Babylon: gli eccessi della Hollywood dei roaring twenties

Babylon è tutto: eccentrico, a tratti eccessivo, fedele alla realtà, ma soprattutto mantiene salda l’attenzione dello spettatore. Voto UVM: 5/5

 

In un turbinio di luci, musica, balli e piaceri, Babylon è un’esperienza audiovisiva che porta lo spettatore in un’epoca di sfarzo e lussuria: la Hollywood degli anni ’20. Scritto e diretto Damien Chazelle, più giovane vincitore del premio Oscar per miglior regia fino ad ora (Whiplash, La La Land), Babylon è, con i suoi 189 minuti, un’opera imponente. Il film ha riscontrato già da subito una buona accoglienza da parte della critica, aggiudicandosi numerose candidature ai Golden Globe, Critics’ Choice Awards e BAFTA. Ciononostante, la pellicola non ha riscontrato il successo sperato in fatto di incassi, probabilmente per via del grande successo di Avatar- la via dell’acqua.

Nel cast si ritrovano alcune delle più grandi stelle del cinema Hollywoodiano contemporaneo: Brad Pitt (Mr e Mrs Smith) nei panni di Jack Conrad, Margot Robbie (Amsterdam) nel ruolo di Nellie Leroi e Tobey Maguire in quello di James McKay.

Babylon
Nellie Leroi in una scena del film. Fonte: Paramount Pictures, Marc Platt Productions, Material Pictures, Eagle Pictures

Babylon: dal cinema muto all’avvento del sonoro

Il film si apre nel culmine degli eccessi: in una strabiliante festa. Tutta la ricca Hollywood si rifugia la sera in un circolo di droghe di ogni tipo, libertà sessuale ed eccessi di ogni tipo; qui si intrecciano le storie di tre figure focali del film. Jack Conrad è una stella del cinema muto, con una certa passione per l’alcol ed alcuni problemi nelle relazioni di coppia; Manuel Torres è un giovane cameriere di origini messicane, con l’ambizione di lavorare nel cinema, di sentire di far parte di qualcosa di più grande. Come Manuel anche Nellie Leroi, bella e determinata, vuole farsi strada nel mondo del cinema, fino a diventare una star.

Proprio nel quieto devasto dopo la festa, Nellie otterrà il suo primo ruolo, trampolino di lancio per la sua carriera. Anche Manny (Manuel) ottiene un biglietto di entrata al parco giochi, che è il set cinematografico, grazie allo stesso Conrad, che lo prende in simpatia e lo aiuta a raggiungere le sue aspirazioni. Ma in una società che cambia, in un cinema che cambia con l’avvento del sonoro, anche le grandi star possono tramutarsi in stelle cadenti e finire nel dimenticatoio.

La parabola del successo

“Ti è stato fatto un dono, avevi i riflettori. Vivrai per sempre nella pellicola.” – Elinor St John a Jack Conrad

Babylon presenta quattro differenti storie di successo: quattro figure che, una volta raggiunto l’apice, decadono miseramente dimenticate dal pubblico. Prima fra tutte Jack Conrad; attore desiderato da tutti i registi, star del cinema muto, non riesce ad adattare il suo talento con l’avvento del sonoro. Determinante è la scena in cui Conrad, osservando gli spettatori in una sala di un cinema guardare un momento particolarmente commuovente della pellicola, semplicemente ridono. La stessa critica amica dell’attore Elinor St John (Jean Smart) lo abbandona, dipingendolo come una star decaduta. La St John considera il destino di Conrad ormai segnato: ciò nonostante, pur avendo perso il suo successo, l’attore rimarrà impresso nella storia del cinema grazie ai suoi film.

La stessa Nellie non riesce a sopportare il peso delle critiche e finisce in un vortice di alcol, droga e gioco d’azzardo, trasportando con sé Manny, innamorato di lei. L’unico che si mantiene indenne dalle influenze dell’ambiente hollywoodiano è il trombettista Sidney Palmer (Jovan Adepo).

Babylon
Manny e Nellie alla festa. Fonte: Paramount Pictures, Marc Platt Productions, Material Pictures, Eagle Pictures.

Da Babilonia ad una società moralista

Un altro fattore focale in Babylon è l’evoluzione che si crea nella Hollywood dagli anni ’20 agli inizi degli anni ’30. Se prima vigevano gli eccessi e la libertà assoluta nei piaceri, si nota come, con l’avvento del sonoro, anche la società tende a modificarsi. Il pubblico stesso inizia a richiedere una maggiore moralità nel cinema e negli attori, e molte figure, come Nellie, hanno difficoltà ad adattarsi ad una nuova società moralista ed ipocrita. Pur cercando di modificare il proprio comportamento, considerato ora rozzo e volgare, l’attrice finirà per rigettare la nuova moralità.

Il cambio di rotta a Hollywood si può notare ancora più chiaramente dagli eventi: se prima le feste erano tanto sfarzose da sembrare quasi delle sorta di orge, in un secondo momento si preferiscono eventi più pacati, caratterizzati da una visione snob e classista.

Un tripudio di colori

In questa lunga dedica alle origini del cinema, Babylon è costellato da varie tecniche cinematografiche e sperimentazioni da parte del regista, che rendono il film alquanto originale. Le scene delle vecchie pellicole mute vengono portate sul grande schermo in bianco e nero, rispettando le inquadrature e lo stile dell’epoca.

Ma ciò che rende veramente unica la pellicola è il finale: senza fare alcuno spoiler, si anticipa solamente la presenza di una totale esplosione di colori, con una sequenza di scene che hanno fatto la storia del cinema. Come dice la stessa St John a Conrad nel film “ è più grande di te, è più grande di tutti noi”: non si tratta di un singolo attore, o di una singola pellicola, ma del cinema in se.

A dare un tocco di colore in più contribuisce anche la grande performance di Margot Robbie nel ruolo di Nellie: l’attrice costruisce una nuova diva, dalla bellezza magnetica ed accattivante, ma pur sempre autonoma nelle proprie scelte e dall’animo forte e determinato.

Babylon: tratto da una storia vera

Ciò che rende la pellicola di Chazelle ancora più strabiliante ed un po’ sconvolgente per lo spettatore è il fatto che ci sia un certo grado di verità nei fatti del film. Si pensi alla figura di Nellie Leroi: lo stesso regista ammette di aver costruito la figura della star sul modello della diva Clara Bow. Altro esempio di personaggio realmente esistito è la scrittrice Elinor St. John, nella realtà Elinor Glyn, mentre l’attore Jack Conrad sembra essere ispirato all’attore John Gilbert.

Ma ciò che sorprende più di tutto è la veridicità della Hollywood-Babilonia: questa espressione, coniata dal regista Kenneth Anger, sembra rappresentare la realtà di una Hollywood fuori controllo. Dopo lo scandalo che coinvolse il comico Fatty Arbuckle per l’omicidio di un’attrice durante una festa, gli studios decisero di cambiare rotta, ristabilendo l’ordine. Il sentimento per un maggiore contegno da parte delle star sfociò infine in un vero e proprio Codice di produzione.

