Recensione ”Io non ho paura” di Niccolò Ammaniti

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Piantala con questi mostri, Michele. I mostri non esistono. I fantasmi, i lupi mannari, le streghe sono fesserie inventate per mettere paura ai creduloni, come te. Devi avere paura degli uomini, non dei mostri.”

 

Michele, 9 anni, è uno dei tanti bambini del libro che sente la naturale necessità di avventurarsi, di sperimentare, di conoscere, di esplorare i territori nelle campagne del paesino in sud Italia dove vive. A causa di una penitenza durante un gioco, finirà per scoprire un ragazzino nascosto in un buco.

Tutto sarà un mistero per lui, un mistero che a poco a poco verrà svelato, facendo scoprire a Michele il mondo dei grandi che sognano di diventare ricchi e andarsene via di lì.

Quando diventi grande te ne devi andare da qui e non ci devi tornare mai più.”

 

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Io non ho paura” di Niccolò Ammaniti è un romanzo duro e crudo ma tutto filtrato dalla mente di un bambino che conosce appena il male, è un libro commovente, anche se a tratti straziante, ma pieno di quella purezza e innocenza tipicamente infantile.

Serena Votano

Se una notte d’inverno un viaggiatore – Italo Calvino

Possiamo impedire di leggere: ma nel decreto che proibisce la lettura si leggerà pur qualcosa della verità che non vorremmo venisse mai letta.

La lettura ci permette di vivere storie fantastiche, amori passionali, intrighi, scontri, avventure. La lettura, attraverso gli scrittori che cercano di trasmettere con la propria arte ciò che la loro mente gli detta, da vita a personaggi ideali, eroi di altri tempi, miti e leggende. Ma cosa succede quando un libro si incentra sulla lettura? Quando il personaggio principale è il Lettore e la sua insaziabile voglia di sapere? In “Se una notte d’inverno un viaggiatore” Italo Calvino riesce a spiegarcelo impeccabilmente creando un romanzo con al suo interno l’incipit di dieci ulteriori storie di autori, tutti diversi, ma tutti strettamente correlati.

Il libro inizia, paradossalmente, con le parole dell’autore che invitano a trovare la giusta “posizione” per iniziare la lettura, poiché non ci si può successivamente distrarre perché “non siamo più comodi”. Il momento della lettura è un qualcosa di sacro che non va interrotto per futilità. Allora il Lettore (“nome” del protagonista) si immerge nella lettura del nuovo romanzo di Italo Calvino, “Se una notte d’inverno un viaggiatore” appunto. Il libro parla di un uomo avvolto dalla nebbia e dal grigio di una stazione ferroviaria in cui è appena arrivato, non per scelta, ma per caso. È come se sentisse di aver perso la coincidenza con un altro treno. L’impalpabilità della scena è resa perfettamente non solo con aggettivi o similitudini, ma soprattutto con la cadenza con la quale l’autore inserisce la punteggiatura e le descrizioni di ciò che pian piano affiora dal pallore della lettura. Il tutto è estremamente rallentato e l’unico spiraglio di vitalità è dato dall’incontro del protagonista con una donna misteriosa nel bar della stazione con la quale intraprende una conversazione che lo risveglierà dal torpore delle prime pagine. Il felice colloqui verrà bruscamente interrotto quando un ufficiale di polizia consegnerà all’uomo un messaggio che lo invita a lasciare la città prendendo il primo treno disponibile, l’ultimo treno della giornata. Il libro attrae il Lettore che però si accorge di un errore, ciò che ha letto nelle ultime pagine si ripete anche nelle successive e questo per tutto il libro. Da qui si darà inizio all’avventura del nostro protagonista, fatta di una ricerca incessante della parte mancante del libro che lo porterà a imbattersi nella Lettrice, Ludmilla, e negli altri nove romanzi che inizierà per nove volte, ma non riuscirà a terminare poiché tutti, in un modo o nell’altro, vengono bruscamente interrotti.

Così ogni incipit di un nuovo romanzo viene inserito nella cornice della storia più ampia del Lettore e della Lettrice che ne viene influenzata e a sua volta influenza la lettura successiva. Il tutto è “aggrovigliato” nella fitta rete intessuta dall’autore con dialoghi pungenti, descrizioni dettagliate, momenti di passione, narrazioni che portano a smarrirsi nella storia e momenti di eccitazione per la scoperta di un particolare mancante. È un metaromanzo che ci porta a vivere una storia dentro altre storie alla ricerca di una verità che viene continuamente nascosta dalla falsità, dal processo di mistificazione che vedrà partecipi anche i due Lettori-protagonisti, poiché “Non c’è certezza fuori dalla falsificazione”. È un romanzo che non ha un finale preciso, ma aspira a trovarlo fino all’ultima pagina e in contemporanea contrappone bellissimi inizi.

È un libro che non ci sazia subito della sua lettura, ma ci costringe ad una scalata continua verso una vetta incerta da raggiungere. Ci fa sognare e innamorare, ma poi ci sveglia brutalmente. Molte volte ci porterà quasi a gettarlo via, a interromperne la lettura, ma inevitabilmente ci ritroveremo a raccoglierlo e ricominciarlo per immergerci di nuovo nel turbinio di eventi, storie, lingue, nomi, autori e personaggi che lo scrittore ha sapientemente inserito.

È una lettura consigliata a tutti coloro che amano leggere, indipendentemente dai generi, dagli autori o dalle storie. È un libro che ci rende protagonisti della nostra stessa lettura, quasi per magia, senza accorgercene, ci trasporta all’interno delle pagine e ci fa vivere un’esperienza unica nel suo genere che solo un Maestro come Italo Calvino poteva ideare.

Giorgio Muzzupappa

Scusate il Disordine!

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La musica non la si prendeva. Mai!”

 

 

 

In “Scusate il disordine” Luciano Ligabue lascia di nuovo, dopo “Il rumore dei baci a vuoto”, senza parole. Una raccolta di racconti che lascia sempre incompleti e liberi di interpretare a modo proprio quello che succederà dopo. Una chiave di lettura: la musica. Presente in tutte le sue inclinazioni, con diversi amore verso di essa ma racchiusa tutta in uno spartito che ha proprio il sapore di Ligabue.

Ogni racconto si concentra sulla musica e sul rapporto che il personaggio ha con essa, fama o non fama, portandoci realtà che conosciamo ma spesso ignoriamo. Come Anchise che, nonostante la sua età, pur di continuare a suonare paga i componenti della sua band di tasca propria e si lega le bacchette alla mano a causa dell’artrosi; o un rapper che raggiunto il successo crede di potersi permettere una qualsiasi azione, probabilmente l’aspetto più raccapricciante dell’essere famosi.

Durante il primo pezzo ti hanno mitragliato di foto. Poi hai chiesto se adesso potevano mettere via macchinette e telefonini. Non c’è stato verso, hanno continuato a scattare ininterrottamente. Sei lì. È inevitabile. Per un attimo ti chiedi se non sanno, ma poi ti dici che sanno, sanno

Ligabue usa un linguaggio semplice e diretto, cambiando spesso registro a seconda del messaggio che vuole trasmettere. Consigliato a chi non ha paura di mostrare il disordine dei pensieri dentro di sé, le proprie emozioni e i propri dolori. A chi non nega il disordine della propria vita perché, per quanto si cerchi di regolarla, di dirigerla, non ci riusciamo e dobbiamo ammetterne l’impotenza. Non si può controllare.

