Chi ha tempo non aspetti tempo… o forse sì

La riflessione di oggi nasce spontaneamente. Potremmo dire, con estrema semplicità, dal periodo che stiamo vivendo. Con mobilità e socialità ridotte al minimo sempre più frequentemente, ogni attività – didattica e lavoro inclusi – “spostata” su piattaforme online, possiamo realmente continuare a considerare la rapidità dei mezzi del terzo millennio ancora come un vantaggio? O questi stessi mezzi, tanto utili quanto mai ora indispensabili per non rimanere paralizzati in tempi di pandemia, se da un lato fanno risparmiare tempo, dall’altro ci sottraggono qualcosa?

La risposta è tanto complessa quanto personale e articolata. A testimonianza di ciò il titolo di questo breve pezzo: più che dare risposte vuole insinuare un dubbio. E come spesso accade è la quotidianità, fatta di avvenimenti e azioni “banali”, a innescare considerazioni ben più ampie e strutturate, a dare forma a pensieri inconsci che prendono vita attraverso la parola, scritta o parlata che sia. Ecco, dunque, che mi ritrovo a dover acquistare una stampante online, come di rado mi accade ad essere onesto. Ma Messina non è né in zona arancione, né in zona rossa nazionale o regionale: è in zona “ultrarossa”, come da ordinanza del sindaco De Luca. Sono costretto quindi a fare tutto da computer: armato di buona volontà guardo qualche modello in foto, un po’ perplesso dalle descrizioni non sempre dettagliate e in grado di sostituire la “vista dal vivo”, per quanto si tratti di un oggetto che non merita sicuramente le attenzioni di un’opera d’arte (anche se gli addetti ai lavori magari mi bacchetteranno). Detto, fatto: il noto sito di e-commerce, che ho usato l’ultima volta durante il primo lockdown, ha già i miei dati, avendo creato un account. Nome, cognome, indirizzo e carta di credito. Nessuna autorizzazione al pagamento ulteriore: un click e un pacco inizia l’iter per essere consegnato. Due secondi, forse meno. Meravigliato – forse perché poco avvezzo non tanto al mezzo, quanto all’acquistare nello specifico – dalla rapidità con il quale tutto è accaduto mi sento un po’ stordito.

Poco dopo decido di acquistare anche un libro, “Il quarto comandamento: La vera storia di Mario Francese che sfidò la mafia e del figlio Giuseppe che gli rese giustizia”, della giornalista e scrittrice Francesca Barra, che narra la storia della famiglia Francese: di Mario, giornalista ucciso dalla mafia; di Giulio, Fabio, Massimo e Giuseppe, i figli che hanno lottato per far venire a galla la verità, insieme alla madre Maria. Su questo non transigo, nonostante esistano versioni “kindle” scaricabili comodamente, per me niente può sostituire un libro “in carne e ossa”. Ma i tempi di consegna non mi assistono: giorno 28 abbiamo organizzato con UniVersoMe, la nostra testata, un webinar su giornalismo di inchiesta e studenti in collaborazione con Gazzetta del Sud e UniMe, con ospite proprio Giulio Francese, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Sicilia.

Evento su giornalismo d’inchiesta e studenti organizzato da UniVersoMe in collaborazione con Gazzetta del Sud e UniMe

Nonostante conosca bene la storia di Mario Francese, mi piace sempre approfondire ulteriormente tematiche come questa. Cedo dunque alla versione e-book, con un po’ di tristezza per la mia passione per la carta stampata. Ringrazio per questa deroga alle mie abitudini. Il libro non è una storia di mafia, di silenzio, di omertà, di ingiustizie e di giustizia: è la storia umana di una famiglia. La concatenazione di questi eventi, mi porta anche a un’ulteriore riflessione, che unisce il tema della conferenza al titolo di questo articolo: Mario Francese, nello svolgere il suo ruolo di giornalista d’inchiesta, voleva «raccontare diventando una cerniera tra i fatti e la loro interpretazione». Ritengo che forse questo approccio oggi si sia un po’ perso, determinando un sentimento di diffidenza e sfiducia nei confronti del giornalista. Probabilmente questa rincorsa alla rapidità nel dare la notizia, influenzata anche proprio dai nuovi mezzi di comunicazione, non lascia tempo e spazio al giornalista per porsi tra fatti e loro interpretazione, limita il racconto, l’analisi, in favore di un mero “riportare” passivamente. In questo contesto, come tornare a riportare a galla la verità? Sarebbe meglio prendersi – probabilmente – del tempo in più. Ma questo cambiamento è realmente solo legato al contesto? Od ogni giornalista ha di fatto delle responsabilità?

