte stellata, Vaso con quindici girasoli, La casa gialla sono alcune delle opere che hanno reso celebre il pittore olandese Vincent Van Gogh. Accolte nei musei più famosi vengono ammirate da migliaia di persone. Recentemente questo ambiente artistico si sta appoggiando sempre di più a quello scientifico. La degradazione delle opere ha fatto entrare in scena i chimici per comprendere al meglio il fenomeno e prevenirlo.

A rischiare il deterioramento sono i quadri di Van Gogh che contengono principalmente tonalità gialle. Uno di questi è Vaso con quindici girasoli, appartenete alla serie Girasoli.

Chimicamente, i pigmenti che il pittore utilizza, non sono altro che cromati, noti solitamente come gialli di cromo. Questi pigmenti sono molecole a base di cromato di piombo (PbCrO4 ) che presentano varie sfumature. La chimica ci spiega che la quantità di solfato (SO42-) presente influenza le tonalità di giallo. Maggiore è la quantità di solfato, più il colore tende ad un giallo più chiaro.

Da alcuni anni, i ricercatori hanno notato che le sfumature di giallo stanno diventando sempre più scure: virano verso un colore olivastro marrone. Eppure chi avrebbe mai immaginato che anche i girasoli dei dipinti di Van Gogh rischiassero di appassire!

A comprendere questo particolare caso sono stati i chimici. Attraverso una ricerca condotta sulla degradazione del colore giallo dei girasoli di Van Gogh, hanno spiegato la causa di questo fenomeno. Lo studio è stato effettuata nei girasoli conservati al Van Gogh Museum di Amsterdam. Attraverso metodi di analisi non invasivi, il gruppo di ricerca ha compreso come i colori siano cambiati nel tempo.

È stato dimostrato che i cromati sono molto sensibili alla luce, tendono infatti a degradarsi nel tempo e formare composti di colore verdastro.  Appare chiaro che sia la luce il principale nemico dei gialli di cromo.  In laboratorio sono stati condotti studi e hanno evidenziato che mostrano maggiore alterazione i pigmenti contenenti quantità di solfato maggiori del 50%.

Attraverso strumenti di analisi particolari il gruppo di ricerca è riuscito ad identificare diversi elementi dei pigmenti utilizzati e la loro distribuzione nel dipinto. Il piombo e il cromo risultano essere i principali componenti dei petali di girasole e del tavolo. L’elemento principale dello sfondo è lo zinco, che indica la presenza del bianco di zinco (ZnO). In alcune parti dei petali si è osservata la presenza di mercurio (Hg), arsenico (As), rame (Cu) e ferro (Fe); essi suggeriscono la presenza di altri pigmenti come rosso vermiglione, verde smeraldo e giallo ocra.

Essendo il giallo un pigmento molto utilizzato, appare molto chiaro che il quadro è fortemente esposto a degradazione. Lo studio preso in considerazione ci dimostra che è importante avere le giuste condizioni di illuminazione ai fini di preservare la qualità originale del dipinto. L’incontro tra arte e chimica permette di studiare a fondo i dettagli delle opere artistiche e capire come conservarle e proteggerle al meglio dall’azione del tempo. Insomma è solo questione di chimica!

Georgiana Florea

Gli schermi fanno davvero male alla vista?

È un dato di fatto che tutti possiamo toccare con mano giornalmente: sempre più persone in giovane età indossano occhiali per correggere la loro vista Ancor più evidente è lincremento esponenziale dell’utilizzo di dispositivi elettronici negli ultimi decenni, sia per motivi lavorativi che ricreativi. 
Questa tendenza da anni spinge gli esperti a determinare se tale andamento parallelo sia casuale o meno. Dispositivi come computer, tablet, smartphone causano davvero un deterioramento della vista di proporzioni epidemiche? 

Pregresse indagini epidemiologiche hanno constatato che oltre il 40% dei cittadini nordamericani è affetto da miopia; il numero di casi è raddoppiato tra il 1972 e il 2004.
In Europa, il 42,2% degli adulti con età compresa tra 25 e 29 anni è miope, percentuale doppia rispetto agli adulti tra 55 e 59 anni.
Lincremento globale è stato costante negli anni. 

Questi dati incidono sulla salute pubblica e non vanno assolutamente sottovalutati.  

