Baldur’s Gate 3: perché è una meraviglia?

A più di due mesi dall’uscita, Baldur’s Gate 3 continua ad essere uno dei giochi più seguiti e cercati sui social.
La cosa strana è che non si è trattato di un colossal con dietro un’impressionante macchina del marketing, né di un gioco che cercasse di creare un’esperienza diluita ed annacquata per le masse.

Baldur’s Gate 3 è infatti un’opera complessa in cui decine di sistemi interagiscono tra di loro ed in cui ogni giocatore può decidere di creare la propria storia in ogni dettaglio.
Ciò che ha stupito i videogiocatori è la quantità di dettagli, le migliaia di possibili diramazioni che può prendere la trama e il controllo che si ha su tutta la propria esperienza di gioco.

“Crea il tuo personaggio”. Fonte: wotpack.ru

Baldur’s Gate 3 è il seguito di due giochi usciti tra la fine degli anni ’90 e i primi 2000 che, già da allora, avevano ridefinito il genere. Per decenni sono rimasti imbattuti, fino ad un azzardo da parte di Larian nel 2015.

Il genere dei giochi di ruolo complessi sembrava non interessare più le grandi produzioni che si dedicavano a progetti cinematografici dediti all’azione. Molti appassionati tornavano ad opere del passato o a piccole produzioni del panorama indie.

Swen Vincke, fondatore e CEO di Larian, era convinto di non essere l’unico sul mercato a volere il ritorno di un certo tipo di esperienza e, nel 2015, pubblica Divinity: original sin. Si innescò, così, una reazione a catena che avrebbe dato origine al ritorno in auge dei GDR complessi e stratificati.

Larian bussò poi alle porte di Wizards of the Coast, i detentori dei diritti di Dungeons & Dragons, il più famoso gioco di ruolo del mondo, presentando loro il loro progetto più ambizioso di sempre: un nuovo gioco di ruolo, più vicino che mai alla vera esperienza da tavolo di D&D.

Tirate un D20!

Baldur’s Gate 3 è un gioco di ruolo con visuale dall’alto e combattimento a turni. Riporta in maniera fedelissima le regole dei manuali ufficiali della quinta edizione di Dungeons & Dragons, ed è ambientato nello stesso mondo.

L’esperienza prevede (come al tavolo da gioco) la creazione di un personaggio a partire dalla scelta tra 13 razze e 12 classi. Ogni azione significativa viene decisa dal tiro di un dado a 20 facce, che determina successi o fallimenti. A partire da questi pochi elementi si viene a creare una storia interattiva, in cui l’interazione del giocatore con mondo e personaggi determina la progressione.

La grandiosità di Baldur’s Gate 3 sta nel fatto che queste poche regole, a cui viene aggiunta l’immaginazione quando si gioca al tavolo con gli amici, vengono usate alla stessa maniera anche in questo contesto virtuale, dando comunque la sensazione di avere le stesse immense possibilità sia nel videogioco che al tavolo.

Per tutta la durata del gioco si ha la sensazione di poter procedere seguendo una semplice regola:

“Se voglio tentare qualcosa basta trovare una maniera per realizzarla, sfruttando improvvisazione e spirito d’iniziativa”.

Ruba, corrompi, combatti, scava il tuo cammino con le parole invece che con la violenza. Basta solo usare la propria immaginazione e flettere le regole a proprio piacimento!

Combatti contro svariati nemici…

Caos e controllo: un racconto a rete

Lo stesso concetto di flessibilità è valido non solo per la generale interazione con il mondo di gioco, ma anche per la narrativa.

L’avventura presenta migliaia di snodi narrativi che arricchiscono e plasmano l’esperienza creando una incredibile ragnatela di eventi. Il risultato che si viene a creare è quello di una trama che non risulta mai uguale per ogni singolo giocatore. Gli svariati obiettivi sono inoltre collegati tra di loro e le varie missioni si ricollegano tra di loro in base alle azioni compiute. Ogni personaggio che incontriamo durante l’avventura può essere incrociato in svariate maniere, con decine di opzioni di dialogo e risultati per quasi ogni incontro o snodo narrativo. Ogni atto rappresenta una rete più intricata del precedente. Solo sul finale questa ragnatela enorme si restringe su alcune scelte che fanno perdere l’illusione della scelta, ma si tratta degli ultimissimi atti di un’avventura lunga quasi un centinaio di ore.

Abbiamo già parlato di come Larian abbia riportato in auge questo genere di giochi. Ma non abbiamo ancora parlato di come sia riuscito a venderlo, senza snaturarlo, al grande pubblico di massa!

Ogni scena è animata a partire dal lavoro di attori in carne ed ossa, le cui prove sono state riportate in maniera ottima sui volti nel mondo virtuale. Ogni personaggio trasmette se stesso attraverso micro-espressioni e anche il doppiaggio è uno dei migliori che abbiamo ascoltato in un videogioco, a livello delle produzioni del cinema. Non lo preciseremmo se non per un particolare: sono presenti più di 150 ore di dialoghi cinematici, animati tutti con la stessa cura e tutti interamente doppiati.

Un capolavoro che rimarrà negli annali

Prima di concludere parliamo però dei difetti: il più grande è sicuramente la gestione dell’inventario, confusionaria e asfissiante per chiunque. Ci stupisce che ancora sussista, essendo un problema risalente ai vecchi lavori di Larian e, secondo molti giocatori, anche facilmente risolvibile.

L’altro grande problema è la gestione di alcuni dei finali del gioco, che danno l’impressione di essere stati realizzati frettolosamente e di non avere una risoluzione soddisfacente.

Nonostante ciò, Baldur’s Gate 3 è sicuramente tra i giochi di ruolo più ambiziosi di sempre e una delle produzioni più importanti del medium. Consigliamo a chiunque di giocarci, anche senza una precedente esperienza nel genere, e soprattutto a chi ha intenzione di imparare le regole di Dungeons & Dragons.

 

Matteo Mangano

Roger Waters e “Redux”, il nuovo sguardo al lato oscuro della Luna

Buono l’intento di Roger Waters per celebrare l’anniversario, però sarebbe stato meglio con un po’ più di “Musica” all’interno – Voto UVM: 3/5

 

Era il 1° marzo del 1973 quando nacque l’album che impresse il titolo di “geni musicali” sul volto dei Pink Floyd, The Dark Side Of The Moon. Una dimostrazione autentica e simultanea di tecnicismo e espressionismo. Accompagnata da testi liricamente di livello, con un concept sviluppato linearmente, da brano a brano: una visione della vita. Una, poiché risulta essere quella del bassista del gruppo, Roger Waters, il quale ha curato principalmente i testi di quell’album e di gran parte della discografia floydiana. 