Copertina del libro – Rizzoli©

Lascio ad altre sedi un’analisi dettagliata di questo aspetto specifico per tornare a focalizzarmi sul tema globale di questo articolo: quel tempo in più del quale parlo poche righe sopra, dovremmo prendercelo un po’ tutti. Esempio molto discusso è l’uso esteso della DAD. Siamo sicuri che andare a scuola o all’università significhi soltanto accendere un pc ed ascoltare una video-lezione? L’atto stesso di “andare” implica svegliarsi, vestirsi, prendere un mezzo o camminare, incontrare i propri compagni/colleghi, chiacchierare con loro, studiare, fare ricreazione e pause, svolgere verifiche o esami e poi tornare a casa. Un’attività semplice ma varia, diversificata, con tempi ben scanditi, ridotta alla distanza che separa il letto dal tasto del nostro pc/tablet.

Potremmo fare lo stesso discorso per il lavoro (che da casa sembra non finire mai, sconfinando spesso oltre l’orario consueto), comprare in negozio, mangiare al ristorante e qualsiasi altra cosa che vi venga in mente. In un periodo così difficile da così tanti punti di vista, si sente spesso dire “sì lo faccio, ma non è la stessa cosa”. Gli studenti, anche i più pigri, si riscoprono desiderosi di tornare alla normalità. Chiunque, sebbene – con le dovute e tristi eccezioni – riesca a fare tutte o quasi tutte le attività che svolgeva prima, avverte più insofferenza che piacere.

L’era digitale ha compresso, con gli innumerevoli vantaggi dei quali anche io sono ben conscio, i tempi di ogni attività; lo ha fatto ormai da tanto, spinta nell’ultimo tragico anno dal fare di necessità virtù durante la pandemia. Ma penso che, in questa frenetica rincorsa alla rapidità, ci abbia tolto qualcosa: il piacere di fare. Restringendo al massimo i tempi, spesso si ha la sensazione solo di eseguire.

Per questo vorrei dirvi: chi ha tempo, aspetti. Ogni cosa ha il suo tempo. Persino comprare una stampante.

Emanuele Chiara

Articolo pubblicato in data 4/02/2021 nell’inserto NoiMagazine di Gazzetta del Sud

Immagine di copertina: La persistenza della memoria, Salvador Dalì (artewrold.it)

Oltre me

Piansi. Piansi tanto. Piansi per la mia morte.