La miopia è un comune difetto visivo per cui si vede sfocato da lontano; questo perché l’occhio ha una lunghezza eccessiva e le immagini lontane non si focalizzano sulla retina come di norma, ma davanti ad essa.  Il pericolo da non sottovalutare sta nel fatto che lincremento della miopia aumenta significativamente il rischio di glaucoma (40 volte) e cataratta (6 volte). Soprattutto, aumenta il rischio di indebolimento della retina (21 volte superiore; evento che precede il distacco). Ciò si spiega poiché tanto più locchio è miope, tanto più tende ad ingrandirsi; la distensione dellocchio si ripercuote sulla retina che tende a diventare sempre più sottile, fragile e predisposta a rotture, anormale sviluppo dei vasi sanguigni sub-retinici e sanguinamento. 

Dietro questo processo pandemico risiedono certamente più cause. La miopia è una condizione multifattoriale. La genetica ha uninfluenza fondamentale, tant’è che alterazioni su oltre 20 loci genici su più cromosomi sono interessate. Tuttavia, lambiente in cui sin da bambini si vive, le abitudini e i comportamenti sono altrettanto importanti. 

La conferma di ciò sta nel rapido aumento, ben documentato, di problemi visivi verificatosi dall’introduzione degli smartphones nel 2007.
Limpatto degli smartphones dipende dalla distanza tra utente e dispositivo. Si è obbligati a rimanere entro 20 cm di distanza durante la lettura, contro i fisiologici 45-50 cm. Tale distanza ravvicinata incrementerebbe il rischio di sviluppare miopia di 8 volte, specialmente in presenza di genitori miopi ovvero di predisposizione genetica. 

Inoltre, contrariamente alla carta stampata, gli schermi sono otticamente responsabili di aberrazioni cromatiche. Notevole impatto mediatico è stato dato alla luce blu, che corrisponde alle lunghezze donda più corte emesse dai dispositivi e viene percepita dall’occhio come davanti all’immagine, generando uno stimolo per la miopia.  

Come se non bastasse, i sintomi di accompagnamento all’utilizzo di tali dispositivi hanno definito la “Computer Vision Syndrome (CVS). Si tratta di affaticamento oculare, dolore avvertito dentro e intorno all’occhio, visione offuscata e a volte doppia, mal di testa più o meno intenso, bruciore e occhio secco. Uno studio ha dimostrato che oltre il 90% dei lavoratori americani che utilizzano computer per 3 o più ore al giorno ne soffre, insieme a difetti di accomodazione del cristallino e di convergenza degli occhi. 

Anche lintensità di questi sintomi è direttamente collegata alla distanza ravvicinata agli schermi. E nessuno può negare di averli sperimentati almeno una volta.  

Il principale rimedio è quello che tutti vorremmo evitare: controllare e limitare luso dei vari dispositivi. Se infatti non è ad oggi possibile agire sulle cause genetiche che portano alla miopia, lintervento si deve concentrare sulle cause ambientali e comportamentali, innanzitutto per evitare i fastidiosi sintomi della CVS. 

Le limitazioni suggerite dalla comunità scientifica sono di evitare lesposizione ai dispositivi elettronici prima dei 2 anni di età, anche se solo per pochi minuti.
Un limite massimo di unora al giorno è valido invece tra i 2 e i 5 anni.
Negli adulti, una pausa di qualche minuto ogni circa 30-60 minuti attenua in modo rilevante gli effetti negativi.
Inoltre, dovrebbe essere evitata l’esposizione ai device fin da un’ora prima di dormire per mantenere una buona qualità del sonnoè dimostrato che lesposizione sia giornaliera ma soprattutto serale aumenta il rischio di ridotta durata del sonno e lungo tempo di addormentamento, in modo dose dipendente.

Risultato di uno studio condotto su 9846 adolescenti.

La miopia non è un banale difetto visivo, ma un fattore di rischio importante per gravi patologie oculari. Dobbiamo quindi impegnarci per rallentare la sua naturale progressione e specialmente per proteggere i bambini nelle fasi precoci di crescita. E ciò significa anche, in primis per me che scrivo e per voi che leggete su uno schermo, seguire qualche dritta, prendersi qualche pausa in più e modulare l’utilizzo delle nuove tecnologie. 