 

Ilaria Denaro

Il ritorno di Gerber nel nuovo romanzo di Donato Carrisi

Una lettura brillante e coinvolgente, dall’attrazione magnetica che ci proietta in un mondo pieno di lati oscuri e spirali di luce, alla costante ricerca della via giusta da seguire. Voto UvM: 5/5

 

Donato Carrisi ritorna nelle librerie italiane con il terzo volume del ciclo di Pietro Gerber La casa delle luci, edito da Longanesi per la collana La Gaja Scienza.

Sequel de La casa delle voci (2019, Longanesi) e La casa senza ricordi (2021, Longanesi), lo psicologo infantile Pietro Gerber, da cui proviene il nome della serie di romanzi, dovrà fare i conti con l’ennesimo mistero che si cela attorno alla figura di una bambina. Anzi, di due bambini.

Dall’esordio alle vette delle classifiche

Donato Carrisi, nato a Martina Franca (TA) il 25 marzo 1973, viene considerato il Maestro del Thriller su carta stampata.

Laureatosi in giurisprudenza con una tesi su Luigi Chiatti, ne è seguita poi la specializzazione in criminologia e scienza del comportamento. Non solo scrittore di romanzi ma anche sceneggiatore, drammaturgo, regista di serie tv e film d’autore, e collaboratore per il Corriere della Sera.

In televisione, coadiuva in numerose serie televisive marchiate Rai come Casa famiglia ed Era mio fratello, invece per Taodue di Mediaset in Squadra Antimafia – Palermo Oggi e Nassiryia – Per non dimenticare.

Dal romanzo d’esordio il suggeritore (2009, Longanesi) vince il premio bancarella 2009 e, successivamente, con l’edizione in francese le Chuchoteur, il Prix Livre de Poche 2011 e il Prix SNCF du polar 2011. Le sue opere thriller forse più famose,  La ragazza nella nebbia (2015, Longanesi), L’uomo del labirinto (2017, Longanesi) e Io sono l’abisso (2020, Longanesi), hanno trovato una trasposizione cinematografica di cui lo stesso Carrisi ne è stato regista.

Donato Carrisi
Donato Carrisi (al centro) presenta il suo nuovo romanzo “La casa delle luci” a Radio Deejay, con Nicola Savino (a sinistra) e Linus (a destra). Fonte: deejay.it

Cosa cela Gerber?

Pietro Gerber, protagonista della saga “Il Ciclo di Pietro Gerber”, è uno psicologo infantile, specializzato nell’ipnosi di bambini per aiutarli a superare dei traumi causati da eventi drammatici. Infatti, proprio per questa sua caratteristica, viene soprannominato “l’addormentatore di bambini”.

Ha trentatré anni e lavora a Firenze nel Tribunale dei minori, considerato dai suoi colleghi come il migliore nel suo campo.

Questa volta dovrà occuparsi del caso della piccola Eva, una bambina agorafobica di dieci anni, che vive in una grande casa in collina con la governante e una ragazza finlandese au pair, Maja Salo. Dei genitori nessuna traccia: il padre ha abbandonato la famiglia anni prima e la madre viaggia in giro per il mondo, comunicando con la figlia tramite sms.

Sarà proprio Maja a chiedere aiuto all’ipnotista Pietro Gerber. La bambina, che preferisce stare a casa rinchiusa senza voler vedere nessuno, sembra non essere più sola. A farle compagnia c’è un presunto amico immaginario senza nome e senza volto. Non è però solo un amico immaginario e potrebbe portare la piccola in pericolo.

Pietro, al fronte di una reputazione quasi allo sbaraglio, accetta il confronto con Eva. O meglio, con il suo amico immaginario.

Ma ciò che si troverà davanti va oltre il pensiero umano: la voce del ragazzino che comunica attraverso Eva non gli è indifferente. E, soprattutto, quella voce conosce Pietro. Conosce il suo passato e sembra possedere una verità rimasta celata troppo a lungo su qualcosa che è avvenuto in una calda estate di quando lui era ancora bambino.

Perché sentiva una specie di desiderio segreto dentro la pancia. E voleva sapere cosa si prova a sfidare Dio. Ma ora so che a Dio non importa se i bambini muoiono. E il signore con gli occhiali voleva provare almeno una volta a sentirsi come si sente Dio, prima di diventare vecchio e di morire… Perché la sua vita non gli piace, la sua vita è tutta una bugia.

Fronteggiando l’ignoto

Con i primi due romanzi della serie, il personaggio di Pietro Gerber è riuscito a farsi conoscere: un protagonista all’apparenza tutto d’un pezzo, disteso nel suo ruolo da psicologo infantile e fermo nella sua logica pungente. Ma addentrandosi nella narrazione, le fragilità tendono a scoprirsi piano piano, ponendosi in bilico tra il suo passato avvolto nell’oscurità e il presente incerto delle sue basi d’appoggio.

Gli interrogativi sono molti, tanti, e non tutti hanno la propria risposta esaustiva. Carrisi lascia sospeso il racconto, dove al di là si trova un’atmosfera cupa, coerente con l’ambientazione. Non è una novità e neanche una fatalità che gli elementi paranormali, le paure della mente e dell’immaginario, le presenze oscure, fanno un po’ leva e anche da protagoniste, nel turbinio di emozioni che lo stesso Gerber, ma anche chi intraprende il viaggio con lui, si trova ad affrontare a pieni polmoni.

La lettura è lenta ma scorrevole, razionale ed oggettiva nella descrizione, tutti i punti sono ben trattati e non lascia nulla al caso. Anche i pensieri espressi dai personaggi hanno un che di razionale, quasi a non volersi scomporre troppo, per non doversi aprire e temere un improvviso out of character.

Una nota di merito, come spiega lo stesso Carrisi nelle note dell’autore alla fine del romanzo, si deve fare sulle pratiche ipnotiche presenti nella storia, che sono effettivamente quelle utilizzate nelle terapie, così come gli effetti prodotti. Lo studio meticoloso di Carrisi, forte del contributo di professionisti qualificati e certificati, come cita nei ringraziamenti finali, non si ferma solo sugli effetti scientifici ma frantuma la “quarta parete cinematografica”, piazzando davanti ai nostri occhi un testo ricco di potere metaforico racchiuso nelle parole e nei frammenti di ignoto che, via via, si incastonano uno con l’altro, dando vita alla storia de La casa delle luci.

 

Victoria Calvo

La casa in collina: autoritratto di un’anima

Era il 1949 quando la nota casa editrice Einaudi pubblicò in unico volume dal nome Prima che il gallo canti, quelli che possono essere definiti i romanzi più intimi di Cesare Pavese: Il Carcere (risalente al periodo di esilio a Brancaleone Calabro) e La casa in collina che racconta della Resistenza, a cui lo stesso Pavese non parteciperà, rifugiandosi in campagna. La narrazione si presenta fortemente autobiografica, delineando come in autoritratto di Van Gogh, i costanti lineamenti della poetica pavesiana: la disarmonia tra l’intellettuale e la realtà, tra la città e il primitivo mondo delle Langhe, il ruolo della memoria individuale.

Si nasce e si muore da soli…

Il racconto vede protagonista Corrado, un docente che si ritira in collina per sfuggire ai bombardamenti che imperversavano nel periodo post armistizio del settembre ’43. Corrado predilige passare le sue giornate in solitudine e isolamento, accompagnato solo dal cane Belbo (omaggio alla città natale di Pavese). Si trova però sempre più spesso a frequentare un’osteria, le Fontane, che scopre essere gestita da Cate, un amore proveniente direttamente dal passato, con il figlio Dino che potrebbe essere suo.

