Bulli e bullismo: quando l’ossigeno dovrebbe essere un privilegio per pochi

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Piaga sociale n° 374302: il bullismo. Non staremo qua a scrivere un papello su cosa sia il bullismo: lo sappiamo tutti. C’è una persona che si alza una mattina e decide di dare fastidio e invadere gli spazi vitali di un’altra persona, senza un motivo apparente (che io li manderei tutti nelle miniere di carbone e poi vediamo).

I bulli sono la prova che, ad un certo punto, l’evoluzione è andata a farsi fottere.

Il bullismo va dai 0 ai 100 anni. È come il gioco dell’oca: un gioco di società a cui possono giocare dai 0 ai +99 anni (c’è scritto veramente così).

E noi, che difendiamo i deboli (tipo Batman), siamo qua a studiare con voi i vari tipi di bulli e darvi qualche chicca su come difendervi.

Here, we, go…!

  1. Bulli Fisici

È forse la forma più “antica” di questo fenomeno ignobile. E no, con “antico” ahimè non intendo superato o “passato di moda” come i pantaloni a zampa di elefante. Il bullismo che si manifesta tramite la violenza fisica è paralizzante. Solitamente è collocato in una delicatissima fascia d’età che, indicativamente, va dai 6 (si, perché anche a 6 anni qualcuno riesce ad essere così maligno) ai 18 (anche se, non sarebbe errato scrivere venti o ventidue o vergognatevi). Questo tipo di bullo comincia proprio fra le mura di scuola: ti ruba la merenda perché lui è il più figo. Ti spintona perché lui è il più forte e deve dimostrarlo a tutti (che poi, diciamocelo pure, l’unica persona alla quale devono dimostrare qualcosa sono loro stessi). Ti umilia verbalmente e pubblicamente perché è lui ad avere il potere. Ma il potere di cosa? Il potere su chi? Ti esaspera, ti toglie le energie, la voglia di uscire, di vivere.

Non ci pensare nemmeno. Non perdere la speranza. Qui l’unico a dover smettere di uscire di casa, di guardarsi allo specchio, di sentirsi umano è proprio lui. E quindi vivi, reagisci, bucagli le ruote dello scooter o in alternativa contatta le autrici di questo articolo. Eh, , bullo che ci leggi, è una minaccia.

  1. Bulli Virtuali

Chiunque di noi può essere un bullo virtuale. Sono quelle ‘’persone’’, e ve lo virgoletto perché non penso si meritino questo appellativo, che si nascondono dietro una tastiera e si accaniscono contro qualcun altro, così a caso: si accaniscono contro i post, contro le foto, contro le frasi. Contro qualsiasi cosa.

Pubblichi una canzone? Fa schifo. Scrivi una frase poetica? Sei un comunista. Cambi foto del profilo? Hai i denti gialli. Pubblichi un articolo su quanto fa bene praticare una dieta equilibrata? Sei un vegano di merda perché non muori insieme a tua nonna morta (nb: se il bullo è un vegano ti darà dell’assassino come se il tuo passatempo preferito fosse soffocare cuccioli di cane nel Nilo).

Ormai sono conosciuti come haters. Insultano soprattutto i personaggi famosi (no sense). La fascia d’età, in questo caso, è molto ristretta: essenzialmente devi avere un oggetto elettronico e saperlo usare. Quindi, diciamo, vanno dai 16 ai 50 (dai 60 in poi inizia la fase ‘’devo pubblicare foto di gatti che danno il buongiorno’’). Umiliano. Creano nell’animo del bullizzato una mortificazione tale che lo stesso ha l’istinto di sparire dai social. Cancellare il proprio profilo. Non pubblicare più nulla. Pouf.

Non fatelo! Mai. Loro commentano a manetta? Insultano in chat? E voi bloccateli. Non è dare soddisfazione e, in questi casi, non vale la regola ‘’l’indifferenza è la migliore arma’’. La migliore arma è l’omicidio, ma è illegale. Segnalateli. Segnalateli 10, 20, 100 volte. Chiamate la polizia postale. Fate sparire loro, non sparite voi. E VAFFANCULO.

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3- Bulli Morali

Ah, che brutta categoria. Questi sono i peggiori. Perché, similmente a quelli virtuali, sfruttano il potere della parola (che poi perché tutti dobbiamo imparare a parlare? Quanto era bello l’analfabetismo). Solo che lo fanno alla luce del sole. Ed è peggio perché, ovviamente, non puoi spegnere il computer. Anche se potresti spegnere la luce e recidere loro la giugulare (ma anche questo, penso, sia illegale). Il loro punto di forza sta nell’attirare altre persone. Fanno branco. Iniziano a prendere in giro una persona qualsiasi, fanno ridere le pecorelle intorno a loro e continuano. E più fanno ridere, più continuano. E più persone li circondano, più si sentono forti e continuano. Spesso la vittima non è difesa da nessuno e questo, ragazzi miei, è l’errore più grande che ognuno di noi possa fare: lasciare il compagno, collega, amico solo. La ‘’presa in giro’’, anche qua, potrebbe essere su tutto: i vestiti, i capelli, gli occhiali e l’apparecchio, l’altezza, la sessualità, se ti piacciono i fumetti o no. Come le zanzare, non risparmiano nessuno. Dalle elementari, in cui troviamo 7enni (talvolta più taglienti degli adulti) che prendono in giro il compagnetto perchè ha un gioco vecchio, rotto, non di marca; al liceo, università e, perché no, ufficio dove, per quanto inizi l’età adulta, gli argomenti sono più pesanti, dove la vittima si sente dire che è una fallita o un ricchione di merda.

Ti soffocano.

Io ho incontrato il mio bullo alle medie. Anzi, i miei bulli. Ero piccolina, bassa, con gli occhiali e l’apparecchio. Non potevo usare la piastra, avevo i capelli arruffati, i vestiti me li comprava ancora la mamma. Facevano branco e mi prendevano in giro, ogni giorno, su qualunque cosa. Tornavo a casa piangendo, ogni santo giorno. Cosa feci? Diedi un pugno. E un altro, un altro, un altro. Reagii con le mani, forse un modo sbagliato per una bambina di 12 anni, ma l’unico modo che trovai per difendermi (mia madre, che venne convocata dalla preside, mi fece un applauso e poi andò a bruciare la scuola).

