Bianco come Dio: una storia di grande ispirazione

La storia di un ragazzo risvegliato. Voto UvM: 5/5

 

 

 

 

 

 

Ho diciott’anni e mi sento vecchio.

Lo avete mai pensato? Avete mai provato questa sensazione?

Abbiamo tutto ciò che un ragazzo o una ragazza di 18-25 anni potrebbe desiderare. Una famiglia, un ragazzo/a, studiamo, magari siamo già economicamente indipendenti. Eppure, anche se non vogliamo ammetterlo, qualcosa manca.

Non te lo sai spiegare.

Questa società è profondamente sbagliata.”

Sì, avete pensato anche questo. Molte volte. Tante volte.

Chi non lo pensa?

Organizziamo la nostra intera vita sulla base di questo concetto.

È vero, chi crede il contrario si sta prendendo in giro.

Abbiamo tutti rinunciato ai nostri sogni, e ci va bene così. Ci va bene questa vita preconfezionata. Ci va bene non esistere. Ci va bene arrenderci, e accontentarci e scegliere un dolore facile anziché un’impervia vittoria.”

Forse qualcuno è arrivato a questa conclusione. Sono le nostre stesse vite a comunicarcelo, lo vediamo nelle vita degli altri, il clima della società ne trabocca.

Non c’è alcun giudizio in tutto questo, è solo una fotografia della nostra realtà. Lo stile di vita predominante in questo momento storico.

C’è chi accetta volentieri e chi con un sentimento di impotenza.
Quale la bussola in questa situazione?

Io merito di meglio” è la risposta che si dà Nicolò Govoni in questo mare di incertezze.

Lui, giovane ventenne come noi, decide di giocare secondo le sue regole in un mondo privo di promesse per generazioni come la nostra.

Nel 2013 organizza la sua fuga e parte per un orfanotrofio dell’India meridionale.

Ricerca risposte, ma soprattutto ricerca sè stesso. È di una manciata di mesi la sua permanenza nella parte più povera del paese (Raccontata in un altro libro, “Uno”).

Tornato in Italia si ritrova cambiato: non è più lo stesso ragazzo.

Il vuoto, avvertito prima della partenza, è stato colmato dai bambini di Davayavu Home.

Nicolò ha trovato le risposte che cercava, ha trovato sè stesso.

Il pensiero di aver migliorato un’altra vita per un po’, ma poi lasciarsela alle spalle è per lui insopportabile.

Torna da loro, torna a Casa.

 

 

È da qui che ha inizio la narrazione di “Bianco come Dio”, pubblicato il 30 ottobre 2018 edito Rizzoli.

Una storia profonda, ricca di atti d’amore e resilienza.

Una lettura adatta a tutti, ma di grande impatto per la giovane generazione che può, senza ombra di dubbio, rispecchiarsi in Nicolò.

Lo stile, estremamente coinvolgente, affronta temi di notevole importanza con quella genuina semplicità che riesce a dare valore agli argomenti trattati più di tanti paroloni e ragionamenti stilistici.

La comunicazione di Govoni trascina il lettore in delle esperienze di vita vissuta facendolo entrare in risonanza con i protagonisti degli eventi narrati.

Per Nicolò la risposta è stata aiutare gli ultimi, ma questo libro non parla solo di volontariato.

Nell’opera è possibile individuare alcune tappe che ognuno di noi che crede di “meritare di meglio” si troverà a compiere. Eccole di seguito:

 

Risveglio. 

Già largamente argomentato nell’introduzione, è qui ripreso brevemente.

È dura ammettere che viviamo da “addormentati”, ebbri e accecati da uno stile di vita mediocre venduto da pubblicità e televisione.

Le massime aspirazioni del nostro tempo sono trovare un partner, avere un lavoro che ci permetta di divertirci nel weekend e trascorrere gli ultimi anni della nostra vita in tranquillità.

Non c’è nulla di sbagliato in tutto questo, è solo lo stile di vita della vecchia generazione.