“Con la guerra divenne legittimo chiudersi in sé, vivere alla giornata, non rimpiangere più le occasioni perdute.”

Corrado da una vita scansa le responsabilità, anche adesso, di fronte alla tragedia della guerra, vive con apparente indifferenza le vicende storiche che accadono intorno a lui. Il protagonista si presenta come l’inetto per eccellenza: non esterna mai le proprie idee, non si risolve mai all’azione, resta a guardare da spettatore la barbarie della guerra. L’apparente stasi della vita di Corrado viene sconvolta da una retata nazista che porterà all’arresto di Cate e degli amici, solo lui e Dino riusciranno a salvarsi insieme.  Dopo vari nascondigli, i due si separeranno, Dino si arruolerà nella resistenza partigiana, Corrado, insicuro e incapace di affrontare l’impegno di una scelta, deciderà di tornare al paese natale e alla sua “casa in collina”.

Non vedevo differenza tra quelle colline e queste antiche dove giocai bambino e adesso vivo.

Il viaggio di ritorno con la vista degli orrori della guerra, farà da sfondo alla più intima e disillusa riflessione sul senso della guerra e dell’esistenza umana, una crisi esistenziale destinata a non avere fine.

La casa in collina di Cesare Pavese
Cesare Pavese mentre fuma la pipa. Fonte: ilmiolibro.kataweb.it

Vivere per caso non è vivere…

Nella casa in collina, ancora una volta Pavese ci parla del dissidio, del contrasto tra la solitudine contemplativa dell’intellettuale e le azioni che il momento storico e ideologico richiedono, e lo fa proprio attraverso Corrado (alter ego dello stesso Pavese) debole e irresoluto che non sa decidersi tra le tante antitesi poste nel romanzo:

Tra la città e la collina, Torino devastata dai bombardamenti mentre la collina risulta i locus amoenus dove Corrado può rivivere i ricordi dell’infanzia o l’amore passato con Cate, ma la storia nullifica questa opposizione.  Dopo l’8 settembre, con lo scoppio della guerra civile anche la campagna è attraversata dalla violenza e tutti sono chiamati a scelte drastiche e radicali. Significativa l’assenza di Corrado nel momento della retata e il suo successivo disimpegno, con la scelta di rimanere nascosto.

Chi si impegna e chi è vittima del dubbio e dell’incertezza, questa crisi riguarda sia la vita privata che quella pubblica di Corrado. Se egli non sa decidersi ad aderire alla lotta partigiana contro i repubblichini, sul piano personale subisce gli stessi tormenti. Questo contrasto reso ancora più evidente nel finale, quando il giovane Dino decide di abbandonare la sicurezza del collegio per entrare tra i partigiani, abbandonando Corrado nella sua incapacità di agire. Anche con Cate, il protagonista si pone innumerevoli domande per comprendere se il loro amore sia veramente finito, ma non fa nulla per riallacciare davvero il loro legame; dopo la retata, Corrado non saprà più nulla del destino della donna.

Quella tra l’uomo e la Storia, di cui la guerra è una metafora assai evidente ed esplicita. Qui la crisi interiore di Corrado si fa carico del pensiero dell’autore, rivelando una più ampia riflessione sul significato dell’esistenza umana, mettendo in relazione il valore della vita e il senso della morte, specie quella di natura violenta. Corrado non sa risolvere questo enigma, come notiamo nelle ultime righe del romanzo:

Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: – E dei caduti che facciamo? perché sono morti? – Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.

Soltanto per loro la guerra è finita davvero…

 La conclusione si fa introspezione, il detto diventa esame di coscienza del protagonista (e dello stesso Pavese) che dà una visione intellettuale e letterata, osservando l’insensata sofferenza della guerra e senza trovare giustificazione alle tante morti. Corrado comprende il dolore della condizione umana e dall’altro lato si rammarica della propria impotenza e dell’impossibilità di fermare la sofferenza collettiva, realizzando il paradosso della riflessione. Ed è proprio in queste ultime pagine che il velo si squarcia e diventa impossibile distinguere Corrado da Pavese, dove gli incubi e le paure dello scrittore si fondono con il personaggio da lui creato.

 

Gaetano Aspa 

Boris 4: stesse intenzioni, formula diversa

Questo revival vuole riportare la strampalata troupe ai giorni nostri, ci riesce seppur con risultati inaspettati. Voto UVM: 4/5

 

La fuori serie italiana torna dopo 11 anni dall’ultimo episodio della 3° stagione per cercare di accontentare tutti i fan ma soprattutto torna per aggiornare la situazione televisiva italiana dopo un’era in cui tecnologia e pubblico sono stati ben diversi. Grazie alla permanenza sulla piattaforma di Netflix di qualche anno fa, le prime 3 stagioni di Boris ebbero una seconda vita e quando la Disney ne acquisì i diritti, annunciò il 16 Febbraio 2021 il revival di questa serie.

Boris si è contraddistinto fin dall’inizio per i suoi personaggi caratteristici e per le sue citazioni. Di ogni puntata ne è rimasta la memoria fino ai nostri giorni, grazie anche alla loro durezza nei confronti del sistema italiano. Una satira capace di colpire in pieno tutte le debolezze nostrane in fatto di politica e di produzioni televisive. Sarà così anche per questo mondo un po’ più smart e politicamente corretto?

Lo streaming e il Lock

Da un po’ di tempo non si parla più di rete ma di piattaforma. Le multinazionali estere sono economicamente stabili e portare a loro un progetto significa arrivare a grossi e stabili guadagni per tutti i componenti della produzione. Bisogna però, come prima cosa, ottenere il Lock, ovvero l’approvazione del progetto ottenibile solo quando verranno rispettati tutti i requisiti richiesti dall’algoritmo. Insomma, un mondo nuovo porta a nuovi problemi che in Boris vedremo sviscerati, uno ad uno, nello stile a cui siamo stati abituati.

Boris tra inclusivity e TikTok

Ferretti: “DAI DAI DAI” “Ma che è successo?  [Alyson] Mi è sembrata incupita…”

Sceneggiatore (A. Sartoretti): “René le hai detto die die die, significa muori muori muori!”

Il mondo va avanti ma, come sappiamo, tutto rimane immobile in Italia. Si parla di inclusione per le minoranze e il numero di followers è quello che ora mai più conta per un personaggio di spicco. La troupe de “Gli occhi del cuore” e “Caprera” dovrà scontrarsi con un nuovo linguaggio che li tartasserà (soprattutto Biascica, interpretato da Paolo Calabresi) durante il lavoro. È importante utilizzare u finale per riferirsi a qualsiasi sostantivo per essere più inclusivi ed è anche necessario avere nel cast almeno un cinese e un africano per rispettare i requisiti minimi dettati dalla piattaforma.

Inoltre, è importante come ci si mostra: non solo di fronte alle telecamere ma anche sui propri social network. È importante pubblicare in brevi video momenti della vita privata e mostrarsi estroversi e simpatici. Magari con dei balletti divertenti o aforismi banali. Insomma tutte cose in linea con le personalità di Renè Ferretti (Francesco Pannofino) e Biascica, giusto per fare due esempi lampanti.