Recentemente, il 24 e il 25 settembre, il ritorno live di Ligabue al Parco di Monza.

 

Serena Votano

Il Movimento E’ Fermo, un romanzo d’Amore e Libertà (ma non troppo)

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Il movimento è fermo, così si intitola il nuovo e primo libro di Lo Stato Sociale. Questo gruppo di cantautori, di poeti moderni, è incisivo fin dall’inizio con un titolo creato su un ossimoro.

Zeno e Genio sono due amici e sono i protagonisti della storia, anzi, delle storie. Tra le pagine di questo romanzo troveremo, infatti, tante storie che, in un modo o nell’altro, si intrecciano tra di loro.

Partono tutte da questi due ragazzi: due 30enni che ancora non hanno ben capito cosa vogliono dalla vita, che sanno cosa vorrebbero fare ma, forse, quello che vorrebbero fare è qualcosa di troppo utopico.

Sono due amici assolutamente diversi, che si divertono ad avere dibattiti filosofici davanti un calice di vino o una birra, che seguono il calcio e cercano (o forse no, non lo sanno nemmeno loro) la ragazza della propria vita.

In una Bologna rossa, quasi anarchica, se ne vanno in giro con un motorino e un furgone un po’ vecchi e, se volete, potete andarvene in giro con loro e vedere se riescono a trovare quello che stanno cercando. Perché tra le strade di Bologna, in effetti, si può incontrare una ragazza bellissima e insicura: Eleonora. Eleonora che, come un fulmine a ciel sereno, cambia tutti i piani di Zeno.

Parallelamente, si svolge un’altra storia: la storia di Michelle, giovane giornalista che vuole cambiare il mondo. Ed il mondo si può cambiare, lei ci riesce… Ma a quale prezzo? E cosa c’entra Michelle con gli altri ragazzi, che si arrangiano come possono ogni giorno della loro vita? Lo scoprirete voi perché, credetemi, non vedrete l’ora di saperlo.

Come tutti i testi e le parole di Lo Stato Sociale, questo romanzo è un continuo di sorprese, un’altalena di parti lente e velocissime. Le pagine si sfogliano da sole, difficile darsi un freno. E, tra una imprecazione e l’altra, si becca la frase della vita: classico del loro stile, troverete dentro questo scritto delle perle che vi si infileranno nel cuore.

Che poi la cosa davvero importante è: il movimento è fermo?

Elena Anna Andronico

La mia Taormina, il mio festival, il mio cinema

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Se nella vita hai una passione allora hai il dovere verso te stesso di coltivarla al meglio. La mia grande passione è il cinema. Quest’anno, grazie ad UniVersoMe, ho avuto l’occasione, insieme ad alcuni colleghi del giornale, di poter vivere una straordinaria esperienza andando al Taormina Film Fest. Si tratta, per chi non lo sapesse, di uno dei più importanti festival cinematografici d’Italia e d’Europa. Vanta ogni anno migliaia di curiosi e tantissime celebrità del mondo del cinema e non che provengono da tutte le parti del mondo. Non poteva non farmi gola un esperienza del genere.

Personalmente ho avuto l’opportunità di andarci per due giorni (il festival dura una settimana) e di poter assistere ad alcune proiezioni interessanti e di incontrare dal vivo alcune delle personalità più influenti del cinema. Ma l’esperienza non finisce qui. L’aria di cinema che si respira non è l’unico aspetto degno di nota. Il contesto è straordinario. Taormina è uno scenario mozzafiato (in tutti i sensi visto che abbiamo fatto la salita che porta dalla stazione al centro di Taormina a piedi). La vista, il borgo, gli odori, tutto ti fa immergere in un contesto fatto di cultura e arte.

Andiamo ora al festival in sé. Come detto prima gli ospiti sono di altissimo livello. Ho avuto l’immenso piacere di incontrare Harvey Keitel dal vivo che ci ha raccontato Hollywood, un posto lontano per noi, con gli occhi di chi Hollywood l’ha fatta e vissuta. Possiamo ricordare la carriera di Harvey Keitel per essere stato l’attore che ha lanciato la carriera di grandissimi registi come Martin Scorsese e Quentin Tarantino. Su questi due signori ha anche raccontato qualche aneddoto piuttosto interessante. Presente anche il regista Oliver Stone che ha parlato del suo ruolo da produttore nel film documentario Ukraine on Fire. Tra gli ospiti anche grandi personaggi italiani come il divertentissimo Enrico Brignano, la simpaticissima Noemi e Claudio Santamaria che ha parlato del suo ultimo grande successo di critica e di pubblico Lo Chiamavano Jeeg Robot.

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Oltre gli ospiti, il festival offre ai suoi visitatori proiezioni eccellenti. Nella serata di apertura è stato proiettato nel teatro antico l’ultimo film della Pixar Alla ricerca di Dory in anteprima nazionale. Ma non solo le grandi produzioni di Hollywood. Ci sono anche tantissime proiezioni di produzioni minori e nostrane che in questo festival trovano modo di farsi conoscere. Oltre il sopracitato Ukraine on Fire ho avuto anche il piacere di vedere il documentario di Fabio Lovino WeWorld presenta: Mothers.

Quello che voglio trasmettere a te che stai leggendo questo pezzo è un invito. Taormina è un gioiello di città che ospita uno dei festival cinematografici più importanti al mondo. Noi studenti messinesi abbiamo la possibilità di vivere questa magnifica esperienza da protagonisti. Che siate appassionati di cinema o semplici curiosi il mio invito è quello di prendere parte attivamente alla prossima edizione. Abbandonate per qualche giorno gli esami della sessione estiva e perdetevi nella bellezza di Taormina e nella bellezza del cinema.

Nicola Ripepi

Earthset: quattro chiacchiere con la Band

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Provenienti da varie parti d’Italia, formatisi nell’ambiente musicale dell’underground bolognese durante gli anni universitari e reduci dal loro primo tour, Ezio Romano (chitarra e voce principale), Luigi Varanese (basso e cori), Costantino Mazzoccoli (chitarra e cori) e Emanuele Orsini (batteria e percussioni), hanno presentato al pubblico italiano il loro LP “In A State Of Altered Uncosciousness”.

Nella musica degli Earthset c’è davvero di tutto. Era vero quello che mi disse Luigi il bassista quando parlammo prima della loro esibizione nell’anfiteatro della cittadella universitaria: “noi abbiamo smesso da tempo di chiederci che genere facciamo” e, d’altra parte, che importa catalogare, dare un’etichetta.

Loro punto di forza è una musica instancabile, innovatrice figlia della tradizione, un’energia che percorre ogni loro pezzo e un senso di panico, come se questo mondo, come se la loro stessa musica stesse stretto agli Earthset. Proprio questo mi porta a profetizzare una rapida ascesa di cui questo punto di partenza, questo loro primo lavoro, ha posto le basi.