Rendeva felici i nostri nonni e i nostri genitori. Siamo sicuri che funzionerà anche per noi?

Nicolò percepisce questa precarietà e fugge in India. Allontanandosi dalla realtà sgangherata in cui viviamo riesce a coglierne le falle.

 

Non lo so, papà” faccio dopo un po’. “Non so nulla. Nessuno di noi sa nulla, a casa, nè i miei coetanei, nè gli adulti, e questa incertezza ci sta facendo sbiadire giorno dopo giorno.
Questo perchè la gente cerca conferme in fattori esterni.” Si sfrega le mani. “La famiglia, il denaro, l’amore, la carriera…
Mi sento vecchio” lo interrompo. “Ho vent’anni e mi sento vecchio

 

La scelta. 

Conosciuta la verità è quasi impossibile fingersi ciechi e sordi.

Non è facile remare contro il modo di essere che ci è stato insegnato, ed è difficile accettare che sia infruttuoso. Tuttavia nasce una scintilla; si sente il dovere di farsi carico della responsabilità di cambiare le cose.

Govoni affronta le ferite del suo passato e combatte contro quei dubbi che silenziosamente assillano ognuno di noi ogni giorno. Una scelta è per sempre? Che ruolo ha il tempo nelle nostre vite? Si può tornare indietro?

 

Ma dobbiamo scegliere ugualmente.” Mio padre sospira, eppure la sua voce risuona nitida.
Come possiamo prendere decisioni se la posta in gioco è tanto alta?
Se non prendi alcuna decisione, stai comunque già scegliendo, no? Scegli di restare fermo.

 

La missione. 

La scelta implica un impegno. Un impegno che va onorato con tutti se stessi, ogni giorno, per tutta la vita.

È solo trovando noi stessi che scopriamo di poterci dedicare a qualcosa più grande di noi.

 

Fai in modo che ogni tua decisione” mi dice Piriya in una delle nostre lunghe passeggiate dopo la scuola “ti porti di un passo più vicino al tuo obiettivo finale.
E se non lo conosco, il mio obiettivo finale?
Passa un istante prima che risponda. “In che mondo vorresti vivere?

 

Anche noi, chiediamoci in che mondo vorremmo vivere, e poi mettiamo al servizio il nostro impegno per realizzare un cambiamento.

 

 

Il servizio come stile di vita. 

Il mondo ha tanti problemi, da un estremo all’altro.
Ignorarli “pensando in positivo” non li risolverà.

Migliorare la situazione non è così semplice come si crede. Tuttavia un modo c’è, e Nicolò è di grande ispirazione per tutti noi.
Sarebbe sufficiente mettere al servizio di una missione, che sentiamo ci appartenga, i nostri talenti e il nostro impegno. Tutto questo, perchè ci siamo compresi davvero.
I risultati non tarderebbero ad arrivare.

 

Sono solo un venticinquenne con un sogno: lasciare il mondo un po’ migliore di come l’ho trovato. Dopotutto, celebrare la vita significa farne il miglior uso possibile, e alleviare il dolore altrui è la miglior vita che io possa vivere.

 

Angela Cucinotta

Gotham: tra corruzione e James Gordon

Aspettiamo che questa serie ci sorprenda ancora per valutarla al massimo. Voto UvM: 4/5

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lunedi 1 aprile è uscita su Netflix la quarta stagione di Gotham, sorprendentemente nuova, con i classici toni ironici ma con un livello più alto riguardo i personaggi e l’intreccio della storia.

Partendo dal principio, la serie rappresenta un prequel concentrato sull’origine dei personaggi, buoni o cattivi, che ruotano attorno all’universo di Batman.

Non è una serie che propone un’alternativa televisiva ai fumetti, ma un nuovo punto di vista, molto più umano e interessante anche per chi non ha una passione per i supereroi della DC, poiché racconta, in modo preciso e attento, l’evoluzione dei numerosi personaggi che quasi si affollano sullo schermo.