Boris
Frame dal trailer di “Boris 4”. A sinistra Diego Lopez (Antonio Catania), a destra Renè Ferretti (Francesco Pannofino). Regia: Giacomo Ciarrapico, Luca Vendruscolo. Distribuzione: Disney.

 

Boris: libertè, ugualitè e fraternitè

Troveremo i nostri beneamini invecchiati, cambiati ed alcuni anche scomparsi (si, deceduti sia realmente che nel mondo di Ferretti). Dopo pochi minuti dall’inizio del primo episodio la nostra amata troupe verrà a sapere della morte di Itala (Roberta Fiorentini) che commemoreranno in ricordo di tempi ormai andati. Inoltre, verrà anche omaggiata la scomparsa di uno dei 3 sceneggiatori della serie di Boris, il caro Mattia Torre, grande amico degli altri due autori, ovvero Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo, ma sulla sua commemorazione ci torneremo più tardi.

Biascica: “E si’ oggi Itala è morta è de tristezza… Perché nel nostro mondo è cambiato tutto. ‘E merde diventano capoccia… e allora io mi chiedo: dov’è finita la poesia de’ i set de na vorta?”

Ciò che è stato affrontato in parte dalla narrazione riguarda il ribaltamento di alcuni ruoli a noi ben noti, ma siamo stati abituati da sempre alla filosofia del “cambiare tutto per non cambiare niente” e infatti la conclusione di ogni personaggio è quella: la conferma che tutto sommato le cose devono rimanere com’erano.

Quello che ha reso “Boris – La fuori serie italiana” un cult è stata una scrittura fortemente ispirata al mondo italiano visto con un occhio critico ma rassegnato. Le sue prime stagioni caratterizzate da semplici sketch e una regia limitata dal budget riuscivano a trasmettere con grande impatto il dietro le quinte di un mondo da sempre sconosciuto agli occhi dei telespettatori. Prima di questo revival sembrava quasi che fosse stato detto tutto. Gli autori Ciarrapico e Vendruscolo sono riusciti a mostrare nuove criticità ed anche nuove speranze in chi crede nell’arte e nella qualità. Abbiamo notato quanto gli autori abbiano provato a cambiare rotta senza stonare con lo spirito iniziale, seppur il citazionismo e la satira si sprecano ad ogni scena.

Che stamo a di’

sceneggiatore 1: “collega com’è l’inferno?”

sceneggiatore 2 (V. Aprea):“mah, ti dirò alla fine non è male. è pieno di quarte stagioni”

Credo che non si possa parlare di una 4° stagione di Boris senza il confronto con il passato. Anche solo parlare dei significati dietro lo sceneggiato non sarebbe bastato – comunque ce ne sarebbe molto da dire solo per quelli – e soprattutto il finale di stagione riporta un messaggio immenso per chi ama l’arte e per chi l’arte la fa. Si potrebbe quasi dire che l’intera stagione sia stata scritta in memoria dello sceneggiatore Mattia Torre, tanto amato sia dal cast che da Vendruscolo e Ciarrapico. E crediamo che lo abbiano commemorato nel migliore dei modi possibili. A proposito di nuove speranze, è qui che gli autori di Boris hanno voluto dare uno spiraglio di luce dalla cima di un pozzo che sembrava davvero lontana. La follia, la tenacia e un po’ di capacità prensile potrebbero aiutare a infrangere gli schemi e provare a compiere una fatica dai risultati insperati.

Boris
Frame dal trailer di “Boris 4”. Da sinistra: Duccio (Ninni Bruschetta), Backstage, Renè Ferretti, Biascica (Paolo Calabrese), Arianna (Caterina Guzzanti). Regia: Giacomo Ciarrapico, Luca Vendruscolo. Distribuzione: Disney.

 

Arianna: “Vuoi girare la scena del battesimo vero? Oggi non ce la facciamo… mi dispiace, te lo dico.”

Ferretti: “… ce la facciamo, Arianna. Alla fine ce la facciamo sempre.”

 

Crediamo che questa stagione non abbia lo stesso animo da “meme” tanto amato dai fan, quello su cui hanno voluto puntare questa volta è stato un prodotto ben orchestrato che lascia un senso di malinconia ma anche di rivalsa. Lascia un’energia contagiosa, una voglia di poter ribaltare le sorti mettendoci un pizzico della nostra locura. Infine, crediamo che questo prodotto confezionato da Disney non sarà ricordato nelle future generazioni per la sua irriverenza, ma per il suo animo unico e carismatico.

 

Salvatore Donato

Banana Yoshimoto ci racconta un legame indissolubile ne “Le strane storie di Fukiage”

 

Banana Yoshimoto ha lo strano potere di trasformare ogni suo racconto in un viaggio intimo,  con un linguaggio semplice ma mai banale che ti lascia quel velo di dolce malinconia– Voto UVM: 4/5

 

La scrittrice giapponese Mahoko Yoshimoto, in arte Banana Yoshimoto, ritorna nello scenario letterario italiano con il nuovo romanzo Le strane storie di Fukiage, pubblicato questo mese da Feltrinelli per la collana I Narratori.

Chi è Banana Yoshimoto

La scrittrice di Tokyo, figlia di uno dei più importanti poeti e critici letterari giapponesi degli anni Sessanta, trova la sua fama in Italia nel 1991 con la traduzione dell’opera Kitchen, edito da Feltrinelli. Da qui, la si vede spesso tra gli autori di Best Sellers grazie a romanzi di un certo spessore introspettivo come NP (1992, Feltrinelli), Le sorelle Donguri (2010, Feltrinelli), Il dolce domani (2020, Feltrinelli).

La storia delle gemelle di Fukiage

Il nuovo romanzo è ambientato a Fukiage, città natale delle due sorelle gemelle eterozigote, Kodachi e Mimi. Seppur simili d’aspetto, caratterialmente sono l’una l’opposto dell’altra, la prima più pacata ed elegante nei modi di fare, la seconda più impulsiva.

Ma un tragico evento segna per sempre la loro vita: a causa di un incidente stradale, il padre muore e la madre entra in uno stato di coma dal quale non si vuole svegliare. 

 “Le strane storie di Fukiage”. copertina. (romanzo di Banana Yoshimoto, 2022, Feltrinelli editore). Fonte: feltrinellieditore.it

Kodachi e Mimi vengono così affidate ancora giovani ad una coppia di presunti parenti della madre, proprietari di un piccolo negozietto artigianale nella stessa Fukiage. Ma l‘accoglienza ricevuta non è delle migliori: la moglie Masami le tratta da sconosciute, quasi infastidita dalla loro presenza in casa.

La voglia di libertà, di cambiare aria, porta le sorelle alla decisione di trasferirsi lontane da casa, a Tokyo, prendendo in affitto un piccolo appartamento accanto all’università che iniziano a frequentare. Il loro unico desiderio è quello di rimanere unite, nonostante le condizioni in cui riversa la madre, che le trascinano in un loop infinito di tristezza e sensi di colpa. 

La vita trascorre tranquilla e questo per Mimi è una vera e propria benedizione, ma non può mai immaginare che l’uscita serale di una qualunque giornata autunnale sarà l’ultima volta in cui vedrà Kodachi. Di lei rimane solo un biglietto che lo zio Kodama trova in casa, dopo aver passato la sera precedente in compagnia della moglie e della nipote. 

