“The Story” di Brandi Carlile – versione di cover per una buona causa.

Se vi dicessi il nome Brandi Carlile probabilmente non avreste idea di chi stia parlando.

Se invece vi facessi sentire solo le prime strofe di “The Story” la riconoscereste immediatamente e aggiungereste “certo! l’ho sentita in…”.
Le sue canzoni sono state usate in moltissime serie tv (forse su tutte Grey’s Anatomy) film, pubblicità, ciò non deve essere visto negativamente perché questa donna è più che talentuosa.

Lei è una cantautrice americana il cui stile spazia fra il folk-rock-pop. La band è composta da lei, i gemelli Tim and Phil Hanseroth alla chitarra e al basso, Josh Newman al violoncello e al piano e il batterista Brian Griffin.
“The Story” è probabilmente l’album più famoso che quest’anno compie 10 anni e per questo anniversario la cantautrice ha deciso di ripubblicarlo in una versione molto speciale : tutte cover.
Il ricavato dell’album andrà interamente a War Child una associazione che si occupa di aiutare e tutelare i minori nelle zone di guerra.
Brandi Carlile è sempre stata una attivista per i diritti umani devolvendo i ricavati di concerti a diverse cause a lei care. Tutti, dall’etichetta agli ingegneri del suono agli artisti stessi hanno rifiutato di ricevere un compenso per il lavoro su questo album.
I nomi degli artisti che hanno edito le canzoni? Adele, i Pearl Jam, Kris Kristofferson e Dolly Parton per nominarne alcuni. Il nome che risalta di più è forse quello di Barack Obama che ha scritto la prefazione dell’album “racconta storie che ci incoraggiano a vedere noi stessi negli altri, e ci ricorda che insieme possiamo creare un mondo migliore per i nostri figli”.
Vi segnalo la versione del singolo “The story” cantata da Dolly Parton, “Josephine” da Anderson East e “Turpentine” da Kris Kristofferson.
The Story quest’anno ha ottenuto il disco d’oro.

La bellezza delle canzoni e della voce di Brandi Carlile è che sono adatte ad ogni momento della propria vita, ti coinvolge con quel tono ruvido ma caldo, le chitarre , gli archi che spuntano quando meno te l’aspetti. Non scade mai nel banale come sonorità e testi. Un brano apparentemente pop si trasforma in un pezzo simil rock grazie a bassi e chitarra. In questo video di seguito potete farvi una idea di quello che sto affermando.

Quando ascolti “Keep your heart young” la tua infanzia ti passa davanti gli occhi e inizi a ridere, “Hiding my heart” e “Oh dear”  ti riportano a quell’amore passato o mai confessato, “Wherever is your heart” all’affetto dei cari, “The Things I Regret” con quella strofa finale gridata da pelle d’oca e poi “The story” un classico ormai.

Diversi anni fa ebbi la fortuna di vederla esibirsi, uscì da quel teatro con un sorriso a 36 denti e mio zio che mi ringraziava per avergli fatto conoscere questa artista. È stata elettrizzante, appassionata.
Non voglio i ringraziamenti di nessuno di voi lettori ma vi suggerisco di ascoltare qualcuna delle sue canzoni, il mio album preferito è “Bear Creek” , con una sola parola: completo, ce n’è per tutti i gusti.
L’ultima opera è  “The firewatcher’s daughter” che si apre con  “Wherever is your heart”  pezzo scritto con i gemelli (con i quali si percepisce il grande affetto reciproco dovuto anche alla lunga collaborazione) è più che coinvolgente, trasportante. Come tutto l’album.
Lo stesso anno, 2015, la band ha deciso di fare un tour prevalentemente in teatro sfruttando l’acustica naturale di questi luoghi hanno scelto di non usare microfoni, amplificatori, affidandosi totalmente alla voce e alle sonorità degli strumenti. Niente che potesse distorcere la musica e l’esperienza con gli spettatori.
Questa esperienza è stata raccontata in un documentario “Pin Drop Tour” che potete trovare sulla sua pagina Youtube.
Vi saluto con l’introduzione del documentario (al minuto 5:00 potete sentire l’effetto dell’esperimento fra prove e live) :

 

Arianna De Arcangelis

Adesso di Chiara Gamberale

Tanto ormai è successo.
E quando?
Adesso.