 

 

Essendo un prequel relativo al mondo del Cavaliere Oscuro, possiamo tutti immaginare che la storia inizia con l’omicidio di Thomas e Martha Wayne, genitori del giovane Bruce che, rimasto orfano si affida alla figura del suo maggiordomo Alfred.

La storia di Bruce Wayne (David Mazouz), destinato a diventare Batman, è raccontata e approfondita seguendo il punto di vista di un bambino traumatizzato che durante tutte le puntate cerca di vendicare l’assassinio dei suoi genitori e si affatica verso la ricerca di una propria identità.

In questa situazione risulta fondamentale la figura di Alfred (Sean Pertwee), l’immortale maggiordomo/tutore/maestro di vita di Bruce, che ritroviamo nella serie con un forte carattere, irruento e decisamente coinvolgente.

 

 

In realtà il vero protagonista non è il giovane Batman, ma la serie si presenta come un giallo in cui il detective James Gordon (Benjamin McKenzie) tenta di combattere il crimine fortemente radicato nelle fondamenta della città, cercando di rimanere aggrappato alla parte del giusto.

Accanto a lui vediamo il comandante della GCPD Harvey Bullock (Donal Logue), un personaggio che non riesce mai ad allontanarsi definitivamente dalla malavita e rimane, almeno all’inizio, quasi debole ma sempre estremamente divertente.

La malavita a Gotham è un problema che sembra non risolversi mai e durante tutta la serie viene gestita da diversissimi personaggi, ognuno con una propria storia e un proprio modo di agire. Da Don Falcone a Fish Mooney, l’unico che sembra essere sempre presente è Oswold Cabblepot (Robin Lord Taylor), il fantastico Pinguino, in continua lotta contro chi vorrebbe prendere il suo trono.

Ogni personaggio ha un proprio spazio nella serie.

 

 

Di ogni personaggio, che sia per due intere stagioni o per due sole puntate, si comprende l’evoluzione psicologica, il passato quasi sempre traumatico, ma importantissimo.

È da queste vicende che nasceranno infatti i cattivi o gli eroi che noi tutti conosciamo: è interessante notare il rapporto morboso di Oswald con l’adorata madre; la continua ricerca da parte di Selina Kyle, l’evidentissima futura Catwoman, di qualcuno di cui fidarsi; o le tragiche storie d’amore finite decisamente male di Edward Nigma, che già nelle puntate alterna la sua personalità con quella del cattivo Enigma; o ancora le vicende all’interno del manicomio di Arkham (in cui tutti sono entrati e da cui tutti sono poi magicamente usciti) di un morto e poi resuscitato Jerome Valeska (Cameron Monaghan), (ma riguardo al principale antagonista di Batman ci fermiamo qui per evitare pesanti Spoiler).

D’altra parte non è possibile dimenticare quello che tra tutti questi personaggi è il protagonista, ed è altrettanto impossibile non notare la sua continua e difficile lotta verso il male che non rispecchia solo la citta di Gotham, ma anche il suo stato d’animo.

Insomma vediamo una città piena di super cattivi, di pazzi, di corrotti contro cui James Gordon e tutta la sua squadra ha limitate possibilità.

Chissà quindi se al termine della serie riusciremo a vedere Bruce con maschera e mantello, o se Gordon riuscirà da solo a sconfiggere tutti i disastri che come funghi spuntano a Gotham.

La serie non si conclude però con la quarta stagione, dobbiamo attenderne una quinta, appena uscita negli Stati Uniti e che uscirà in Italia il 5 maggio, sulla piattaforma Mediaset Premium.

 

Federica Cannavò

A un metro da te

La lotta contro una brutta malattia e la forza dell’amore per superarla. Voto Uvm: 4/5

 

 

 

 

 

Diretto da Justin Baldoni, questo teendrama è il racconto della storia di due adolescenti, colpiti dalla stessa malattia.

