St. Vincent: una wonder musician

Mentre scrivo la sto ascoltando chiedersi “Am I the only one in the only world?” : è l’inizio di “Rattlesnake” che apre il suo ultimo album “St. Vincent” risalente ormai al 2014.

Annie Clark aka St. Vincent non è l’unica donna al mondo ma è sicuramente un’artista intrigante, polistrumentista e cantautrice mai scontata nei testi e nella composizione musicale.

Ma su tutto: una divinità con la chitarra, e non sto esagerando.
Ci sarà un motivo per cui Dave Grohl l’ha chiamata per cantare “Lithium” nell’unica reunion dei Nirvana alla Rock and Roll Hall of Fame. Con il genio sperimentalista di David Byrne ha inciso un album “Love this giant” e girato il mondo in tour. Fa faville ai festival, unendo performance visiva e musica.
Il figlio di Frank Zappa in una recente intervista ha suggerito a coloro che si vogliono avvicinare al lavoro del padre di ascoltare prima lei, perché gli ricorda il padre per ritmica e cadenze sincopate. Suggerendo la visione di lei in un festival che suona una cover di “Dig a Pony”.

Cover dell’omonimo album “St Vincent”


Tornando all’album, i primi due singoli sono un gioco di chitarra e distorsioni del suono, fornendo essa stessa un elemento ritmico e sensuale.
“Birth in reverse” è un continuo sali e scendi vocale accompagnato da una velocissima coda strumentale.
Inizia “Prince Johnny”  è una canzone d’amore il cui testo è complesso,  si viene trasportati lungo tutta questa storia da una delicata tastiera.
C’è il tripudio di ottoni in “Digital Witness” , che prende in giro la società odierna e la dipendenza dalla tecnologia.
Ma c’è spazio anche per i lenti “I Prefer Your Love” è una intima melodia tra i suoi pezzi più struggenti in assoluto. Il  ritmo serrato e coinvolgente di “Psychopath”.
Nella versione deluxe dell’album troviamo “Pieta” che ad una base serrata di percussioni unisce un coro da chiesa e un testo filosofico.

La mia preferita in assoluto è “Regret” che con quelle percussioni eccita e riempie di energia.
In molti la etichettano come pop in questo suo disco ma io non riesco proprio perché è un miscuglio di generi, è un complesso non catalogabile che riesce a soddisfare tutti.
C’è tutto, garantendo una leggerezza di tocco e chiarezza melodica da fuoriclasse.
Quasi dimenticavo : “St. Vincent” nel 2015 ha vinto un Grammy come “miglior album alternativo”.
La musica di St. Vincent, come lei, è galvanizzante.

Ha creato un approccio totalmente nuovo nel suonare la chitarra: unico.
Validissimi anche i lavori degli album precedenti “Strange mercy”, “Actor” e “Marry me”.
La texana itinerante (negli ultimi 10 anni è stata quasi sempre on the road) ha fatto parte della Polyphonic Spree un gruppo di Dallas che unisce alla varietà di voci diversi strumenti, dal trombone al violino dalla tastiera elettrica al corno.
Ha collaborato anche con Sufjan Stevens altro cantautore polistrumentista , anche lui sperimenta moltissimo e il cui lavoro è più che notevole.
Da donna a cui piace sperimentare quest’anno si è cimentata anche nella regia di un corto horror, che in realtà sembra più il teatro dell’assurdo, marcatamente il suo stile.
Fa parte di una antologia chiamata “XX” (nda sono tutte registe donne) presentato al passato Sundance festival.
Ha inciso anche una cover di “Emotional rescue” dei Rolling Stones per il film di Luca Guadagnino “A bigger splash” e lavorato per la colonna sonora del primo corto di Kristen Stewart “Come swim”.

A dicembre in una intervista rilasciata a “Guitar World” ha affermato che il materiale scritto per il nuovo album è “il più profondo e più audace che abbia mai fatto”.
Proprio mercoledì con un divertente video ha annunciato le date del tour che inizierà in Giappone a fine agosto “Fear the future tour” http://https://www.youtube.com/watch?v=eFXq8OU1dNQ


Aspettiamoci dunque di tutto, c’è bisogno di creatività, sperimentazione e sana musica.
Questa donna dagli occhi di cerbiatto e dalla chitarra spiritata non ha sbagliato un colpo fino ad ora.
Intanto ci stuzzica su Instagram con foto dallo studio:

A me viene solo da dire : “Annie ESCILO!”.

Arianna De Arcangelis

Wonder woman – la prima eroina.

C’è una bambina che corre, sta scappando per andare a vedere delle donne allenarsi al combattimento. Questa bambina è Diana (la futura Wonder Woman) e queste donne le Amazzoni.

