Fabrizio De Andrè: Musica, Poesia e Società

Lunedì 1 aprile 2019. Ore 15:40. Auditorium del Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne dell’Università di Messina. L’associazione Must, ha dato vita ad un incontro intitolato “Fabrizio De Andrè: Musica, Poesia e Società”, in occasione dei 20 anni dalla scomparsa del famoso cantautore.

Durante l’incontro sono intervenuti il professore Giorgio Forni, ricercatore universitario, il professore di comunicazione e giornalismo Francesco Pira e il professore Marcello Mento, giornalista della Gazzetta del Sud. Ai partecipanti sono stati riconosciuti 0,25 CFU.

Nel corso del convegno sono state analizzate le canzoni di De André come vere e proprie poesie del Novecento italiano, un’indagine concentrata sull’umanità dell’autore e dei testi, sui temi e i sentimenti più forti: la necessità dell’amore, l’incombenza della morte, la ricerca di Dio.

La musica leggera italiana, dal principio sino ad ora, ha conosciuto trasformazioni perenni, metamorfosi, innovazioni del linguaggio, dei contenuti e dei destinatari. Come ogni arte è specchio di informazioni sull’uomo.

L’esordio di Fabrizio De André come cantante coincide con un periodo di palpabile fermento nel mondo della musica e nella società italiana. A questa fase di rinnovamento egli partecipa attivamente, muovendo la sua personale ricerca in direzione di nuovi contenuti e nuove forme. La finalità di De André e di altri cantautori è accompagnare alla musica una maggiore profondità testuale, una varietà di argomenti “alti” e “altri” rispetto alla tradizione canzonettistica del paese. Ne consegue la necessità di conformare alle nuove e più impegnate tematiche un linguaggio e una forma adatta a sostenerne lo slancio.
Nell’ascoltare le canzoni del cantante genovese ci si accorge immediatamente della cura che la scelta di ogni parola ha richiesto. Come nella poesia ogni termine occupa un suo posto specifico, per contenuti, musicalità, esigenze metriche o stilistiche, allo stesso modo, nelle canzoni di De André, la parola impiegata colma tutto lo spazio a sua disposizione e ha un’assolutezza che la fa apparire come insostituibile.

Fabrizio De André era maniacale, perfezionista e puntiglioso, capace di stare per giorni interi a cercare la parola giusta da incastrare in un verso, ma era anche un grande compositore musicale, oltre che attento ricercatore di musica antica e popolare. Spicca la perfetta fusione fra una melodia leggera anche se drammatica, e un testo che dietro alla poesia, volutamente ingenua. Uno degli stratagemmi musicali utilizzati dal compositore durante la prima parte della sua carriera era l’alternanza tra la tonalità di La minore e quella di Do minore. L’ascoltatore, nei testi di Faber – così soprannominato per la sua passione per le matite colorate –  si immerge completamente. Il cantautore spesso si appropria di stili, sonorità o addirittura di melodie, prese in prestito dalla sua memoria.

L’ultima grande fonte di influenza, una tra quelle che maggiormente hanno caratterizzato il suo stile musicale, è stata la musica etnica. Molteplici sono state le influenze folcloristiche nella musica del Maestro, partendo dalle influenze del bacino mediterraneo, ad esempio con l’utilizzo del classico giro armonico della tarantella napoletana o come il dialetto genovese  che riesce a fare da base ad una straordinaria serie di influenze musicali mediterranee, che vengono dalla Catalogna, attraverso la Sardegna e si spingono fino al medio oriente, per poi risalire in Grecia ed arrivare a lambire i Balcani.

Vent’anni fa, l’11 gennaio 1999, se ne andava Fabrizio De Andrè. Ci resta la sua buona novella, chissà se qualcosa l’abbiamo imparata interrogandoci su come avrebbe cantato questo nostro tempo.

Gabriella Parasiliti Collazzo

Alda Merini, la poetessa dei Navigli

Alda Merini, una poetessa dalla sensibilità elevata, simbolo, anche, del malessere degli individui; malessere che per lei aveva come paracadute soltanto la poesia.

Alda Merini nasce il 21 marzo del 1931 a Milano. Alda è la seconda di tre figli, ma della sua infanzia si conosce poco. Nelle brevi note biografiche si descrive come una ragazza sensibile e dal carattere malinconico, isolata e poco compresa dai genitori.