Chiara Gamberale, in Adesso, affronta lo stesso tema che da anni la letteratura cerca di interpretare, scoprire, sviscerare: l’amore

Ma l’amore non è più quello adolescenziale delle attese sul motorino fuori scuola, i primi messaggi, le prime gite al mare, i primi mesi, no … l’amore inteso più come un mal d’amore, che ti forma ma ti deforma, che guarisce le tue ferite ma ti frantuma il cuore e da quel momento finirai per spezzare il cuore a chiunque proverà ad aggiustare il tuo (sempre che le tue ferite non ti abbiano resa troppo menefreghista per lasciarti andare con una persona nuova), perché a quel punto sarai destinata a incontrare solo persone che non ti capiscono, e perciò ti trovano irresistibile, o persone che ti capiscono e che per questo si allontanano.

E adesso? Adesso Lidia e Pietro, una neo-coppia con retaggi di un passato irrisolto, relazioni interrotte, paure stupide,  traumi giovanili, fame d’ amore contrastata da un impetuoso ed irrefrenabile desiderio di fuga oltre a figure ingombranti riemerse o mai scomparse dal proprio cammino.

La loro, in fondo, sarebbe una semplice storia d’ amore, se non subentrassero a complicarla maledettamente quei fantasmi di un passato che ritorna e di un destino che appare segnato.
Lidia e Pietro sono profondamente diversi. Lei lavora nel mondo dello spettacolo, e’ vulcanica, estroversa, logorroica, vive intensamente ogni storia,senza figli, ma un ex marito bambino mai cresciuto, tuttora presente ed incalzante, da cui è stata più volte tradita. Lui è un preside, serio, compito, di poche parole, tende a sottrarsi agli affetti più cari, ha una figlia adorabile ed una ex moglie con neo-vocazione monacale.
Entrambi hanno sofferto di perdite, assenze genitoriali, affetti negati e si incontrano, quasi per caso, come la maggior parte delle neo-coppie, iniziando una relazione specchio del proprio tormentato essere e di quella paura di amare e di perdersi che li trattiene da sempre.

Arriva un momento, per ognuno di noi, dopo il quale niente sarà più uguale: quel momento è “adesso”.”

Chiara Gamberale scava nelle emozioni armata di un bisturi, mettendo il nostro cuore sotto i riflettori della coscienza, descrivendo una generazione cresciuta solo anagraficamente, ancora figli quando la realtà li vorrebbe madri e padri, ancora così impauriti dai sentimenti abituati a un regime di indifferenza di fronte alle proprie emozioni, un meccanismo di difesa che le delusioni passate hanno eretto.

Ma proprio in una giornata come le altre, in cui non ti chiedi più se succederà qualcosa, ecco quella cosa speciale che succede proprio a te.

È un testo dallo stile per niente impegnativo, forse una narrazione confusa nella prima parte ma alleggerita da mail, sms, addirittura un curriculum sentimentale (che forse tutti dovremmo avere, così per facilitare un po’ tutto) , con curiosi e divertenti coprotagonisti che, con le loro storie, si intrecciano alla storia principale.

Non è prima di una vecchiaia dolce e non è dopo un’infanzia tremenda, non è prima di niente e dopo di niente, è solo adesso, dopo il dolore, prima del dolore, finalmente è adesso, un momento in cui rimanere mentre c’è, senza fuggire, perché è una fuga in sé, senza sperare, perché è in sé una speranza, io? Tu, no no, sì sì, non sono pronto, nessuno lo è.”

Serena Votano

Cent’anni di solitudine

Cent’anni di solitudine”, Premio Nobel  di Gabriel Garcia Marquez, è la storia della famiglia Buendia dalla fondazione di Macondo alla sua evoluzione.
Le pergamene di Melquiades profetizzano la stirpe dei Buendia, ma nessun componente della famiglia è in grado di tradurne il contenuto.

Erano le ultime cose che rimanevano di un passato il cui annichilimento non si consumava , perché continuava ad annichilarsi indefinitamente, consumandosi dentro se stesso, terminandosi in ogni minuto ma senza terminare di terminarsi mai.”

Un secolo di vita della stirpe dei Buendia viene raccontato tramite singoli avvenimenti che, sebbene svoltisi in un lungo periodo di tempo sembrano coesistere in un solo attimo, in una Macondo in cui il tempo sembra girare in tondo senza portare alcuna novità o miglioria. È Jose Arcadio Buendia a dare origine a tutto ciò, sposandosi con Ursula Iguaràn. La loro stirpe sarà lunga e ricca di avventure e mille dispiaceri, tra la morte dei figli prima dei genitori, guerre e delusioni amorose.

Il lettore viene condotto in un universo a sè, in un’opera tutta umana e raffigurante come un dipinto la condizione dell’essere su una terra aspra che sembra respingere ogni vita. Marquez è il massimo esponente di quello che viene definito “realismo magico“, ed infatti l’elemento magico (sotto forma di fantasmi, presenze e superstizioni) è fortemente presente nel romanzo in questione ed è ciò che poi caratterizza tutti gli avvenimenti.