Davide Arrigo

 

Fonti:

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/15850814
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3474591/#!po=28.1250
https://bmjopen.bmj.com/content/bmjopen/5/1/e006748.full.pdf
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Rong+Asia+Pacific+Pacific+J+Ophthalmol 

Lo stress in gravidanza potrebbe decidere il sesso del neonato, e non solo

Dalla notte dei tempi, esistono decine e decine di credenze popolari sui segnali che possano predire se il neonato sarà maschio o femmina. La presenza o meno di nausee mattutine, la forma della pancia, la pelle più secca o più morbida, persino la preferenza di cibi dolci o salati e (l’inquietante) test del pendolo sulla pancia. Ma non è tutto così casuale. 

Il sesso del neonato è influenzato precocemente da una vasta serie di fattori. 
Un recente studio condotto alla Columbia University Vagelos College of Physicians and Surgeons ha dimostrato come condizioni di stress durante la gravidanza possano influire in modo statisticamente significativo sul sesso del neonato, e non solo. Anche la durata della gravidanza, le complicanze perinataliil peso alla nascita e lo sviluppo del sistema nervoso sono soggetti a variazioni. 

Lo studio, pubblicato sulla rivista PNAS, è stato condotto su 187 gestanti, con età compresa tra i 18 e i 45 anni, senza alcuna condizione clinica patologica. Sono stati quindi formati tre gruppi sulla base delle condizioni di stress individuali. Ma come è possibile valutare in modo oggettivo lo stress? 

I ricercatori hanno utilizzato 27 indicatori specifici per lo stress psicologico, fisico e sociale, quantificati tramite informazioni raccolte sia con questionari sia tramite misurazioni dirette. 
Il campione iniziale di 187 gestanti è stato quindi suddiviso in tre gruppi: 

  • HG (healthy group): il 66.8% delle donne si è dimostrato essere in piena salute. 
  • PSYG (psychologically stressed group): il 17.1% delle donne si è mostrato in maniera clinicamente evidente affetto da stati ansiosi, depressione e stress psicologico. 
  • PHSG (physically stressed group): il 16% delle gestanti ha presentato uno stress fisico rilevante, determinato valutando la pressione arteriosa sistemica, il BMI (indice di massa corporea), l’apporto calorico, lo stress ossidativo e altri parametri. 

Con sorpresa i risultati ottenuti sono stati piuttosto netti
Premesso che nella popolazione generale il rapporto di nati maschi/femmine è pari a 105/100, a vantaggio quindi dei maschi, tale rapporto è stato confermato (23/18) nel gruppo HG, mentre nel gruppo PSYG è stato pari a 2/3 e nel gruppo PHSG a 4/9, con un’inversione in entrambi i casi rispetto alla norma. 

Inoltre, sia nel gruppo PSYG, ma in modo più significativo nel gruppo PHSG, i neonati sono stati partoriti mediamente con 1 settimana e mezza di anticipo rispetto al gruppo HG, con una percentuale di prematuri aumentata pari al 22% contro il 5% (mentre 9.9% è la media negli USA). 

Un’altra differenza importante è relativa a due valori utilizzati come indici di sviluppo del sistema nervoso del feto, ovvero la frequenza cardiaca media nel feto e l’accoppiamento tra questa e il movimento del feto stessoSono stati rilevati una frequenza media minore e un accoppiamento alterato, il che correla con uno sviluppo nervoso più lento. 

Infine, il peso alla nascita dei neonati dei due gruppi “patologici” è stato minore e, specialmente nel gruppo PSYG, si è avuto un numero di complicanze perinatali significativamente incrementato. 

Queste evidenze, puramente statistiche, hanno tuttavia delle basi biologiche che già da anni vengono discusse. Numerose ricerche scientifiche indicano che i feti di sesso maschile sono meno adatti a sopravvivere in condizioni non ottimali, com’è stato già osservato in altri mammiferi. 

Uno studio della DOHaDInternational Society for Developmental Origins of Health and Diseaseha dimostrato una maggiore vulnerabilità maschile durante lo sviluppo. I feti maschili presentano, in fasi precoci, uno sviluppo più lento rispetto ai femminili, per cui sarebbero più vulnerabili per un arco di tempo più esteso. Inoltre, geni X-linked correlati ad una maggiore capacità di sopravvivenza sono espressi a maggiori livelli nella placenta femminile, giustificando la più alta resistenza a condizioni non ottimali.  