Già dall’intro “Ouverture” si intuiscono atmosfere intimiste che faranno eco in tutto l’album; segue una sezione di ballads progressive e fortemente melodiche: “Drop”, “The absence theory” e “rEvolution of the Species”, in cui si incontrano atmosfere Gothic, Post-Punk e Brit Pop.

Le sonorità mutano invece in “Epiphany” che si apre con un lungo arpeggio di Ezio ed un cantato romantico e travolgente, fino alla potente scarica finale. Sentirete un grande riff di basso che aprirà l’unico pezzo cantato quasi interamente da Luigi, “So What”: un punk sbronzo e caotico, che ricorda Dead Kennedys, il movimento anarchico anni ’80, e la New Wave degli Smiths. E’ il pezzo più accattivante e che mi ha fatto pensare di definirli “gli Hendrix del Punk”. Ma il pezzo non finisce in un silenzio imbarazzante, bensì in due note dissonanti di basso che saranno poi l’intro di “Skizofonia”, personalmente il mio pezzo preferito, una prova di maturità incredibile per una band appena al primo album.

Sicuramente è anche il pezzo più sperimentale, un vero “stato di alterata incoscienza”. Sviluppato sopra l’atmosfera oscura di un basso distorto e del delay martellante della chitarra, dall’acustico al noise vibrato e potente, per poi chiudere nel caos puro di uno splendido riff di basso su un tappeto indefinito e ipnotico, splendidamente ritmato da una lenta batteria, e da due voci di chitarra e i “canti dell’anima” che tanto ricordano “the Great Gig in the Sky”.aa

Gone è invece il pezzo più Hard Rock, dalle sonorità dei Guns ‘n Roses al Pop Punk, pur non disdegnando la consueta composizione multiforme, giovanile e rivoluzionaria, che chiude con complesse parti in dispari, per lasciar spazio al lungo arpeggio di apertura di A.S.T.R.A.Y., in cui Ezio può dar prova delle sue eccellenti capacità canore e chitarristiche, in uno splendido assolo finale. Non  a caso è un pezzo di cui è spesso stato richiesto il bis live. Pezzo impreziosito da stacchi “rumorosi” e acustici, prodigiosamente scanditi dalla predominanza del rullante di Emanuele, e di crescendo di batteria sempre al posto giusto.

E chi pensa al rock e alla letteratura horror come può non pensare a “the Call of Chtulu” del secondo album dei Metallica. Ebbene dimenticatelo, perché l’iniziale piano riverberato di chitarra, è ancora più precisamente in linea con le atmosfere orride e bizzarre di Lovecraft. Ed è proprio questo il nome della perla espressionista degli Earthset; una vera chicca di progressione ritmica claustrofobica e ossessionante, con seconde voci disturbanti di Costantino nel sottofondo della voce piangente e disperante di Ezio. Qui Emanuele e Luigi sembrano in trance musicale, grandi interpreti degli arpeggi che risuonano in tutto il pezzo, per poi alla fine lasciare lo spazio a Costantino per uno dei Riff-Solo più azzeccati che mi sia mai capitato di sentire.

Un viaggio nel sentiero della follia che porta all’addio struggente di “In A State Of Altered Uncosciousness”, una ballata dissonante e tormentata di nome “Circle Sea”, dimostrazione di maturità musicale e di scrittura nella perfetta metrica del testo, inscindibile dall’apparato musicale. Sognante e spaziale al contempo. Una poesia in musica, che come suggerisce il nome “mangia se stessa” nel finale, confuso e melodico al contempo. Nel perfetto gioco circolare del serpente che si morde la coda e rimanda all’ Ouverture iniziale.

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Ma adesso è tempo di parlare direttamente con loro.

R: Ciao a tutti ragazzacci!

D: Siete in tour per la promo del vostro primo lavoro in studio. Avete suonato avete già avuto 4 date in Sicilia, tra cui una all’Horcynus Orca ed una a Giardini Naxos. Ezio è messinese, quindi già ha avuto a che fare con la realtà siciliana: che impressione ha lasciato invece su voi tre questa Sicilia e il suo contesto musicale? E quali differenze notate col la vostra Bologna, in genere l’Emilia e il resto d’Italia?

Luigi: Beh dal punto  di vista estetico, sicuramente un’isola splendida, una regione bellissima in cui non ero mai stato. Dal punto di vista musicale invece delle realtà interessanti esistono e si sente buona musica. Bologna ha una scena musicale fin troppo attiva per certi versi, che rischia di divenire dispersiva.

Costantino: Possiamo infatti citare il Music House 17 a Trecastagni, che è una piccola realtà, nata da poco, molto interessante sia come sala Prove, che di registrazione, che di negozio di strumentazione, oltre che come Live House.

Emanuele: invece al nord di posti come questo è più immediato trovarne, non sono così tanti come a Bologna, che è una città dove si fa e si respira molta cultura, ma se si cerca bene si possono trovare ovunque. Qua ho notato tanti ragazzi che hanno voglia di cambiare e conoscere cose nuove rispetto al quotidiano. Molto attivi. È la prima cosa che ho notato.

Ezio: Concordo, la realtà che ho lasciato quando me ne andai da qui si è evoluta. Vi ho ritrovato Giovani propositivi che tentano di portare avanti un discorso musicale non prettamente commerciale.

 

D: “The place where grows this kind of tune

And you can see the Earth-set from the moon…”

“Il luogo dove cresce questo tipo di tonalità e puoi vedere la terra tramontare dalla luna” : recita così uno dei versi più belli della vostra “A.S.T.R.A.Y.” , nona traccia del vostro “In A State Of Altered Uncosciousness”.

Il paragone è d’obbligo con Floyd, che amarono prendere un frammento di Brain Damage per dare un nome ad uno degli album più importanti della storia: Dark side of the moon.

E la prima cosa che si nota ascoltando il vostro album, è che c’è di tutto: dai Tool, ai Floyd, ai Muse, ai Rush, senza però mai ridursi ad un semplice copia incolla di altri artisti. Tutto ha sapore di nuovo e di “antico”. Gli Earthset sono qualcosa di nuovo. Mi chiedo dunque cosa significhi per voi “Earthset”, cosa “In a State of Altered Uncosciousness”?

Ezio:  Earthset è un’immagine che viene da quella lirica citata che è in sé un omaggio ai Pink Floyd ed utilizza la stessa rima di Eclipse, perché è un brano sull’ispirazione artistica, e chi più dei Floyd ha ispirato le generazioni successive. Anche questa rappresentazione di trovarsi sul suolo lunare a vedere la terra che tramonta è tutto una meta-citazione di Dark Side Of The Moon.

Earthset raccoglie in una sola parola quello che per noi è l’esperienza artistica, cioè il porsi in una prospettiva diametralmente opposta rispetto a quella ordinaria. E’ la nostra prospettiva sul mondo, sulla musica, sull’arte.