Abbiate una reazione, qualsiasi essa sia. Per quanto stupide, portate le pecore dalla vostra parte (puzzano di letame, ma ne vale la pena). Abbiate anche tanta pazienza: i cadaveri passano tutti sulla sponda del fiume. Sapete che fine hanno fatto i miei bulli? Beh, le ragazze sono delle racchie che lassamu peddiri, alte 1.30m e con le dentature che vanno dalla cavallina alla versione rospo viscido. I ragazzi… Beh, probabilmente stanno sotto i ponti. Mi devo informare.

Eh sì, ora, talvolta, vorrei poter fare io la bulla con loro. Ma, poveracci, ci pensa la vita tutti i giorni.

Stronzi.

  1. Bulli “Inter Nos”

Ogni famiglia è un po’ un’associazione a delinquere, all’interno della quale, spesso, le personalità più forti spiccano nei confronti di quelle più “deboli”. Il primo caso di bullismo (e forse qui sto un po’ esasperando la situazione) è quello che vede protagonisti i genitori un po’ “troppo protettivi”. Ti costringono a frequentare quel liceo perché l’ambiente è tranquillo, quella facoltà perché ti offre lavoro, il corso di yoga perché ti rigenera il corpo e la mente. Ma no dai, questo non è mica bullismo, ve lo avevo detto che stavo esasperando la situazione. Quello dei genitori, in fondo, è solo amore smisurato e incontrollato. Ma il bullismo inter nos cos’è allora? Ma dai, non ce lo hai avuto quel cugino antipatico che ad ogni pranzo di famiglia, ad ogni cena di Natale, ad ogni pomeriggio trascorso insieme ti ha torturato? Menomale.

Il bullo, che è anche un componente della tua famiglia, è altamente pericoloso: conosce di te, non solo ciò che lasci vedere agli altri, ma anche la tua più intima debolezza. E non ha paura ad usarla per sminuirti ed apparire come il gallo col canto più forte della famiglia, o semplicemente per toglierti di mezzo.

Sa che non sai nuotare? Tenterà di annegarti in mezzo al mare per poi fingersi lui la vittima della situazione. Sa che ti piace il cioccolato al latte, ti lascerà solamente quello fondente. Sa che non vai bene in matematica? Ti chiederà, davanti a tutti, quanto fa 7×8 (che crudeltà).

La cosa positiva? Il bullismo inter nos prima o poi finisce perché si cresce. E, a quel punto, puoi pure decidere di non farti vedere mai più (alleluia). Almeno solo dopo che al giorno del tuo matrimonio, il famoso cugino in questione non simuli di essere stato sequestrato (un po’ come Lapo) solo per rovinarti pure quel giorno.

Puoi vendicarti. Appostati durante le sue chiamate più intime. Registrale e mandale per posta alla sua famiglia (che poi sono tipo i tuoi zii). Inserisci un biglietto anonimo scritto con le lettere di giornale (così non potranno mai risalire a te): “Suo figlio mi ha bullizzato per una vita; ora la sua ragazza lo costringe a provare i nuovi trucchi della Kiko…”

Ah, che meraviglia il Karma.

 

Siate più furbi, sempre. Al costo di mettere in mezzo l’FBI. Chiedete aiuto. Ditelo agli adulti, agli amici, fate branco anche voi. Che voi siate dei ragazzi delle medie, del liceo, dell’università, ricordatevi: nessuno si salva da solo. L’unione fa la forza. E la vendetta è un piatto che va gustato freddo.

Come si dice? Tieniti stretti gli amici, ma ancora di più I BULLI. Voi, che non siete nullità come loro, teneteveli stretti e poi… I colli sono un ottimo posto per nascondere i cadaveri.

Elena Anna Andronico

Vanessa Munaò

 

Intervista con la scrittrice Noemi Villari

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Per chi ama l’avventura e la fantasia, leggere Believeland, è un tuffo in un mondo in cui le parole d’ordine sono proprio queste; ma c’è di più: credere, un’imprescindibile parola che accompagna il lettore per tutto il romanzo.

La giovane scrittrice Noemi Villari, con il suo primo libro, apre una finestra su un nuovo mondo: Believeland; creature e poteri magici si intrecciano alla vita di alcuni adolescenti, protagonisti del romanzo che coinvolgono il lettore con le loro emozioni.

La gentilissima Noemi, subito dopo la presentazione del suo libro, ha risposto ad alcune domande e ha regalato dei preziosi consigli agli appassionati di scrittura.

 

 

 

 

Parliamo degli albori di Believeland: inizi a scriverlo quando eri nella primissima fase dell’adolescenza, avevi dodici anni. L’idea che hai avuto allora è rimasta la stessa?

  • L’idea è stata elaborata diverse volte e aveva tutt’altra impostazione; del modello iniziale è rimasto il concetto del mondo fantastico di Believeland, che prima non si chiamava così: un aneddoto simpatico riguarda, per l’appunto, il nome. All’inizio l’ho chiamato Magics (che in realtà è quello delle Winx), poi Magic Village (che sa molto di villaggio turistico) ed infine quello attuale.

Le protagoniste, in un certo senso, è come se fossero cresciute con me e ho lasciato loro un’età adolescenziale perché mi piace trattare questo periodo della vita, che per me è fondamentale nella nostra esistenza: se si capisce ciò che prova un adolescente, si capisce come diventerà da grande.

A quale personaggio sei più legata?

  • Istintivamente rispondo che sono più legata ad Alessia (la ragazza del mondo reale), perché proviene dal mio stesso contesto scolastico, ovvero da un istituto d’arte, a cui tengo molto, quindi ho voluto che lei, almeno in questo aspetto, fosse identica a me. Poi, come personaggio, è stato elaborato in modo totalmente opposto al mio: lei indossa una maschera di sicurezza che nasconde la sua insicurezza e, invece, per me è al contrario.

 

Un aggettivo con cui descriveresti il tuo libro.

  • Più che un aggettivo, a me viene in mente la parola “credere”, sostanzialmente il motore che fa camminare il romanzo.

 

Hai un luogo in cui preferisci scrivere?