La visione di Roger e la rottura con i Pink Floyd

Roger vedeva la vita come un loop gigantesco, una strada da percorrere in circolo. La vita si preannuncia dagli embrioni, dai battiti di piccoli cuori che crescono nell’utero delle loro madri. Si realizza poi di colpo alla nascita e si evolve in una corsa inesorabile scandita dalle lancette del tempo, diretta alla ricerca del successo e dell’autorealizzazione. Per poi passare a delle riflessioni senili sulla morte, nell’atmosfera eterea di un grande concerto nel cielo, e terminare in un’eclissi. Tutte le fasi scelte da Waters sono splendidamente descritte dai testi e dagli arrangiamenti musicali del gruppo, di David Gilmour, Richard Wright, Nick Mason e di Waters stesso. 

Tuttavia, la storia volle che il percorso personale di Roger dovesse allontanarsi da quella degli altri membri, un po’ per il carattere egocentrico che lo rappresentava, un po’ per screzi di natura artistica: dal 1983, anno di The Final Cut, Waters abbandona la band (che sotto la “guida” adesso anche vocale oltre che musicale di Gilmour, apre il suo periodo meno sperimentalista, musicalmente parlando, ma anche più versatile) e diventa cantautore solista.

Insoddisfatto? Auto-rimborsato dopo 50 anni

A cinquanta anni di distanza, quel disco è indiscussamente una pietra miliare del rock psichedelico, degli anni settanta, del 1900 e della musica in generale. Nessuno oserebbe toccarlo, modificarlo, usarlo per farci altra musica, magari con dei sample (i pochissimi casi sono sempre risultati criticabilissimi), se non il gruppo stesso. Ma a gran sorpresa è proprio Waters a voler ‘trafugare’ quell’antico tesoro. Per quale motivo? Avrà avuto il bisogno di svecchiarsi? O forse non è mai stato soddisfatto del vecchio progetto uscito?

Che abbia voluto aspettare davvero tanto solo per cacciarsi un sassolino dalla scarpa, sembra difficile da pensare, ma si parla pur sempre di Roger Waters. Dopo tutte le controversie con i membri della band, anche dopo il suo addio, è diventato famoso per la sua eccentricità.

The Dark Side Of The Moon “Redux”

Quello che Waters si è prefissato di fare è di tornare sui suoi passi, non tanto musicalmente in primo luogo, ma ideologicamente. La vita è ancora un circolo, una strada che il Roger Waters settantanovenne ha però percorso per gran parte ormai. The Dark Side of The Moon Redux lo fa percepire all’orecchio. L’atmosfera è delle più cupe, ma non è assolutamente triste, è più impregnata di nostalgia…dopotutto si guarda indietro di cinquanta anni. Redux ha lo stesso significato di ‘revival’, redivivo, ma ha potuto davvero dare nuova vita a un disco che probabilmente non morirà mai?

Roger waters
Cover di “The Dark Side of The Moon Redux”. Casa discografica: SGB Music LImited-Cooking Vinyl

Chirurgia plastica di un capolavoro 

Waters rimuove il carattere esplosivo da tutto l’album: eliminati gli assoli di chitarra (qualcuno l’avrebbe dato per scontato visto il rapporto con David Gilmour), le tastiere e le batterie sono spogliati completamente e rese quanto più essenziali possibile. Addirittura, non canta più i testi, si limita talvolta a sussurrarne le melodie principali, e interporli fra estratti recitati di sue poesie inedite.

Secondo Waters essi sono adatti a presentare ancora meglio l’album originale, pezzo per pezzo. A primo ascolto, viene spontaneo paragonarlo a un lavoro di Nick Cave and The Bad Seeds. Lo stile è molto vicino causa le parti recitative dei testi e l’impronta elettronica delle produzioni.

Il peso (indifferente) delle aspettative 

Ovviamente viene ancora più spontaneo paragonarlo all’originale: questo è un lavoro che, ed è molto probabile che l’autore stesso lo sapesse in partenza, storce il naso di tutti gli ammiratori del gruppo e delle sonorità del 1973, cresciuti con gli assoli di Gilmour e la potenza vocale del giovane Waters.

Ma se c’è una cosa che i fan hanno oramai compreso, è che Roger è un Liam Gallagher un po’ più pacato, ha sempre visto se stesso come fulcro creativo della musica dei Pink Floyd, quindi, in diritto di fare ciò che più gli aggrada con la sua musica. Si può quindi pensare che Redux sia solo il frutto dell’egocentrismo di un cantautore?

Tanta bellezza si è persa nella nuova versione, l’appiattimento musicale risulta essere fin troppo e Waters avrebbe potuto risparmiarne un poco; d’altro canto, ne acquista a livello poetico grazie alle aggiunte liriche (che tra l’altro illustrerà con un video su youtube). 

Tra Eclissi e Rinascita, un commento di Waters sul circolo della vita

C’era tutto questo bisogno effettivo di una rilavorazione del genere? Personalmente non direi, non è un disco per tutti e si sente. Probabilmente è indirizzato verso il pubblico che ha vissuto gli anni settanta da vicino, proprio perché fa leva sul fattore nostalgia. Un ragazzo adolescente di adesso, pur apprezzando la musica rock psichedelica che il gruppo proponeva cinquanta anni fa, sentirà il bisogno di ascoltare la prima versione di The Dark Side, più accattivante e meno monotona. Sebbene, preso senza paragoni annessi (cosa che consiglio caldamente per darne una giusta valutazione), ha il suo perché.

L’album è un continuo, è un lascito dell’autore, è un commento a fondo pagina scritto mezzo secolo dopo. E’ un anziano che sussurra che la vita è breve e che il tempo scorre. E’ la conferma che ci rivedremo tutti anche dopo cinquanta e più anni on the dark side of the Moon. 

 

Giovanni Calabrò

La sperimentazione di Annalisa: “E poi siamo finiti nel vortice”

Divertente nel complesso, il nuovo album di Annalisa prende ispirazioni da dive come Carrà e Rettore. Ma vorremmo sentire testi meno banali e più impegnati! – Voto UVM: 3/5

 

Nonostante la voce di Annalisa Scarrone non ci abbia mai lasciato in astinenza nelle ultime estati, la famosa cantante savonese non rilasciava un album da 2 anni. La sua ultima fatica E poi siamo finiti nel vortice (pubblicata lo scorso 29 settembre), sembra voler stabilire dei nuovi traguardi sulla sua figura di cantante pop semplice ma ricca di influenze. Dopo pezzi come Non so ballare e Alice e il blu, Annalisa sembrava essersi avvicinata all’hip hop più in voga nell’ultimo quinquennio (vedasi il mood dell’album Bye Bye).