“In A State Of Altered Uncosciousness” è invece un verso di “rEvolution of the species” , anche per questa nostra voglia di dare una coerenza ai nostri lavori e non essere un’accozzaglia di canzoni, come può essere in certe produzioni più commerciali. E’ il concept dell’album: lo stato di alterata incoscienza che esprime lo stato in cui molti di noi vivono le proprie esistenze sia in positivo che in negativo, una vox media. Ti trovi in questo stato nel momento in cui vivi in modo apparentemente cosciente alla società, ma sei incosciente verso te stesso e viceversa. Un concetto anche un po’ psicoanalitico di contrapposizione tra Sé e Collettività. Bisogna avere il coraggio di mettere in dubbio le proprie certezze, le recite della società, per svelare le sovrastrutture che sembrano il tuo Io, ma che in realtà non ti ritraggono e ti ingabbiano, incosciente a te stesso.

D: oltre al lavoro strettamente musicale, c’è una ricerca anche cinematografica (lo si può vedere dai vostri Videoclip, reperibili su youtube ) e poetica nei vostri testi, misto di esistenzialismo e ermetismo. Come la musica si fonde ai vostri testi per creare un prodotto così composto? E da dove nasce l’ispirazione per scriverli?

Luigi: Un testo sicuramente può nascere da ogni cosa, filtrata però attraverso l’esperienza personale. Così come Ezio racconta in “the Absence Theory” un suo momento privato, la canzone dove canto io, “so What”, è un racconto stilizzato di una mia serata di sbronza un po’ presa a male. Inoltre in quel periodo ero in fissa con un libro russo, un viaggio nell’estasi alcolica, un racconto tragicomico, per cui ci sono sicuramente influenze letterarie e musicali. Prendi “Lovecraft” ad esempio, dedicato all’omonimo scrittore, che è una trasposizione della novella “i Sogni Nella Casa Stregata”, che vi consiglio di leggere.

Emanuele: “rEvolution Of the Species” fa riferimento al periodo politico che stavamo vivendo, il governo Monti. Ci dava fastidio l’idea che se il sistema capitalistico fallisce e dimostra di essere pesantemente in crisi, vi sia la pigrizia mentale di non provare a trovare delle soluzioni,  ma si cerchi in tutti i modi di salvare il sistema coi suoi propri mezzi che già hanno dimostrato di essere fallaci.

Costantino: Dobbiamo metterlo in discussione questo sistema. Ed è proprio durante le nostre discussioni che ci facciamo i viaggioni e scriviamo i testi. Insomma la nostra musica nasce dal dialogo.

D: State già lavorando ad un nuovo Progetto?

Costantino: si,  abbiamo già prodotto del materiale che sarà condensato in un EP sul quale stiamo già lavorando. La produzione artistica sarà sempre di Carlo Marrone, Enrico Capalbo e Claudio Adamo. Per le batterie avremo alla produzione un altro produttore. Dovrebbe essere un EP a 4-5 Tracce, con brani che già suoniamo anche dal vivo.13442489_1195250337160438_1578367912385154853_o

D: cosa vedete nel futuro del panorama musicale italiano? Si va sempre più verso un sterilizzazione musicale, che porta alla celebrità burattini senza idee o sentite vento di cambiamento nell’aria?

Ezio: l’Italia è un mercato estremamente difficile, è un mercato in cui c’è poca attenzione verso le produzioni indipendenti a livello di grande pubblico. Il grande pubblico è quello del mainstream, dei talent, delle Major e purtroppo questo nei prossimi anni non lo vedo come una cosa in mutamento. Certo la scena indipendente sta crescendo anche se rimane in una cerchia ancora ristretta e appannaggio per lo più di certa critica del settore e appassionati del genere.

Luigi: purtroppo sono i sistemi di informazione principali ad avere il controllo, fin da piccoli siamo influenzati da quelli.

Costantino: Si infatti! Quello che interessa alle major è avere un ritorno economico, vendere. Quindi che loro abbiano uno o due artisti, anche se dureranno solo un anno, loro sanno che per quell’album rientreranno nelle spese e ci guadagneranno pesantemente, anche se poi scomparirà nel nulla.

Ezio: non vorrei buttarla sulla critica ai talent, ma si sa che sono il canale principale delle nuove proposte, per cui un ambiente indie, come quello in cui ci muoviamo noi arranca. La rete spezza molto e aiuta le realtà indipendenti, ma ancora non è abbastanza forte per supportare un mercato rivale di quello delle major, come magari avviene all’estero, prendi il caso di Grimes, artista canadese, a livello internazionale conosciutissima.

Luigi: si parla comunque di un tipo di prodotto più facilmente accostabile a quello che viene mandato dalle major, per cui è anche più facile. Comunque l’epoca delle rockstar col jet privato è bello e finito, non tornerà più. Dimenticatela.

Emanuele: un piccolo inciso, Alan Moore diceva che tutto ciò che ha un pubblico è classificabile, ma non fa sempre massa. L’underground non vuole essere troppo ristretto a livello di pubblico, anzi ha un pubblico molto vasto e non parlo solo di musicisti, ma di artisti, writers, DJ, non quelli da discoteca, ma i grandi producer. Certamente il mainstream è più visibile, ma la proporzione rimane su 60 e 40.

Luigi: io ho una teoria su questa cosa e penso che ogni 30 anni ci sia una rivoluzione musicale. La prima l’hanno fatta i Beatles, la seconda i Nirvana, fra un’altra decina di anni ne aspetto un’altra.

Ezio: dobbiamo essere pronti!

Luigi: eh, noi saremo già bell’e vecchi…

Emanuele: …ma soprattutto belli!

Luigi: insomma se uno pensa agli anni 90 per cui una scena indie minuscola diventa commerciale, grazie all’esplosione dei Nirvana a caso, e non si sa come siano arrivati a vendere così tanto. Però sono essenzialmente i nuovi Beatles. Hanno cambiato anche le sonorità pop che venne dopo. Fu una cosa imprevedibile, alla fine erano tre che nemmeno sapevano suonare bene, con dei suoni cacofonici, anche se degli ottimi interpreti.

D: se poteste salvare un pezzo ciascuno (o più di uno) quali salvereste?

Emanuele: lo so! “Maquiladora” dei Radiohead. È un pezzo bellissimo che non conosce nessuno! L’ho conosciuto da un loro live del ’94. Poi per ora lo ascolto ogni giorno, più volte, e siccome scegliere un pezzo in assoluto è impossibile, tanto vale scegliere quello con cui sei in fissa al momento.

Ezio: Non mi uccidete, ma io salverei Bach il corale della cantata 147, “Jesus Bleibet Meine Freude”. Costantino?

Costantino: Se dovessi salvare qualcosa dalla catastrofe universale, io devo andare per forza sui Pink Floyd. Lo prendo come un unico brano, ma per me è come se lo fosse: The Wall, nella sua integrità.

Luigi: io salvo “When the Music is Over” dei The Doors perché è il mio pezzo preferito che conosco da quando ero  bambino perché lo ascoltava mio padre e rimane nel mio cuore.

Ezio: posso aggiungere le “Variazioni Goldberg” sempre di Bach?

Costantino: sottoscrivo!

D: ho voluto fare questa intervista perché credo davvero nelle vostra capacità ed è sempre bello parlare con qualcuno della propria passione, i propri sogni. Earthset è un nome di cui spero sentiremo parlare, e consiglio a tutti gli amanti della musica l’ascolto di “In A State Of Altered Uncosciousness”. Questo spazio finale lo lascio a voi, per dire qualsiasi cosa vi salti in mente, dalla citazione alla confessione, alla lista della spesa.