Dopo anni la Warner Bros e la DC sono riusciti a produrre e mandare in sala Wonder Woman. Tratto dall’omonimo fumetto creato da William Moulton Marston nel 1941, nata come simbolo per le donne. Una delle eroine più famose della storia dei fumetti.

Figlia della regina delle Amazzoni Ippolita e cresciuta sull’isola Paradiso la lascerà quando sulle sue coste cade Steve Trevor un pilota americano, durante la seconda guerra mondiale.
In questa trasposizione cinematografica la cui regista è Patty Jenkins (Monster) e gli sceneggiatori e tutto l’ensemble sono uomini (“It is a man’s world” cantava James Brown) la nostra supereroina, invece, è catapultata durante la prima guerra mondiale e segue la spia Trevor in Inghilterra.
È convinta di poter ristabilire la pace universale trovando Ares e neutralizzandolo una volta per tutte.

La sceneggiatura è scarna, con qualche battuta divertente e d’effetto, la Jenkins però lascia il suo segno con la regia lineare, non puntata tutto sulla fisicità di Diane e delle Amazzoni. La differenza di stile fra chi ha diretto e chi ha sceneggiato è notevole.
Gioca molto sul contrasto fra i principi e gli usi dell’antica Grecia di Diana e quelli della modernità incarnati da Steve Trevor ciò stimolerà sicuramente le giovani menti.  
Il primo tempo è molto coinvolgente, belle le scene di battaglia sulla spiaggia (ndr sono state girate tutte in Italia : spiagge in Campania e le scene di palazzo a Matera e Castel del Monte).
Inizialmente il secondo tempo coinvolge, lo sguardo scioccato e innocente di Diana che si aggira per il fronte, siamo lì con lei e proviamo lo stesso sconforto.
Si allunga troppo lasciando spazio ad un finale un po’ eccessivo.

Gal Gadot è la perfetta Diana, sovrasta Chris Pine (Don’t worry darling) solo con lo sguardo, più che nei momenti di battaglia in quelli di quiete e di comprensione di com’è il mondo. È brava assai.
Caricaturali i tre personaggi che li accompagnano, un turco, un disadattato e un indiano. A quest’ultimo la limitata sceneggiatura gli affibbia frasi politically correct. Stereotipata pure la segretaria di Chris Pine, anche se simpatica.
Dulcis in fundo ci sono le amazzoni: splendide donne. Imponenti le scene iniziali dell’isola e dei combattimenti fra queste. E poi Connie Nielsen e Robin Wright nei panni della regina Ippolita e la generalessa Antiope che fanno dire , per citare il mio giornalista del cuore Federico Pontiggia,  “Wonder MILF”.

Wonder woman colpisce positivamente il pubblico e divide la critica (v. i numeri del box office e le valutazioni su Rotten Tomatoes). È già passato alla storia del botteghino in America con un incasso di $100.5 milioni di dollari nel primo weekend.
Chi scrive è cresciuta coi fumetti di Wonder Woman, Valentina e in tv Carmen Sandiego (Netflix la riporterà presto interpretata da Gina Rodriguez) e altre personaggi immaginari femminili però al cinema durante la mia infanzia non ho mai potuto apprezzare un film di questo tipo.
Questo film si sta ponendo come la alternativa per le ragazzine ad un panorama di eroi uomini. È coinvolgente e stilisticamente affascinante.
Le donne però non devono essere solo raffigurate ma anche coinvolte nei lavori, credute nei progetti che propongono. 

Ndr: nel 2016 il 4% erano registe, l’11% sceneggiatrici, 19% produttrici, 14% editrici e uno sconcertante 3% direttrici della fotografia. Ad Hollywood.

Arianna De Arcangelis

Le notti di un sognatore

Era una notte meravigliosa, una notte come forse ce ne possono essere soltanto quando siamo giovani, amabile lettore. Il cielo era così pieno di stelle, così luminoso che, gettandovi uno sguardo, senza volerlo si era costretti a domandare a se stessi: è mai possibile che sotto un cielo simile possa vivere ogni sorta di gente collerica e capricciosa? Anche questa è una domanda da giovani, amabile lettore, molto da giovani, ma voglia il Signore mandarvela il più sovente possibile nell’anima! … Parlando d’ogni sorta di signori capricciosi e collerici, non ho potuto fare a meno di rammentare anche la mia saggia condotta in tutta quella giornata”.

Le notti bianche è tra le opere più apprezzate di Dostoevskij, insieme a Delitto e castigo. Sin dalle prime pagine, si comprende il perché quest’opera è tanto amata, in quanto ogni uomo riesce a identificarsi con la figura del protagonista. Un sognatore, isolato dalla società e della realtà, durante una delle sue solite passeggiate notturne incontra una donna di nome Nasten’ka. Sarà lei a risvegliare in lui il sentimento dell’amore attraverso il suo sguardo complice, le sue parole e le lunghe chiacchierate anche se sfuggenti.