Straordinaria la capacità di Marquez di fare della linea temporale un filo di lana da arrotolare e srotolare sulle dita, da tagliare e da ricomporre a proprio piacimento.
Resta inevitabile affezionarsi ai singoli componenti di questa famiglia e a come questi sono condannati al loro carattere.

Proseguendo la lettura, è inevitabile confondersi a causa dell’ intreccio di parentele e di legami tra i vari membri della famiglia, si rischia di non avere più molto chiaro l’albero genealogico di questa famiglia così sfortunata e toccata solo un attimo dalla felicità (che come è arrivata, se ne va) ma, allo stesso tempo, così unita da un filo conduttore, un sentimento: la solitudine.

Solitudine come assenza di contatti con altre persone, ma anche come quel senso di malinconia che ti assale nonostante la compagnia e i divertimenti.
Una storia familiare che dura un secolo, cent’anni, cent’anni di solitudine.

Perché le stirpe condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra.

Serena Votano

IT di Stephen King

Il 1986 è l’anno in cui il terrore ha fatto la conoscenza della carta stampata.
L’anno in cui gli incubi di ogni persona hanno avuto un contatto diretto con la realtà.
L’anno in cui viene pubblicato il capolavoro dell’orrore di Stephen King “It”.

“E una volta andato non puoi più tornare indietro

Quando di punto in bianco sei nel buio”

Queste sono le parole di “My My, Hey Hey (Out Of The Blue)” storico pezzo di Neil Young, che perfettamente sintetizzano la sensazione che questo libro regala ad ogni lettore sin dalle prime pagine. Una volta iniziato non ci si può più fermare, non c’è scampo, veniamo immersi nella realtà tetra, umida e stantia dove vive la paura mascherata da clown, dove il male si nutre e prolifera. Nella dimora di It!

Tutto inizia nel 1957 nella cittadina, fittizia, di Derry dove da parecchi giorni imperversano forti temporali che stanno allagando la città e causando non pochi problemi a tutta la popolazione. Qui facciamo la conoscenza del piccolo George Denbrough che, nonostante il diluvio, si trova nelle strade della città a giocare nei piccoli canali che si sono formati ai bordi della strada con una barchetta di carta fabbricatagli dal fratello Bill.
Il cielo è grigio ed il vento soffia forte spingendo la barca sempre più veloce lungo il marciapiede di Witcham Street, tanto forte che Georgie quasi non riesce a stargli dietro. Ma le acque in cui la barchetta naviga sono troppo mosse per permetterle di resistere a lungo nel suo tragitto ed in poco tempo finisce per affondare ed essere trasportata dalla corrente in uno dei canali di scolo presenti lungo la strada. Li è dove si nasconde il pagliaccio Pennywise con il suo sorriso sgargiante ed il coloratissimo mazzo di palloncini, ma, come in ogni sogno che ci fa risvegliare sudati e sconvolti, ciò che può sembrare innocuo e sicuro in realtà rappresenta la più oscura delle paure. In un attimo il demone si palesa e uccide brutalmente il piccolo Georgie seminando il panico a Derry…

Dopo questo terribile avvenimento, un gruppo di bambini guidati proprio dal fratello maggiore di George, Bill Denbrough, decidono di formare una squadra, o meglio un club, “il Club dei Perdenti”, per riuscire a stanare il mostro e fermare la sua sete di sangue.

La storia si muove su due piani temporali diversi, uno parallelo alla morte del piccolo Denbrough (1957-1958) ed uno futuro in cui i membri del club sono ormai grandi e vivono la propria esistenza lontani da Derry (1985), ma si mantiene sempre lineare, semplice, grazie soprattutto alla capacità dello Scrittore di miscelare alla perfezione i momenti di riflessione dei vari personaggi con corposi flashback che ci permettono di vivere a cavallo di tre decadi senza mai sentirci spaesati nel testo. La scrittura di King è dinamica, fluente, introduce il lettore nelle scene e gli permette di viverle nella realtà, di immaginarsele alla perfezione nella mente, non in maniera grezza o approssimativa, ma estremamente particolareggiata.
Ogni personaggio ha una sua specifica immagine, un suo carattere ben delineato, una sua personale e profonda paura e questo consente di creare legami stretti con ognuno di loro, di viverne le avventure e non di osservarle da lontano come spettatori asettici.