  • Solitamente, preferisco scrivere a letto con il pc sulle gambe e di sera; invece, la mattina preferisco prendere appunti sui quadernoni (perché mi piace scrivere a mano), ma sulla scrivania.

 

Progetti futuri: scriverai ancora?

  • Sicuramente continuerò a scrivere: ho un’idea per continuare Believeland, ma vorrei anche guardare nuovi orizzonti, per affrontare tematiche diverse.

Di certo, non voglio abbandonare questo racconto, a cui sono legata affettivamente.

 

 

Hai dei consigli per i giovani scrittori?

  • Sicuramente direi loro di seguire il primo istinto ed iniziare a scrivere partendo da ciò che sentono, per poi affidarsi alla tecnica.

Consiglierei anche di usare internet, dove ci sono molti siti che guidano alla scrittura e dove, personalmente, ho imparato tanto. Poi, apprendere dai libri che si leggono ma, soprattutto, impegnarsi per realizzare il proprio sogno.

 

 

 

Jessica Cardullo

 

Umberto Spaticchia e il suo ‘’Null01- La storia di Downey’’: quando le menti messinesi si mettono in gioco

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A tutti i lettori chiediamo: cosa è che vi attrae di un libro? La copertina, il titolo, il nome di quell’autore famoso, il posto in classifica.

Tra le caratteristiche, secondo noi, dovrebbe essercene anche un’altra: è stato scritto da un mio concittadino. A maggior ragione se, lui o lei, è uno studente come noi. In questo caso stiamo parlando di un lui: Umberto Spaticchia, giovane di 21 anni, nerd alla mano e spiritoso.

Il suo libro, Null01- La storia di Downey, distribuito dalla Libreria Bonanzinga (anch’essa nostrana), è stato presentato presso i locali dell’istituto tecnico industriale Verona Trento e in alcune province di Messina.

Noi abbiamo avuto il piacere di averlo come ospite di Radio UniversoMe e questa è la sua intervista.

Umberto, tu hai scritto questo libro, ‘’Null01- La storia di Downey’’, che si può trovare sia in forma digitale che cartacea. Di cosa parla?

Sì, è pubblicato anche in cartaceo ed è disponibile presso la Libreria Bonanzinga. Il libro viene esposto come un secondo viaggio dantesco (niente di meno!). È un romanzo a sfondo psicologico- narrativo e parla di come una persona può reagire a seguito di uno shock, sia esso positivo o negativo. Ognuno di noi, infatti, può reagire in maniera diversa: chi inizia a soffrire di depressione, chi sviluppa doppie personalità. In questo caso, attraverso il romanzo, viene raccontata la storia di questo uomo che fa il programmatore informatico e nel tempo libero studia biologia. A un certo punto si trova in uno stadio di fermo appunto perché, essendo un informatico e non un biologo, non riesce ad andare avanti, si trova davanti a un muro: lui, infatti, studia su studi già fatti. E questo lo porta ad uno stato di depressione e stress. La sua mente, quindi, non può far altro che trovare altri piani che prendono vita sotto forma di un’ape azzurra. Questa si riferisce all’ unica guida mentale dello stato in cui si ritrova.

Quindi, sostanzialmente, un viaggio nella sua stessa mente.

In un certo senso. Il punto sta, però, nel fatto che è tutto fine a sé stesso, non coinvolge il mondo, tutto avviene nella sua testa. Intorno a questo sta il secondo viaggio dantesco: è come un Dante dei nostri giorni.

Diciamo però le cose come stanno, Umberto: un romanzo non è un vero romanzo se i personaggi non fanno all’amore almeno una volta.

Eh, diciamo che, nel mio caso, i personaggi lo fanno con il cervello!

Sappiamo che lo hai presentato in alcune province di Messina, a giorni, inoltre, lo presenterai proprio qua a Messina, presso l’istituto Verona Trento.

Sì, lo ho presentato sia a Spadafora, che nel comune di Naso dove ho trovato persone, che mi hanno ospitato, davvero squisite. La presentazione a Messina durerà circa un’ora e spero di vedere il coinvolgimento delle persone de dei ragazzi! Devo dire che, comunque, sono contento, perché ha avuto molti feedback positivi. Oltre i soliti curiosi, anche alcuni professori mi hanno i complimenti, dicendo che ho preso spunto da Kafka (che io, però, non ho mai letto!).

Toglici una curiosità, come è nato il tuo libro? Cosa ti ha ispirato?

Allora, il libro è nato da un disegno che ho fatto io stesso: sarebbe l’ape che c’è sulla copertina del libro. Quindi la storia è stata ispirata da me stesso. Poi ci sono stato un anno a scriverlo, tra alti e bassi, per cui ci sono dei momenti di allegria e dei momenti un po’ più introspettivi, legati al fatto che, ovviamente, durante questo anno, io stesso ho affrontato periodi della mia vita diversi.

Ma quindi è un po’ autobiografico?

No, vi giuro di no!

Da cosa è nata questa idea di scrivere un libro? Ad alcuni rimane per sempre questo ‘’sogno nel cassetto’’, tu, invece, ci sei riuscito!

Io sono dell’idea che tutti possono scrivere un libro e che, allo stesso tempo, non tutti possono. Perché, inutile nasconderlo, ci sono dei momenti in cui vorresti mollare tutto, perché non ci riesci, non sai più cosa devi dire: il classico blocco dello scrittore. Bisogna avere costanza, questo sicuramente, e non mollare nemmeno durante quei momenti. Bisogna essere, in ogni caso, fieri delle proprie opere.

Umberto per noi sei un grande esempio anche perché, se non sbaglio, ancora non sei laureato. Secondo te, cosa serve realmente a un ragazzo, che magari non ha terminato gli studi come te, per mettersi in gioco e realizzare qualcosa di concreto?

No, purtroppo, ancora no!

Secondo me il problema non è tanto dei ragazzi che non fanno qualcosa, il problema sta nel fatto che non c’è partecipazione. Questa è la grande pecca dei nostri cittadini. Ci sono tantissimi eventi di diverso genere in tutta la città, in svariati locali e così via: ma nessuno partecipa. Ci lamentiamo tanto ma poi, a conti fatti, il nuovo non ci interessa.

E allora grazie perché sei un grande esempio per la nostra generazione e, soprattutto, in bocca al lupo!