Stella (Haley Lu Richardson), una ragazza determinata a vincere questa lotta contro la sua patologia, cercando di rendere le sue giornate sempre più interessanti, riprendendo i suoi progressi.

Will (Cole Sprouse), il protagonista maschile, menefreghista e rassegnato nei confronti della sua malattia.

Per i due sarà amore a prima vista.

 

 

Sarà proprio l’amore a spingere i due giovani a cercare di superare gli ostacoli.

Il titolo inglese “Five feet apart”, allude alla distanza alla quale devono stare i due innamorati, entrambi effetti dalla fibrosi cistica.

 

 

Per i due l’obbligo più grande sarà quello di stare lontani, per evitare lo scambio di batteri; ma i due innamorati combatteranno oltre il tempo e lo spazio.

Dalila De Benedetto

 

Brain On Fire – My month of madness

La vera storia di una rinascita. Voto UvM: 5/5

 

 

 

 

 

La giovane giornalista del New York Post Susannah Cahalan (Chloë Grace Moretz) a soli 21 anni vive la vita che ha sempre desiderato: è indipendente, all’inizio di una promettente carriera e alle prese con un amore appena sbocciato, Stephen (Thomas Mann), un giovane chitarrista con la testa fra le nuvole che spera di sfondare nel mondo della musica. 

Ma non succede quasi sempre così? Non è quando tutto sembra andare per il meglio, quando si abbassa la guardia, che accade l’inimmaginabile? In questo caso, l’inspiegabile.

Susannah comincia a sentirsi perennemente stanca, confusa, fatica a rimanere concentrata e presente anche durante la più banale delle conversazioni, perde il senso del tempo, inizia ad avere vere e proprie allucinazioni, diventa esageratamente irascibile al punto da venire allontanata dall’ufficio; si auto-diagnostica un disturbo della personalità ma si rifiuta di prendere gli psicofarmaci che le ha prescritto lo psicoterapeuta; assomiglia sempre meno a se stessa, diventa violenta fino a spaventare anche i genitori che decidono di farla ricoverare.

 

 

A questo punto prima ancora che con la malattia, la famiglia di Susannah ingaggia una lotta all’ultimo sangue con i medici che, non riuscendo a diagnosticarle nulla, vista la negatività di tutti gli esami, cercano di etichettarla prima come psicotica, poi come depressa bipolare, epilettica e infine schizofrenica per farla trasferire in un ospedale psichiatrico.

 

 

Mentre Susannah viene risucchiata in un buco nero da cui sembra non poter più uscire, è struggente vedere come i genitori non si arrendano e continuino a fare pressione ai medici per avere delle risposte e continuare le ricerche; come Stephen, con i suoi vestiti stropicciati e i capelli  spettinati, sia sempre presente, anche a costo di dormire nel corridoio dell’ospedale; Stephen che con le sue canzoni cerca di riportare indietro quella ragazza che sembra sempre meno la sua Susannah, che non parla, che non si muove più, che sembra spegnersi piano piano nonostante i macchinari dicano tutto il contrario.

Proprio quando sembra non esserci più alcuna speranza, viene chiesto il parere del dottor Najjar, ormai ritiratosi dall’esercizio in ospedale e divenuto professore. L’uomo, in un primo momento restio, non può che rimanere ben presto coinvolto dal caso di Susannah, e vi si immerge completamente. Pensa a lei giorno e notte; pensa a quella ragazza così giovane e piena di vita che si è persa ma che è ancora là da qualche parte, che ha ancora tanto da fare, che vuole essere ritrovata.

E ci riesce, a ritrovarla, con un test molto semplice: le chiede di disegnare un orologio e inscriverci dentro i numeri da 1 a 12; e questa è la conferma della sua intuizione: Susannah disegna i numeri concentrati solo ed esclusivamente nella parte destra dell’orologio; le viene così diagnosticata l’ encefalite da anticorpi anti-NMDA: si tratta di un disordine del sistema immunitario, dove gli anticorpi attaccano il cervello; nel caso di Susannah proprio l’emisfero destro. Se non si fosse intervenuti in tempo non si sarebbe riusciti a recuperarla, sarebbe morta di certo.