Il genere horror vive in perfetto equilibrio sul filo sottile che separa la magia dalla realtà, la mera falsità dal puro terrore umano, e con questo libro Stephen King si dimostra il migliore tra i funamboli riuscendo a rendere vere e carnali le sensazioni che questa storia immaginaria ci incide nella mente. Mai una volta ci ritroveremo a pensare che una delle scene narrate sia troppo esagerata o falsa, appunto. Ogni particolare è sapientemente inserito tassello per tassello in un mosaico che ci permette di arrivare ad un’unica conclusione: la magia esiste!

Abbiate timore di leggere questo libro, non quel timore che congela il pensiero e costringe ad un vigliacco dietrofront, ma quello che ci incuriosisce, che ci spinge ad avvicinarci al burrone ed a guardare giù anche quando chiunque sarebbe pronto a dirci di non farlo, perché, in fondo, chi non ha mai provato a rapportarsi con la propria paura, ad avvicinarsi solo per sfiorarla in una profonda introspezione.            Abbiate quindi il coraggio di avere paura, di allontanarvi dalla luce chiara e sicura del sole, per trovarvi cosi, di punto in bianco, nel buio…

Giorgio Muzzupappa

 

(nda di seguito il trailer del remake cinematografico del libro che uscirà l’8 settembre)
https://youtu.be/w7Zv5nPLDqw

 

A Girl At My Door: la vita nella Corea di periferia.

Lee Young-nam (Bae Doona), un’ ispettrice di polizia, è costretta a trasferirsi da Seoul alla stazione di Yeosu, qualificabile come un paesino tranquillo.

La donna, essendo “la nuova arrivata” mantiene un profilo basso, chiudendo un occhio su qualche infrazione, ma senza dimenticare compito che deve svolgere. Nonostante ciò alcuni abitanti di Yeosu sembrano avere una certa diffidenza e un atteggiamento di superficialità nei confronti di Lee, probabilmente non riconoscendola al pari delle normali autorità.
La sua figura, inoltre, è circondata da un alone di mistero, derivante non solo dalla mancata conoscenza della causa del suo trasferimento, ma anche per la sua abitudine a bere una volta tornata a casa dopo il turno.
Un giorno, dirigendosi alla stazione per svolgerne uno, Lee incrocia dei ragazzini intenti a bullizzare un loro compagno di classe. Fatto tornare l’ordine, scopriamo che in realtà quella ad essere stata picchiata è una ragazzina molto trasandata e questo particolare fa incuriosire l’ispettrice, che segue la bambina nel suo tragitto di ritorno verso casa.
In questo modo scopre che quest’ultima vive con il padre e la nonna, senza la madre che li ha abbandonati.
Questo non sarebbe un problema se non per il fatto che proprio questa sua “famiglia” la maltratta sia psicologicamente che con veri e propri abusi fisici. La situazione non è accettabile e Lee decide di denunciare il fatto alla polizia, ma qualcosa va storto.
Sembrerebbe che il padre della bambina, di nome Park Yong-ha (Song Sae-byeok), sia il maggior allevatore di ostriche del paese rivestendo un ruolo chiave nell’economia di Yeosu, per cui gli ufficiali decidono di parlare con Yong-ha in persona piuttosto che procedere per via legali poiché questo avrebbe compromesso la sua figura e attività.
Il tentativo di aiuto e l’interesse mostrato nei confronti di Sun Do-hee (Kim Sae-ron) – ovvero la bambina maltrattata – portano quest’ultima ad  avvicinarsi a Lee, nonostante l’ispettrice non ne sia molto felice.

A Girl At My Door è un film di totale produzione coreana e particolare per molti aspetti.
Tratta temi delicati, difficili da trattare e sicuramente importanti (non si entrerà nello specifico per evitare di rovinare l’esperienza a chiunque voglia vedere il film). Ma questa è solo una delle varie particolarità di cui si è detto prima, infatti le due protagoniste del dramma coreano, Bae Doona e Kim Sae-ron, decisero di recitare nonostante non vi fosse un budget che permettesse alla produzione di pagare la loro prestazione. In parole povere, hanno recitato in maniera assolutamente gratuita.
Con un budget di soli $300,000, la regista July Jung, ha proposto un problema forte ed evidente che spesso è presente nelle periferie coreane. Il film non risulta eccelso, comprensibilmente vista la misera disponibilità economica per girarlo, con diverse vicende discutibili e toni che a volte tendono ad essere un po’ troppo bassi e quasi noiosi. Tuttavia, A Girl At My Door è da apprezzare nelle sue piccolezze e sicuramente, visti i molti ostacoli di produzione, non da biasimare.

Giuseppe Maimone

La Bella e La Bestia: incanto Disney per ogni età.