Grazie a voi ragazzi, siete fortissimi!

Elena Anna Andronico

 

Cinefilia per idioti: I film sulla danza

Ne sfornano almeno uno ogni anno. E no, non mi riferisco, ancora, ai film di natale di Massimo Boldi e Christian De Sica, ( che meritano di certo un’accurata analisi a parte).
Parliamo di un genere che attira prevalentemente ragazzine tredicenni al cinema, o ragazzini tredicenni con evidenti problemi di identità sessuale. Mi riferisco a quel tipo di film che alla mia amica Vanessa piace definire “film danzanti”. Per intenderci, “i film dove tutti ballano sempre”, che per darci un “tono semi-serio”, chiameremo film sulla danza. Non saprei come altro definirli. Sono felici? ballano. Sono arrabbiati? ballano. Sono tristi? invece di pensare ad alternative valide come il suicidio, ballano. Si, lo so, tutti direte di amare alla follia (solo per fare gli indie/hipster/retrò) Dirty Dancing, Footloose, Flashdance, oppure La Febbre del Sabato Sera (che mi traumatizzò alla tenera età di 11 anni, a casa di una compagna di classe che non trovavo poi così simpatica), che nonostante la trama bizzarra e le pessime battute (“nessuno mette Baby in un angolo“, così per citarne una) vengono comunque considerati dei cult, poiché, nonostante tutto, possono vantare dei plot distinti e al quanto singolari ( e delle colonne sonore memorabili, aggiungerei). Dopo aver fatto una ricerca approfondita (su Google), posso constatare che dal 2000 in poi siamo stati invasi, come i negozi durante il black friday, da una miriade di film sulla danza dalle trame sempre uguali e banali. Forse perché, da quell’anno, molti ballerini sono rimasti senza un impiego.

step-up-6-is-going-chinese-languageQuindi una sera, quella in cui desideriamo ardentemente un catetere, “perché io non mi alzo dal letto nemmeno per fare pipì“, ci propiniamo un’alta dose di ignoranza e totale assenza di capacità recitativa. “Un film calderone” in cui ritroviamo tutti i temi sociali possibili: amori multirazziali (quando la brava ragazza che studia danza classica, incontra l’afroamericano di turno che viene dal ghetto e ha la passione per l’hip hop, ed è subito amore) e quelli che nascono tra ceti diversi (se i protagonisti sono entrambi “bianchi”, la ragazza sarà sempre e comunque quella sofisticata e ricca che studia danza classica, e lui sarà quello che vive nel ghetto ed ha un amico afroamericano con problemi con la legge); piccoli problemi di cuore, ma anche in famiglia (il padre severo di uno dei due protagonisti, o la morte di un genitore di uno dei due protagonisti. Anche la morte di un amico, solitamente l’afroamericano che ha problemi con la legge).

Quindi ci sono amori, incomprensioni, morti; ma prima, o durante, che tutto questo accada la nostra protagonista il cui sogno è “avere un sogno“, viene ammessa in un accademia prestigiosa in cui incontrerà la sua nemesi (che alla fine del film o verrà umiliata o diverrà sua amica, perché le nostre care protagoniste sono sempre buone e caritatevoli) che cercherà di farla sentire inadeguata. Ma lei con l’aiuto dell’amore (nato dall’incontro e fusione della danza classica e quella di strada) e dall’amicizia nata, in un batter di ciglia, con un gruppo di ragazzi singolari, riuscirà a dimostrare “di che pasta è fatta“, conquistando la giuria con prepotenza e arroganza (perchè dentro di lei adesso c’è un pò di vita vissuta da strada). Ma non finisce qui: i due protagonisti ingaggeranno i tipi più stravaganti, considerati un pò sfigati, ma esageratamente talentuosi, per partecipare all’attesissima Battle finale (un must di questo genere). Prima di questo evento assistiamo a scene ridicole in cui tutti si preparano, fingono di sbagliare i passi o di essere stanchi e affaticati. Fingono anche di aver paura di non poter vincere la gara, come se non lo sapessero già che, essendo loro i protagonisti, vincono sempre.cast-step-up-2-the-streets-772974_1400_933

Per concludere quest’analisi confusa, almeno quanto questo genere di film, io dico: FERMIAMO PER FAVORE LA PRODUZIONE DI QUESTI ABORTI DEL CINEMA (in modo particolare dei sequel, come se il primo non fosse già abbastanza brutto) PERCHE’ DI “FILM DANZANTI” NE BASTA UNO. Che poi almeno imparassi a ballare anche io.

 

Elisia Lo Schiavo

Grazie, UniVersoMe

È passato un anno e mezzo dalla prima volta che venne nominato “UniVersoMe”, progetto nato dalla collaborazione tra Università e studenti.
Nel corso dei mesi, una semplice idea è diventato un vero e proprio progetto, una testata giornalistica ufficiale in cui dire la propria, imparare a scrivere, farsi apprezzare dai lettori, intrattenere gli ascoltatori in radio, cimentarsi in esperienze che vanno oltre il canone dell’Università-esamificio, che UniVersoMe si è sempre riproposta di abbattere.

La foto di seguito rappresenta la prima riunione ufficiale del Direttivo di UniVersoMe, là dove tutto iniziò. I primi dubbi, la prima linea editoriale da adottare, l’identità da dare al giornale, quella della radio, l’impostazione del sito, la voce da spargere tra gli studenti.

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Dal lancio ufficiale di UniVersoMe, a dicembre, sarà passato un anno. Un anno in cui il progetto ha iniziato a prender forma, a pedalare, per poi non fermarsi più. In breve tempo, iniziano ad arrivare numerose candidature per scrivere, fare gli speaker, per partecipare al progetto.

Pochi mesi, e la testata inizia ad essere presente ovunque: in prima linea in qualsiasi evento universitario, dalla Piazza dell’Arte all’Unime Live Show, dalle giornate di orientamento alle conferenze più importanti in Ateneo, dai tornei di calcetto al Messina Olympic Party, dalla Notte Bianca dello sport universitario alla election week del nostro Ateneo.

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Esperienze importanti che hanno permesso a tutti di maturare, di conoscere prima che dei collaboratori e dei colleghi, degli amici.

Non sono mancate, poi, le iniziative: dai contest sulla pagina, al flash mob “Unime Water Battle”.