“Io sono stata fortunata, perchè in un sistema fatto per perdere gente come me, grazie al dottor Najjar sono stata ritrovata, lui mi ha ritrovata. Ho dovuto imparare tutto una seconda volta, da zero, come camminare di nuovo, parlare di nuovo, sorridere, essere una figlia, amare Stephen, scrivere. Ho dovuto imparare di nuovo ad esistere.”

Susannah era stata data per pazza, era stata data per persa, ma Najjar, i suoi genitori e Stephen non si sono arresi; lei non si è arresa. Si è rimessa in piedi, ha ripreso in mano la propria vita sfruttando la seconda possibilità che le è stata data dal miracolo della medicina.

 

 

Brain on fire è un film del 2015, regia di Gerard Barret, ispirato alla storia vera di Susannah Cahalan, una storia vera di vita, sofferenza, amore, speranza, vittoria.

Uno di quei pochi film di questo genere che ti lascia con gli occhi lucidi, ma per la gioia.

Alice Caccamo

 

 

 

 

 

Il Fascismo Eterno – Umberto Eco

Riflessioni sulla libertà. Voto UvM: 3/5

 

 

 

 

”Gloria ai caduti per la libertà”.

Ma che cosa è realmente la libertà? Umberto Eco già dalla prima pagina fa una distinzione tra libertà e liberazione, che verrà spiegata però solo nelle ultime pagine; lo scrittore ci vuol far capire che la Libertà è essenza di tempo, in quanto è un ente infinito mentre la Liberazione è un tempo determinato, un ente statico.

Ecco perché dobbiamo difendere la libertà e non dobbiamo farci opprimere da ideologie che negano la libertà individuale ma sopratutto universale, la libertà è solo quando non nego essa a qualcun altro, giacché solo in quel momento mi posso definire cittadino del mondo e no di una singola Nazione.

 

 

”Ritengo sia possibile indicare una lista di caratteristiche tipiche di quello che vorrei chiamare l’‘Ur-Fascismo’, o il ‘fascismo eterno’.

 L’Ur-Fascismo è ancora intorno a noi, talvolta in abiti civili. Sarebbe così confortevole, per noi, se qualcuno si affacciasse sulla scena del mondo e dicesse: ‘Voglio riaprire Auschwitz, voglio che le camicie nere sfilino ancora in parata sulle piazze italiane!’.

Ahimè, la vita non è così facile. L’Ur-Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntarel’indice su ognuna delle sue nuove forme – ogni giorno, in ogni parte del mondo.”

 

 

Alessia Orsa

Vice – L’uomo nell’ombra

L’ascesa politica di Dick Cheney. Voto UvM: 4/5

 

 

 

 

Il potere? Non sempre si mostra in quelle forme spettacolarizzate che ci si potrebbe aspettare.

Il vero potere sta nell’ombra, non si espone, cresce silenziosamente e si insinua in ogni falla del sistema potenzialmente sfruttabile.

Il vero potere è subdolo, ipocrita, opportunista, segue trame e sentieri volutamente ambigui e celati agli occhi dei più.

È questa la verità che Adam McKay mostra con il suo ultimo biopic dal titolo “Vice”, vincitore della statuetta come miglior trucco agli Oscar 2019 e candidato ad altri sette Golden Globe.

Scandito dalle straordinarie interpretazioni di Christian Bale (Dick Cheney) ed Amy Adams (Lynne Cheney), Vice racconta con toni ironici e sferzanti l’ambigua ascesa al potere di Dick Cheney, vicepresidente “imperiale” dell’amministrazione George W. Bush.

 

 

Efficace e pungente, Vice ripercorre con obiettività la storia del più potente vice – presidente degli Stati Uniti d’America, senza mai tuttavia presentarlo agli spettatori come il “cattivo” di turno.