Era il 1991 quando nelle sale, uscì quello che è stato il 30° film d’animazione della Disney: La Bella e La Bestia.

Questo cartone ha raggiunto il primo grande traguardo del mondo Disney: è stato il primo film d’animazione in assoluto ad essere candidato agli Oscar con ben 5 nomination e, infine, ne vinse due per la Miglior Colonna Sonora e la Miglior Canzone.

La storia della Bella e la Bestia la conosciamo (quasi) tutti. Parla di questa giovane e bellissima ragazza, figlia di un inventore, che abita in un isolato paesino di campagna nel quale si trova stretta. Siamo nel pieno del ‘700 francese e questa splendida ragazza, amante della letteratura, è, per ovvie ragioni, reputata strana, diversa.

Parallelamente, in un castello non molto lontano dal villaggio della ragazza, un giovane principe è stato trasformato in Bestia da una fata, che lo ha fatto per insegnargli che non bisogna mai giudicare le persone dalle apparenze. Infatti, la stessa fata, si era presentata alle porte del castello del giovane arrogante, sotto le sembianze di una vecchina e porse lui una rosa in cambio di una notte di riparo.

Il principe la respinse e lei si rivelò. La rosa era una rosa incantata e solo il vero amore poteva spezzare l’incantesimo. Se nessuno si fosse innamorato della Bestia prima della caduta dell’ultimo petalo della rosa incantata, allora il principe sarebbe rimasto una Bestia per sempre.

Il resto lo conosciamo bene: il padre di Belle si perde nei boschi e cerca riparo nel castello della Bestia, dove viene imprigionato dalla stessa. Belle riesce a raggiungerlo e dona sé stessa in cambio della liberazione del padre.

Da quel momento, tra alti e bassi, inizia questa strana convivenza tra la Bella e la Bestia e, piano piano, tra loro due sboccia l’amore. Un amore che, con una delle morali più dolci e profonde di tutta la Disney, va oltre le sembianze esterne in quanto all’amore basta il cuore e non l’aspetto esterno.

Ed è questo quello che troviamo in questo periodo nelle sale cinematografiche: la fedelissima trasposizione della trama animata in film.

Il film della Bella e la Bestia non lascia delusi perché nulla, a parte qualche parola qua e là nelle canzoni (che, comunque, costituiscono una colonna sonora assolutamente vincente), è diverso dal cartone animato. La magia è rimasta intatta e, grandi e piccini, vengono trascinati da essa in questa favola che così bene conosciamo.

Ci sono, però, delle canzoni e delle scene inedite: queste non spezzano o stravolgono la trama, anzi, ci rendono partecipi di alcuni piccoli particolari che ci fanno affezionare ancora di più a questa storia, che la rendono più umana, più reale. Queste scene inedite (che non vogliamo spoilerare) possono insegnare come tutte le nostre vite sono delle fiabe perché anche nelle fiabe c’è la realtà del dolore e delle sofferenze in cui tutti noi, durante il corso della vita, ci imbattiamo.

Il cast è un cast assolutamente vincente: da Emma Watson (Hermione ndr) a Dan Stevens, Luke Evans, Kevin Kline, Josh Gad, Ewan McGregor. Nella versione originale sono tutti da chapeu in quanto sono loro stessi gli interpreti delle canzoni, mettendo in scena, di conseguenza, un vero e proprio musical.

Nella nostra versione italiana, si riconosce il grande stile del doppiaggio italiano: non ci sono distacchi fastidiosi tra le voci parlate e le voci cantate dei personaggi e, anzi, sono quasi uguali anche alla versione cartone animato tanto da lasciare il dubbio se siano gli stessi doppiatori del ’91.

È stata criticata la figura di Emma, in quanto, ad alcuni, ha dato l’impressione di essere più piccola della Belle che conosciamo: ricordiamoci però che tutte le principesse Disney hanno 16 anni e che, anzi, sono le principesse animate a sembrare troppo donne rispetto alla loro reale età.

Altro punto di dibattito è la figura di Le Tont, il leale amico di Gaston: la Disney ha deciso, in questa versione, di renderlo palesemente un personaggio omosessuale, innamoratissimo del suo amico. Bene o male? Bene! È giusto che la Disney, per prima, spezzi i dogmi che ci circondano e insegni la bellezza della diversità a tutti i bambini, con la sua delicatezza materna.

Per me, promosso con 30 e lode: dolce, veloce, commovente e magico. Personalmente, sono molto legata a questa trama e ai suoi vari insegnamenti. Quello che a me è da sempre arrivato più di tutti, è quello della speranza, del cambiamento che prima o poi arriva: ‘’quando sembra che non succeda più, ti riporta via, come la marea, la felicità’’…

Film o cartone, comunque, il commento è sempre lo stesso: ma chi lo vuole il principe… Noi vogliamo la Bestia!