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Dopo un anno e mezzo di mandato, ci sarebbe tanto, tantissimo da dire, ma spesso (triste ironia della sorte per un aspirante giornalista), non sono le parole a poter descrivere tutte le emozioni.
L’unica cosa che vale la pena di dire, senza frasi di circostanza, è che è stata un’esperienza incredibile. Un grazie a tutti quelli che si sono dedicati ad UniVersoMe, a chiunque abbia dato fiducia al gruppo, a tutti coloro i quali hanno reso questo mio “mandato” così intenso e speciale, ad una meravigliosa redazione, ad un direttivo speciale.

I ricordi sono tantissimi: dalle corse in ufficio stampa, dove si trovava sempre il sorrisone di Valeria e lo sguardo critico (ma sempre affettuoso sotto sotto) di Luciano, al “Bonjo sta scrivendo…”, gli stereotipi con Elena, i chilometri di Giulia a scattar foto, le immense scalette di Claudio e i mille messaggi del gruppo radio, i problemi di VPN prontamente riparati da Salvo Bonjo e Daniele, il duo Gugliotta-Paologiorgio, lo statuto di Valerio.

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Si sa, ogni addio fa male (Pragma almeno ha avuto la propria rivincita sul gruppo Whatsapp, ma questa è un’altra storia), ma ogni fine segna un nuovo inizio, e l’avvenire di UniVersoMe appare già da ora quanto mai radioso e pieno di prospettiva.

Vi auguro il meglio.

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Alessio Micalizzi

 

The Big Bang Theory: essere Nerd is the new essere popolari

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Le donne, dicono, sono il problema di tutti gli uomini. Arrivano nella loro vita e gliela distruggono, li destabilizzano.

Voi immaginate se questo accade a quattro 30enni nerds, bruttini e sfigatelli. Quello che ne esce è la serie tv che ormai va in onda da 10 stagioni: The Big Bang Theory.

Per chi non l’ha mai vista perché ‘’facendo zapping ci sono capitato più volte ma, a me, non fa ridere’’, posso dire solo questo: ERRORE. Vai, prendi il tuo pc e clicca play sulla prima puntata della prima stagione. Non te ne pentirai.

The Big Bang Theory è costruita sul classico format americano: 20 minuti in cui vediamo i personaggi spostarsi tra poche locations, con tanto di pubblico che applaude e ride quando viene fatta una battuta. Ma tu, caro mio, non te ne accorgerai perché sarai impegnato a sganasciarti (con tanto di lacrime e pipì che corre).

I personaggi principali sono, come detto, questi quattro 30enni nerds: Leonard, il classico ragazzo geniale, bruttino, timido e con gli occhiali; Sheldon, alto e allampanato ma con un QI superiore a qualsiasi media normale e, tra l’altro, affetto dalla sindrome di Asperger. Questo lo porta a non avere senso dell’umorismo, a essere anaffettivo e a dover pianificare tutto: anche gli orari in cui il suo coinquilino può andare di corpo.

Howard, il perverso del gruppo, che ci prova a trovare una donna e alla fine, incredibilmente, ci riesce; Raj, indiano ricco e di colore, accusa problemi nel parlare con le donne a cui sopperisce con l’uso dell’alcool.

Insieme trascorrono la maggior parte della giornata perché, non solo lavorano insieme, ma hanno gli stessi interessi che includono videogames, Star Wars e fumetti.

Un giorno, nell’appartamento di fronte quello di Leonard, arriva Penny: un’oca giuliva bionda di cui, ovviamente, tutti si innamorano (tranne Sheldon, che si limita a dispregiarla e basta come fa con tutto il resto degli esseri umani). Il resto, se volete, lo andrete a vedere.

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La bellezza di The Big Bang Theory è l’evoluzione di tutti i personaggi che, nelle prime stagioni, rimangono e permangono nei loro ‘’status quo’’ ma, piano piano, riescono a sbloccare alcuni lati del loro carattere. Con lo stesso umorismo di sempre, è una serie che, non solo facilmente può fare compagnia con la sua leggerezza, porta ad affezionarsi ai protagonisti mantenendo alta la curiosità.

Rumors dicono, da un paio di mesi, che la 10 stagione, quella attualmente in onda, dovrebbe essere l’ultima. In attesa di scoprire se la notizia è reale (e, quindi, prepararsi a un eventuale lutto) c’è solo una cosa poter fare: metterla in play!

Elena Anna Andronico

La Paura fa 90: gli studenti universitari e i mezzi pubblici

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Questo articolo nuoce gravemente la sensibilità di chi non si sposta in città con i mezzi pubblici, non lo ha mai fatto e mai lo farà. Se sei ricco e motorizzato, non puoi che premere il tasto ‘indietro’ e tornare a guardare il catalogo di Rolex che vorresti comprarti a Natale. Se invece, come me, sei da sempre condannato a spostarti con i mezzi, ecco a te le 7 categorie di TIPI DA TRAM che potresti incontrare o che hai già incontrato. Scopriamole insieme..

 

  1. “Il vecchio saggio”

È mattino presto, sei in ritardo come al solito e la vita ti dona mille ragioni diverse per farti pensare che no, dal letto era meglio non alzarsi. Ti convinci che tutto andrà meglio una volta dato inizio alla giornata e che in fin dei conti, finché nessuno ti parla, è ancora tutto salvabile. Il tram arriva ed è pieno, ma tu non ti vuoi nemmeno innervosire più di tanto e ti fai spazio tra la gente alla ricerca di un piccolo angolo tranquillo, nel quale rinchiuderti senza farti troppo notare. Lo trovi. Tutto procede per il meglio, il tram si ferma e riparte ad intervalli regolari ed il flusso di gente è continuo. Non te ne sei ancora accorto? Un uomo sulla sessantina ti sta fissando da dieci minuti, ed ora che hai posato lo sguardo su di lui, non hai più scampo: “Ai miei tempi era un lusso prendere il tram… Ah, i giovani di oggi… E lei che va all’Università, che ne pensa di questa riforma di Renzi?” E tu sei li, con gli occhi sbarrati, che torni a voler desiderare di essere ancora a letto.