Il senso di pace che nella mia vita – a questo punto breve – mi ero convinta avrei provato, una volta trovatami a guardare il mio corpo giacere, staccato da me, tardava ad arrivare. Al suo posto, soltanto un ottundimento generale e un fischio smorzato alle mie orecchie che, accompagnato da un’incontenibile angoscia, faceva da eco ai miei singhiozzi. Piangere. Questa era cosa da vivi. La paura. Anche questa era una cosa da vivi. Eppure eccoli lì, quei sentimenti, più corposi del mio stesso essere, intenti a devastarmi l’anima, a quel punto più esposta che mai. Se così poteva chiamarsi. Non potevo più esserne sicura. Che cosa ero? Una creatura evanescente, a metà tra un sogno e un ologramma, che nessuno poteva vedere o sentire. Una creatura incapace di essere ma condannata ad esistere.Percepivo i miei movimenti, il mio frenetico singhiozzare, ma l’unica me che vedevo era quella distesa in terra. Un corpo orridamente carbonizzato era tutto ciò che restava di me. Guardai la voragine presente al centro del mio petto, e ricordai limpidamente lo scossone e l’incredibile bruciore che devastarono il mio sterno un attimo prima di ritrovarmi faccia a faccia con me stessa. Provai a dare un freno al mio pianto disperato, muto ai presenti, e mi chinai a guardarmi più da vicino. Sfiorai tremante il mio corpo – che sentivo ancora mio nonostante non mi appartenesse più – e non sentii nulla. Nessun contatto. Il nulla era ciò che ero. Affondai in quel corpo la mano inconsistente, e l’inconsistenza vinse. Se pur straziante questo non mi stupì. Fu l’unica aspettativa a non essere tradita. Il mio corpo giaceva disteso, sul cemento freddo di un marciapiede, ormai gremito di persone. La pelle carbonizzata, a tratti lasciava intravedere ossa e tendini. Il volto, anch’esso sfigurato dalle ustioni, stentavo a riconoscerlo. Un piccolo, insignificante pezzo di metallo, che portava la forma dell’iniziale del mio nome, appeso al mio collo, aveva deciso della mia vita, stroncandola nel pieno dei suoi anni. Un fulmine, attratto fatalmente al mio petto, fece del mio corpo la sua meta, completando in me la ragione del suo esistere. Una scarica elettrica che sembrava portare in seno l’ira dell’inferno, al quale ormai credevo di essere destinata, aveva attraversato il mio corpo, folgorando il mio cuore e bruciando le mie membra. Sapevo di essere morta, era l’unico aggettivo con il quale riuscivo a esprimere ciò che ero. Lo gridava la gente, con le loro voci straziate e i pianti increduli, ovattati dall’ incessante pioggia, che rimbombava al mio udito frastornato. Non avevo mai pensato seriamente alla mia morte. Mi ero inconsciamente arrogata il pretenzioso diritto di una vita longeva, che mi desse il tempo di inseguire i miei sogni, di percorrere mille strade e anche di trovare quella giusta. Dovevo ancora finire gli studi, trovare un lavoro, trovare l’amore, viaggiare, farmi una famiglia…Dovevo ancora vivere per poter morire. Non ero pronta a rinunciare a tutto questo. Se esisteva un destino, sentivo che morire non era il mio, non adesso. Percepivo ancora il mio forte attaccamento alla vita, sentivo di non essere pronta ad abbandonare il mio corpo, la mia famiglia, la mia vita. Non ero una cristiana modello, e non ero solita frequentare la chiesa, ma avevo sempre creduto in Dio, e credevo che avrei avuto anche il tempo di essere una fedele migliore, prima o poi, ma certe cose non si possono rimandare, e forse, questa era la mia punizione: la negazione della pace. Pensavo che la paura della morte fosse soltanto un tarlo di chi è ancora in vita, ma non avrei mai immaginato che la paura, sarebbe sopravvissuta anche alla morte.

Un’immediata rassegnazione e un grande senso di pace, erano le sensazioni che, in fondo, avevo sempre creduto avrei provato dopo il trapasso. Invece, l’incredulità, la negazione e l’angoscia, insieme alla paura, erano tutto ciò che riuscivo a percepire, sopra ogni cosa. Arrivarono i soccorsi, e notai con stupore che controllarono i miei parametri vitali. Forse era solo una prassi. Uno scrupolo. Presero dalla mia borsetta i miei documenti. L’identificazione del cadavere, pensai. Poi, un poliziotto, prese il mio cellulare. “No! Il cellulare no!”, avrebbero chiamato i miei, probabilmente mia madre: era stata l’ultima persona con la quale mi ero sentita. “No vi prego non chiamatela!”, non potevo dare questo dolore alla mia famiglia, perché dovevo assistere a tutto questo? L’angoscia di dover commissionare un dolore così grande ai miei cari, mi colpì come un secondo fulmine, percuotendo violentemente tutti i miei caotici sentimenti. L’agente con il mio cellulare, dopo un rapido scambio di parole con uno dei paramedici che stavano intorno al mio corpo, occultandolo alla mia vista, si allontanò leggermente, evadendo dalla folla. Forse il desiderio di non assistere a quel momento, in cui oltre alla mia, sentivo di percepire la forte angoscia che, di lì a poco, avrebbe investito la mia famiglia, o forse, per una qualche misericordia divina, capii che stavo allontanandomi da quel luogo, al quale sentivo, tuttavia, di appartenere ancora. Tra le ultime cose che notai, un respiratore manuale, con il quale uno dei paramedici, pompava ossigeno nei miei polmoni. Una leggera speranza, incredula, s’instillò tra i miei turbamenti, illuminando, come una fioca fiammella, il buio che, percepivo ormai intorno a me. Ad un tratto sentii, man mano che ascendevo, verso una meta ancora a me sconosciuta, che i sentimenti, che avevano fatto da sfondo a quell’angosciante quadro, del quale ormai percepivo solo delle immagini lontane e confuse, rimanevano collegate al luogo nel quale si erano generate, mentre il mio essere acquisiva una leggerezza crescente, man mano che sentivo marcarsi quell’indefinito confine, tra vita terrena e vita ultraterrena. La pace che percepii, improvvisamente, non generò né sollievo né stupore. Pace era l’unico sentimento che mi fu concesso di provare, l’unica domanda e risposta alla quale riuscivo a pensare, in quel luogo del quale i confini non erano tracciabili. Tutte le mie paure si erano dissolte completamente, portando con sé anche il desiderio di riavere indietro la mia vita. La mia vita terrena. Non potevo dire di trovarmi né in un luogo né in un tempo precisi, e forse, luogo e tempo non erano contemplati in quel posto etereo. Ero come in un tunnel, dallo spazio indefinito, illuminato da una leggera luce che aumentava man mano che una forza misteriosa mi attirava a sé, verso una luce molto più intensa, quasi accecante, ma che la mia vista non turbava, anzi, ne ero inesorabilmente attratta. Provai un’immensa gioia solo al pensiero di raggiungerla. Era come se i miei occhi non ne ebbero mai visto uno spiraglio, neppure in vita, come se avessi vissuto in un’eterna penombra, senza conoscere la bellezza della vera luce.