Io sono un sognatore; ho vissuto così poco la vita reale che attimi come questi non posso non ripeterli nei sogni.”

La storia si svolge in 4 notti e un mattino, i protagonisti sono solo due : lui timido ed impacciato riesce ad aprirsi a Nasten’ka mentre, quest’ultima, si sfoga sulla sua vita privata, il suo rapporto con la nonna cieca, l’amore perduto e la sua delusione. Entrambi i protagonisti sono soli, rassegnati, vivono la loro vita ma sono spenti e i loro tratti psicologici sono delineati alla perfezione come solo Dostoevskij riesce a fare.

Il finale è struggente, inaspettato, demolisce un sogno che si configurava all’orizzonte: è lo specchio perfetto di quell’amore che tutti abbiamo provato nella vita. Nato alla fioca luce della piacevolezza del primo sguardo, esploso all’unione delle due anime e poi frantumato sotto i piedi, in quel secondo che non ammette repliche.

Le Notti Bianche è un romanzo dolce, sognante, delicato, che, così come la vita, lascia l’amaro in bocca ma senza cattiveria. Consigliato a tutti i sognatori, a chi non si sente accettato e a disagio nel vivere nella società, a chi si lascia cullare dalla fantasia. A tutti coloro che amano stare al confine tra sogno e realtà.

Serena Votano

“The Big Kahuna”

Di film indipendenti se ne trovano a bizzeffe, specialmente da dopo la miracolosa discesa in terra della piattaforma mistica di nome “Netflix”, ma sono veramente pochi quelli che riescono a rimanere all’altezza degli standard delle grandi produzioni Hollywoodiane nonostante il loro budget molto limitato.
The Big Kahuna (La Grande Occasione) è uno di questi, una piccola, sbiadita e remota stellina lucente in mezzo ad un panorama troppo scuro…

E’ un film del 1999 diretto da John Swanbeck, tratto dalla commedia teatrale Hospitality Suite di Roger Rueff (che sarà anche sceneggiatore della stessa pellicola) che vede protagonisti “solo” tre attori: Danny DeVito, Kevin Spacey e un giovanissimo Peter Facinelli che interpretano il ruolo di tre venditori di lubrificanti industriali per una azienda sempre più sull’orlo del fallimento.
L’unica location utilizzata è una modesta stanza d’albergo di Wichita, Kansas dove i tre hanno organizzato un incontro con un grosso cliente che con il suo ordine potrebbe risollevare le sorti della loro azienda. Il problema è che nessuno di loro conosce il suo volto.

Ogni personaggio è diverso dall’altro e tutto il film ruota proprio attorno ai dialoghi che queste tre personalità tanto diverse riescono a partorire.
Il primo di cui facciamo la conoscenza è Phill Cooper (Danny DeVito) saggio venditore di mezz’età dalla personalità profonda e confusa che rappresenterà uno dei punti chiave di tutto il film. Insieme a Cooper troviamo Bob Walker (Peter Facinelli) giovanissimo venditore, neoassunto, ligio al dovere e fortemente legato alla religione Battista di cui è un fervido credente. L’ultimo ad intervenire è Larry Mann (Kevin Spacey) cinico ed astuto venditore, dotato di un grande sarcasmo che spesso lo spinge ad esagerare nell’uso di parole taglienti, specialmente nei confronti del giovanissimo Bob Walker.

“Be’, guardate, sono allibito! Io non fumo, tu non bevi e Bob non fa pensieri licenziosi sulle altre donne. Messi insieme noi tre siamo praticamente Gesù”

I dialoghi sono la vera perla di questo film, soprattutto se si considera che il tutto si ambienta in una sola, piccola e semplice stanza dalle pareti color kaki di un altrettanto anonimo albergo del Kansas. L’azione è bandita dalle scene, la parola viaggia libera e tocca i temi più disparati, dal senso della vita alla religione, dall’importanza della famiglia al valore dell’amicizia, fino, ovviamente, ai temi più concreti della finanza e del linguaggio imprenditoriale. Tutto si muove sulla linea del confronto/scontro tra Larry e Bob, troppo distanti caratterialmente per vivere una giornata intera gomito a gomito sotto la costante pressione di un cliente che non si palesa; confronto che scoppia nella costante battaglia tra il cinismo dato dall’esperienza di vita del primo e la forte e quasi eccessiva fede religiosa del secondo.