Esattamente come questi ultimi prodotti musicali, questa nuova Annalisa vuole proporre qualcosa che va fuori dalla sua zona di comfort. Frutto di una musica ispirata al synthwave (o retrowave come alcuni vorranno), questo album punta tutto sulla sperimentazione. Escludendo alcuni brani come Mon Amour, tutte le canzoni si ispirano alla musica elettronica degli anni ’80, tornata in voga nell’ultimo decennio.

A rappresentare al meglio questo vortice servivano le vibes della musica wave? Andiamo a scoprire le tracce in maniera più dettagliata, così da dare ordine al tutto!

Cavalcando l’onda del successo

Come ha dichiarato la stessa cantautrice

“Per vortice intendo tutto l’insieme di emozioni che salgono e scendono e ti fanno sentire come dentro un vortice”

Sebbene le prime tracce dell’album (Ragazza sola, Mon Amour e Bellissima), siano già notoriamente conosciute al grande pubblico; il tema del nuovo lavoro di Annalisa, E poi siamo finiti nel vortice, si presenta abbastanza coerente in molti momenti delle altre sue tracce.

La copertina dell’album e i testi delle canzoni evocano più volte alcuni degli elementi chiave che hanno ispirato Annalisa durante l’elaborazione del suo nuovo progetto musicale. Da lei definito come:

“Una parte di sé che rivede in molte altre persone”

Il colore Indaco viene menzionato nel titolo della traccia in coda all’album. Questo, prodotto dell’unione tra blu e viola, viene associato alla spiritualità e alla meditazione, oltre che all’intuizione. Infatti, la traccia che chiude perfettamente il cerchio vuole ripercorrere quelle fasi dell’esistenza che comprendono l’ascesa di qualcuno che ha deciso di riprendere in mano la sua vita.

Viola, colore che ritroviamo nella copertina, si riferisce alla nuova carica di creatività e immaginazione che evidentemente ci restituisce una Annalisa rinnovata dal punto di vista artistico e forse anche personale (vedasi il suo profilo Instagram dove dichiara di aver trovato l’amore della sua vita e di averlo consolidato con il matrimonio).

Infine, viene citata più volte la dea Venere come riferimento alla forza motrice scaturita dall’amore che tutto muove, compreso l’evoluzione del proprio ego.

Il vortice come un loop di emozioni

Analizzando i testi possiamo distinguere 3 fasi: Bellissima e Indaco violento coincidono esattamente con la fine di una fase e l’inizio della rinascita che porterà a un turbinìo di emozioni ed esperienze atte a una maggiore consapevolezza di se stessi e l’apertura a nuovi cambiamenti. I momenti introspettivi aiutano a conoscersi meglio (come si evince da Ragazza sola), e di conseguenza nasce una curiosità verso il nuovo come se fossimo anime infantili (Bollicine).

La terza fase è quella soggetta alla vera tempesta che ognuno di noi può sentire dentro: la voglia di sperimentare e provare nuove sensazioni (come cantato in Euforia e Mon Amour) ci porta ad essere contraddittori (La crisi a Saint-Tropez), eppure, alla fine, quando si inizia a mettere a fuoco un pensiero o un’idea è lì che si riesce a dare il meglio di se (Gommapiuma, Aria, Stelle).

Annalisa si applica, ma potrebbe dare di più!

Questo album vuole non solo ribadire il talento della nostra cantante savonese ma ci auspichiamo che sia l’inizio di una florida linea artistica fatta di sonorità differenti dalla media italiana.

Ciò che un po’ stona è la banalità dei testi che irrompono in questa innovazione musicale e ciò lascia meno spazio alla sperimentazione. I testi sessualmente liberi, sebbene siano autoironici e divertenti nel complesso, scoraggiano ciò che per noi sarebbe potuto essere il riscatto del genere pop nel grande parco dell’industria musicale italiana.

In conclusione, il voto finale della redazione non vuole scoraggiare l’operato della nostra cara Annalisa ma vorrebbe spronarla: proprio come certi professori fanno dopo aver notato le potenzialità dei singoli studenti (cosa che la nostra Annalisa, laureata in fisica, dovrebbe sicuramente ricordare)!

 

Salvatore Donato

Tao Film Fest 69: I Peggiori Giorni

 

I Peggiori Giorni
I peggiori giorni: il perfetto sequel con un cast eccezionale! – Voto UVM: 5/5

 

La settima serata del Taormina Film Festival 69 ha visto la proiezione del film I Peggiori Giorni (sequel de I Migliori Giorni), diretto da Edoardo Leo e Massimiliano Bruno.

La serata è stata molto importante per entrambi, in particolare per Leo poiché, la sera precedente, ha ricevuto il premio Tao Art per “il suo talento e la sua abilità come regista” come detto dalla presentatrice. Sul palco, è salito la metà del cast: citiamo infatti Fabrizio Bentivoglio, Rocco Papaleo, Anna Foglietti, Anna Ferzetti, Marco Bonini e Sara Baccarini.

Il film è di tipo corale e propone 4 episodi, anche se, a detta di Rocco Papaleo, l’idea è più una rivisitazione del genere. Ciascuno di essi, ha un blocco narrativo e un ambientazione diversa tra loro, ma il tema dominante è la rappresentazione di momenti difficili, trattati con un velo di ironia per non lasciare lo spettatore con troppo rammarico. La cosa più interessante del progetto è proprio l’intenzione di cambiare il tono della commedia, la quale sembra inserire un po’ di poesia intorno alla disperazione.

Risate dolceamare

Il primo episodio è incentrato sostanzialmente sul rapporto padre-figli. Infatti, i protagonisti, che sono per l’appunto tre fratelli (Edoardo Leo, Massimiliano Bruno e Anna Foglietta), si ritrovano, proprio il giorno di Natale, a dover discutere su chi debba donare un rene al proprio padre (Renato Carpentieri). Tra i vari temi che vengono a galla durante la vicenda, emerge quello dello smarrimento per l’incapacità di comprendere quale sia la decisione giusta da prendere, soprattutto se ciò riguarda i nostri cari.

Il secondo episodio è una chiara dimostrazione dello scarso sistema che circonda anche chi sembra essere sul gradino più alto della scala sociale. Stefano (Fabrizio Bentivoglio) è un imprenditore sull’orlo della bancarotta, e per questo decide di compiere l’estremo gesto, durante la giornata della festa dei lavoratori. D’un tratto, arriva Antonio (Giuseppe Battiston), con addosso una maschera di Che Guevara con l’intento di tagliarli un orecchio se non avesse ottenuto la liquidazione dovuta ad un precedente licenziamento. Il tema del lavoro, di per sé abbastanza delicato, trova in questo episodio un’applicazione fortemente evocativa poiché, confrontandosi e rinfacciandosi varie questioni, si rendono conto di non essere del tutto diversi.