Ricercatori del Robinson Institute’s Pregnancy and Development Group hanno scoperto che in corso di un evento stressante in gravidanza, i feti maschi crescono più velocemente mentre le femmine restano “più piccole“, garantendosi una maggiore probabilità di sopravvivenza. Ciò dipenderebbe principalmente da una diversa risposta agli ormoni materni, controllata differentemente dalla placenta del feto maschile e femminile. 

Secondo alcuni autori il senso biologico di questi meccanismi è dato dalla spinta evolutiva, che favorirebbe il sesso femminile in condizioni avverse come stress o ridotta disponibilità calorica.
È dunque plausibile che le donne soggette a stress tendano a perdere le gravidanze maschili con aborti spontanei in un periodo gestazionale talmente precoce che talvolta nemmeno si accorgono di essere rimaste incinte. 

Ulteriori studi hanno già sostenuto l’idea che l’isolamento sociale e lo stress psicofisico che ne deriva abbiano effetti sulla regolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, influenzando la produzione di ormoni quali il cortisolo, riducano la produzione di fattori neurotrofici e alterino il sistema immunitario materno amplificando i processi proinfiammatori. Tutto questo, analizzato a livello molecolare, ha certamente un effetto diretto sulla salute mentale e fisica della madre e quindi sullo sviluppo del feto. 

Risultati immagini per maternal psychosocial stress

Non a caso, proprio lo stress psicosociale, tra i 27 fattori utilizzati nella valutazione delle gestanti, è quello che meglio ha contraddistinto i tre gruppi. E ancor più curiosamente, decine di studi hanno dimostrato statisticamente che in popolazioni colpite da eventi tragici come terremoti, o addirittura negli USA in seguito all’assassinio del Presidente Kennedy o agli attacchi terroristici alle torri gemelle, si è verificato un decremento delle nascite maschili. Uno studio del 2006 su oltre 700 mila nascite a New York ha infatti dimostrato come il livello di nascite maschili sia sceso ai minimi storici nei mesi successivi all’11 settembre. 

ricercatori concludono quindi che lo stress, inteso come condizione clinicamente rilevabile e misurabiledovrebbe essere in futuro incluso nei pannelli di controllo prenatali, così come tra i fattori su cui intervenire per prevenire una serie di problematiche prima e dopo il parto.
Il rallentato sviluppo del sistema nervoso fetale, la maggiore incidenza di complicanze perinatali, di aborti spontanei e di parti pretermine, potenzialmente correlati (soprattutto nel maschio) a disordini neurologici quali autismo, dislessia e ADHD (sindrome da deficit di attenzione ed iperattività), giustificano a pieno titolo tale intenzione.  

A detta degli stessi autori, sono necessari ulteriori studi che confermino le evidenze ottenute, ma questa ricerca funge da utile terreno di base da ampliare e arricchire. 
Il messaggio chiave è che l’utero è una “casa” molto influente, probabilmente più della casa in cui il bambino crescerà, e quanto questa casa sia accomodante dipende in maniera determinante dalla salute, anche mentale, della madre. 

Davide Arrigo 

 

Fonti: 

https://www.pnas.org/content/early/2019/10/08/1905890116.short?rss=1
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/31221426
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5286731/

Ingannare i tumori è possibile?

<< […] O chiusi in questo legno si tengono nascosti Achei, o questa macchina è fabbricata a danno delle nostre mura, per spiare le case e sorprendere dall’alto la città, o cela un’altra insidia: Troiani, non credete al cavallo. Di qualunque cosa si tratti, ho timore dei Danai anche se recano doni.>> Così diceva il sacerdote Laocoonte nell’Eneide prima che la città di Troia venisse rasa al suolo e proprio “cavallo di Troia” è l’appellativo che merita questa nuova scoperta dei ricercatori della Northwestern University di Evanston, Illinois.

Il professore Gianneschi ed il suo team hanno trovato un modo per somministrare chemioterapici in maniera mirata con un aumento della dose di attacco ed in modo assolutamente sicuro.