Non è un film che eccelle sotto tutti i punti di vista, anzi, spesso dimostra molte lacune sul piano della regia e della trama in se stessa, ma, nonostante la forte mediocrità dell’organizzazione di base, riesce a mettere in luce le splendide performance dei tre attori che riescono a cucirsi addosso perfettamente i loro ruoli, senza troppi eccessi, in maniera semplice, ma diretta. L’apice del film lo si raggiunge nel finale che riesce a condensare perfettamente il senso di tutta la storia in pochi minuti dalla straordinaria forza d’impatto, dimostrandosi così una perfetta chiosa per un film dalle poche aspettative, ma dai molti punti di riflessione e di indagine interiore.

“Non sentirti in colpa se non sai cosa vuoi fare della tua vita. Le persone più interessanti che conosco a ventidue anni non sapevano che fare della loro vita. I quarantenni più interessanti che conosco ancora non lo sanno.”

È un film consigliato a tutti coloro che non hanno paura di mettersi in dubbio, di porre sotto i riflettori del giudizio altrui la propria personalità, i propri difetti e le proprie paure; che sono disposti a cambiare in meglio, a chiedere scusa e ad affrontare i problemi di ogni giorno con spensieratezza, perché, prima o poi, anche loro riusciranno a cogliere la loro grande occasione.

Giorgio Muzzupappa

Adesso di Chiara Gamberale

Tanto ormai è successo.
E quando?
Adesso.

Chiara Gamberale, in Adesso, affronta lo stesso tema che da anni la letteratura cerca di interpretare, scoprire, sviscerare: l’amore

Ma l’amore non è più quello adolescenziale delle attese sul motorino fuori scuola, i primi messaggi, le prime gite al mare, i primi mesi, no … l’amore inteso più come un mal d’amore, che ti forma ma ti deforma, che guarisce le tue ferite ma ti frantuma il cuore e da quel momento finirai per spezzare il cuore a chiunque proverà ad aggiustare il tuo (sempre che le tue ferite non ti abbiano resa troppo menefreghista per lasciarti andare con una persona nuova), perché a quel punto sarai destinata a incontrare solo persone che non ti capiscono, e perciò ti trovano irresistibile, o persone che ti capiscono e che per questo si allontanano.

E adesso? Adesso Lidia e Pietro, una neo-coppia con retaggi di un passato irrisolto, relazioni interrotte, paure stupide,  traumi giovanili, fame d’ amore contrastata da un impetuoso ed irrefrenabile desiderio di fuga oltre a figure ingombranti riemerse o mai scomparse dal proprio cammino.

La loro, in fondo, sarebbe una semplice storia d’ amore, se non subentrassero a complicarla maledettamente quei fantasmi di un passato che ritorna e di un destino che appare segnato.
Lidia e Pietro sono profondamente diversi. Lei lavora nel mondo dello spettacolo, e’ vulcanica, estroversa, logorroica, vive intensamente ogni storia,senza figli, ma un ex marito bambino mai cresciuto, tuttora presente ed incalzante, da cui è stata più volte tradita. Lui è un preside, serio, compito, di poche parole, tende a sottrarsi agli affetti più cari, ha una figlia adorabile ed una ex moglie con neo-vocazione monacale.
Entrambi hanno sofferto di perdite, assenze genitoriali, affetti negati e si incontrano, quasi per caso, come la maggior parte delle neo-coppie, iniziando una relazione specchio del proprio tormentato essere e di quella paura di amare e di perdersi che li trattiene da sempre.

Arriva un momento, per ognuno di noi, dopo il quale niente sarà più uguale: quel momento è “adesso”.”

Chiara Gamberale scava nelle emozioni armata di un bisturi, mettendo il nostro cuore sotto i riflettori della coscienza, descrivendo una generazione cresciuta solo anagraficamente, ancora figli quando la realtà li vorrebbe madri e padri, ancora così impauriti dai sentimenti abituati a un regime di indifferenza di fronte alle proprie emozioni, un meccanismo di difesa che le delusioni passate hanno eretto.

Ma proprio in una giornata come le altre, in cui non ti chiedi più se succederà qualcosa, ecco quella cosa speciale che succede proprio a te.

È un testo dallo stile per niente impegnativo, forse una narrazione confusa nella prima parte ma alleggerita da mail, sms, addirittura un curriculum sentimentale (che forse tutti dovremmo avere, così per facilitare un po’ tutto) , con curiosi e divertenti coprotagonisti che, con le loro storie, si intrecciano alla storia principale.

Non è prima di una vecchiaia dolce e non è dopo un’infanzia tremenda, non è prima di niente e dopo di niente, è solo adesso, dopo il dolore, prima del dolore, finalmente è adesso, un momento in cui rimanere mentre c’è, senza fuggire, perché è una fuga in sé, senza sperare, perché è in sé una speranza, io? Tu, no no, sì sì, non sono pronto, nessuno lo è.”