Fabrizio Bentivoglio. ©Federico Ferrara 

I Peggiori giorni: i temi

Il terzo episodio, ambientato a ferragosto, è una chiara denuncia al cyberbullismo, il complicato rapporto tra genitore e figlio e la superficialità nell’affrontare determinati problemi. Due famiglie (una interpretata da Neri Marcorè e Anna Ferzetti, l’altra da Ricky Memphis e Claudia Pandolfi), si scontrano per via di un gesto spiacevole. I figli della seconda coppia, hanno divulgato via internet delle foto umilianti della figlia dell’altra coppia. Questo ha suscitato una forte rabbia, culminata negli schiaffi del padre nei confronti dei figli. La particolarità di questo episodio sono gli scambi di battute, che pongono sullo stesso piano sia la serietà, che l’ironia dei discorsi. Molto interessante la scelta di citare Alcesti, una delle tragedie di Euripide.

Il quarto e ultimo episodio è ambientato ad Halloween. Il protagonista (Rocco Papaleo), ogni anno in questo giorno soffre la scomparsa della moglie, riguardando i momenti belli del passato tramite dei video. La figlia (Sara Baccarini) fa di tutto per rinvigorirlo, cercando di fargli capire che per quanto possa essere difficile, si deve trovare la forza di andare avanti. Il finale è molto significativo, in quanto prevale l’idea che non sono i soldi a rendere bella una persona, bensì la sua forza d’animo.

Rocco Papaleo e Sara Baccarini. ©Federico Ferrara

Siamo davvero così cinici?

Massimiliano Bruno ed Edoardo Leo. ©Federico Ferrara

Ciò che lega i quattro episodi è sicuramente una critica alla società di oggi, e al tempo stesso anche ai comportamenti sbagliati su cui, spesso e volentieri, dimentichiamo di soffermarci. La scelta di realizzare l’intero film in sequenza si è rivelata vincente perché, in questo modo, lo spettatore può immedesimarsi con il punto di vista di più personaggi.

In un’intervista, Edoardo Leo ha dichiarato:

L’idea di base era quella di raccontare gli italiani attraverso le feste comandate, i giorni che ognuno di noi, volente o nolente, è costretto a vivere.

Secondo noi ci sono riusciti benissimo! Rimane, però, una frase in una scena che ci ha colpito particolarmente sia per il significato, sia per il momento in cui è stata detta:

Aspetto che un meteorite colpisca il pianeta e stermini l’umanità!

A voi le considerazioni.

Asia Origlia
Federico Ferrara
Gabriele Galletta
Matteo Mangano

Tao Film Fest 69: Cattiva coscienza

“Cattiva coscienza”: emozionante ma non convincente. – Voto UVM: 3/5

 

La sesta serata del Taormina Film Fest 69 ha assistito all’anteprima mondiale del film Cattiva Coscienza (seguito precedentemente da Billie’s Magic World) diretto da Davide Minnella con la partecipazione di Francesco Scianna (protagonista di Baaria), Filippo Scicchitano (famoso per Bianca come il latte Rossa come il sangue) e Caterina Guzzanti (sorella minore di Sabina e Corrado Guzzanti).

Un film che può sembrare a primo impatto la classica rappresentazione di una storia d’amore, si rivela in realtà una piacevole sorpresa.

L’ago nel pagliaio, l’ago della bilancia

La pellicola si propone di raccontare quello che è l’incontro e lo scontro tra coscienze; cattive per via del contrasto tra razionalità e sentimento.
Filippo (Filippo Scicchitano) è un avvocato e lavora per il suocero, e che a breve dovrà sposarsi dopo una relazione lunga 7 anni. All’apparenza la sua vita sembra perfetta, lui incarna l’uomo ideale, pieno di valori ma in verità sembra che questo suo modo di essere lo renda infelice, facendolo sentire in trappola nella monotonia della vita di tutti i giorni.

Filippo Scicchitano. © Gabriele Galletta

Questo suo atteggiamento a dire il vero è frutto del lavoro di Otto (Francesco Scianna), voce della sua coscienza; quest’ultimo appartiene ad un mondo parallelo, il Mondo Altro. Qua hanno sede tutte le altre coscienze umane e proprio Otto e considerato un esempio per tutte le altre, per via dello stile di vita del suo protetto.
Un giorno per una svista di Otto, Filippo perde il controllo e si lascia dominare dal sentimento rischiando di mandare a monte il suo matrimonio. Sarà cura della coscienza sistemare le cose, ma capirà ben presto che l’equilibrio tra bene e male è difficile da bilanciare soprattutto quando si mette di mezzo l’amore.

Francesco Scianna. © Federico Ferrara

Stefano Sardo riesce a non far cadere nella banalità la sceneggiatura, nonostante la trama non richieda una certa complessità; utilizza magistralmente Eriberto (Alessandro Benvenuti), personaggio secondario, tuttavia importante, per sbloccare la trama in un momento complicato. Il montaggio di Sarah McTeigue appare interessante in un primo momento, poi diventa sconnesso, in particolar modo in una scena che ha luogo in discoteca. Le musiche di Michele Braga invece sono banali ma alla fine regalano qualche emozione inaspettata.

L’importanza del coraggio

Tra i vari insegnamenti da cogliere, c’è n’è uno forse più evidente, ovvero quello del coraggio; saper scegliere cosa è giusto per noi stessi e per gli altri, non reprimere le proprie passioni e in particolar modo con un dialogo che avviene verso la fine, la Coscienza Suprema (Drusilla Foer) sottolinea l’importanza del coraggio, quindi la forza d’animo che ci permette di essere umani. Finale che lascia però con l’amaro in bocca perché perde di credibilità per via del discorso precedente; sarebbe stato meglio un epilogo forse più aspro, in modo da rafforzare ciò che si presta di raccontare il film. Prendere in considerazione l’alternativa che sembra quella più triste per il pubblico non vuol dire che una storia non riesca bene nel suo intento.

In conclusione, Cattiva Coscienza è un film che ha sì delle pecche, ma nel complesso è molto riflessivo, probabilmente anche grazie alla bravura e alla naturalezza di Francesco Scianna che riesce a tenere in piedi l’intera pellicola:

“Al mondo non c’è coraggio e non c’è paura, ci sono solo coscienza e incoscienza. La coscienza è paura, l’incoscienza è coraggio.” – Alberto Moravia

 

Asia Origlia
Gabriele Galletta

Tao Film Fest 69: Billie’s Magic World

 

Billie’s Magic World: un film mediocre e dimenticabile. Voto UVM 2/5

 

La sesta serata del Taormina Film Festival 69 ha visto la proiezione di due film. Tra questi, vi era Billie’s Magic World, film in animazione diretto dal regista italiano Francesco Cinquemani (autore anche di La Rosa Velenosa e Andròn: The Black Labyrinth). Nel cast figurano i fratelli Alec e William Baldwin (per la prima volta insieme!), Valeria Marini, Elva Trill e altri. Il film, completamente diverso dal genere iniziale del regista, si concentra sulla visione fanciullesca di Billie (Mia McGovern Zaini), la protagonista, che si ritrova in un mondo magico e deve fronteggiare un manipolo di cattivi che vuole conquistare il mondo.