Kodachi sembra aver scoperto qualcosa sul coma della madre, ed è molto decisa a rivelarne la verità.

«Sapevo bene che non c’è niente che gli esseri umani temano quanto il riaffiorare di un desiderio cui avevano già rinunciato»

Un viaggio nell’io interiore tra realtà e immaginazione: lo stile unico di Yoshimoto

A differenza di quanto si possa pensare, la narrazione si apre già con la scomparsa della sorella di Mimi, che ci lascia così in sospeso su un filo sottile, in pieno limbo. Cosa sia successo prima lo scopriremo più avanti, in un ritmo incalzante di eventi che si susseguono su una linea temporale ideale. La lettura è scorrevole e molto leggera, con molti flashback che la protagonista rivive in prima persona, lasciandosi travolgere dal sapore amaro del passato.

I riferimenti al folklore giapponese ci portano direttamente nel Paese del Sol Levante, facendoci respirare i profumi avvolgenti dell’antica cultura tradizionale. Impossibile non proiettarsi accanto alla stessa Mimi, che ci tiene per mano durante tutto il suo cammino, fatto di curve pericolose e di salite senza fine: la rappresentazione della crescita personale a cui si fa fronte nel viaggio chiamato “vita”.

Con elementi magici e di fantasia, lo stile di scrittura è quello tipico di Banana Yoshimoto: il linguaggio semplice ma diretto, che ti scava dentro, che mette a nudo le tue debolezze e ti costringe a fare i conti con la realtà circostante. Ma è uno stile anche leggero, senza essere superficiale, in grado di trascinarti all’interno della trama e tenerti incollato per tutto il tempo alle pagine del libro. È un racconto intimo e personale, quasi liberatorio, accarezza l’anima e fa dubitare delle proprie sicurezze.

Narra di sofferenza, di rinascita, del terrore della perdita e dell’amore stesso, di sentimenti contrastanti: li posa davanti ai tuoi occhi come candide fotografie e li esprime con la delicatezza di chi non vuol fare rumore ma sembra volerti segnare dentro.

Per chi vuole intraprendere un viaggio introspettivo, alla ricerca di domande e di risposte, Le strane storie di Fukiage di Banana Yoshimoto è il biglietto di sola andata.

Victoria Calvo

“Il signore delle formiche”: una storia che ha segnato la collettività

Un film profondo che riflette il dramma politico e sociale dell’epoca – Voto UVM: 5/5

 

Ci sono storie che, nolenti o dolenti, segnano il carattere di una società. Nel film Il signore delle formiche il regista Gianni Amelio ci fornisce la rappresentazione del caso realmente accaduto di Aldo Braibanti, giornalista, drammaturgo e poeta accusato di plagio nel 1968, un anno chiaramente segnato da continui scontri nelle maggiori piazze d’Italia ad opera dei movimenti politici estremisti e dalle rivendicazioni dei movimenti studenteschi. L’accusa in realtà, è solo uno specchio per le allodole. Il vero motivo del processo riguardava l’omosessualità di Braibanti.

Il film, che è stato presentato in anteprima alla 79esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, assume una forte vena critica nel raccontare come si poneva il Paese di fronte al tema, cogliendone tutto lo spirito contraddittorio dell’epoca.

Sinossi

La prima parte della narrazione si svolge nelle campagne emiliane nel 1959, tra le mura del torrione Farnese di Castell’Arquato, dove il drammaturgo crea uno spazio aggregativo per i giovani, che funge anche e soprattutto da laboratorio artistico. Egli, inoltre, è uno studioso di formiche, tanto da ottenere la fama di esperto mirmecologo.

In questo contesto avviene l’incontro con Ettore (interpretato da Leonardo Maltese), un giovane ragazzo che inizia a interessarsi di libri grazie all’influenza dello scrittore. Attraverso digressioni filosofiche sull’esistenza e poesie scritte appositamente per Ettore, tra i due nasce un’alchimia che non passerà inosservata,

Sarà proprio questa la causa scatenante del processo per plagio, portata avanti dalla madre del giovane.

Luigi Lo Cascio. Fonte: Rai Cinema

L’accusa é quella di aver sottomesso alla sua volontà, sia in senso fisico che psicologico, il suo allievo e successivamente compagno. A stabilirlo l’articolo 603 del codice penale che punisce “chiunque avesse sottoposto una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione”. In realtà si tratta solo di un escamotage per celare quella che è un’accusa di omosessualità.

A denunciare Aldo è proprio la famiglia di Ettore che viene portato in un ospedale psichiatrico con lo scopo di sottoporlo a devastanti elettroshock, la “cura” dell’epoca per “guarire” dall’influsso del “diabolico”. Questo particolare viene marcato dalle dichiarazioni della madre durante il processo.

 

Elio Germano. Fonte: Rai Cinema

Spostando la narrazione sul piano giuridico-sociale, il regista ci fornisce un quadro abbastanza chiaro dell’ipocrisia culturale dell’epoca, dovuta soprattutto all’influenza della Democrazia Cristiana.

Solo un uomo e una donna reagiscono all’indifferenza generale e decidono di aiutare Aldo. Uno è il giornalista Ennio Scribani (interpretato da Elio Germano) de L’Unità, che non sarà avulso da continue prese di mira da parte del direttore della testata che intende distogliere l’attenzione dal caso (anche qui, il regista ci ricorda dell’ipocrisia del maggiore partito di Sinistra dell’epoca).

E l’altra è Graziella (interpretata da Sara Serraiocco), giovane attivista politica che manifesta per rivendicare un cambiamento culturale. La particolarità del suo atteggiamento ricorda – per certi aspetti – le mosse del Partito Radicale Italiano i cui principali esponenti furono Emma Bonino e Marco Pannella.

Da premiare, a questo proposito, l’omaggio alla Bonino, realizzato inserendo un suo fermo immagine che scorre brevemente durante il discorso di Graziella all’esterno del tribunale. In merito a ciò, il regista ha dichiarato:

“Ho saputo da Emma Bonino che nel ’68 non faceva assolutamente parte del Partito Radicale. Lei mi ha chiesto:  «Perché vuole me quando potrebbe prendere un sosia giovane di Pannella?»  Perché vorrei raccontare della lotta che hanno fatto i radicali per la storia di Braibanti. Questo partito ha fatto cancellare nel 1981 il reato di plagio. Volevo rendere omaggio al Partito Radicale, mi sembrava più degno far vedere una Emma Bonino come è oggi piuttosto che un sosia di Pannella. “

 

Emma Bonino. Fonte: Rai Cinema

La tragica ipocrisia moderna

“Dietro una facciata permissiva, i pregiudizi esistono e resistono ancora, generando odio e disprezzo per ogni ‘”irregolare’” Non abbiamo sconfitto certi demoni che erano e tutt’ora sono all’interno della società perbenista.”

Con queste parole, Gianni Amelio restituisce allo spettatore il quadro di un’epoca contaminata dalle storture di un pensiero retrogrado che, purtroppo, si è protratto negli anni. Forse oggi potremmo dire che non è più come prima, eppure il film ci invita a non distogliere l’attenzione né la preoccupazione, visti i frequenti casi di omofobia nel nostro Paese.