Serena Votano

Cent’anni di solitudine

Cent’anni di solitudine”, Premio Nobel  di Gabriel Garcia Marquez, è la storia della famiglia Buendia dalla fondazione di Macondo alla sua evoluzione.
Le pergamene di Melquiades profetizzano la stirpe dei Buendia, ma nessun componente della famiglia è in grado di tradurne il contenuto.

Erano le ultime cose che rimanevano di un passato il cui annichilimento non si consumava , perché continuava ad annichilarsi indefinitamente, consumandosi dentro se stesso, terminandosi in ogni minuto ma senza terminare di terminarsi mai.”

Un secolo di vita della stirpe dei Buendia viene raccontato tramite singoli avvenimenti che, sebbene svoltisi in un lungo periodo di tempo sembrano coesistere in un solo attimo, in una Macondo in cui il tempo sembra girare in tondo senza portare alcuna novità o miglioria. È Jose Arcadio Buendia a dare origine a tutto ciò, sposandosi con Ursula Iguaràn. La loro stirpe sarà lunga e ricca di avventure e mille dispiaceri, tra la morte dei figli prima dei genitori, guerre e delusioni amorose.

Il lettore viene condotto in un universo a sè, in un’opera tutta umana e raffigurante come un dipinto la condizione dell’essere su una terra aspra che sembra respingere ogni vita. Marquez è il massimo esponente di quello che viene definito “realismo magico“, ed infatti l’elemento magico (sotto forma di fantasmi, presenze e superstizioni) è fortemente presente nel romanzo in questione ed è ciò che poi caratterizza tutti gli avvenimenti.

Straordinaria la capacità di Marquez di fare della linea temporale un filo di lana da arrotolare e srotolare sulle dita, da tagliare e da ricomporre a proprio piacimento.
Resta inevitabile affezionarsi ai singoli componenti di questa famiglia e a come questi sono condannati al loro carattere.

Proseguendo la lettura, è inevitabile confondersi a causa dell’ intreccio di parentele e di legami tra i vari membri della famiglia, si rischia di non avere più molto chiaro l’albero genealogico di questa famiglia così sfortunata e toccata solo un attimo dalla felicità (che come è arrivata, se ne va) ma, allo stesso tempo, così unita da un filo conduttore, un sentimento: la solitudine.

Solitudine come assenza di contatti con altre persone, ma anche come quel senso di malinconia che ti assale nonostante la compagnia e i divertimenti.
Una storia familiare che dura un secolo, cent’anni, cent’anni di solitudine.

Perché le stirpe condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra.

Serena Votano

IT di Stephen King

Il 1986 è l’anno in cui il terrore ha fatto la conoscenza della carta stampata.
L’anno in cui gli incubi di ogni persona hanno avuto un contatto diretto con la realtà.
L’anno in cui viene pubblicato il capolavoro dell’orrore di Stephen King “It”.

“E una volta andato non puoi più tornare indietro

Quando di punto in bianco sei nel buio”

Queste sono le parole di “My My, Hey Hey (Out Of The Blue)” storico pezzo di Neil Young, che perfettamente sintetizzano la sensazione che questo libro regala ad ogni lettore sin dalle prime pagine. Una volta iniziato non ci si può più fermare, non c’è scampo, veniamo immersi nella realtà tetra, umida e stantia dove vive la paura mascherata da clown, dove il male si nutre e prolifera. Nella dimora di It!

Tutto inizia nel 1957 nella cittadina, fittizia, di Derry dove da parecchi giorni imperversano forti temporali che stanno allagando la città e causando non pochi problemi a tutta la popolazione. Qui facciamo la conoscenza del piccolo George Denbrough che, nonostante il diluvio, si trova nelle strade della città a giocare nei piccoli canali che si sono formati ai bordi della strada con una barchetta di carta fabbricatagli dal fratello Bill.
Il cielo è grigio ed il vento soffia forte spingendo la barca sempre più veloce lungo il marciapiede di Witcham Street, tanto forte che Georgie quasi non riesce a stargli dietro. Ma le acque in cui la barchetta naviga sono troppo mosse per permetterle di resistere a lungo nel suo tragitto ed in poco tempo finisce per affondare ed essere trasportata dalla corrente in uno dei canali di scolo presenti lungo la strada. Li è dove si nasconde il pagliaccio Pennywise con il suo sorriso sgargiante ed il coloratissimo mazzo di palloncini, ma, come in ogni sogno che ci fa risvegliare sudati e sconvolti, ciò che può sembrare innocuo e sicuro in realtà rappresenta la più oscura delle paure. In un attimo il demone si palesa e uccide brutalmente il piccolo Georgie seminando il panico a Derry…

Dopo questo terribile avvenimento, un gruppo di bambini guidati proprio dal fratello maggiore di George, Bill Denbrough, decidono di formare una squadra, o meglio un club, “il Club dei Perdenti”, per riuscire a stanare il mostro e fermare la sua sete di sangue.