Billie’s Magic World: la trama

La protagonista si separa dal padre (Samuel Kay) improvvisamente poiché, viene rapita da Gregory (William Baldwin) e Florence (Elva Trill), che la portano nel castello di Lord Domino (Alec Baldwin) per imprigionarla nelle segrete. Il piano di Lord Domino è quello di conquistare il mondo, inondandolo di malumore e brutti pensieri. Billie, imprigionata in questo castello, dovrà trovare il modo per fuggire: le verrà in aiuto il suo pupazzo JP, il quale prenderà vita grazie a un trucco di magia adoperato dalla stessa bambina.

Tecnica mista…ma dove?

Billie’s Magic World presenta una serie di problemi. Il primo di cui vogliamo parlare è la tecnica d’animazione: informandoci su questo film, e parlandone con il regista, abbiamo saputo che questo è un film di animazione, girato in tecnica mista. Per intenderci, è una tecnica tramite la quale i personaggi, cioè gli attori in carne ed ossa, interagiscono con personaggi animati. Effettivamente una scena c’è, ma dura pochissimo e ci si scorda del fatto che Billie abbia interagito, nel mondo reale, con un personaggio animato. Infatti, questa è l’unica applicazione della tecnica mista in tutta la pellicola, e dura 10 secondi.

Successivamente, l’animazione continua tramite un semplice escamotage: i personaggi muovono le dita per aria, appare uno schermo e tutti quanti si siedono a guardare un episodio di un cartone animato. Ora, noi crediamo che questa scelta non sia stata soddisfacente, perché non restituisce la giusta empatia tra lo spettatore e ciò che vede sullo schermo. Questa impostazione, interrompe completamente il ritmo della narrazione (forse anche troppe volte).

Il montaggio, la regia e l’animazione

Il film presenta delle tecniche di montaggio abbastanza elementari e scarne, prive di guizzi creativi. Il regista ha detto che realizza pellicole per il pubblico americano. Ci chiediamo a questo punto cosa ne pensano davvero, perché non vi sono elementi tipici del montaggio americano (che sia classico o moderno). Nonostante sia un prodotto destinato a una fascia di pubblico giovanissimo, non significa che debba essere mediocre nel montaggio. Anzi, se c’è più creatività viene notato anche da chi non è esperto.

Francesco Cinquemani. ©Federico Ferrara

La regia, però, per quanto elementare ci è sembrata funzionale alla trama. Nessun guizzo particolare, ma la camera inquadrava sempre tutto ciò che serviva vedere.

Per quanto riguarda l’effettiva tecnica di animazione, utilizzata nei “corti” animati presenti a forza nel girato, crediamo che non abbia centrato il punto. Secondo noi, i personaggi erano animati in maniera troppo frenetica (per non dire isterica) ed erano completamente apatici, elemento che in un film per bambini non bisogna mai fare. Questo ha generato una grande confusione in noi, nel comprendere cosa stessero facendo effettivamente i personaggi. Se dovessimo riassumere in breve, diremmo che è un’animazione poco curata che trasmette molto poco,  soprattutto i più piccoli che sono proprio i diretti interessati.

La recitazione tra alti e bassi

La presenza dei fratelli Baldwin è dominante, anche se il regista ha voluto dare più spazio a William rispetto ad Alec. Quest’ultimo è certamente poco presente, ma è dovuto al suo ruolo di antagonista: la struttura narrativa di questo tipo di storia prevede che il cattivo, sia presente solo in scene chiave in cui ci sia anche la protagonista. Tuttavia, si sarebbe potuto optare per una presenza maggiore di Alec, scritturando attorno alla sua figura un personaggio minimamente fuori dagli schemi, per dargli maggior rilievo.

William Baldwin. ©Federico Ferrara

William supera abbondantemente la prova insieme a Elva, fornendo un’immagine concreta dei loro personaggi. Mia Zaini interpreta molto bene il ruolo di protagonista, e per noi è stata una grande rivelazione.
Altri, lasciano invece molto a desiderare: Orthensia (Valeria Marini) più che un personaggio di supporto, è piuttosto una comparsa messa lì per riempire il minutaggio. Sia lei, che il capo di lavoro del padre (fa più comparse ed è giusto così poiché è un personaggio secondario), non hanno un appeal convincente. Sembrano sconnessi da tutto il resto, sia del cast che della trama.

Valeria Marini. ©Federico Ferrara

Billie’s Magic World, ne vale la pena?

Billie’s Magic World, alla fine, è inconsistente. Le mascotte animate sembrano essere una serie di secondarie apparizioni, inserite soltanto a posteriori. 
La trama è troppo semplice, e manca completamente di una catarsi. Il cattivo non viene sconfitto, e di conseguenza i buoni non sembrano vincere sul male. Gli attori recitano bene (anche se non tutti), ma senza spiccare notevolmente.

Crediamo che si sarebbe potuto fare di meglio, ma le cose stanno così.

 

Federico Ferrara
Matteo Mangano

La Divina Commedia di Tedua: l’attesa ne è valsa la pena?

Tedua ritorna sulla scena mostrandosi più maturo, superando la prova a metà. Voto UVM: 4/5

 

Nell’era digitale, considerando la concezione accelerata del tempo e del consumo sfrenato, se non si produce costantemente un prodotto (in questo caso un album musicale) si rischia di finire nel dimenticatoio, e nella dimensione dei meme.

Questo è il caso di Tedua, rapper genovese al secolo Mario Molinari (1994) che è tornato sulla scena rap italiana con il nuovo album La Divina Commedia, il cui titolo è un chiaro omaggio all’opera di Dante Alighieri.

Anticipato nel 2020 con un freestyle pubblicato su YouTube, sarebbe dovuto uscire nel 2021 dopo aver rilasciato Vita Vera Mixtape, anch’esso un progetto anticipatorio. Sono passati, dunque, tre anni, dove però lo vediamo più maturo, intento ad allargare i suoi orizzonti musicali senza rinunciare a una narrazione evocativa, come ha già fatto in Mowgli (2018).

La discesa negli inferi

Tedua
Tedua nel video de “Intro La Divina Commedia”. Fonte: youtube.it

“In questo disco attraverso Inferno e Purgatorio, quindi la parte di sofferenza e poi di espiazione della stessa. C’è tanta autocritica e tanto esame di coscienza perché è quello che il Purgatorio richiede. Quindi nel disco non c’è ancora quel senso di appagamento e soddisfazione”. (Tedua in un’intervista per “GQ Italia”)

Il disco è composto da 16 tracce e tutte seguono un filo conduttore: il percorso di Tedua verso la redenzione.
Il Paradiso, però, non viene rappresentato del tutto. Lo si evince anche dalla copertina (realizzata da David LaChapelle) liberamente ispirata da Vortice degli amanti di William Blake. Tuttavia, le prime 8 tracce mostrano la faccia “dannata” per così dire del rapper.