Elena Anna Andronico

Fortitude: il thriller in mezzo ai ghiacci con renne, orsi polari e animali preistorici

Ad accogliere il pellegrino che atterra nell’aeroporto di Fortitude, sulle isole Svalbard nel Mar Glaciale Artico, svetta la statua di un enorme orso polare sopra il nastro del ritiro bagagli. Fortitude è una comunità fittizia di un remoto arcipelago della Norvegia – popolata perlopiù da pescatori e scienziati – dove gli orsi sono più numerosi degli abitanti, e questi ultimi sono costretti a girare armati per proteggersi dai loro feroci attacchi.

Nessuno però può morire a Fortitude; una legge lo vieta in conseguenza del fatto che le temperature congelano i cadaveri e impediscono che si decompongano. La vita, nonostante il buio che dura mesi e le condizioni ambientali estreme, scorre complessivamente tranquilla, isolata e protetta come una fortezza gelata che la separa dal mondo. La governatrice Hildur Odegard intende far costruire in mezzo alle distese di neve un hotel di ghiaccio per aumentare la presenza di turisti. C’è poi in città lo sceriffo Dan Anderssen, ma nessuno sa se è un bravo o un cattivo sceriffo: a Fortitude non è successo mai niente. Almeno fino a quando il corpo del professore del locale centro di ricerca viene ritrovato seviziato, torturato e ricoperto di sangue.

La seconda serie (prodotta da Sky Atlantic e in onda dal 27 gennaio) è arrivata dopo i molti nodi rimasti da sciogliere al termine della prima stagione; un thriller che affianca l’inchiesta sulle morti misteriose che hanno sconvolto la quiete esteriore di un luogo subissato dal candore della neve alle atmosfere horror e surreali alla Stranger Things. Chi ha deciso di vivere a Fortitude quasi mai è lì per caso: tutti scappano da qualcosa. Così l’affascinante Elena Ledesma che gestisce l’albergo dove alloggia il detective Eugene Morton mandato dal Londra per indagare, insieme allo sceriffo, alla catena omicidi furiosi e terrificanti in cui pare sia coinvolto anche un bambino. Ogni elemento della comunità o quasi è invischiato in un intreccio di relazioni contorte e di storie taciute che lo rendono vulnerabile. Il richiamo a Twin Peaks è lapalissiano; l’immagine di una comunità dove all’improvviso tutto precipita ed i caratteri che la popolano escono progressivamente allo scoperto. Non ci sono tuttavia le cascate ma tonnellate di ghiaccio colorate da strisce di sangue che citano, anche se non fanno il verso, un altra serie ambientata sulla neve, Fargo.

Il cast composto da attori di ottimo livello come Stanley Tucci, contribuisce a far salire le aspettative e a consegnare un prodotto all’altezza; quello che più colpisce di Fortitude, oltre alle ambientazioni, è il valido mix di mistero e approccio razionale e scientifico agli accadimenti più inspiegabili. Il ritrovamento di un mammut preistorico sepolto dal ghiaccio si collega quindi agli eventi tetri che hanno macchiato di sangue la comunità. La sacralità di un luogo chiuso come una fortezza si scontra con le meschinità dell’uomo e le forze naturali impervie. Quando così cala il buio e sulle case ricoperte dalla neve si eleva il colore rosso dell’aurora boreale è certo che qualcosa sta per abbattersi su Fortitude.

 

Eulalia Cambria

 

Dieci Minuti per il resto della tua vita.

“E a che serve questo gioco dei 10 minuti?”
“Boh, la dottoressa non me l’ha spiegato. Credo serva fondamentalmente a impegnarmi la testa, a riempire il vuoto e a fare ordine nella confusione che mi ritrovo al posto della vita”

Capita che tu debba lasciare la casa in cui sei cresciuto, che il tuo compagno di sempre ti abbandoni e che il tuo lavoro di sempre venga affidato a un altro. E allora cosa si fa?  Chiara Gamberale non ha più nulla da perdere e allora ci prova. In “Per Dieci Minuti” ci mostra come i cambiamenti spaventano tutti ma sono necessari per ridarci il resto della vita che da soli bruciamo quando qualcosa va storto.

 “Vorrei assicurarle che non c’è verso: dentro momenti come questo bisogna cadere con le braccia, le gambe, il cuore, i polmoni. Tutto. 

Bisogna andare in fondo, bisogna marcire. 