Dalla fotografia impeccabile di Luan Amelio Ujkaj  all’interpretazione magistrale ed empatica del cast – in particolare Lo Cascio che mostra un Braibanti con la schiena dritta dinanzi le accuse, consapevole del fatto che per certe persone vige il dovere indispensabile di rispettare gli ordini – passando per la costruzione della sceneggiatura e l’ambientazione, Il signore delle formiche ci mostra, un passo alla volta, l’amore verso l’amore, separando l’attrazione sentimentale da quella intellettuale, stimolando la curiosità verso la società di una volta e quella attuale.

Un racconto che funge da canale di istruzione e de-costruzione del paradosso culturale, denunciando il bigottismo e ogni forma di violenza.

 

Federico Ferrara

Marracash contro le maschere della società

Marracash ha ormai raggiunto la sua maturità artistica, e senza peli sulla lingua si fa psicanalista di una società ormai in frantumi. Voto UVM: 5/5

 

Noi, loro, gli altri è il riflesso di una società frammentata e caotica: un mondo in cui si rivendica il diritto all’identità, ma allo stesso tempo si perde la visione d’insieme.

Nel nuovo album Marracash sposta i riflettori dalla visione intima e introspettiva di Persona al mondo esterno, contro quel brutale Squid Game in cui ci troviamo costantemente immersi.

Oggi che tutti lottiamo così tanto per difendere le nostre identità
Abbiamo perso di vista quella collettiva
L’abbiamo frammentata
Noi, loro e gli altri
Noi, loro e gli altri
Persone
(“Cosplayer” )

È ancora presente quel senso di vertigine di una realtà fatta d’incertezze, in cui tutti abbiamo l’esigenza di indossare una o più maschere, perché in fin dei conti siamo solo degli attori in questo grande teatro che è la vita. In passato fu Pirandello a dire che ognuno di noi indossa delle maschere: una per la famiglia, una per la società e una per il lavoro, per poi riscoprirsi nessuno quando resta solo. È proprio da questo concetto che il rapper di Barona sembra partire per la costruzione del disco.

Metti una maschera sopra la maschera che già ti metti ogni giorno
(“Io” )

Lo scheletro dell’album

Il brano d’apertura, Loro, fa riemergere alcune ferite del nostro Paese come il caso Aldrovandi e la “macelleria messicana” della Diaz. Mentre Pagliaccio, una traccia dalla tecnica sopraffina, è un attacco ai nuovi rapper-clown e a quella “musica di plastica” contemporanea. Il tutto accompagnato dal campionamento di Vesti la giubba, un’aria dell’opera Pagliacci di Ruggero Leoncavallo. Si prosegue con un pezzo sull’amicizia, Love con l’immancabile Gué e con il sample di Infinity di Guru Josh del 1990.

Marra in quest’album si dimostra più versatile che mai. I pezzi non seguono gli schemi standard. Non c’è necessariamente una strofa, seguita dal ritornello, poi da un’altra strofa e magari dall’outro.

“Ha stabilito un nuovo margine, una nuova ampiezza di comunicazione.”  ( Ernia su Marracash)

Ne è un esempio Noi, la ghetto story dell’album che trasforma il rapper in una sorta di cantautore urbano, un De André della Z Generation.

La sua versatilità emerge anche nel cantato, in particolar modo con Io, un brano intimo ed esistenzialista campionato su Gli angeli di Vasco Rossi, che riflette sempre sul concetto pirandelliano delle maschere.
Non è però l’unico pezzo introspettivo dell’album. Anche in Dubbi e in Nemesi (ft. Blanco), il rapper redivivo torna a dialogare con sé stesso, e lo fa in una maniera lucida e appuntita.

Frase di “Nemesi”. Dal profilo instagram di Marracash

Marracash non rappa: psicanalizza

Il rap nudo e crudo di Marracash torna con Cosplayer, che riassume perfettamente lo spaccato sociale che stiamo vivendo. In questo pezzo il rapper non risparmia nessuno, tanto meno il collega rapper-influencer Fedez che a detta di Marra «sposa la causa solo quando gli conviene», contrariamente a quanto invece farebbero lui o la sua ex ragazza.

“Non è una cosa personale. Io e lui abbiamo visioni della vita opposte e antitetiche. Lui rappresenta quelli che si impegnano oggi per una cosa e domani per un’altra senza avere credibilità, senza conoscere il problema. Io posso parlare di galera perché conosco chi ci è andato. Elodie può parlare di gay perché lo sono persone della sua famiglia.” (Marracash su Fedez)                        

Elodie torna poi ad essere la protagonista in Crazy Love, in cui Marra accompagnato da Mahmood (feat nascosto), racconta la loro storia d’amore ormai conclusa. Anche il video diventa un’opera di alto livello, in cui i due si uccidono, coverizzando la performance “Rest Energy” di Marina Abramovich, e chiudendo il loro rapporto nel modo più struggente possibile!

“Ci siamo conosciuti sul set di un video e abbiamo pensato che sarebbe stato bello chiudere il cerchio con un altro video.”  (Marracash a proposito della sua storia con Elodie)

A sinistra Marracash ed Elodie, a destra Marina Abramovich e Ulay. Fonte: informazione.it

Si raggiunge l’apice della perfezione con lo skit Noi, loro, gli altri, in cui Fabri Fibra (che contenderebbe a Marra il trono di king del rap) riassume in meno di un minuto il senso intero dell’album.

Il cerchio si chiude con Cliffhanger, una rappata potente e massiccia sopra un campionamento sorprendente de l’Aida di Giuseppe Verdi.

Le copertine: il cuore del concept

L’album è stato presentato con tre diverse cover, che rappresentano le tre dimensioni possibili.

Nella prima il rapper è insieme alla sua famiglia, oltre che alla manager e all’ex fidanzata Elodie, che gli è stata accanto durante la lavorazione.

Nella seconda è con i discografici, l’avvocato e il commercialista. E a differenza della prima si percepisce una certa tensione.

Nella terza lo vediamo da solo, mentre “gli altri” gli passano accanto.

L’uomo è costretto ad indossare le tre maschere pirandelliane proprio perché le dimensioni con cui entra ogni giorno in contatto sono tre: famiglia (noi), lavoro (loro) e società (gli altri).

L’unico punto in comune delle tre cover è la presenza costante di Marracash, di Fabio che ci vuole far capire che non si può scappare dal confronto con gli altri. L’uomo avrà sempre un legame con il prossimo.

Io so solo che volevo essere uno di loro
Per non essere come tutti gli altri
Ma nella vita mi è successo di essere
Sia noi
Che loro
Che gli altri

Domenico Leonello

A Classic Horror Story: tra horror e realismo

Un classico horror non banale che va a scovare gli orrori della società – Voto UVM: 5/5

Come ormai sapete, noi di UVM, abbiamo partecipato al 67esimo Taormina Film Fest, un onore per tutti noi, un’esperienza che ha dato maggiore prestigio alla nostra redazione.

Tra i tanti film presentati durante la rassegna, vi è stato A Classic Horror Story, primo film horror prodotto da Netflix proiettato al quarto festival più antico al mondo. Insomma, un privilegio: è sempre bello essere tra i primi, ma soprattutto essere ricordati per aver assisitito alla premiere di un film non banale – anzi- pieno di colpi di scena e di suspence, che l’hanno reso ancora più memorabile.