Intro La Divina Commedia ripercorre gli esordi musicali e la difficile vita passata a metà tra la strada e gli assistenti sociali. Paradiso Artificiale ft. Baby Gang e Kid Yugi che cita quasi tutto l’Inferno dantesco e Hoe ft. Sfera Ebbasta (la canzone è stata scritta anche da Ghali), sono le hit più aggressive che probabilmente rappresentano la lussuria. Malamente oltre a rappresentare la seconda parte di Sangue Misto contenuta in Mowgli, affronta le ferite e la bufera mentale in cui si è ritrovato.

Nella foga, però, c’è spazio anche per l’introspezione in Angelo all’Inferno (con Salmo e Federica Abbate) e Mancanze Affettive (con Geolier), dove Tedua riflette sul passato e su quanto sia paradossale una vita fatta di soli eccessi e di quanto sia noiosa la vita da borghese.

La vida loca o ti insegna o è un’insegna per il Paese dei balocchi
Torni con le orecchie d’asino come chi ci è rimasto sotto con i cartoni 

Tentativo di redenzione

Nella seconda metà del disco i toni cambiano: Tedua mostra il suo lato più umano e nostalgico, rimanendo sempre fedele alla sua tecnica sia stilistica, sia di introspezione. Tra le più incidenti citiamo Diluvio A Luglio (con Marracash, featuring di diamante del disco), Soffierà, Lo-fI For U, Bagagli (Improvvisazione) e Outro (Purgatorio). 

Eravamo già abituati a sentire la malinconia nelle sue canzoni (basti pensare a Pensa se piove rmx in Orange County California (2017), Acqua in Mowgli, Polvere, Purple e Sailor Moon in Vita Vera Mixtape (2020), ma in questo disco vediamo un giovane ragazzo che, riprendendo il concept del secondo disco, si è fatto uomo e durante il percorso, ha incontrato una serie di ostacoli.

Nonostante tutto, decide di mettersi a nudo non semplicemente per riprendersi la scena o per smentire le voci di chi, una volta, lo accusava di andare fuori tempo. Si tratta della sua voglia irrefrenabile di redimersi, abbandonare il passato per abbracciare il presente che, forse, lo porterà verso la luce del Paradiso.

Ok il concept…ma è convincente?

Tedua
Cover di “Inferno”, rivelata il 22 maggio 2023 sul profilo Instagram del rapper e opera di David LaChapelle.

C’è da dire, però, che alcuni si aspettavano un disco decisamente diverso. Certamente Tedua non è come tutti gli altri rapper e guai a chi lo definisce tale. La sua scrittura, fatta di continui incastri complessi e rime intercambiabili tra di loro, è probabilmente un fenomeno unico nella scena rap attuale. Egli è rimasto fedele alla sua concezione della musica, al punto tale da invocare il perdono per averla tralasciata durante il lockdown:

E mi son fatto il sangue marcio per la tecnica, la metrica, l’America
La verità è che mi sentivo affranto
Mettendo le mie debolezze in vendita
Stavo dimenticando il metodo, la pancia
Il figlio di puttana quale sono

Pur ammettendo le proprie fragilità e anticipando una probabile deluxe del disco nell’ultima traccia, al primo ascolto l’album risulta inconcludente e alcune tracce, forse, si potevano anche scartare.

Non presenta riferimenti espliciti all’opera dantesca, è pieno di hit radiofoniche e per i club, non va più fuori tempo!

Insomma, è un disco accettabile? Probabilmente la risposta rimane un po’ a metà, eppure ciò che si potrebbe dire è che con il suo stile non è passato inosservato. Tedua non piace a tutti perché non è di nicchia, però chi sa guardare oltre il personaggio e va anche oltre le parole dei testi, può sentire quanta passione mette in quello che fa.

Il mio Inferno è stato diventare famoso con il conseguente scontro fra le esigenze dell’industria e la mia creatività libera. Il Purgatorio è l’oggi, è l’essere passato dal vivere in strada al potermi permettere un’esistenza diversa grazie alla musica. Il Paradiso sarà un nuovo stato di consapevolezza. (Tedua in un’intervista per “Il Secolo XIX”)

L’inferno delle incertezze e della lussuria è stato lasciato alle spalle, il purgatorio è adesso, il paradiso è il futuro da conquistare. Con questo disco, probabilmente non finisce qui. Speriamo solo che non ci faccia aspettare ancora!

 

Federico Ferrara

John Wick 4: la saga della vendetta e della libertà

 

John Wick è tornato! Ma sarà questa l’ultima apparizione di colui che uccide il fo***to uomo nero? – Voto UVM: 4/5

 

Una delle uscite, anche tra quelle più attese degli ultimi due anni, dopo il successo di ParaBellum, che dal 2014 a oggi fa scuola ai film di combattimento, è l’apparente ultimo capitolo di John Wick.

Vediamo se mi ricordo ancora come si fa!

Keanu Reeves all’età di 58 anni, riesce ancora a stupire il suo pubblico, facendo il 90% degli stunt, grazie anche alla preparazione fisica ottenuta nel giro di 12 settimane.

L’attore svela infatti la difficoltà avuta in particolar modo nei confronti di un’acrobazia automobilistica, in cui quest’ultimo corre attorno allo storico Arco di Trionfo a Parigi, dovendo quindi imparare a fare quella che è un’inversione di 180 gradi.

John
Keanu Reeves in un frame del film. Casa di produzione: Lionsgate. Casa di distribuzione: Eagle Pictures.

Il costo della libertà è caro

Il personaggio di John non è mai stato un tipo logorroico, lo sappiamo bene; anche perché, quello che è il suo di linguaggio non necessita di parole, ma di armi.

Un sicario, o meglio, ex sicario, ritiratosi per vivere insieme a sua moglie Helen, morta a causa di un male incurabile, tenta di trovare la pace in solitudine, ma il destino sembra continuare a mettere i bastoni tra le ruote al povero Babayaga.

Amici, amanti, Winston

Per il nostro protagonista, già dall’inizio della storia, ha vita il circolo vizioso da cui tenta di liberarsi; tra l’altro nel modo migliore che conosce: uccidere.

Molte sono le persone che proibiranno, in un certo senso, a John di vivere una vita all’insegna dell’ordinarietà, anche chi non ti aspetteresti.