È da sempre oggetto di ricerche la scoperta di una via per colpire in maniera selettiva le cellule mutate risparmiando il tessuto sano, principale preoccupazione di tutte le terapie chemioterapiche. Inoltre è interesse comune scoprire un metodo per abbreviare la durata delle terapie aumentandone l’efficacia, che presenta una componente dose-dipendente non indifferente. È chiaro che però, non essendo scevra da rischi, la terapia deve essere eseguita con criteri specifici ed a misura del paziente e della malattia che lo affligge.

In questo studio pubblicato sulla rivista Journal of American Chemical Society (JACS) si affrontano proprio alcuni di questi temi con spunti interessantissimi per un riarrangiamento nella modalità di somministrazione di questi farmaci, il cui riconoscimento da parte di neoplasie un po’ più maligne, ne invalida l’efficacia.

L’inganno che subiscono le cellule tumorali è dovuto al mascheramento del farmaco, che perde le sue sembianze ed assomiglia ad un acido grasso a catena lunga (18 atomi di carbonio).

Complesso acido grasso-farmaco, si noti il mascheramento di quest’ultimo.

Gli acidi grassi sono componenti fondamentali dei lipidi e rappresentano, insieme a glucidi, proteine ed acidi nucleici, una delle quattro principali classi di composti organici di interesse biologico. Essi sono inoltre tra i principali e più redditizi substrati fonte di energia.

Soprattutto le neoplasie infatti, essendo costituite da cellule in attiva proliferazione, hanno necessità di avere introiti energetici quantitativamente maggiori. Questa particolarità viene ad essere sfruttata a nostro vantaggio: legando il farmaco all’acido grasso, una volta somministrato, questo viene ad essere veicolato nel circolo sanguigno da una proteina della famiglia delle albumine. Queste funzionano come delle navette che si fermano a seconda della destinazione che il loro contenuto ha. In questo caso, l’acido grasso viene riconosciuto da specifici recettori presenti sulle cellule tumorali che lo inglobano al loro interno, lasciando l’albumina libera in circolo per i prossimi passeggeri. In tutto questo le povere cellule mutate sono ignare di avere internalizzato non soltanto energia, ma anche ciò che di lì a poco le eliminerà.

Struttura del complesso acido grasso-farmaco e legame con albumina.

Una volta all’interno il complesso acido grasso-farmaco, viene ad essere metabolizzato dalla cellula neoplastica con attivazione dell’azione antitumorale ed uccisione della cellula stessa. Maggiore è il grado di aggressività, maggiore sarà la crescita della neoplasia e maggiore sarà la ricerca di materiale nutritivo con un aumento esponenziale di accumulo di farmaco all’interno del citoplasma.

Nello studio, eseguito in fase sperimentale sui topi, i ricercatori hanno utilizzato il sistema accompagnato dal farmaco chemioterapico Paclitaxel. Questo ha avuto notevole effetto nei tumori di pancreas, colon ed osso, tra i più frequenti e spesso a prognosi più infausta.

E se questo non bastasse, la ricerca condotta da Gianneschi e collaboratori ha dimostrato come le dosi del farmaco somministrato (Paclitaxel) potessero essere aumentate anche di 20 volte, senza che la sicurezza diminuisse o aumentassero gli effetti collaterali.

È chiaro dunque come determinati meccanismi propri del cancro possano essere un’arma a doppio taglio per lo stesso. E se la città di Troia è caduta, che non si riesca anche ad abbattere definitivamente i tumori?

 

Claudia Di Mento

Neuralink: l’ultima visione di Elon Musk è un’interfaccia cervello-computer

Tutto ciò che pensiamo, ogni nostra azione, ogni sensazione o emozione, non è nient’altro che il tradursi dell’attività elettrica dei nostri neuroni. E tale attività, caratterizzata da una serie di spikes, di potenziali elettrici, può essere captata da semplici elettrodi, impiegati da oltre 60 anni per studiare l’attività nervosa. I problemi sono catturare ed interpretare efficacemente e soprattutto utilizzare in tempo reale le informazioni raccolte. 