Ad un certo punto presero le mie mani, ed il contatto improvviso non mi fece trasalire, tutt’altro, mi fece sentire più sicura. Percepii due presenze, una alla mia destra e una alla mia sinistra. Si trattava di due angeli, e non ebbi bisogno di guardarli per saperlo. Mi parlarono ma le parole non erano il linguaggio proprio di quel luogo. Comunicammo in un modo che venne naturale pure a me, nonostante non avesse niente in comune con il linguaggio al quale ero abituata. Fu come comunicare con la mente, se dovessi spiegarlo nel modo più semplice. Mi chiesero cosa ci facessi lì, che ero giunta troppo presto, e che non ero ancora pronta per incontrare il Padre. “Il Padre”, solo questa parola mi riempì il cuore di gioia, e incontrarlo divenne il mio desiderio più grande. Risposi che un fulmine mi aveva colpita, che credevo di essere morta, e che prima, nell’attesa, mi ero sentita smarrita, abbandonata. “Ti abbiamo sentita” mi risposero, “ma non eravamo pronti a te” e capii. Capii il perché di tutta quell’angoscia che ricordavo pesante come un macigno: non erano pronti a me ed io non ero pronta a loro. Non era questo il giorno previsto per la mia morte. Gli chiesi se potevo restare, ma mi risposero che non era compito loro deciderlo, e solo al pensiero di ritornare indietro, mi si riempì il cuore di tristezza, sentivo che, adesso, tutto ciò di cui avevo bisogno, era lì, in quella luce, che sembravo non raggiungere mai. I due angeli che mi fiancheggiavano lungo il cammino, mi dissero di guardare, ma capii che gli occhi non erano il mezzo per farlo. Guardai come dentro di me, e vidi quello che loro mi mostrarono. Tutta la mia vita mi passo davanti, senza tralasciare nessun particolare. Rividi uno ad uno tutti i volti delle persone che avevano interferito nella mia vita: dagli affetti più cari alle persone con le quali avevo scambiato solo poche parole. Rivissi tutto da una prospettiva diversa, sentendo sulla mia pelle, le emozioni che le mie azioni avevano provocato a ognuno di loro. Provai vergogna e frustrazione per tutto il male che avevo inflitto, anche solo con le parole. Solo in quel momento riuscii a capire quanto avessi battuto la strada del peccato sviandomi dal cammino che Dio aveva scelto per me. La strada che nella mia vita avevo percorso, era lastricata di tentazioni, nelle quali inciampavo puntualmente. Mi resi conto che andare in chiesa ogni tanto e dire di credere in Dio, non faceva di me una brava cristiana. La cura del mio aspetto, un tenore di vita agiato, il raggiungimento del successo, erano stati il mio credo. Avevo sempre subordinato l’essere all’apparire. Mi accorsi che stavo allontanandomi dalla grande luce, e capii che il mio viaggio oltre la vita, stava per terminare. Quando mi risvegliai ebbi la consapevolezza che non si era trattato di un sogno, ma il ricordo di quell’esperienza, era più tangibile del mio corpo stesso. Capii di aver avuto una seconda occasione, e con essa, la grandiosa possibilità di redimermi. Ritrovai la strada, solo dopo essermi trovata faccia a faccia con la morte, in un viaggio di andata e ritorno oltre la vita. Oltre me.

Giusi Villa