Luigi: posso dire una cosa seria? Noi ci siamo conosciuti in ambito musicale, un consiglio che mi sento di dare a te e a tutti i musicisti è di sforzarsi di fare pezzi propri, di non aver paura. Anche da soli, a caso, ormai si riesce a registrare anche in camera! Non importa se i suoni fanno cagare, è il processo creativo che è importante. Quello che sta succedendo è che si scinde il processo creativo dal concetto di musica, cosa sbagliata.

Ezio: la musica è creatività! Anche se il mercato vi dice che facendo musica di altri riuscite a fare qualche serata in più, mettete in moto la  vostra creatività anche per una questione di soddisfazione personale.

Luigi: anche io ho iniziato da autodidatta in un gruppo cover e mi divertivo tantissimo, ma la soddisfazione che hai dopo che scrivi un tuo album, anche se poi i pezzi fanno schifo, è qualcosa in più.

Costantino: Perché è tua, semplicemente.

Ezio: Non fermate la musica, grazie di cuore a tutti.

Angelo Scuderi

 

 

”Seconda Primavera” di Francesco Calogero: intervista al regista

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Francesco Calogero è nato a Messina nel 1957 ed è uno dei registi che potremmo annoverare nell’ambito underground del cinema italiano, quello cioè che risulta ad oggi più vivo, più interessante e più intenso della sua controparte mainstream, colpevole di avere invece affossato un’industria e un’arte prima valide a livello internazionale.

Il 4 febbraio 2016, a sedici anni dall’ultimo lungometraggio Metronotte, è uscito nelle sale Seconda Primavera, toccante sesta prova della sensibilità da cui la filmografia di Calogero è attraversata. Stato, pochi mesi fa, nelle sale, Seconda Primavera racconta, nell’arco di sei stagioni, le storie incrociate di quattro personaggi, ciascuno rappresentativo di una diversa età della vita.

 

Lo abbiamo intervistato per via telematica per parlare con lui di Seconda Primavera e di cinema.

 

  1. Come nasce l’idea per Seconda Primavera?

 

Credo che tutto sia partito da una visita casuale alla villa che costituisce il set principale del film, in un plumbeo giorno d’autunno. Quel giardino, di cui avevo apprezzato la magnificenza in estate o in primavera, si presentava ostile, il suolo cosparso di foglie secche, i rovi cresciuti a dismisura, quasi a voler impedire l’ingresso ai visitatori, sferzati dal vento e dalla pioggia. In una villa lontana dal centro abitato, a rischio isolamento perché raggiungibile solo attraverso una strada sterrata sulla riva del mare, pronto a inghiottirla, è piacevole stare solo nella bella stagione: col cattivo tempo i suoi occupanti possono passare giorni rinchiusi dentro, in perenne stato di esasperazione. Ho provato a immaginare come potessero cambiare i rapporti tra alcuni personaggi, stagione dopo stagione, confinati in una casa piccola come quella, in una situazione in cui è stata data più importanza al giardino, alla vita all’aria aperta. Da lì, tra vita vissuta e numi tutelari di turno, è cominciata la consueta stratificazione: voci diverse alla Thomas Stearns Eliot, potrei dire, sottolineando così quanto io gli debba in termini distruttura sinfonica, o per le associazioni di temi e simboli. L’inizio dei Quattro quartetti sembra offrirci anche lo scenario, lo specchio d’acqua dove si alzano i fiori del loto alla luce del sole, ed il celebre giardino delle rose, quello a cui si accede attraverso la porta che non abbiamo mai aperto: in Seconda primavera è testimone di un abbraccio, dopo un divertito inseguimento, che nasconde il reciproco turbamento di Andrea e Hikma (due dei personaggi principali). Lo raccontiamo già nel manifesto del film, in cui la grafica Katia Donato rende brillantemente tali temi.

 

  1. Nel tuo film c’è tanto (buon) gusto per la citazione. Non solo T. S. Eliot, come riferisci adesso, ma anche Philip K. Dick, e poi Shakespeare e Bellini… e soprattutto, è impossibile vedere il personaggio di Hikma (interpretata da Desirée Noferini) senza pensare a La donna che visse due volte.Da cosa è derivato il bisogno di questi riferimenti?

 