 

  1. “Il poco pulito”

No, non voglio essere cattiva, ne voglio insinuare che qualcuno di voi, frequentatori assidui di mezzi pubblici, abbia problemi ad usare bagnoschiuma e deodorante, ma giuro, sono costretta a farlo. Si, perché proprio quando il tuo interlocutore saggio preferito sarà sceso, nel tuo piccolo angolino fuori da mondo, ti giungerà alla gola uno di quegli odorini disarmanti da cadavere morto ed essiccato al sole che DAI RAGAZZI, è già dura per tutti sopravvivere per i 45 minuti di tragitto da capolinea a capolinea, fatelo per il bene della collettività: LAVATEVI

 

  1. “Il giacca e cravatta”

Anche il secondo pericolo sembra essere scampato, la situazione torna stabile e l’aria sembra circolare nuovamente limpida sotto al tuo naso. Il dondolìo del tram quasi ti rilassa, a tratti chiudi gli occhi e ti lasci trasportare da quel movimento. Poi, una brusca frenata. Le porte si riaprono all’ennesima fermata e l’orda di gente aspetta di salire. Ecco lui, l’uomo in giacca e cravatta più losco di sempre, colui che si diverte a vestirsi bene per creare il panico generale. Tutti si guardano terrorizzati; “Oddio, il controllore”, e con la mente cominci a cercare il momento della mattinata in cui hai obliterato il biglietto. Ti rendi conto che forse hai dimenticato anche di comprarlo il biglietto. Poi lo vedi accomodarsi senza indugio, ma col ghigno malefico, e niente, l’ennesimo agente immobiliare porta a porta. A sto giro, pericolo scampato.

 

  1. “Il controllore”

Beh, non potevo non menzionarlo. Che poi, non esiste IL controllore, ma la squadra di basket dei controllori. Fanno il loro ingresso manco fossero cani antidroga affamati, alla ricerca di chissà quale narcotrafficante Colombiano. Ti puntano. Loro sanno già se hai tutto in regola e godono nel vederti in difficoltà. “Biglietto, prego” ed è li che comincia la recita sul tuo essere uno studente Universitario, sulla fila che hai fatto alla banca per pagare il Mav, sul tempo che hai perso a ritirare la UnimeCard, sul bollino filigranato che ci hai dovuto far attaccare, del cane che ti è scappato ieri, di tua nonna in ospedale, della pace nel mondo. Il tutto solo per convincerlo a non farti la multa per aver dimenticato tutto questo elenco di cose sulla tua scrivania. A volte ti graziano, altre volte maledirai per la milionesima volta di esser salito su quel tram.

 

  1. “La coppia innamorata”

Sono lì, seduti da 30 minuti uno accanto all’altro che non smettono di fissarsi e scambiarsi effusioni. Loro, del vecchio saggio, del tipo in giacca e cravatta e perfino del controllore, non se ne sono nemmeno mai accorti. Vivono nella loro bolla felicemente disgustosa, fatta di cuori e caramelle rosa. Tu un po’ li guardi con aria sognante, un po’ ti giri per evitare di memorizzare le loro lingue che si intrecciano, e non rischiare di portare quell’immagine nella tua mente durante l’ora di economia aziendale che oh: “Che rapporto c’è tra domanda e offerta?” e tu che pensi: “Intimo professore, molto intimo…

mezzi-pubblici

  1. “I liceali”

Sono un po’ come la banda dell’ultima fila quando si andava in gita con tutta la classe. I liceali hanno energia da vendere anche alle 7.00 mattino. Solo a me, quando dovevo andare a scuola, sembrava di fare l’ultima camminata sul ponte dei sospiri prima di essere giustiziata? I liceali urlano. Hanno una cuffia dell’iphone in un orecchio, con rigorosamente un Dj set di Avicii a tutto volume. Con l’altro orecchio tentano di fare conversazione col resto del gruppo, che a sua volta ha un orecchio occupato in discoteca. Il risultato? Il tuo piccolo angolo tranquillo si è trasformato in un rave party. Sono solo le 07.15, chi mi passa un Mojito?

 

  1. “Tu”

Sei sei arrivato alla fine di questo articolo, meriti una menzione speciale. Si, questo articolo è per te che ogni mattina affronti con onore le mille avventure da pendolare. A te che non temi lo stretto contatto con la gente, che hai viaggiato in posizioni che non pensavi nemmeno di poter assumere, inscatolato come sardine. A te che hai evitato multe con l’arte della tenerezza. A te che riesci ad annuire alle lamentele dei sessantenni. A te che, se sale una donna incinta, preghi che non venga nella tua direzione perché per trovare quel posto, hai sudato più di quanto possa farlo lei durante il parto. A te, che ogni volta che quelle porte si aprono, sai che comunque, sarà una meravigliosa avventura.

Vanessa Munaò

Cinque categorie di Uomini e Donne: istruzioni per l’ (ill)uso

Una delle ultime sere calde di questo autunno, mi sono ritrovata con la squadra di Radio UniVersoMe a casa di uno di noi per passare una rilassante cena tra amici. Sapete come vanno queste cose: cibo, amici, buon vino e si inizia a parlare della vita.

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No, non è vero. Si inizia a parlare di sesso, di uomini e di donne (e più l’alcool sale e più le cose diventano difficili).

Cosa ne è uscito? Che gli uomini dividono le donne in categorie e lo stesso fanno le donne. Perciò non potevo non approfittarne.

Quindi, ecco a voi le 5 categorie di Uomini & Donne (no maria, io esco):

1- Scrofe/Porci: con tutto il rispetto per questa coppia di suini, a quanto pare siamo d’accordo che alcuni esseri umani ne rispecchiano le caratteristiche. I ragazzi intendono, ovviamente, quelle fisiche: ma comunque, in guerra e carestia, ci pensa il pene e così sia. Noi donne, invece, intendiamo quei ragazzi sudaticci e inquietanti che ti fissano mentre si scavano il naso. Nel nostro caso, però, essendo il nostro apparato genitale intelligente, scappiamo a gambe levate;

2- Galline/Galletti: i senza cervello. Nel descrivere le galline, uno dei ragazzi, si è esibito in una serie di versi e smorfie da ritardato mentale. Insomma, sarebbero le ragazze che ti rispondono “oh, e si mangia?” se parli di Shakespeare, o ti dicono ‘’voglio sposare un calciatore per diventare una VIPS’’ (con tanto di S finale). I galletti, invece, sono quei ragazzi che si esibiscono in ‘’alzamento della cresta’’ accompagnata da ‘’ballo del pavone storpio’’, mentre raccontano delle auto e dei soldi del papi. Poveracci.