La storia si muove su due piani temporali diversi, uno parallelo alla morte del piccolo Denbrough (1957-1958) ed uno futuro in cui i membri del club sono ormai grandi e vivono la propria esistenza lontani da Derry (1985), ma si mantiene sempre lineare, semplice, grazie soprattutto alla capacità dello Scrittore di miscelare alla perfezione i momenti di riflessione dei vari personaggi con corposi flashback che ci permettono di vivere a cavallo di tre decadi senza mai sentirci spaesati nel testo. La scrittura di King è dinamica, fluente, introduce il lettore nelle scene e gli permette di viverle nella realtà, di immaginarsele alla perfezione nella mente, non in maniera grezza o approssimativa, ma estremamente particolareggiata.
Ogni personaggio ha una sua specifica immagine, un suo carattere ben delineato, una sua personale e profonda paura e questo consente di creare legami stretti con ognuno di loro, di viverne le avventure e non di osservarle da lontano come spettatori asettici.

Il genere horror vive in perfetto equilibrio sul filo sottile che separa la magia dalla realtà, la mera falsità dal puro terrore umano, e con questo libro Stephen King si dimostra il migliore tra i funamboli riuscendo a rendere vere e carnali le sensazioni che questa storia immaginaria ci incide nella mente. Mai una volta ci ritroveremo a pensare che una delle scene narrate sia troppo esagerata o falsa, appunto. Ogni particolare è sapientemente inserito tassello per tassello in un mosaico che ci permette di arrivare ad un’unica conclusione: la magia esiste!

Abbiate timore di leggere questo libro, non quel timore che congela il pensiero e costringe ad un vigliacco dietrofront, ma quello che ci incuriosisce, che ci spinge ad avvicinarci al burrone ed a guardare giù anche quando chiunque sarebbe pronto a dirci di non farlo, perché, in fondo, chi non ha mai provato a rapportarsi con la propria paura, ad avvicinarsi solo per sfiorarla in una profonda introspezione.            Abbiate quindi il coraggio di avere paura, di allontanarvi dalla luce chiara e sicura del sole, per trovarvi cosi, di punto in bianco, nel buio…

Giorgio Muzzupappa

 

(nda di seguito il trailer del remake cinematografico del libro che uscirà l’8 settembre)
https://youtu.be/w7Zv5nPLDqw

 

A Girl At My Door: la vita nella Corea di periferia.

Lee Young-nam (Bae Doona), un’ ispettrice di polizia, è costretta a trasferirsi da Seoul alla stazione di Yeosu, qualificabile come un paesino tranquillo.

La donna, essendo “la nuova arrivata” mantiene un profilo basso, chiudendo un occhio su qualche infrazione, ma senza dimenticare compito che deve svolgere. Nonostante ciò alcuni abitanti di Yeosu sembrano avere una certa diffidenza e un atteggiamento di superficialità nei confronti di Lee, probabilmente non riconoscendola al pari delle normali autorità.
La sua figura, inoltre, è circondata da un alone di mistero, derivante non solo dalla mancata conoscenza della causa del suo trasferimento, ma anche per la sua abitudine a bere una volta tornata a casa dopo il turno.
Un giorno, dirigendosi alla stazione per svolgerne uno, Lee incrocia dei ragazzini intenti a bullizzare un loro compagno di classe. Fatto tornare l’ordine, scopriamo che in realtà quella ad essere stata picchiata è una ragazzina molto trasandata e questo particolare fa incuriosire l’ispettrice, che segue la bambina nel suo tragitto di ritorno verso casa.
In questo modo scopre che quest’ultima vive con il padre e la nonna, senza la madre che li ha abbandonati.
Questo non sarebbe un problema se non per il fatto che proprio questa sua “famiglia” la maltratta sia psicologicamente che con veri e propri abusi fisici. La situazione non è accettabile e Lee decide di denunciare il fatto alla polizia, ma qualcosa va storto.
Sembrerebbe che il padre della bambina, di nome Park Yong-ha (Song Sae-byeok), sia il maggior allevatore di ostriche del paese rivestendo un ruolo chiave nell’economia di Yeosu, per cui gli ufficiali decidono di parlare con Yong-ha in persona piuttosto che procedere per via legali poiché questo avrebbe compromesso la sua figura e attività.
Il tentativo di aiuto e l’interesse mostrato nei confronti di Sun Do-hee (Kim Sae-ron) – ovvero la bambina maltrattata – portano quest’ultima ad  avvicinarsi a Lee, nonostante l’ispettrice non ne sia molto felice.