Non è un vero e proprio bisogno, ma forse solo un desiderio di conforto, necessario per vincere le insicurezze che ti assalgono nel corso della tua ricerca: ti aiuta molto avvertire certe assonanze, rendersi conto che già qualcuno prima di te si è soffermato allo stesso modo sul medesimo dettaglio. Del resto, chi pensa di star creando qualcosa di inedito e rivoluzionario, è un illuso: i grandi libri sono stati scritti, e i grandi detti sono stati pronunciati. Per quanto riguarda Shakespeare, la vicenda del Sogno ci mostra anch’essa coppie che si scompongono e ricompongono, e un andirivieni tra città e campagna. Se seguiamo la suggestione di alcuni critici, e lo guardiamo dal punto di vista di Hikma, questo movimento dalla corte di Atene alla foresta rappresenta il passaggio dall’istintività giovanile alla razionalità della vita adulta: Seconda primavera non è soltanto la storia di una senilità, intesa in senso sveviano, ma anche un coming-of-age movie. In realtà tutto il Sogno, con i suoi continui richiami alla trasformazione – vedi quel che accade a Puck e Bottom, non a caso presenti entrambi nelle due scene esplicitamente citate nel film – rappresenta un’allegoria delle metamorfosi che avvengono nella vita di ognuno: dunque il discorso riguarda anche Andrea, e i ripetuti cambiamenti della sua vita nel teatro del suo giardino, piccola foresta incantata… E come il Sogno, anche Seconda primavera è una storia d’amore in tutte le sue forme, in cui si spazia da un sentimento irrazionale a quello frutto di calcolo; dall’amore platonico, in qualche misura rispettoso delle convenzioni sociali, a quello infedele, disgregatore di equilibri. In questo senso Riccardo è ora costruttore, ora sabotatore di una razionalità in perenne conflitto con la sua parte più oscura. Se si vuol leggere la vicenda in chiave psicoanalitica, c’è infatti un’ulteriore corrispondenza con il Sogno: laddove i due luoghi nei quali si svolge quella storia, la corte di Atene e la foresta, diventano per noi la città con tutte le sue pastoie giornaliere, dove bisogna rispettare le leggi (anche quelle edilizie), e dunque è la ragione a comandare (il Super-Io); e in opposizione c’è il giardino, l’Es, il nostro lato oscuro, la parte subconscia e irrazionale, il luogo notturno e magico dove a regnare sono i desideri e gli istinti. Tutti i personaggi della commedia, allo spuntar del sole, affermano di aver sognato: e in qualche modo lo fa anche Hikma, che sembra voler rinnegare la sua esperienza d’amore in quella notte (chiedendosi, “Forse ero sonnambula”). La citazione belliniana parte da qui, ma non solo. Quando ho messo in scena La sonnambula, alcuni anni fa, già meditando su Seconda primavera, avevo appuntato l’attenzione sul pericoloso percorso finale di Amina, imposto dal libretto, un camminamento alto e infido che da noi era diventato un ponte mobile. Ma prima di allora, ritrovare sul nostro set un ponte simile aveva fatto sì che mi imponessi di utilizzarlo a scopi narrativi. Parliamo di un elemento largamente simbolico: basti pensare all’etimo della parola “pontifex”, i sacerdoti sono coloro che costruiscono il ponte, che aiutano il passaggio tra la terra dei vivi e il regno dei morti. L’idea forte c’era già, il ponte era stato chiesto all’architetto Andrea dalla moglie Sofia, dopo la scoperta quasi casuale della terrazza, da quel giorno diventata il suo regno: così ho immaginato Andrea impossibilitato a tornare in quello spazio, a cui è legato da troppi ricordi dolorosi. Ammesso che non sia soltanto una sua immaginazione, ci riuscirà solo nel finale, come attratto da Sofia, ma anche commosso e suggestionato dal percorso rischioso di Amina, che sta ammirando a teatro. Anche l’eroina belliniana vive una condizione di revenante, quando il conte Rodolfo si turba nel rivedere nei suoi occhi quelli della donna profondamente amata nel passato. In realtà il tema dell’eterno ritorno è certamente più decadente e tardoromantico, e anche più anglosassone – pensiamo, per dire, a tanti personaggi di Edgar Allan Poe – rispetto al milieu in cui agivano il librettista Felice Romani e lo stesso Bellini. La verità è che un libretto dalla genesi tormentata aveva costretto il conte ad atteggiamenti contraddittori: così, caduta l’ipotesi che la fanciulla potesse essere sua figlia, non restava che accettare l’idea del Doppelgänger. E quando Amina, in stato di sonnambulismo, praticamente gli si offre, il conte resiste: insomma, anche lì la soppressione del sentimento erotico, vuoi per la situazione, vuoi per la notevole differenza d’età, vuoi soprattutto per quell’impressionante somiglianza che turba e blocca… Già, siamo giunti a Hitchcock. Ovviamente è un paragone che temo: Vertigo (La donna che visse due volte) è uno dei film più importanti della storia del cinema. In realtà, considerati i punti di contatto tra le due storie, mi sono limitato a mandare leggeri segnali, giocando sul filo dell’ironia. Parlando prima di camminamenti a rischio, di altezze, di equilibri precari, ho già fatto riferimento al tema dell’acrofobia, centrale nell’intrigo hitchcockiano. E così di seguito, mi è venuto naturale chiamare Scottie – utilizzando dunque il nomignolo del personaggio di James Stewart nel film – il nostro Jack Russell Terrier, scelto perché abile a scavare buche nel giardino: un aggancio al delirio di Riccardo, che nota il disappunto di Andrea per l’azione del cagnetto, e lo sospetta di aver occultato il cadavere della moglie (e dunque di temere un’eventuale involontaria riesumazione), infilando una suggestione simile nella revisione del suo romanzo. Se il racconto di un animale che rivela la presenza di un cadavere fa nuovamente pensare a Poe e al suo Gatto nero, in realtà qui ritorniamo alla Terra desolata, al monito rivolto a Stetson – che è un uomo d’affari della City misteriosamente associato alla battaglia navale di Mylae (cioè Capo Milazzo, un luogo molto vicino al nostro set di Acqualadroni) – a badare al cane che vorrebbe dissotterrare il cadavere da lui seppellito in giardino. Anche se il racconto fatto dal cane è verosimilmente rubato da Riccardo a Roog, il primo racconto che Philip K. Dick riuscì a vendere, ispirato dall’animale posseduto dal suo vicino… Tornando a Hitchcock, mi è sembrato pertinente chiamare “La moda che visse due volte” il negozio di abiti vintage appartenuti a Sofia: lo intravediamo nella foto custodita nel baule. Ma certamente i vestiti dell’una che finiscono addosso all’altra è un riferimento non da poco, e la scena dello chignon una citazione diretta, anche se con una netta differenza temporale: Kim Novak/Judy oppone una piccola resistenza a James Stewart sulla richiesta di raccogliere i capelli in uno chignon, esattamente come faceva la defunta Madeleine, perché teme che la macchinazione sia scoperta, ma poi rientra in bagno, e lo accontenta; Hikma si rifiuta recisamente, quasi a muso duro, anche lei impaurita dal fatto che Andrea la stia troppo pericolosamente assimilando a Sofia, ma poi ci pensa su, e la sera dopo decide di sfoggiarlo durante la cena, sente di doverglielo… Andrea appare poi inizialmente depresso perché si sente anche lui responsabile della morte della moglie, e da lì affetto da una sorta di necrofilia “per fedeltà”: esattamente come Scottie Ferguson “vuole andare a letto con una morta” (Hitch dixit). Lo stesso regista chiama “sesso psicologico” questo desiderio di ricreare un’immagine sessuale impossibile: è il sottile crinale su abbiamo deciso di far camminare il personaggio di Andrea, preparando il film con Claudio Botosso, che lo interpreta in maniera assai partecipata. Per quanto riguarda i sensi di colpa, il tormento per il ricordo di Sofia lo avvicina anche al personaggio di Laurence Olivier in Rebecca, la prima moglie, giusto per restare su Hitchcock. Anche per quel sospetto di omicidio che Riccardo getta su di lui…

 

  1. Personalmente ho sempre trovato difficile inquadrare la tua filmografia come quella di un cineasta di genere o d’essai. Alla luce dei dibattiti sulla validità di queste etichette, dobbiamo pensare ad un tuo rifiuto di esse, oppure pensi di farne parte?

Parlare di cineasta d’essai mi suona strano… in fondo, i miei film non sono così estremi, di quelli che piacciono solo ai critici o ai selezionatori dei festival. Anzi, direi che sono addirittura più contento, rispetto alla lettura delle recensioni favorevoli, quando percepisco chiaramente l’emozione provocata nel pubblico delle sale. E per fortuna è accaduto spesso, soprattutto con quest’ultimo film. Se parliamo di generi, l’ambito in cui mi muovo è sempre quello del dramedy, la commedia drammatica, a volte più carica di toni foschi, come accade in Seconda primavera, in altre circostanze più incline alla leggerezza. Un termine che mi fa pensare al mio primo film professionale, La gentilezza del tocco, il cui titolo fu spesso storpiato: erano gli anni della celebre Insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera. A questo proposito, ricordo che quando scrisse la prefazione al volume che racchiudeva le mie prime tre sceneggiature – si chiamava appunto anch’esso La gentilezza del tocco, fu pubblicato da Sellerio nel 1994 – Enrico Ghezzi definì i miei film “polizieschi del cuore”. Io mi ci ritrovo, mi accorgo che continuo a scrivere storie in cui il tema della quest, lievemente avvolta nel mistero (come avviene anche in Seconda primavera), è solo un pretesto per un’analisi amorosa, ed esistenziale lato sensu. Uno dei cineasti che ammiro maggiormente,l’americano John Cassavetes, dichiarava in un’intervista che nessuno può vivere senza filosofia. Ma lui attribuiva al termine filosofia un’accezione… come posso dire, rovesciata. L’amore per la saggezza, secondo l’etimo greco, era diventato per lui anche la sapienza, lo studio dell’amore. Come dire, ogni cineasta non può girare film senza analizzare l’amore. Ecco, direi che il mio genere – sempre senza mai perdere di vista il contesto sociale in cui si muovono i personaggi – sono i film filosofici d’amore.