3- Cetacei/Nerd: il contrario della categoria precedente, i brutti con il cervello. La cosa bella, però, è che se il cervello lo si sa usare può conquistare più della bellezza. O una cosa del genere. L’importante è tromb… (io, comunque, ho un debole per i nerd)

4- Carine/Carucci: questa categoria è rappresentata da quei ragazzi e ragazze che hanno un ottimo potenziale di bellezza, umorismo e intelligenza ma non lo sanno. A quanto pare quelle carine sono le ragazze che hanno un gran fondoschiena (e non lo sanno), si girano e ti sorridono e sono stupende (e non lo sanno), ti fanno arrivare il sangue al cervello e al pene (e non lo sanno). Per i ragazzi la situazione si equivale. E la non consapevolezza di quel cucciolotto fa scattare la ‘’sindrome della croce rossina’’ e tanti saluti.

5-Donna/Uomo: evviva la funcia, direte voi. Ma questa categoria è la più rara. Sono dei pokemon rari. Sono LA persona, la metà della mela, il principe azzurro o la principessa, l’anima gemella, l’esclamazione ‘’OH MIO DIO, UNA GIOIA’’. L’uomo o la donna della propria vita. E, quindi, inesistenti.

Ve lo dico io cosa bisogna fare: bere e rimanere single.

SAPEVATELO.

Elena Anna Andronico

Storia di un amore

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”Il 6 Maggio del 1923, in un piccolo paesino della Sicilia, Paola provò per la terza volta la sensazione ed il dolore di diventare mamma; ma per la prima volta, sentì l’emozione di stringere fra le braccia una femminuccia, con tanti capelli scuri e degli occhioni marroni. I due fratellini da mesi facevano a gara per scegliere il no me della sorellina, ma decisero soltanto quando la videro: Rosa – “ è bella proprio come il fiore”– disse uno dei due.

I genitori gestivano una piccola attività, simile ad una bottega…”

-“ Nonna, dai, arriva al punto! Io voglio sapere di Rosa e Marco!”

-“ Ma ci sto arrivando, piano piano.”

-“ Ora! Racconta quella parte, per favore!”

-“ Va bene, Chiara! Allora. Era il 1940, l’anno in cui l’Italia sarebbe entrata in guerra.. la seconda guerra mondiale, tesoro!”

-“ Lo so, anche se sono piccola! So tante cose io!”

La nonna ridacchia e ricomincia il racconto“ Rosa era una brava sarta: cuciva per sé, per le amiche e per i signori del paesino, e guadagnava qualche soldo per aiutare la famiglia. Ma non è lavorando che conobbe Marco.

Era Maggio, da poco era passato il suo compleanno; le giornate erano più lunghe e le sere più calde.

Un pomeriggio della prima metà del mese, Rosa era ad una festa: aveva addosso un abito a fantasia, tessuto con le sue mani, ed i capelli raccolti con un fermaglio.

In mezzo a tutti gli invitati, gli occhi di Rosa inciamparono in quelli di Marco; questo ragazzo alto, dai capelli corvini, stregò il cuore della giovane.

Si avvicinarono e Marco le prese la mano, invitandola a ballare: non si erano presentati, ne avevamo scambiato alcuna parola mentre danzavano, eppure, sembrava parlassero con i gesti e con gli sguardi.

Erano due sconosciuti, ma davano l’impressione di conoscersi da sempre; si sfioravano le mani così dolcemente e si guardavano intensamente.” – Chiara ascolta con attenzione la nonna : “ E poi? Poi?”

“ Poi andarono a fare una passeggiata sulla spiaggia lì vicino. L’atmosfera era magica, surreale: le loro voci si intrecciavano alle risate, contornate da quel tramonto che era un’alba d’amore.

“ Promettimi che ci vedremo domani e dopodomani e il giorno dopo ancora!” – esclamò Rosa – “ Ogni giorno, al calar di sole.” – le promise lui.

Era il 12 Maggio, quando, con uno sguardo di approvazione, le labbra di Marco sfiorarono quelle di Rosa.

Da quel momento, il tempo corse e tutto l’amore sbocciato in un caldo pomeriggio, sembrava destinato a non finire.

Ma arrivò quel maledetto 10 Giugno, in cui Rosa guardò quel tramonto da sola e ne conosceva il motivo: l’Italia era in guerra e la chiamata alle armi stava segnando la fine di quella travolgente storia d’amore.

Marco non aveva il coraggio di salutare per l’ultima volta la sua amata, ma Rosa voleva vederlo prima che partisse.

La mattina seguente, corse in stazione: le lacrime bagnavano gli occhi degli innamorati che non avrebbero mai voluto dirsi addio, non in quel momento, non in quel modo. Rosa mise nella mano di Marco un fazzoletto che aveva cucito quella notte, con sopra ricamati i loro nomi – “ Asciugati con questo e stringilo nei momenti più difficili. Io sarò con te” – lui rispose solamente: “ Aspettami”.

Un amore così grande si stava concludendo così brevemente, con un treno che si allontanava sempre più velocemente da sembrare, ormai, irraggiungibile.

-“ È finita?” – interrompe Chiara– “ Non può essere finita così, non è giusto!”

-“ Non è esattamente finita, piccola.”

-“ Cosa aspetti allora? Continua!”

-“ La guerra costrinse Rosa e la sua famiglia a trasferirsi in una città poco più lontana dal suo paese natale. I mesi e poi gli anni passarono e Rosa conobbe un bel giovane, buono e abbiente, con il quale dopo poco tempo si sposò. Dopo il matrimonio, Rosa riuscì ad aprire una sartoria, ma ogni volta che cuciva pensava a Marco: il suo cuore, sarebbe sempre appartenuto al suo primo amore.

-“ E lui dov’era? Era vivo?”