Il finale del terzo film ha posizionato Winston (Ian McShan), direttore del Continental, come cattivo, entrando nel mirino di John; il trailer del sequel, però, mostra già un cambiamento…

Un personaggio di grande rilevanza ma difficile da inquadrare; sembra quasi essere dalla parte di John come fosse un amico, e questo lo si percepisce nel secondo capitolo della Saga, quando per esempio tenta di convincerlo a non commettere l’errore di farsi scomunicare uccidendo Santino D’Antonio (Riccardo Scamarcio) all’interno del Continental.

D’altra parte, Winston pare non essersi fatto molti scrupoli a sparare John facendolo sembrare un contorsionista mentre cadeva dal (indicare numero piano), per ottenere la benevolenza della Gran Tavola.

È tutta una questione di codici e regole da seguire, ma da quando in qua vengono rispettate?

Just do IT

L’ennesimo ostacolo e antagonista della vicenda in questa nuova sezione è il marchese Vincent de Gramont membro di spicco della Gran Tavola; interpretato da Bill Skarsgård (IT – 2017), e voi a questo punto direte “che pagliacciata” (si scherza!).

Quest’ultimo ha carta bianca su tutto e può cercare di uccidere il nostro ex sicario attraverso qualsiasi strategia.

Il marchese non sarà l’unico con cui John dovrà fare i conti per ottenere la libertà, ma vedremo personaggi come Caine (Donnie Yen), che è forse l’unico che in qualche modo può dargli filo da torcere, anche se noi ci fidiamo di chi viene mandato ad uccidere il fo***to uomo nero!

Scomunica ufficiale per la Saga?

Non sappiamo ancora se questa pellicola porti alla conclusione della storia ma al personaggio di John ci si affeziona quasi automaticamente.

Un uomo che, grazie all’amore trova l’urgenza di vivere ma in maniera diversa, spoglio di armi e dolcemente vulnerabile, e che lotta per ottenere tutto questo, non può far altro che appassionare, soprattutto chi ama questo genere di film.

Con certezza invece è stato annunciato uno spinn-off con Ana de Armas e arriverà nelle sale il 7 giugno del 2024.

Buoni propositi? Forse, ma chi mai li rispetta? Staremo a vedere!

 

Asia Origlia

 

La Marvel da il via alla Fase 5 con Ant-Man and the Wasp

 

Un film che, se preso come storia singola senza farsi troppe aspettative, potrebbe divertire ma che all’enorme schema della Marvel aggiunge poco. – Voto UVM: 2/5

 

Con questo nuovo film, è iniziata ufficialmente la Fase 5 del Marvel Cinematic Universe (MCU). La nuova pellicola realizzata dai Marvel Studios è Ant-Man and the Wasp: Quantumania, film del 2023 diretto da Peyton Reed e con protagonista Paul Rudd. Nel cast sono presenti anche Evangeline Lilly, Jonathan Majors, Michelle Pfeiffer, Michael Douglas e Kathryn Newton.

Trama

Sono passati ormai tre anni dagli eventi di Avengers: Endgame. Scott Lang/Ant-Man (Paul Rudd), sta vivendo un periodo sereno: è diventato un autore di successo e vive felicemente con la sua compagna Hope Van Dyne (Evangeline Lilly). Sua figlia Cassie (Kathryn Newton) sta lavorando da tempo ad un dispositivo che consentirà l’esplorazione del Regno Quantico senza recarsi fisicamente. Questo luogo misterioso è stato a malapena menzionato da Janet Van Dyne (Michelle Pfeiffer), visto che lei è rimasta lì per tanto tempo. Ma qualcosa non va dopo l’accensione del dispositivo e il segnale viene captato da qualcuno e di conseguenza, Scott, Hope, Cassie, Janet e Hank Pym (Michael Douglas) vengono trascinati all’interno del Regno Quantico. Lì dovranno vedersela con un misterioso individuo: Kang Il Conquistatore (Jonathan Majors).

Mancanza di comunicazione ai Marvel Studios?

Ma è una sensazione o ultimamente, i Marvel Studios non osano più di tanto? Da premettere che ormai sono anni che lavorano su questo universo in cui cercano di far incastrare tutto con i personaggi e le loro storie. Se si guardano le prime tre fasi che vanno a comporre la Saga dell’infinito, nonostante ci siano stati alcuni errori, però tutto tornava e piano piano erano riusciti a comporre bene il puzzle che avevano in mente. Ma ora, sembrano che non si impegnino al massimo. Ci sta perdersi in qualcosa, dopo tutto questo tempo, ma ultimamente molte cose non tornano. Sembra che puntino più sull’andare avanti in modo pigro e poco chiaro.

I Marvel Studios devono stare attenti

E’ aumentato più il profilo quantitativo, ma allo stesso tempo è diminuito quello qualitativo. Si può notare già da alcuni prodotti della Fase 4, dove ci sono stati non solo film, ma anche Serie Tv distribuite esclusivamente su Disney Plus. Già lì, si percepisce il poco impegno e sembra che addirittura i vari addetti che ci sono dietro l’universo della Marvel non si parlino tra loro e questa mancata comunicazione sta portando a delle vere incongruenze narrative.

Devono stare attenti, perché c’è il rischio che poco a poco, anche gli spettatori più distratti si accorgeranno che alcune cose non tornano. Ci sta introdurre poco a poco gli elementi che servono a proseguire in una direzione precisa e ci si aspetta che abbiano una spiegazione, in seguito. Ma conta anche il modus operandi adottato per fare ciò e bisogna stare attenti a non creare confusione e buchi di trama. Il problema non sta solo nel come si cerca ad arrivare all’obiettivo. Sta anche nel come si realizzano i vari prodotti singoli. La Fase 5 è appena iniziata e sembra che stia ancora proseguendo allo stesso identico modo dei prodotti Marvel precedenti.

Marvel, Star Wars o Rick e Morty?

Ant-Man and the Wasp: Quantumania è un film che, se preso come storia singola senza farsi troppe aspettative, potrebbe divertire. Ma all’enorme schema della Marvel, aggiunge poco e non lo fa nel migliore dei modi. Se si guardano i presupposti narrativi da cui parte il vero fulcro del film, sono di una stupidità abissale e il luogo dove si svolge la trama, è l’osmosi di una puntata di Rick e Morty e di un film di Star Wars, con l’aggiunta di un pizzico di Tesoro, Mi Si Sono Ristretti I Ragazzi.

La trama è coinvolgente ed è presente anche quella leggerezza che diverte, distribuita con le giuste dosi. Però ad un certo punto, il film lascia lo spettatore confuso con delle dinamiche narrative non mostrate benissimo e in un modo poco chiaro. Si riscontrano dei punti negativi anche nel comparto tecnico. La colonna sonora è buona, però il montaggio non è chiaro, per via dell’assenza di elementi che non fanno capire certe cose e le situazioni rappresentate sono unite a casaccio, da un flebile fil rouge. Ma la cosa che disturba di più è la CGI fatta male.