 

  1. Un’ultima domanda.Seconda Primavera è uscito in un anno particolarmente prolifico per il cinema italiano. Oltre ai film di autori già affermati, come Sorrentino o Tornatore, l’opera ultima del compianto Claudio Caligari, Non essere cattivo, sono arrivati nelle sale giovani registi come Gabriele Mainetti ed il suo Lo chiamavano Jeeg Robot, premiato ai David di Donatello e Matteo Rovere, al suo terzo film con Veloce come il vento, che sembrerebbero promettere bene, in un panorama cinematografico da tempo artisticamente sterile. Hai dei nomi, tra i giovani registi nostrani, in cui riponi speranze concrete per risollevare le sorti del cinema nostrano?

 

Ovviamente per me non ha senso qui citare nomi fin troppo conosciuti. Io ripongo speranza nei giovani cineasti che si allontanano dal mainstream, spinti da un’ispirazione autentica, senza mirare ad épater le bourgeois, come si diceva un tempo, ma assumendosi dei rischi, e accettando la loro marginalità nei confronti di un sistema marcio – vedi quel che è successo al succitato Caligari, osteggiato in vita e celebrato solo dopo morto – come il nostro. Se faccio i nomi dei gemelli De Serio, o di Michelangelo Frammartino, sono certo che al grosso pubblico dicano poco, e questo racconta bene come sia irrimediabilmente compromessa la situazione italiana…

 

 

 

 

Angelo Scuderi e Andrea Donato

Essere un samurai: una storia fra onore e dovere

 

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Tasogare Seibei (The Twilight Samurai), è un film del 2002 diretto da Yoji Yamada.

Seibei Iguchi (Hiroyuki Sanada) è un samurai al quale la vita ha proposto una grande sfida. La morte della moglie per tubercolosi lo lascia inerme e da solo a dover badare alla sua famiglia, composta da due figlie e la madre anziana con evidenti segni di demenza senile.

Il film si apre sul letto di morte della moglie del nostro samurai, accompagnata da una narratrice esterna che ne descrive la vicenda e la situazione circostante, senza alcuna presentazione di norma. Viene introdotto Seibei e la sua routine, che si basa sull’alternanza fra lo studio propedeutico per la sua “professione” di samurai e la sua attività domestica, accudendo le figlie, la madre e lavorando i campi, trovandosi spesso costretto a dover rifiutare inviti dei suoi amici per poter adempiere ai suoi compiti. Questa situazione lo porterà a trascurare sé stesso a tal punto da vestirsi di una tunica vecchia e sgualcita e perfino a non curare la propria igiene, con grande disappunto dei suoi colleghi il quale lo porterà ad avere problemi sul posto di lavoro.

La situazione sembra sfuggirgli di mano quando, in suo soccorso, arriva la giovane e bella Tomoe Linuma (Rie Miyazawa), sua amica d’infanzia, che si propone come aiuto in casa con le faccende domestiche e inizia a intrapendere anche un rapporto, quasi materno, con le figlie. Seibei scopre, dal fratello di Tomoe, che la ragazza è sposata ma è riuscita ad ottenere il divorzio poiché il marito alcolizzato non aveva riguardi nei suoi confronti e spesso la maltrattava. Sarà proprio l’incontro di Saibei con il marito di Tomoe, anch’egli samurai, a cambiare le sorti della sua vita.

Candidato agli Oscar 2002 come Miglior Film Straniero, “Tasogare Seibei” è un film costituito da pregi e da difetti. Benché agli occidentali non sia usuale essere a contatto con film dall’estremo oriente, quest’ultimo riesce, almeno nell’ambito della regia, a compiere un buon lavoro. E’ sicuramente diverso da ciò che ci si possa aspettare, con miseri combattimenti fra samurai (sostanzialmente due), che più sul lato fisico, si concentrano sul lato psicologico e le diverse difficoltà che un uomo solo, indipendentemente che sia un samurai o meno, deve affrontare.

Tuttavia in diversi momenti la pellicola si presenta piuttosto lenta, portando lo spettatore a pensare se determinate scene o alcuni momenti fossero davvero necessari. Nel complesso, il film si presenta bene, non eccessivamente emozionante, ma neppure eccessivamente sottotono. E’ molto utile per comprendere una dimensione lontana dalla nostra che, nonostante nell’era moderna sia stata molto avvicinata al mondo occidentale, è comunque difficile percepire, riconoscendo limiti e analogie di due culture necessariamente diverse.
                           Giuseppe Maimone

Dietro le quinte: vi racconto di Radio UniVersoMe

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Se ci mettiamo a parlare in una stanza buia, le parole assumono improvvisamente nuovi significati.

Marshall McLuhan

 

Era il 5 maggio 2015, quando ci siamo ritrovati tutti nell’ufficio stampa del rettorato dell’Università di Messina per iniziare questo coinvolgente percorso che ha portato alla creazione del progetto UniVersoMe.

È passato quasi un anno da quel giorno e tra ostacoli, tempi che si sono allungati all’infinito e problemi di ogni genere, siamo riusciti a diventare qualcosa di concreto, di visibile: una testata multiforme di cui ogni studente può fare parte e può usufruire. Informazione, cultura, eventi, comicità: abbiamo tutto.

Quando mi sono trovata catapultata in questo mondo mi sentivo un po’ zoppa, un po’ spaesata. Un pesce fuor d’acqua, per così dire. La mia esperienza nell’ambito della scrittura, del giornalismo, si riduceva ad un puro hobby, un passatempo amatoriale giusto per scaricare lo stress. Circondata dai miei colleghi che stanno seguendo un corso di studi per diventare Giornalisti con la G maiuscola, ho pensato: ‘’ ma che ci faccio qua?’’. La risposta è arrivata da sé, è proprio questo il bello della scrittura, tutti possono scrivere. Basta farlo con piacere. C’è chi diventerà qualcuno, chi invece, come me, ne trarrà sempre solo sensazioni piacevoli e soddisfazione personale.

E così eravamo noi 9 che costruivamo, mattoncino su mattoncino, tutto questo. Poi un giorno, a Dicembre, Alessio mi chiama e dice: ‘’Ele, te lo ricordi che hai dato la tua disponibilità anche per il canale Radio? Deve partire a breve’’. Tatatan. Ho iniziato a sudare freddo. Per la voglia di fare, e fare il più possibile, avevo dato la mia disponibilità sia per il giornale che per la radio. Non potevo tirarmi indietro, per orgoglio, per sfida, per fare da spola tra i due canali. E così, rimbocchiamoci le maniche, facciamo partire il canale radio.

Siamo partiti in tre e ci siamo ritrovati in otto, otto persone che a malapena si conoscevano e che buttarono giù un programma con la consapevolezza che tutto, all’inizio, sarebbe stata la simulazione di sapere cosa stavamo facendo, andando a braccio nella speranza di essere assistiti da una sana botta di culo. Sai, ti ritrovi a dover fingere di conoscere la persona con la quale intrattieni il pubblico, devi trovare quella scintilla di affinità che vi faccia andare d’accordo o litigare, che mantenga viva l’attenzione.