I tre redattori di UVM assieme alla protagonista Matilda Lutz.

Ma di cosa parla il film? Chi fa parte del cast? Chi sono i registi? Non preoccupatevi, tra un po’ le vostre domande avranno una risposta.

A Classic Horror Story (2021)

Il 14 Luglio, uscirà sulla piattaforma streaming Netflix “A Classic Horror Story”, pellicola di genere horror – come si deduce dal titolo. 

Cari lettori, parto dicendo che l’horror è il mio genere preferito e da un paio di anni non è stato prodotto un horror (fatta qualche eccezione) che mi abbia soddisfatto appieno, ma questa perla firmata Netflix, ha sodisfatto appieno le mie aspettative. Dietro la cinepresa troviamo ben due cineasti, i loro nomi sono Roberto De Feo e Paolo Strippoli, due giovani registi che con la loro arte e simpatia sono arrivati a raggiungere un traguardo che in pochi possono vantare-difatti l’ultima notte del festival di Taormina, i due sono stati premiati per la miglior regiaportandosi a casa l’ambito Toro d’Oro.

Roberto De Feo e Paolo Strippoli, alla prima di ” A Classic Horror Story” . © Alessia Orsa

Il cast, è già noto al pubblico: Matilda Anna Ingrid Lutz, Francesco Russo, Peppino Mazzotta, Will Merrick (II), Yuliia Sobol.

La bellissima Matilda, protagonista della fortunata pellicola, interpreta la giovane e sfortunata Elisa che è in viaggio con un gruppo formato da un medico, una giovane coppia e l’organizzatore della spedizione.

Il film è ambientato in Calabria (terra dell’antica Magna Grecia), ma girato interamente in Puglia. Tornando alla trama, lo sfortunato gruppo, durante la guida, per non colpire la carcassa di un animale morto, perde il controllo del mezzo e si schianta contro un albero; da lì in poi il film si farà più cupo e il telespettatore percepisce ansia e paura per il gruppo.

Cari lettori mi fermo qui, non voglio dilungarmi troppo: dovrete attendere il 14 e toccherà a voi giudicare il film o semplicemente gustarvi la pellicola.

Musica

Un punto fondamentale di questo horror, è la musica: in fondo quest’ultima dà un tocco in più alle opere cinematografiche.

Il film si apre e si chiude con la voce di Gino Paoli  nella canzone Il cielo in una stanza, una delle canzoni più belle del panorama musicale italiano. Durante tutta la durata della pellicola, la musica si fa inquietante creando tensione e ansia nel telespettatore: i due registi hanno giocato bene le loro carte anche musicalmente.

Tematiche

Il film oltre ad incarnare il classico horror, è riuscito a ritrarre bene anche la nostra società attuale. I due temi principali sono quello della mafia e della pornografia del dolore. Il primo è un morbo che soffoca la nostra terra, in cui l’omertà è legge; il film è riuscito in modo ironico a “schiaffeggiare” questo morbo, mostrandoci come essa sia il vero horror.

I due registi durante la conferenza stampa hanno dichiarato che loro stessi hanno voluto trattare il tema della mafia e non Netflix. Il film si pone quasi come una presa in giro verso la ndrangheta e gli stessi De Feo e Strippoli hanno ammesso di essere stati costretti  nominare la Calabria per ragioni «folkloristiche», ma in fondo l’Italia in generale viene associata all’estero con la mafia. Insomma, i soliti cliché, che, anzichè sconfiggere la mafia, ne fanno una «glorificazione» che la rende ancora più grande.

“A Classic Horror Story”: locandina. Fonte: Netflix

Altro tema centrale è la pornografia del dolore, che è andata a fortificarsi con l’avvento dei social. I due registi sono riusciti in modo sublime e con sarcasmo a descrivere questa tematica che oramai attanaglia tutti noi. Per chi non lo sapesse, la pornografia del dolore è quella tendenza di trarre godimento dal dolore altrui e rimanere inermi, ma pronti a documentare il tutto con il proprio cellulare, pronti a condividerlo nelle proprie storie e bacheche.

Forse i due registi hanno voluto dire che ormai è la nostra società ad essere diventata “un classico horror” e non solo le opere cinematografiche e letterarie di questo genere. Un horror che va a rompere la patina di un mondo che vive di immagine, rappresentazione e in cui l’empatia pian piano viene dimenticata.

 

                                                                                                                  Alessia Orsa

“Duecento giorni di tempesta”: il nuovo romanzo della scrittrice messinese Simona Moraci

 Duecento giorni di tempesta” è l’ultimo romanzo della giornalista e insegnante messinese Simona Moraci. L’autrice, che vanta una lunga carriera ventennale da giornalista (redattrice del quotidiano “la Gazzetta del Sud), intraprende la tortuosa – e meravigliosa – strada dell’insegnamento.  Dopo aver pubblicato i romanzi “I confini dell’anima” (1996) e “Giornalisti, e vissero per sempre precari e contenti” (2014), la scrittrice torna nelle librerie e store online con un romanzo, pubblicato dalla casa editrice Marlin, che affronta il delicato tema della scuola, in particolare della scuola di “frontiera”.

Sonia e i suoi duecento giorni di tempesta

Ed è Sonia, protagonista e voce narrante, che coinvolge il lettore nei suoi duecento giorni di tempesta. La protagonista è una giovane docente che viene catapultata in una scuola particolarmente ostica, all’interno di un pericoloso quartiere siciliano dimenticato dalle istituzioni. Sonia, che ancora combatte con i demoni del suo passato, si rende presto conto della grave situazione di disagio che vivono i ragazzi e le ragazze della scuola. I suoi alunni, o i “suoi bambini” come ama chiamarli, sono gli emarginati, gli ultimi, condannati dal contesto sociale in cui sono nati. Violenza, frustrazione, dolore e rabbia sono i sentimenti che animano i suoi bambini, costretti a crescere in un quartiere – come tanti nel sud Italia – stritolato dalla malavita.  Sonia comprende di essere l’unico punto di riferimento per i suoi alunni, prova a scolarizzarli e a instaurare con loro un rapporto che vada ben oltre il rigido ruolo insegnante – alunno, nonostante le grosse difficoltà e i fallimenti iniziali.

L’autrice racconta la scuola di “frontiera”

Simona Moraci ha il pregio di raccontare non soltanto la sua storia, ma quella di molti insegnanti che ogni giorno sono costretti a lavorare in un ambiente violento e senza alcun tipo di supporto.  Gli insegnanti risultano abbandonati e con mezzi non sufficienti per affrontare le problematiche non solo della scuola, ma soprattutto di un quartiere ai margini della vita civile. Essi sono costretti ad insegnare in un ambiente che non li tutela abbastanza; spesso sono vittime non solo di violenza verbale, ma anche fisica. I docenti rappresentano per questi ragazzi l’unico barlume di speranza e di parvenza di legalità. Compito che risulta estremamente complicato: i ragazzi sono abituati alla violenza, all’illegalità, alla mancanza di rispetto per l’autorità. Molti di loro sono cresciuti all’interno di una mentalità criminale, presentando un comportamento disfunzionale ed evidente, e anche ovvia, è il disinteresse delle famiglie. Una delle chiavi per aprire i cuori dei ragazzi “esplosivi” è l’amore: “l’amore è l’unica via per uscire dal buio”. Sonia ripete più volte questo leit motiv, anche quando lo sconforto e la frustrazione sembrano prendere il sopravvento.