A Girl At My Door è un film di totale produzione coreana e particolare per molti aspetti.
Tratta temi delicati, difficili da trattare e sicuramente importanti (non si entrerà nello specifico per evitare di rovinare l’esperienza a chiunque voglia vedere il film). Ma questa è solo una delle varie particolarità di cui si è detto prima, infatti le due protagoniste del dramma coreano, Bae Doona e Kim Sae-ron, decisero di recitare nonostante non vi fosse un budget che permettesse alla produzione di pagare la loro prestazione. In parole povere, hanno recitato in maniera assolutamente gratuita.
Con un budget di soli $300,000, la regista July Jung, ha proposto un problema forte ed evidente che spesso è presente nelle periferie coreane. Il film non risulta eccelso, comprensibilmente vista la misera disponibilità economica per girarlo, con diverse vicende discutibili e toni che a volte tendono ad essere un po’ troppo bassi e quasi noiosi. Tuttavia, A Girl At My Door è da apprezzare nelle sue piccolezze e sicuramente, visti i molti ostacoli di produzione, non da biasimare.

Giuseppe Maimone

La Bella e La Bestia: incanto Disney per ogni età.

Era il 1991 quando nelle sale, uscì quello che è stato il 30° film d’animazione della Disney: La Bella e La Bestia.

Questo cartone ha raggiunto il primo grande traguardo del mondo Disney: è stato il primo film d’animazione in assoluto ad essere candidato agli Oscar con ben 5 nomination e, infine, ne vinse due per la Miglior Colonna Sonora e la Miglior Canzone.

La storia della Bella e la Bestia la conosciamo (quasi) tutti. Parla di questa giovane e bellissima ragazza, figlia di un inventore, che abita in un isolato paesino di campagna nel quale si trova stretta. Siamo nel pieno del ‘700 francese e questa splendida ragazza, amante della letteratura, è, per ovvie ragioni, reputata strana, diversa.

Parallelamente, in un castello non molto lontano dal villaggio della ragazza, un giovane principe è stato trasformato in Bestia da una fata, che lo ha fatto per insegnargli che non bisogna mai giudicare le persone dalle apparenze. Infatti, la stessa fata, si era presentata alle porte del castello del giovane arrogante, sotto le sembianze di una vecchina e porse lui una rosa in cambio di una notte di riparo.

Il principe la respinse e lei si rivelò. La rosa era una rosa incantata e solo il vero amore poteva spezzare l’incantesimo. Se nessuno si fosse innamorato della Bestia prima della caduta dell’ultimo petalo della rosa incantata, allora il principe sarebbe rimasto una Bestia per sempre.

Il resto lo conosciamo bene: il padre di Belle si perde nei boschi e cerca riparo nel castello della Bestia, dove viene imprigionato dalla stessa. Belle riesce a raggiungerlo e dona sé stessa in cambio della liberazione del padre.

Da quel momento, tra alti e bassi, inizia questa strana convivenza tra la Bella e la Bestia e, piano piano, tra loro due sboccia l’amore. Un amore che, con una delle morali più dolci e profonde di tutta la Disney, va oltre le sembianze esterne in quanto all’amore basta il cuore e non l’aspetto esterno.

Ed è questo quello che troviamo in questo periodo nelle sale cinematografiche: la fedelissima trasposizione della trama animata in film.

Il film della Bella e la Bestia non lascia delusi perché nulla, a parte qualche parola qua e là nelle canzoni (che, comunque, costituiscono una colonna sonora assolutamente vincente), è diverso dal cartone animato. La magia è rimasta intatta e, grandi e piccini, vengono trascinati da essa in questa favola che così bene conosciamo.

Ci sono, però, delle canzoni e delle scene inedite: queste non spezzano o stravolgono la trama, anzi, ci rendono partecipi di alcuni piccoli particolari che ci fanno affezionare ancora di più a questa storia, che la rendono più umana, più reale. Queste scene inedite (che non vogliamo spoilerare) possono insegnare come tutte le nostre vite sono delle fiabe perché anche nelle fiabe c’è la realtà del dolore e delle sofferenze in cui tutti noi, durante il corso della vita, ci imbattiamo.

Il cast è un cast assolutamente vincente: da Emma Watson (Hermione ndr) a Dan Stevens, Luke Evans, Kevin Kline, Josh Gad, Ewan McGregor. Nella versione originale sono tutti da chapeu in quanto sono loro stessi gli interpreti delle canzoni, mettendo in scena, di conseguenza, un vero e proprio musical.

Nella nostra versione italiana, si riconosce il grande stile del doppiaggio italiano: non ci sono distacchi fastidiosi tra le voci parlate e le voci cantate dei personaggi e, anzi, sono quasi uguali anche alla versione cartone animato tanto da lasciare il dubbio se siano gli stessi doppiatori del ’91.