-“ Si era vivo, ma un incidente gli aveva fatto perdere la memoria ed era in cura in un ospedale di una grande città. Proprio qui, aveva conosciuto un’infermiera della quale si era innamorato e con cui si sposò. Ma c’era sempre quel fazzoletto con lui, con il nome di Rosa e lui doveva sapere.

Dopo molti anni, cominciò a ricordare il suo passato e tornò nel suo paesino d’origine dove gli amici ed i parenti gli raccontarono della sua storia con Rosa e dove lei si trovasse ora.

Doveva rivederla ad ogni costo, così si mise alla ricerca della sartoria.

 

Era il 1955, quando la porta dell’attività di Rosa si aprì; lei stava sistemando alcuni rotoli di stoffa negli scaffali e appena si girò per accogliere il cliente, il suo cuore si fermò: era Marco, il suo Marco e si stavano guardando proprio come si guardarono la prima volta.

Lui le porse il fazzoletto e le disse: “ Non ricordavo nulla, avevo solo questo e ti ho trovata”.

I due si accomodarono su delle sedie e parlarono proprio come il loro primo appuntamento : sembrava che fossero tornati indietro di quindici anni.

Dopo un’ora di chiacchiere, Marco la salutò e sull’uscio della porta le disse: “ I primi di Maggio, quasi di passaggio, ti sfiorerà l’idea di me e ricorderai di aver scordato ogni nostro momento; ma, arrivando a metà maggio, ti toccherà il pensiero delle mie labbra sulle tue ed i nostri occhi che si incontrano da lontano.”

 

Chiara abbassa lo sguardo – “ Nonna, ti ricordi ogni singola parola che ti ha detto… a metà maggio lo pensi sempre, non è vero?”

-“ Sempre, piccola mia. Il suo pensiero è nel mio cuore.”

Jessica Cardullo

È il fotografo che fa la fotografia o la fotografia che fa il fotografo?

il desiderio di scoprire, la voglia di emozionare, il gusto di catturare, tre concetti che riassumono l’arte della fotografia” – Helmut Newton

Spesso è difficile definire cosa sia effettivamente la fotografia. Tuttavia, si può cominciare con lo spiegare cosa la fotografia non è: non è un dipinto, una poesia, una sinfonia, una danza. È un’arte che cammina da sola, nata da sola spinta dal desiderio dell’uomo di riportare esattamente cosa vede con i propri occhi. Immortalare un momento e renderlo eterno. La pittura, la scrittura, la musica e la danza sono arti che fermano il tempo delle emozioni. Con una foto si crea l’eternità, aspirazione estrema del desiderio umano: vivere per sempre. L’attimo è la cosa più preziosa che possediamo, perché questo non si riproporrà.

La prima foto scattata nella storia risale al 1826, quando lo scienziato francese Joseph Nicéphore Niépce scattò la prima immagine permanente, intitolata Vista dalla finestra a Le Gras, nella casa di campagna della sua famiglia. Secoli di progressi nei campi della chimica e dell’ottica, costruirono la strada per la nascita della fotografia. Da quel giorno la scienza (in ambito fotografico) ha fatto passi da gigante evolvendosi sempre più velocemente, come nella prima foto a colori del 1861 scattata dal fisico scozzese James Clerk Maxwell, il quale si cimentò per tutta la vita con la teoria del colore. Maxwell fotografò tre volte un tartan scozzese utilizzando tre filtri diversi (rosso, blu e giallo) e infine unì le tre foto.

L’universo dello “scatto” si è evoluto nel XX secolo, dando la possibilità a tutti di poterne farne parte, creando tantissime sfaccettature, quante in realtà le ha la nostra Terra. La fotografia, come la conosciamo noi oggi, conta una vasta gamma di campi: street photography, foto-giornalismo, fashion photography, paesaggistica, subacquea, ritrattistica, multivisione, nudo artistico, di viaggio, etc.

Molti stili si sono sviluppati con l’avvento dei Social Network: Instagram (piattaforma che si concentra sulla fotografia) è stato il trapolino di lancio per un tipo di fotografia amatoriale accessibile a tutti. Chiunque, infatti, può mettere alla prova la sua vena artistica senza dover essere un professionista, e migliorarsi confrontandosi anche con altri utenti. C’è chi lo utilizza per svago, chi invece, grazie a questa applicazione ha ottenuto una visibilità tale da accaparrarsi il successo. Le fashion blogger, ad esempio, hanno trovato con questo social la loro pentola d’oro, perché diciamocelo, andare a controllare ogni giorno un blog non è la stessa cosa di trovarsi sulla timeline le foto del soggetto in questione. La fotografia, in questo caso, dice più di mille parole. Ma finisce lì. Diventa semplicemente una vetrina, come se stessimo passeggiando in Via Montenapoleone a Milano, o in via dei Condotti a Roma, e vedessimo i capi che sono esposti (con magari qualche infarto in meno dovuto ai prezzi, w i “poverih”). In sostanza una gara a chi appare migliore rispetto alla massa, e di conseguenza uniformandosi ad essa, perdendo di vista il concetto base: fare foto, arricchire e migliorare l’arte della fotografia.

La fotografia è diventato un mezzo, messo in secondo piano: tutti hanno la possibilità di fare foto, ormai le macchine fotografiche le abbiamo nei nostri smartphone e le multinazionali che li producono cercano di migliorarle tanto da sostituire le macchine fotografiche (reflex, bridges o compatte che siano). Il rullino ormai lo vediamo con il binocolo, ma dal momento che ci ritroviamo in un periodo nostalgico (“ma che ne sanno i 2000”, il ritorno de “Una mamma per amica”, Trump e Clinton alle presidenziali) si cerca di riempire questo vuoto con l’invenzione della Polaroid 2.0 affinché tutti possano sentirsi belli, fighi ed alternativi.

Le fotografie non si preparano, si aspettano. Si ricevano.” diceva Elliott Erwitt, ma sembra che questo concetto sia stato perso nel passaggio dallo scattare una fotografia e caricarla sul profilo senza badare alla composizione di essa, o ciò che potrebbe trasmettere. Un autoscatto (per gli amici “selfie”) non emoziona più di tanto. Tuttavia non basta avere una macchina fotografica per essere fotografi, quello che conta è la realtà che si presenta davanti e che l’occhio, che la interpreta, riesce a renderla arte, pura bellezza.

Giulia Greco