Simona Moraci, l’autrice del romanzo

L’autrice sottolinea: ‹‹questo romanzo nasce dalla mia esperienza maturata negli ultimi anni di “frontiera”, nelle scuole di quartieri a rischio. E’ come un universo a sé stante: tutti i sentimenti, le emozioni sono amplificati e occorre trovare un equilibrio “nuovo”. La mia passione per la scrittura e il mio amore per l’insegnamento mi hanno a raccontare di rabbia e innocenza, di pianto e risate, di questi bambini straordinari e fuori da ogni schema. In particolare, l’affetto nei confronti dei ragazzi è stato uno stimolo potente. L’amore è l’unica via per uscire dal buio.››

Un pericoloso triangolo

Durante l’anno scolastico, Sonia si ritrova in un tempestoso triangolo amoroso che scoprirà soltanto successivamente essere più grande, complicato e intenso di quanto possa inizialmente immaginare. La protagonista, dopo la grandissima delusione del suo precedente e unico amore, cade nella tempesta di questi due amori tanto diversi quanto imprevedibili e coinvolgenti. Andrea, insegnate di Arte di bella presenza e dal carattere fortemente espansivo i cui occhi celano una rabbia nascosta e repressa, e Stefano – anche lui suo collega insegnante – riservato e sfuggente, poetico e disilluso, che rappresenta l’opposto di Andrea, due volti diversi dell’amore. Ma i due colleghi insegnanti nascondono qualcosa di più, già si conoscono e lasciano intendere a Sonia – e di conseguenza al lettore – che il loro passato, cupo e misterioso, è in qualche misura legato. Sonia è ancora tormentata dalle esperienze che ha dovuto affrontare: dal rapporto complicato con la sua famiglia, dal suo primo e unico amore che l’ha distrutta lentamente e dall’immisurabile dolore della perdita di un figlio nato prematuramente. A Sonia serviranno duecento giorni di tempesta per rinascere, trovare un equilibrio interiore e aiutare i ragazzi ad immaginare un futuro migliore e alternativo a quello che il quartiere offre loro.

 

Francesco Benedetto Micalizzi

 

 

Link per il libro: https://www.marlineditore.it/shop/83/83/1879_duecento-giorni-di-tempesta.xhtml?a=117

 

Mr e Mrs Smith: quando l’amore è a primo ciak

 

Action-comedy fine e garbata, ricca di fascino e seduzione. Voto UVM: 5/5

 

Innamorarsi alcune volte sembra una grande sfida, altre volte invece una missione impossibile, altre ancora sembra naturale e spontaneo. Insomma, ogni relazione amorosa ha la propria storia, piccola o grande che sia. C’è chi si innamora tra le viuzze di un paesino, chi su una vecchia panchina, chi di fronte ad un buon calice di vino e chi invece sul set di un film. Quello tra Angelina Jolie e Brad Pitt fu amore a primo ciak. Voi lo sapevate?

 

Fonte: pinterest.it

Due killer uniti in matrimonio

Nel 2005, precisamente il 10 giugno esce al cinema Mr. & Mrs. Smith del regista Doug Liman. Il film è un centrifugato di bellezza esasperata, azione e commedia sentimentale che vede le due star hollywoodiane nei panni di John e Jane Smith. I due sono sposati da circa cinque o sei anni, in realtà nemmeno lo ricordano bene, come non ricordano neppure l’ultima volta che hanno fatto l’amore.

Dentro la prima inquadratura i due coniugi confessano al proprio analista – e a noi spettatori – le loro ostilità. Mr. & Mrs. Smith però nascondono un segreto molto importante che decidono di non rivelare neppure al loro terapeuta: i due sono dei brillanti e astuti killer che lavorano per delle agenzie rivali.

“Abbiamo dei piccoli segreti, ognuno di noi ha un segreto”

Il colpo di scena subentra nel momento in cui, un giorno durante una missione ed entrambi con lo stesso bersaglio, finiscono per identificarsi facendo saltare ogni copertura. Le due agenzie rivali ordinano di eliminare l’altro killer ma i due riscoprono di piacersi proprio durante delle lotte domestiche con armi da fuoco, al fine di distruggere l’avversario.

Tra intervalli ricchi di colpi, esplosioni e inseguimenti in auto, finalmente i due si ritrovano più innamorati di prima, lasciandosi alle spalle la brutta crisi che li aveva colpiti.

Si è creato un gran baratro fra noi due, e diventa sempre più profondo a causa di tutto quello che non ci diciamo. Come si chiama questo?”

L’amore non è bello se non è litigarello, si dice così? In questo caso sarà combattuto fino alla fine e verrà arginata qualsiasi minaccia di crisi, lasciando spazio al desiderio, alla passione e la voglia di viversi ancora.

 

Fonte: blogspot.com

Fuoco e fiamme

Lo sappiamo bene, la passione nasce spesso da una scintilla, ma tra Mr. & Mrs. Smith ne abbiamo vista più di una. Eppure, come si dice in questi casi: tutto è bene quel che finisce bene.

Ma adesso parliamo di incassi, siete pronti? L’incasso globale del film è stato di 478.207.520 dollari. Angelina e Brad per partecipare al film hanno ricevuto un compenso di 20 milioni di dollari a testa. I premi attribuiti sono stati i seguenti: 3 Teen Choice Award per la Miglior attrice per la categoria Azione/Avventura/Thriller (Angelina Jolie), Miglior mentitrice (Angelina Jolie) e Film più rumoroso; l’ASCAP Award per il Miglior risultato al botteghino e un MTV Movie Awards per il Miglior combattimento.

Tra tutti i premi ci piacerebbe aggiungere anche l’incontro tra Angelina e Brad che lascia spazio al reale matrimonio avvenuto il 23 agosto del 2014.

 “La prima volta che ci siamo visti, dimmi che hai pensato.”

“Dimmelo tu.”

“Io ho pensato che eri bella come una mattina di Natale. Non saprei come dirlo diversamente.”

“E perchè me lo dici proprio adesso?”

“Forse alla fine uno ripensa all’inizio.”

 

Fonte: blogspot.com

Centoventi minuti di inarrestabile passione e colpi di scena

Un action-comedy assolutamente brillante e impeccabile, in cui i vari generi si intrecciano e si amalgamano perfettamente al ruolo dei due protagonisti. Belli, ribelli e super giovani! A prima vista il film sembra appartenere alla classica famiglia del genere americano di spionaggio, ma questa prima impressione lascia subito spazio ad altre considerazioni. La pellicola è studiata in maniera fine e garbata, ricca di seduzione e fascino.

Sapevate che Il Signor e la Signora Smith sono già esistiti sullo schermo? Ebbene sì, sotto il profilo di Carol Lombard e Robert Montgomery nel film comico di Hitchcock del 1941. I due prodotti però sono molto diversi e non si tratta di un remake. Ciò che hanno in comune le due pellicole è la storia di fondo, in cui i protagonisti vivono la famosa e triste crisi di matrimonio segnata successivamente da una regolarizzazione.

Annina Monteleone