È stata criticata la figura di Emma, in quanto, ad alcuni, ha dato l’impressione di essere più piccola della Belle che conosciamo: ricordiamoci però che tutte le principesse Disney hanno 16 anni e che, anzi, sono le principesse animate a sembrare troppo donne rispetto alla loro reale età.

Altro punto di dibattito è la figura di Le Tont, il leale amico di Gaston: la Disney ha deciso, in questa versione, di renderlo palesemente un personaggio omosessuale, innamoratissimo del suo amico. Bene o male? Bene! È giusto che la Disney, per prima, spezzi i dogmi che ci circondano e insegni la bellezza della diversità a tutti i bambini, con la sua delicatezza materna.

Per me, promosso con 30 e lode: dolce, veloce, commovente e magico. Personalmente, sono molto legata a questa trama e ai suoi vari insegnamenti. Quello che a me è da sempre arrivato più di tutti, è quello della speranza, del cambiamento che prima o poi arriva: ‘’quando sembra che non succeda più, ti riporta via, come la marea, la felicità’’…

Film o cartone, comunque, il commento è sempre lo stesso: ma chi lo vuole il principe… Noi vogliamo la Bestia!

Elena Anna Andronico

Fortitude: il thriller in mezzo ai ghiacci con renne, orsi polari e animali preistorici

Ad accogliere il pellegrino che atterra nell’aeroporto di Fortitude, sulle isole Svalbard nel Mar Glaciale Artico, svetta la statua di un enorme orso polare sopra il nastro del ritiro bagagli. Fortitude è una comunità fittizia di un remoto arcipelago della Norvegia – popolata perlopiù da pescatori e scienziati – dove gli orsi sono più numerosi degli abitanti, e questi ultimi sono costretti a girare armati per proteggersi dai loro feroci attacchi.

Nessuno però può morire a Fortitude; una legge lo vieta in conseguenza del fatto che le temperature congelano i cadaveri e impediscono che si decompongano. La vita, nonostante il buio che dura mesi e le condizioni ambientali estreme, scorre complessivamente tranquilla, isolata e protetta come una fortezza gelata che la separa dal mondo. La governatrice Hildur Odegard intende far costruire in mezzo alle distese di neve un hotel di ghiaccio per aumentare la presenza di turisti. C’è poi in città lo sceriffo Dan Anderssen, ma nessuno sa se è un bravo o un cattivo sceriffo: a Fortitude non è successo mai niente. Almeno fino a quando il corpo del professore del locale centro di ricerca viene ritrovato seviziato, torturato e ricoperto di sangue.

La seconda serie (prodotta da Sky Atlantic e in onda dal 27 gennaio) è arrivata dopo i molti nodi rimasti da sciogliere al termine della prima stagione; un thriller che affianca l’inchiesta sulle morti misteriose che hanno sconvolto la quiete esteriore di un luogo subissato dal candore della neve alle atmosfere horror e surreali alla Stranger Things. Chi ha deciso di vivere a Fortitude quasi mai è lì per caso: tutti scappano da qualcosa. Così l’affascinante Elena Ledesma che gestisce l’albergo dove alloggia il detective Eugene Morton mandato dal Londra per indagare, insieme allo sceriffo, alla catena omicidi furiosi e terrificanti in cui pare sia coinvolto anche un bambino. Ogni elemento della comunità o quasi è invischiato in un intreccio di relazioni contorte e di storie taciute che lo rendono vulnerabile. Il richiamo a Twin Peaks è lapalissiano; l’immagine di una comunità dove all’improvviso tutto precipita ed i caratteri che la popolano escono progressivamente allo scoperto. Non ci sono tuttavia le cascate ma tonnellate di ghiaccio colorate da strisce di sangue che citano, anche se non fanno il verso, un altra serie ambientata sulla neve, Fargo.

Il cast composto da attori di ottimo livello come Stanley Tucci, contribuisce a far salire le aspettative e a consegnare un prodotto all’altezza; quello che più colpisce di Fortitude, oltre alle ambientazioni, è il valido mix di mistero e approccio razionale e scientifico agli accadimenti più inspiegabili. Il ritrovamento di un mammut preistorico sepolto dal ghiaccio si collega quindi agli eventi tetri che hanno macchiato di sangue la comunità. La sacralità di un luogo chiuso come una fortezza si scontra con le meschinità dell’uomo e le forze naturali impervie. Quando così cala il buio e sulle case ricoperte dalla neve si eleva il colore rosso dell’aurora boreale è certo che qualcosa sta per abbattersi su Fortitude.

 

Eulalia Cambria