Elon Musk, visionario fondatore di TeslaSpaceXHyperloop ed altre imprese a dir poco innovative, ha lanciato due anni fa Neuralink, un’azienda specializzata in neurotecnologia, ovvero quell’insieme di metodi e strumenti che consentono una connessione diretta di componenti tecnici (elettrodi, computer o protesi intelligenti) con il sistema nervoso. E in soli due anni, grazie ad oltre 150 milioni di dollari di investimento, non sono mancati risultati sorprendenti. Qui la presentazione ufficiale. 

Elon Musk durante la presentazione di Neuralink a San Francisco

L’idea di sviluppare BMIs (brain-machine interfaces) non è nuova. Ricercatori in tutto il mondo hanno già dimostrato come sia possibile controllare il cursore di un computer, arti robotici o sintetizzatori vocali registrando l’attività elettrica del cervello tramite elettrodi. 
Ma l’idea di Musk è molto più ambiziosa: creare uninterfaccia cervello-computer che permetta una vera simbiosi tra il cervello umano e l’intelligenza artificiale. Infatti, ragionando in termini informatici, se la velocità di input del cervello umano è abbastanza elevata, potendo raccogliere enormi quantità di informazioni soprattutto tramite la vista, la velocità di output è un ostacolo enorme: siamo limitati dal dover digitare con i polpastrelli su una tastiera.

Le metodiche attuali per realizzare una BMI efficiente sono molto limitate per una serie di motivi: 

  • La registrazione dell’attività neuronale si limita a un basso numero di cellule nervose. 
  • Il posizionamento degli elettrodi sulla cute, in modo non invasivo, o anche sulla corteccia cerebrale, in modo invasivo, permette di captare segnali spesso aggregati, distorti e poco specifici, e impedisce di registrare segnali dalle strutture profonde del cervello. 
  • Gli elettrodi utilizzati sono particolarmente adatti ai fini di ricerca, ma non sono sufficientemente biocompatibili e longevi in ottica di un impiego a lungo termine. 

Il progetto Neuralink è riuscito in breve tempo a compiere enormi passi avanti. 

Innanzitutto, tramite l’utilizzo di polimeri, sono stati sviluppati elettrodi microscopici non rigidi ma flessibili, che garantiscono elevata biocompatibilità evitando l’attivazione della risposta immunitaria dell’ospite. 

Per facilitarne l’impianto, più elettrodi sono assemblati a formare delle sonde, a loro volta connesse da fili spessi da 4 a 6 micron, 10 volte più sottili di un capello umano. 
Trattandosi di dimensioni microscopiche, per garantire un impianto sicuro è stato anche sviluppato appositamente un robot, capace di installare le sonde autonomamente.  

Il robot è capace di inserire fino a 6 fili al minuto, ed ogni filo comprende ben 32 elettrodi. Il controllo del robot da parte di un software permette di stabilire a priori tutte le aree cerebrali sia superficiali che profonde in cui inserire gli elettrodi e di minimizzare gli incroci e la tensione sui fili, con estrema attenzione ad evitare i vasi sanguigni cerebrali. L’intero processo avviene comunque sotto la supervisione di un neurochirurgo, che all’occorrenza può intervenire manualmente. 

Infine, tutti i segnali captati dagli elettrodi vengono convogliati in un microchip, detto N1 sensor, e da qui trasmessi tramite connessione usb-c, presto sostituita da tecnologia wireless, ed elaborati in tempo reale da un mini pc che sarà posto dietro l’orecchio. Ciò permetterà un’interazione immediata tra uomo e macchina e il tutto potrà essere controllato tramite una semplice app per smartphone. 

Tutto questo sistema ha già permesso di collegare il cervello di un topo e di una scimmia ad un computer, utilizzando ben 3072 elettrodi distribuiti in 96 fili. E la scimmia è stata in grado di controllare il computer.  

Il prossimo obiettivo del progetto è ottenere entro il 2020 dalla U.S. Food and Drug Administration il permesso di sperimentare la tecnologia sull’uomo. Da qui, le prime applicazioni saranno in campo medico. Restituire il tatto, l’uso di un arto, la vista, l’udito, curare malattie neurodegenerative e migliorare dispositivi già sperimentati (come nel caso del Parkinson) sono le priorità 

A lungo termineMusk si lascia andare a visioni per molti utopiche: utilizzare le BMIs non solo a scopo terapeutico, ma per creare delle superintelligenze che in futuro possano competere con l’Intelligenza Artificiale, così che l’uomo non si trovi dietro i computer nella scala evolutiva. Scenario, questo, che fino a un decennio fa si limitava a film di fantascienza come Terminator, ma che oggi, data la crescita esponenziale della tecnologia, sembra poter essere sempre più reale. 