Senza darlo a vedere, ero abbastanza preoccupata. Avevo fatto Radio, ma una cosa è farla guidata dal tuo maestro e insegnate del mestiere, un colosso con un’esperienza incommensurabile alle spalle, una cosa è farla con altri pulcini imbranati come te. Poi quando mi hanno comunicato che mi sarei occupata di sport con Panebianco ho stilato un elenco con centinaia di possibili scuse per lavarmene le mani, ma questa è un’altra storia.

La radio è un mondo a sé stante. Qualsiasi cosa che sia scritta, pure se si ha una finestra limitata di tempo per scriverla, la si può correggere, rivedere, aggiustare, rendere il più corretta possibile, sfiorando la perfezione. La radio Logo_radiono.

La radio è una botta e risposta continuo, sei tu e un’altra persona, due microfoni e una stanza. Si ha davanti un pc e una consolle e tu devi essere così attento e coordinato da saper fare partire e fermare al momento giusto le canzoni, ricordare di spegnere e accendere i microfoni, far sparire qualsiasi tipo di rumore esterno.

In tutto ciò devi pure essere spigliato, non farti bloccare dalla paura del microfono. Sembra banale, ma ci si sente da una parte quasi stupidi a parlare da soli, dall’altra lo sai che ci sono persone che ti ascoltano, togliendosi del tempo per farlo, e quindi sale l’ansia da prestazione, non puoi commettere errori.

Parli. Parli per dare informazione, per distrarre le persone, per comunicare qualcosa. Deve essere una conversazione normale con un amico, ma non è normale: i tempi verbali devono essere precisi, non puoi dire corbellerie riguardo all’argomento che stai trattando, devi cercare di tenere un ritmo scorrevole. Non puoi parlare sopra al tuo co-conduttore. Questo è particolarmente difficile: io e le mie amiche riusciamo a parlare tutte contemporaneamente di cose diverse capendoci, succedesse durante la trasmissione sarebbe solo un gran caos. Da quando indossi le cuffie e clicchi play sei fregato: o la va o la spacca.

Radio UniVersoMe oggi compie 3 settimane. Considerando che la fase embrionale dura 4 settimane, siamo ancora molto piccoli ed immaturi ma non troppo. Devo dire che non me l’aspettavo proprio il calore che si è creato, all’interno e all’esterno della bolla radiofonica. Noi come gruppo siamo diventati solidi, tutti sulla stessa linea d’onda, amici. E da voi, pubblico che ci leggete e ascoltate, arriva qualcosa, quel qualcosa che ci spinge a migliorarci di settimana in settimana, che ci sprona a fare sempre meglio. Con un perfetto equilibrio tra teste calde e razionalità, battibecchi, prese in giro, serietà e serenità stiamo concretamente facendo qualcosa che rimanga nelle mani della nostra università e degli studenti che arriveranno dopo di noi.13016758_10209141176276161_599495794_o

Questa è la nostra storia, la storia di alcuni ragazzi che vogliono dare voce all’università e che vi aspettano tutti i Lunedì e i Mercoledì (alle 15:00 e alle 17:00) eccitati come bambini di poter parlare con voi.

Elena Anna Andronico

Ninni Bruschetta e la sua carriera da “attore non protagonista”

Ninni Bruschetta, regista teatrale, attore, sceneggiatore e direttore artistico del Teatro Vittorio Emanuele, torna presso l’Aula Magna del Dipartimento di Scienze Cognitive, Psicologiche, Pedagogiche e degli Studi Culturali, dove viene accolto con un calore che lui stesso aveva trovato e riscontrato nel lontano 2010, quando ebbe modo di presentare il suo libro intitolato “Il mestiere dell’attore”, con prefazione di Franco Battiato.

Questo suo nuovo lavoro, edito da Fazi Editore e intitolato “Manuale di sopravvivenza dell’attore non protagonista”, è un libro che racconta di un Bruschetta che inizia a fare un bilancio del suo mestiere fin qui svolto, mettendo a nudo con professionalità le proprie esperienze teatrali, televisive e cinematografiche, svolte nl corso di una quindicina di anni.

Raccontare, afferma l’attore messinese, è la cosa più bella che esiste.

Rispetto al suo primo libro, dove Bruschetta offre le sue riflessioni ben documentate su quello che è il ruolo dell’interprete rispetto al testo e rispetto al contesto in cui esercita il mestiere, in questo secondo suo lavoro, lo sceneggiatore è critico nei confronti dei meccanismi del mondo dello spettacolo. Bruschetta parla dello spettatore e di come questa figura, nel tempo, sia andata sempre più a peggiorare in quanto, in spazi brevi non solo è costretto a leggere la storia del protagonista che in quel momento l’attore recita, ma perde, al tempo stesso, il significato di che cosa è il cinema.

Al tempo stesso però, lo stesso spettatore, diventa colui che ti coccola, ti rende euforico. E’ all’interno dell’inquadratura che si trova il senso del cinema anche se, l’attore cinematografico, rispetto al collega teatrale, non avrà mai il senso di quello su cui sta lavorando. Il direttore artistico del Teatro Vittorio Emanuele spiega, ai ragazzi presenti del progetto cinema, coordinati dal professore Parisi, che “l’ attore deve essere sempre responsabile del linguaggio che usa e per confrontarsi con altre realtà, deve stare in continuo movimento”.

Nel corso dell’incontro, altro tema toccato è stato quello del settore cinema , fortemente in crisi e la comunicazione che si fa sui social, per promuovere i prodotti, non rappresenta nulla a livello nazionale in quanto chiusa e per questo motivo, non ha peso di alcun genere. Bruschetta, in base alla sua forma di pensiero, spiega che i giovani navigano su un piano completamente diverso da quello su cui viaggia lui e coloro che sono a lui coetanei. Non si sente di dar loro nessun consiglio ma, nello stesso tempo, afferma che un bravo attore, nel momento in cui va in scena, deve esser pronto a sospendere i propri giudizi personali su fatti e personaggi che sta andando a rappresentare. Da venti anni a questa parte, afferma a conclusione del suo intervento l’attore messinese, si è fatto all’interno del nostro paese uno scempio di cultura e solo un uomo di cultura, di cui lui non fa il nome, poteva distruggere la cultura stessa.

L’incontro con l’autore del libro “Manuale di sopravvivenza dell’attore non protagonista” e moderato dal professore Dario Tomasello, è poi proseguito con la proiezione di alcune clip che vedevano impegnato Bruschetta all’interno di vari contesti: da “La Trattiva” di Guzzanti a “Paolo Borsellino” passando per i “Cento Passi”.

Da ricordare che grande è stato il successo avuto da Bruschetta durante la tournée teatrale “Amleto di William Shakespeare” dove, all’interno del contesto, l’uomo Amleto acquisisce la consapevolezza di una caduta spirituale e sceglie di abbandonare il paradiso terrestre per essere un comune mortale con le sue imperfezioni.

Piero Genovese