Dick Cheney, dapprima giovane scapestrato e studente ben poco brillante, si mostra in tutta la sua pochezza: è un pessimo oratore, poco attraente, privo di ideali politi o di alcun tipo di acutezza.

Egli è un uomo “banale”, mediocre, dannatamente insulso e perlopiù manovrato dai desideri ambiziosi di una moderna “Lady Macbeth” (la moglie Lynne) ancor più assettata di potere.

 

 

Ma, pur rimanendo un inetto privo di alcuna aspirazione, strisciando silenziosamente tra una occasione e l’altra e approfittando della vicinanza dei “potenti”, egli riesce in pochi anni ad emergere politicamente, a fianco di Donald Rumsfeld e del presidente Ford.

L’occasione per esercitare finalmente il potere assoluto, pur restando comodamente nell’ombra, gli si presenta grazie al presidente Bush junior, interpretato da Sam Rockwell, dipinto nel film come un imbecille facilmente manovrabile, incapace di governare, che ottiene la poltrona quasi “per via ereditaria”.

Debole e incompetente, il piccolo Bush è la preda perfetta per Dick Cheney, che ne diventa presto il burattinaio.

George W. Bush: Ti voglio come vicepresidente. Io, George Bush, voglio te.
– Dick Cheney: Io ti ringrazio, ma sono già l’amministratore delegato di una multinazionale, sono già stato segretario della Difesa e sono già stato Capo di Gabinetto della Casa Bianca, quindi la vicepresidenza non è che una carica simbolica. Se invece trovassimo un diverso accordo, se mi dessi le deleghe per cose più… banali… amministrazione, esercito, energia e politica estera…”

 

 

Dick Cheney, approfittando delle informazioni ottenute in qualità di vicepresidente e piazzando i propri uomini in ruoli chiave dell’amministrazione, diviene, all’insaputa della popolazione americana, il vero cuore pulsante della Casa Bianca.

È Dick il solo ad impartire ordini l’11 settembre 2001, approfittando dell’assenza del presidente, è Dick a dirottare tutti sulla necessità di muovere guerra in Medio Oriente, è Dick a rendere praticabili alcune forme di tortura nei confronti dei prigionieri politici, ed è ancora Dick ad aggirare le leggi per mettere in pratica la teoria dell’esecutivo unitario e a favorire le multinazionali.

Vice non è semplicemente la trasposizione cinematografica della vita di Dick Cheney, esso è la chiara dimostrazione di come l’attuale crisi politica, la nascita dell’ Isis, l’aggressiva gestione del terrorismo furono in gran parte causate dalle azioni occulte di quell’uomo che, paradossalmente, fece del restare nell’ombra il proprio unico e grande punto di forza.

 

Giusy Mantarro

 

https://youtu.be/PkdnBmUHAYg

Allacciate le cinture (2014) di Ferzan Ozpetek

Una storia d’amore raccontata in chiave moderna. Voto UvM: 3/5

 

 

 

 

Lecce, primi anni 2000.

Tre amici, Elena, Fabio e Silvia, lavorano in un bar del centro.

A sconvolgere la loro quotidianità è l’arrivo di Antonio, burbero meccanico palestrato dalle idee poco politically correct, con cui Silvia ha una relazione. Antonio non piace a nessuno, men che mai ad Elena, venticinquenne intelligente e di larghe vedute.

Tra i due tuttavia nasce qualcosa, prima basato solo sull’attrazione fisica, poi un sentimento più profondo.

Dieci anni dopo infatti Antonio è ancora a fianco di Elena; la coppia ha due bambini e procede tra alti e bassi: le continue scappatelle di lui e l’apparente indifferenza di lei che si dedica esclusivamente al lavoro trascurando anche la famiglia.

L’equilibrio si rompe quando Elena scopre di avere un tumore al seno: a sostenerla ci sono madre e zia e Fabio, l’amico di sempre.

Antonio invece innalza altri muri per proteggersi dal dolore.