Kang è un buon villain o no?

Per quanto riguarda i vari personaggi, si dimostrano poco caratterizzati e non sono approfonditi per come dovrebbero. L’unico che si salva è Paul Rudd nei panni di Scott Lang. Gli altri, onestamente, non spiccano al massimo: Hope Van Dyne viene mostrata così poco che fa persino dubitare la sua presenza certe volte; la giovane Cassie Lang non lascia nulla; Hank Pym non è lo stesso personaggio caratterizzato come nei precedenti film e potevano approfondire di più Janet Van Dyne.

Per concludere, si parla di Kang. Se si sa che questo nuovo villain verrà introdotto in questo film e dovrà avere un ruolo simile a quello di Thanos, non si aspetta che venga tutto spiegato subito ciò che lo riguarda. Però, qualche approfondimento in più su di lui non sarebbe stato male. Jonathan Majors non si è impegnato abbastanza, ma c’è la possibilità che possa fare di meglio e che il suo personaggio venga esplorato come si deve, in futuro.

Vedremo cosa accadrà nel futuro del Marvel Cinematic Universe.

 

Giorgio Maria Aloi

C’erano una volta i Maneskin: “RUSH!” sinonimo di esagerazione?

I Maneskin questa volta hanno osato troppo, facendo notare la loro mancanza di creatività. – Voto UVM: 2/5

 

Eccentrici, profondi, creativi e per nulla scontati: questi sono i Maneskin, o meglio, lo sono stati ai tempi dell’uscita del loro primo album, Il ballo della vita (2018).

All’epoca erano dei semplici kids from Rome appena usciti da X-Factor, con tante idee e con la voglia di “prendersi tutto”. Ora invece si sono presi tutto ma non hanno più idee. Dove sono finiti i nostri coatti e simpaticissimi Maneskin? A quanti, come me, mancano quei ragazzi?

“Se lo prendi con leggerezza, per quel che è, Rush! è un giro in una di quelle feste orgiastiche”. – (da un articolo di Rolling Stone)

È un po’ curioso il fatto che ascoltando RUSH! venga subito in mente Babylon, l’ultimo film di Damien Chazelle (qui la nostra eccentrica recensione). Quindi mi sono chiesto cosa mai possano avere in comune questi due prodotti, oltre a raccontare di orge intendo…

Capitolo 1: Marlena torna a casa…che il “brutto” qua si fa sentire!

Mi sorprende di come la band made in Rome sia passata dal fare canzoni come Torna a casa o Le parole lontane a pezzi tipo BLA BLA BLA (no, purtroppo non è quella di Gigi Dag)

“I wanna fuck, let’s go to my spot
But I’m too drunk and I can’t get hard”

Il brano altro non è che un imbarazzante susseguirsi di versi, di “fuck” e di “cock”. Insomma, siamo ormai lontani dai tempi in cui i Maneskin si facevano portavoce di sogni e di paure, d’amore e di libertà. Siamo lontani dai tempi in cui cantavano di Marlena.

E se dal punto di vista dei testi l’album è poco fantasioso anche musicalmente non rende. Detto ciò, mi trovo costretto a fare, nemmeno a metà recensione, un plauso all’assenza di creatività che è davvero di altissimo livello! L’unica canzone, forse, in grado di alzare l’asticella del disco poteva essere GOSSIP, che vanta il featuring di Tom Morello alla chitarra. Ma purtroppo, la collaborazione si limita ad un assolo di nemmeno 20 secondi.

Fa un po’ sorridere il fatto che l’unica sperimentazione forse mezza decente di tutto l’album sia stata KOOL KIDS. Una canzone dal retrogusto punk e con un intro di basso abbastanza convincente (brava Victoria), ma che purtroppo non è per niente in linea col resto dell’album!

Capitolo 2: Maneskin con o contro il sistema?

“Sarai qualcuno se resterai
diverso dagli altri”

Era il 2020 quando il fidanzato di Giorgia Soleri (ora sono pari) e la sua banda recitavano queste parole in VENT’ANNI, un altro dei loro successi inserito poi in Teatro d’ira – Vol. 1 (2021). Per molti l’album della ribalta, per me e pochi altri l’inizio del tracollo.

Damiano & Co, all’epoca usciti vittoriosi dal Festival di Sanremo e poi anche dall’Eurovision Song Contest, se le sarebbero dovute tatuare queste parole, dato che già ad un primo ascolto, la maggior parte delle canzoni di RUSH! danno la sensazione di essere un qualcosa di già sentito. E non me ne vogliate se ritengo che TIMEZONE sembri proprio la brutta copia di una canzone di Billie Eilish.

Sarà una conseguenza del fatto che ormai da tempo i Maneskin puntano al mercato internazionale, cercando di creare un nuovo tipo di pubblico. E non a caso la produzione dell’album è stata affidata proprio a Max Martin (già producer di Britney Spears, Taylor Swift, Lady Gaga, Katy Perry, ecc).

Capitolo 3: “RUSH!” è anche peggio di un film di Baz Luhrmann

Lo sapevate che i Maneskin si sono sposati? Ottima come strategia di marketing per l’album, – se solo ne fosse valsa la pena, – e ottimo anche per dimostrare a tutto il mondo (ancora?) quanto il look, quello esagerato, sia importante per loro.

Damiano e Thomas nella parte degli sposi, Victoria ed Ethan in quella delle mogliettine dall’abito bianco! Alla festa c’erano proprio tutti, dai Ferragnez a Paolo Sorrentino, e non poteva di certo mancare lui: Baz Luhrmann, che di recente se n’è uscito con un biopic su Elvis (se neanche questo è stato di vostro gradimento leggete qua), per cui i Maneskin hanno realizzato la canzone If I Can Dream.

E proprio come Luhrmann con i suoi film, i Maneskin con RUSH! hanno osato troppo. E anche IL DONO DELLA VITA, che dovrebbe essere la ballata per eccellenza dell’album, sulla falsa riga di Torna a casa e CORALINE, non convince abbastanza: troppo spinta per vestire i panni di una ballad.

Epilogo: siamo tutti (o quasi) troppo vecchi per i Maneskin… 

A differenza di molti altri artisti che presenziano l’odierna scena musicale, i Maneskin non devono dimostrare niente a nessuno, l’hanno già fatto in passato. Ora possono continuare a fare musica senza porsi nessun limite e soprattutto possono farlo a modo loro, divertendosi, come se fossero ad una festa di Damien Chazelle.

Anzi, abituatevi all’idea di ascoltare questi pezzi ovunque. Del resto, per le nuovissime generazioni i Maneskin continueranno ad essere rock e originali. Per il semplice fatto che questi giovani non hanno sperimentato il rock puro, non hanno nessun punto di riferimento. Questa per loro è vera musica perchè è l’unica che conoscono.

 

Domenico Leonello