Vorrei prometterle che non lo sa, che ora non può immaginarlo: ma arriverà il giorno in cui scoprirà di essere sopravvissuta.”

Dieci minuti al giorno. Tutti i giorni. Per un mese. Fare una cosa nuova, fuori dagli schemi senza aver timore di sbagliare, senza aver paura dell’oblio. Gettarsi in avanti e vivere quello che capita.

“Hai paura di perdere tutta te stessa, perdendo lui.”

Il modo di scrivere di Chiara, che si denota in questo libro come negli altri, è semplicemente istantaneo, ti tiene incollato alle righe finché non giri l’ultima pagina e arrivi all’ultima parola. È diretta e sintetica, a volte ironica nonostante il tema del dolore e della sofferenza, a convincere è proprio il ritmo incalzante della narrazione, dato dall’uso di continui flashback del passato inseriti ad arte, e dal soffermarsi sapientemente sull’analisi dei sentimenti e degli stati d’animo.

Questa è una lettura consigliata a chi è pronto a seguire il consiglio di Chiara, uscire dalla monotonia, sperimentare, scoprire nuove passioni, migliorarsi. Alla fine si scoprirà che può diventare un gioco di fantasia da prendere sul serio, quasi senza accorgersene.

Combattere gli schemi e ricominciare.

“Quanto è assurda la vita, quando non tocca a noi.”

Serena Votano

 

Cinefilia per idioti: il musical

Tutti canticchiamo.
Chi appena sveglio, chi sotto la doccia, chi in macchina, chi mentre si fa il bidet.
Tutti abbiamo sempre sognato di poterlo fare, magari sul tram, sull’autobus, sul treno accompagnati da un’ipotetica colonna sonora della nostra vita. Ed esistono solo due tipi di persone, chi lo ammette e chi mente.
Il lapalissiano successo di La la land mi obbliga a farvi dono di questo articolo per questo mese speciale che è Marzo (pazzerello esci con il sole e prendi l’ombrello).
Il genere che ho deciso di analizzare in modo sempre totalmente professionale e mai soggettivo, è proprio quel genere di film che o lo ami o lo odi (un po’ come i tuoi genitori): il MUSICAL. Genere che fin dalla culla ha accompagnato ognuno di noi, che ci piacesse o meno, ha creato delle colonne sonore che ancora oggi tutti conosciamo e qualsiasi serie tv che si rispetti vanta tra le proprie puntate, una versione musical.
Ma più di Sanremo, più del dentifricio che ti macchia i vestiti mentre ti lavi i denti, in modo inspiegabile, e tua madre ti dice ” ma tu perché ti lavi i denti vestita?” più della gente che dice “che vita sarebbe senza nutella”, più di tristi trentenni con la parrucca, che fanno video fingendo di essere delle ragazze, più di tutto questo io odio i musical.
Dopo quest’affermazione così decisa e del tutto inaspettata (non è vero) voi vi chiederete; Ma Elisia sei cresciuta a latte e Nesquik, fiabe sonore e cartoni animati Disney, come puoi dire una cosa del genere? E io vi risponderei come ad ogni domanda che mi viene posta ogni giorno della mia vita da quando sono nata: NON LO SO.
Il mio amico Nicola mi dice sempre di dover essere in grado di argomentare qualcosa, specie se, questo qualcosa, non mi piace.
Io sono dell’idea che non vi sia bisogno di argomentare un genere che agli occhi di un qualsiasi individuo, dotato di buon senso e poca pazienza, appaia odioso; ma per evitare di congedarci precocemente, facciamo un passo indietro.
La fonte certa di cui mi avvalgo sempre (Google) sostiene che il musical nasca negli USA il 12 settembre 1866, dalla fusione fra una compagnia di ballo e canto importata dall’Europa, con una compagnia di prosa, in quanto la prima era rimasta senza un teatro in cui esibirsi mentre, la seconda, era alle prese con una produzione che si stava rivelando più dispendiosa del previsto.
Bastano questi pochi accenni, a mio avviso, per capire che una cosa nata per caso e per risparmiare non possa generare nulla di buono. Superando quelli che sono i preconcetti , sempreverdi, legati al musical : che sono venerati da qualsiasi americano e dagli omosessuali, notiamo fin da subito che non si adattano proprio ad ogni genere cinematografico o teatrale. Basti pensare ad un contesto horror o drammatico, perché in quei casi credo si abbia altro di cui preoccuparsi anziché cantare.
Questo genere si sposa perfettamente con trame banali e cariche a loro volta di cliché tipiche del loro genere ( come quando una modella sposa un anziano milionario). Ma a noi, l’ovvio misto allo stravagante ci piace e quindi assistiamo a personaggi estremamente caratterizzati che si presentano a noi con canzoni di gruppo esaltando i loro più banali aspetti caratteriali (in viaggio con Pippo docet), tutti estremamente intonati e ballerini professionisti.