“Prestate attenzione alle mie parole, il pericolo dell’Intelligenza Artificiale è più grande del pericolo di conflitti nucleari, e di molto… Dobbiamo assicurarci che l’avvento della superintelligenza digitale si verifichi in simbiosi con l’umanità. Ritengo che sia la più grande crisi esistenziale da affrontare.” – Elon Musk 

 Davide Arrigo

Fonti: 

https://www.biorxiv.org/content/10.1101/703801v3
https://www.youtube.com/watch?v=r-vbh3t7WVI&feature=youtu.be
https://www.neuralink.com/
 

iKnife: avere il manico dalla nostra parte non è mai stato così bello

Negli ultimi anni abbiamo sentito sempre di più parlare di telefoni intelligenti (iPhone), computer intelligenti (iMac), ma in quanti conoscono il bisturi intelligente: iKnife?

Si tratta di un particolare strumento analitico il cui utilizzo promette tanto nel campo delle identificazioni veloci. Si è soprattutto rivelato molto utile in ambito clinico per l’identificazione di tessuto canceroso.

Il termine “iKnife” è stato coniato dal professore Takats e dai suoi collaboratori dell’Imperial College di Londra e rappresenta l’unione tra un elettrobisturi e un sistema di spettrometria di massa, il REIMS (Rapid Evaporative Ionization Mass Spectrometry).

L’analisi dei tessuti biologici intatti mediante la spettrometria di massa (tecnica analitica utilizzata per l’identificazione di sostanze incognite) è stata, negli ultimi decenni, un obiettivo di molti scienziati. Questa metodica è molto affidabile e sicura e fornisce “un’impronta digitale” delle molecole analizzate.

In parole povere l’identificazione mediante questo strumento si basa sulla trasformazione dei componenti del campione in ioni (molecole che possono presentare una carica positiva o negativa) e sulla loro successiva frammentazione. Questi ultimi vengono poi separati in base al rapporto tra la loro massa e la loro carica.  Ma, richiedendo una particolare preparazione del campione, risultava molto difficile analizzare tessuti biologici intatti.

A risolvere il problema fu sempre il gruppo di Zoltan Takats, accoppiando allo spettrometro di massa un elettrobisturi.

L’elettrobisturi, strumento chirurgico di routine, rappresenta per i ricercatori dell’istituto britannico un meccanismo alternativo per la ionizzazione (generazione di ioni) in quanto, durante il taglio, il tessuto si surriscalda e viene in parte vaporizzato producendo un gran numero di ioni in forma gassosa. Al tradizionale elettrobisturi si associa una pompa che aspira le molecole vaporizzate e le invia allo spettrometro di massa per un’analisi accurata. Oltre al vantaggio di non dover preparare il campione, le analisi svolte mediante questa tecnica sono molto veloci, richiedono infatti pochi secondi.

Il suo utilizzo in diagnostica è oggi conosciuto come bisturi intelligente (iKnife).

Le sue funzionalità infatti si prestano bene all’introduzione in campo clinico per una diagnosi accurata ed in tempo reale durante un intervento chirurgico.

Nella chirurgia oncologica l’obiettivo di ogni chirurgo è quello di asportare tutto il tessuto canceroso ed allo stesso tempo rimuovere il minor quantitativo di tessuto sano. Ad esempio, in caso di neoplasia cerebrale, risulta molto importante una rimozione tumorale adeguata, infatti: da una parte togliendo tessuto sano le funzioni cerebrali possono essere compromesse, dall’altra l’asportazione incompleta aumenta il rischio di avere una recidiva.

Che l’iKnife possa essere lo strumento ideale per risolvere questo problema, lo dimostra uno studio, pubblicato sulla rivista scientifica Science Translational Medicine. Sono state effettuate 81 resezioni nelle quali l’identificazione mediante REIMS ha fornito un’accuratezza del 100% nella determinazione di tumori maligni.