 

 

Tuttavia la malattia di Elena sarà l’occasione per far riemergere parole non dette, sentimenti sopiti e una passione che in fondo non si era mai spenta.

A un primo sguardo, la decima pellicola di Ferzan Ozpetek non brilla certo di originalità per quanto riguarda dialoghi e trama.

Già lo slogan “Un grande amore non avrà mai fine” lascerebbe presagire la solita storiella melensa in cui c’è spazio solo per le vicende di due protagonisti, niente personaggi di contorno e nessun contesto di sfondo a rendere più pittoresco il tutto.

E invece non è così.

Come altri film del regista italo-turco, Allacciate le cinture può essere definito un film corale. Oltre a Elena (Kasia Smutniak) e Antonio (Francesco Arca),i classici opposti che per caso si conoscono e un po’ meno per caso si attraggono, spiccano personaggi quali quello di Egle Santini ( Paola Minaccioni), malata di cancro ai polmoni che la protagonista incontra in ospedale, la provocante parrucchiera Maricla ( Luisa Ranieri) e l’eccentrica zia di lei interpretata da una bravissima Elena Sofia Ricci.

Ozpetek come al solito cerca di dare voce un po’ ai drammi di tutti e di caratterizzare a tinte definite anche i personaggi secondari con le loro piccole fisse e follie quotidiane, abitudine ormai desueta anche nel panorama del cinema italiano.

Ma il vero tocco da maestro si rivela nel suo saper giocare col tempo.

Dilatato (come nel piano sequenza iniziale che insiste sulle gambe dei passanti sotto la pioggia) o contratto ( la narrazione a un certo punto salta un arco di ben dieci anni lasciando solo intendere gli sviluppi delle vicende dei protagonisti), non è mai il tempo a fare da padrone nella storia, ma è quest’ultima semmai e i suoi personaggi con le loro aspettative, gioie e dolori a dettarne la direzione.

Che è tutt’altro che lineare.

L’apice si raggiunge nella scena in cui Elena e Antonio tornano a mare, il luogo dove anni prima era scoppiata la passione.

 

 

Colpo di scena inaspettato: i piani temporali si intersecano e il racconto ritorna nuovamente alle vicende di dieci anni prima.

In Allacciate le cinture la memoria e il caso o, se si vuole azzardare, il destino mescolano le carte in tavola e passato e presente si confondono ad indicare che quando si tratta di sentimenti anche questi sono solo nomi convenzionali.

Forse anche la parola fine che Ozpetek, non a caso, non ci tiene a raccontare!

 

Angelica Rocca

 

Il ritorno di Gossip Girl: le sei stagioni in streaming

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Con l’arrivo del nuovo anno Netflix, la celebre piattaforma di streaming, offre la possibilità ai propri utenti di assaporare, dopo sei anni dalla puntata finale, le sei frizzanti stagioni riguardanti le vite scandalose delle élite di Manhattan.

La serie che ha fatto impazzire le teen-ager di mezzo mondo fa di nuovo parlare di sè: da quando Netflix ha annunciato il ritorno, sul web non si discute d’altro!

Si tratta di una serie televisiva statunitense, trasmessa dal 2007 al 2012. In Italia, è andata in onda sul canale Mya di Mediaset Premium e successivamente, dal gennaio 2009, è stata trasmessa su Italia 1.

La prima stagione si apre con il ritorno nell’Upper East Side di Serena Van Der Woodsen (Blake Lively), scomparsa per alcuni mesi senza dare spiegazioni a nessuno. Da qui si susseguiranno una serie di vicende, intrighi e complotti che vedranno coinvolta lei ed il suo gruppo di amici.

Gossip Girl, la voce narrante, si occupa di raccontare ciò che accade nelle vite dei ragazzi, senza perderli mai di vista, ma la sua identità rimane segreta fino all’ultima puntata della serie. “Ricchi ed eccessivamente attraenti studenti di una prestigiosa scuola si fanno cose orribili e scandalose a vicenda. Ripetutamente”: è questa la descrizione della serie sulla famosa piattaforma.