La peculiarità che mi lascia sempre esterrefatta (quasi infastidita), è la nonchalance con la quale tutti continuino a fare ciò che stavano facendo, prima che iniziassero a cantare e ballare, appena la musica finisce. E nonostante io abbia apprezzato Gesù e Giuda cantare in Jesus Christ superstar, o aver apprezzato Jessica Fletcher guidare un letto in pomi d’ottone e manici di scopa, e nonostante io mi compiaccia mi ogni volta che riesco a dire correttamente supercalifragilisitchespiralidoso; credere in un cavallo con il corpo da uomo che parla (Bojack horseman) oppure nell’esistenza in un sottosopra (Stranger Things ) lo ritengo più semplice.
Più del vedere uomini, donne, bambini e anziani ballare e cantare improvvisamente (con spunti futili, ad esempio riordinare una stanza) anche da soli in mezzo alla gente o sotto la pioggia.
Ma forse la magia dei musical è proprio questa: possono essere apprezzati solo dai sognatori. Oltre che dagli omosessuali.

Elisia Lo Schiavo

 

Quando girare con un Super 8 era bello da morire

Nel lontano 1979, in Ohio, un giovane ragazzo di nome Joe Lamb (Joel Courtney) perde la madre in un incidente di fabbrica.
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La scena si apre proprio sulla veglia di quest’ultima, con Joe in lacrime, seduto su un’altalena che assiste inerme ad un ospite (Ron Eldard) appena arrivato cacciato dal padre del ragazzo (Kyle Chandler), facente parte del comando di polizia locale.

Passati quattro mesi, Lamb sembra apparentemente aver superato la morte della madre e insieme al suo migliore amico Charles Kaznyk (Riley Griffiths) ed altri suoi compagni di scuola Cary McCarthy (Ryan Lee), Martin Read (Gabriel Basso) ePreston Scott (Zach Mills), decidono di girare un film per un concorso cinematografico, trattando una storia basata su degli zombie e un detective che indaga su di essi.
Charles riesce ad aggiungere al gruppo una ragazza molto popolare a scuola, Alice Dainard (Elle Fanning), per interpretare la moglie del detective. Così, gruppo riunito, si danno appuntamento a mezzanotte per dirigersi verso una stazione ferroviaria per girare una scena precisa del futuro film, approfittando del passaggio del treno per rendere la scena più emblematica.
Tutto tranquillo finché Joe nota un pick-up dirigersi verso le rotaie in direzione del treno. Nel momento stesso in cui avvisa i suoi amici, avviene l’impatto devastante, talmente impetuoso da far deragliare il treno e far letteralmente volare tutti i vagoni che si disperdono nella zona circostante. Verificata la situazione di tutti i componenti della “produzione”, per fortuna interamente illesi, si dirigono verso il pick-up, dove trovano alla guida un loro professore scolastico, Thomas Woodward(Glynn Turman) che puntandogli una pistola contro gli intima di scappare e di non parlarne con nessuno, pena l’incolumità loro e delle loro famiglie.

Stasera-in-tv-Super-8-di-JJ-Abrams-su-Italia-1-8Con “Super 8”, per chi non ne fosse a conoscenza, si intende un tipo di formato cinematografico nato nel 1965. Ed è proprio da questo che il noto regista J.J. Abrams prende il nome per il suo film del 2011, prodotto anche da Steven Spielberg.
Perché proprio “Super 8”? Fondamentalmente al centro delle vicende c’è proprio la cinepresa e la necessità di creare un film, per cui sebbene si marginale, è proprio essa ad essere la protagonista ed il motore del film.
Il lavoro di Abrams è pieno del suo stile, tratti caratteristici ed altre componenti che lo rendono assolutamente particolare. Per i più, sembra ricordare lavori quali “Lost”, intramontabile e leggendaria serie tv curata proprio dal suddetto regista. Scindendo dalle componenti fondamentali come fotografia e regia, che sono senza dubbio curate e discutibili solo con note positive, la narrazione nonostante tratti temi che almeno in teoria potrebbero risultare contrastanti, riesce a creare un connubio perfetto rendendo ciò che sembra impossibile, quasi plausibile.
Un lavoro egregio che, sicuramente, non renderà Super 8 un film perfetto, ma assolutamente un opera piacevole e bella da vedere. Che, in sostanza, questo è ciò che importa.

 

Giuseppe Maimone