Per poter usare iKnife durante un intervento è stato costruito un apposito database istologico, contenente campioni di tessuti cancerosi e sani. Il trucco che sfrutta questo bisturi intelligente è la diversificazione tissutale in base alla composizione in lipidi del tessuto.

Il chirurgo ha in questo modo la possibilità di escidere la massa cancerosa, evitando che rimangano residui di cellule tumorali. Durante il taglio con questo strumento, il tessuto emana dei vapori che verranno analizzati in pochi secondi dal REIMS e confrontati da un software con quelli presenti nel database, in modo tale da sapere se la lesione asportata è cancerosa o meno.

La principale funzione di iKnife è quella di poter distinguere in maniera altamente affidabile un tessuto sano da uno tumorale e garantire l’asportazione soltanto di quello che causa la patologia.

L’abilità di iKnife di fornire in tempo reale informazioni sui tumori (guida il chirurgo in fase operatoria sulle porzioni da tagliare!) lo rende uno strumento ideale per l’uso clinico ed apre ampi scenari su un suo reale utilizzo in tutte le sale operatorie con risultati di precisione mai visti prima.

 

                                                                                                                                                                Georgiana Florea

Per approfondire:

https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/B9780128122938000074

Svegli prima della Sveglia? Ve lo spiega la Scienza

Che sia il cinguettare degli uccelli tipico delle fiabe, che sia la mamma al mattino che “deve fare prendere aria” alla stanza, o più semplicemente il classico “DRIIIN DRIIIN” assordante, la sveglia è da sempre un trauma per tutti. Sancisce l’inizio di una giornata e l’allontanamento dal rifugio del proprio letto.

E se spesso la si rimanda di 5, 10 e poi 15 minuti fino a riaddormentarsi ed avere un ritardo cronico per tutta la giornata, c’è chi della sveglia non ha bisogno e riesce addirittura a svegliarsi prima che suoni.

In un articolo pubblicato sulla rivista Science, i ricercatori del Salk Institute e i loro collaboratori della McGill University e dell’Albert Einstein College of Medicine, hanno identificato un nuovo gene facente parte dell’orologio biologico: KDM5A, meglio noto come “il gene della sveglia”. Questo codifica per la proteina JARID1a, che funge da interruttore del ritmo circadiano.

Quello che già si sapeva è che a regolare i fini meccanismi alla base del nostro risveglio ci pensano due proteine: CLOCK e BMAL. Il loro target è PER: la proteina “Periodo”.

Apparentemente in questa immagine il meccanismo biomolecolare sembrerebbe molto complesso, ma possiamo riassumerlo dicendo che PER si comporta da “orologio interno delle cellule”, variando in quantità a seconda dei momenti della giornata. A regolare il suo aumento di concentrazione durante il giorno ci penserebbero CLOCK e BMAL con un picco nelle ore serali, dopo le quali la loro attività subirebbe un freno.

Durante le ore notturne si ha così un rallentamento del metabolismo: la pressione sanguigna scende, la frequenza cardiaca diminuisce e la temperatura tende ad abbassarsi, di pari passo alla diminuzione di PER.

La domanda che Di Tacchio e colleghi si sono posti era: cosa frena CLOCK e BMAL e cosa permette a PER di aumentare nuovamente ogni mattino successivo?

 

Funzionamento di JARID1a

La risposta era proprio JARID1a, il quale andrebbe a “riaccendere” l’attività delle due proteine permettendo un continuo alternarsi di “sveglie” e “riposi” per ogni cellula del nostro corpo.

Per supportare le loro scoperte sul funzionamento di questo “orologio”, i ricercatori hanno studiato cellule di topo geneticamente modificate e moscerini della frutta ai quali avevano rimosso il gene di JARID1a. Soltanto quando hanno inserito nuovamente questa proteina, il ritmo circadiano  veniva ripristinato.

Dunque come spesso accade, i veri responsabili sono i nostri geni e non si tratta sempre di pigrizia.

A prescindere dal fatto che apparteniate a quella parte (piccola) di popolazione che si sveglia presto, carica e con la voglia di parlare e cambiare il mondo o che siate più i tipi che -se tutto va bene- dalle 7:00 post-ponete il risveglio fino alle 12:00, una cosa è certa: la sveglia, in fondo, è solo un’arma..altrimenti perché si punterebbe?

 

                                                                                                           Claudia Di Mento