Ciò che sconvolge è che nonostante siano passati degli anni, la serie sembra essere ancora attuale. Ma la vera domanda è, riuscirà Gossip Girl ad accaparrarsi i consensi di queste ultime generazioni, o verrà seguita soltanto dai vecchi fan?

Elena Emanuele

Van Gogh – Sulla Soglia dell’Eternità

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Sono stati tanti i registi che ispirati dal folle genio di Vincent Van Gogh ne hanno proiettato la vita e le opere sul grande schermo.

Questa volta a farsi carico della responsabilità di rappresentare al meglio l’arte del visionario pittore è stato Julian Schnabel; lo statunitense regista, trascorsi vent’anni dal suo esordio (un biopic sull’artista Basquiat), torna nuovamente a parlar d’arte.

Van Gogh – Sulla Soglia dell’Eternità verte sugli ultimi anni della vita del pittore, concentrandosi sulla sua figura di uomo, sul rapporto viscerale che lo lega al fratello Theo, su quello con l’amico e collega Paul Gauguin (Oscar Isaac), concludendosi con la tragica morte.

Il film si apre con Vincent, interpretato da un eccellente Willem Dafoe, che ormai stanco ed esasperato dalla vita nella capitale francese, proprio su consiglio del suddetto amico, decide di trasferirsi a sud della Francia, nella città di Arles.  Ed è qui che, lontano dal grigiore di Parigi, Vincent si darà alla libera ricerca di quella luce e di quel calore che ispireranno sempre i suoi dipinti.

Il film è pervaso interamente da un malinconico sentimento di bonaria rassegnazione. L’artista sa che la sua arte è destinata al successo, ma è inconsciamente consapevole che, finché sarà in vita, mai questo successo gli verrà riconosciuto. Tutto ciò che nella sua vita è stato è un cammino che porterà i posteri a poter godere della sua immensa arte. Grazie ad un saggio uso dei filtri che se nei momenti di crisi e sconforto, sono freddi, cupi, nei momenti di gioia sono colorati e luminosi, è facile per lo spettatore immedesimarsi in quelle atmosfere e nei sentimenti dello stesso Vincent.

Funzionali a questo proposito anche l’ottima sceneggiatura e l’ottima regia che, senza sbavatura alcuna, riescono pienamente a trasportarci in un visionario mondo pittorico. Doveroso citare quindi le speciali musiche per violino e pianoforte composte da Tatiana Lisovkaia che seguono i variabili stati d’animo del tormentato pittore, e sono ora concitate, movimentate, ora pacate e mistiche. Willem Dafoe con la sua bravura, la sua straordinaria mimica, riesce a interpretare perfettamente il dolore e il dramma del pittore, emozionando e commuovendo. Quest’opera non ha nulla da invidiare ai suoi predecessori; raggiunge pienamente il suo intento di raccontare in maniera innovativa e quasi sperimentale la travagliata vita di Van Gogh, pittore e uomo complesso, nonché l’immensa grandezza della sua arte.

Benedetta Sisinni

Resta con me: un viaggio che si è tramutato in naufragio

Resta con me. Un titolo, uno scenario che ha fatto sognare un milione di persone, con mille emozioni che richieggiavano nelle sale cinematografiche. Un film che ci fa sembrare il Titanic solo un ricordo lontano. Lo scontro con un violento uragano per raggiungere Thaiti.

Due giovani sfidano il mare ma non sanno cosa troveranno o se si ritroveranno loro stessi, in un’avventura che si è trasformata in un drammatico naufragio. Una storia vera accaduta a una giovane coppia che, durante un viaggio verso Tahiti, a bordo di una barca a vela, dovette affrontare un uragano. In Italia al Box Office Resta con Me ha incassato 3,2 milioni di euro.

“Non aver paura di spiegare le tue vele”

Dalila De Benedetto