Esordisce come autrice giovanissima, a soli quindici anni, sotto la guida di Giacinto Spagnoletti che scoprì il suo talento artistico.

La storia della Merini è una storia molto particolare, la sua vita non è stata monotona, ma al contrario caratterizzata da emozioni fortissime. Il suo malessere inizia a farsi vivo con quelle che lei stessa definì nel 1947:

prime ombre della sua mente“.

Era già sposata e madre felice ma, come tutti noi esseri umani, aveva momenti di stanchezza e tristezza. Parlò di questi suoi piccoli problemi al marito che non solo non comprese nulla, ma fece ricoverare la moglie nella clinica Villa Turro di Milano.

Alda Merini soffriva di disturbo bipolare che all’epoca era considerato semplicemente un costante cambiamento d’umore. Questo problema era la “marcia” in più per lei: riusciva a vedere cose laddove gli altri non riuscivano a vedere e di conseguenza a creare poesie e aforismi impressionanti, capaci di colpire nel profondo il lettore. Il malessere di cui ha sofferto Alda Merini è stato logorante per lei. La sua vita è stata un mix di emozioni e gioie, legate però a perenni dolori. Questa sua condizione trovava sfogo, prima che sui fogli, sulle pareti delle sua camera da letto, tappezzata da frasi, aforismi e riflessioni sulla vita, sull’amore.

Scritte con il rossetto in ogni angolo, sugli specchi, vicino il letto, in ogni parte della casa.

La vita della poetessa dei Navigli non è stata molto facile in manicomio. Come disse spesso, lei non si riteneva pazza e ne era consapevole; si ribellava ai medici e alle cure a cui la sottoponevano. Il ricordo peggiore è quello dell’elettroshock. Alda ricordava la stanza dove lo “somministravano” come un luogo terribile, dove ti saliva l’ansia e la paura già nell’anticamera. Un luogo piccolo e sporco, dove la gente aspettava il proprio turno ascoltando inerme le pene patite nella stanza vicino. La Merini però può ritenersi relativamente fortunata perché la sua reclusione, malgrado tutto, non durò molto. Quando uscì, in ogni caso la sua persona ne risentì profondamente, tanto che la sua vita ruotò attorno all’incubo del manicomio. Luoghi di tortura legalizzati, dove i “matti“ non avevano nessun rapporto con l’esterno. Luoghi in cui ancora oggi si respira la crudeltà dell’uomo. La poetessa racconta, in una delle sue interviste, che prima dell’elettroshock facevano una pre morfina e poi davano del curaro. Dopo anni in manicomio la Merini ritrovò una pace interiore per qualche tempo, ma i ricordi del passato riemergevano spesso. Lei considerava la poesia un’espressione di dolore, un dolore intimo, esclusivo del poeta, che, in quanto tale, è per natura più incline alla sofferenza. Ma accettò il dolore indossandolo “come un vestito incandescente, trasformandolo in poesia”. In una nota intervista alla domanda ‘Lei è felice?’ Alda rispose ‘La mia felicità è la mia rassegnazione. Sì, sto bene da sola, quando se ne vanno tutti e posso cominciare a pensare anche in questa piccola casa che tutti denigrano e dicono che è disordinata, non curata, polverosa. Ma questa polvere è polvere di farfalle come sono i pensieri! E se la togli non volano più.’

Ecco qualche passo delle sue poesie più belle…

Ero matta in mezzo ai matti.
I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti.
Sono nate lì le mie più belle amicizie.
I matti son simpatici, non così i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo.
I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita.

Io non ho bisogno di denaro.
Ho bisogno di sentimenti
Di parole, di parole scelte sapientemente, di fiori, detti pensieri,
di rose, dette presenze,
di sogni, che abitino gli alberi, di canzoni che faccian danzar le statue,
di stelle che mormorino all’orecchio degli amanti… Ho bisogno di poesia,
questa magia che brucia le pesantezza delle parole, che risveglia le emozioni e dà colori nuovi.

E poi fate l’amore
Niente sesso, solo amore.
E con questo intendo i baci lenti sulla bocca, sul collo, sulla pancia, sulla schiena,
i morsi sulle labbra, le mani intrecciate,
e occhi dentro occhi.
Intendo abbracci talmente stretti
da diventare una cosa sola,
corpi incastrati e anime in collisione,
carezze sui graffi, vestiti tolti insieme alle paure, baci sulle debolezze,
sui segni di una vita che fino a quel momento era stata un po’ sbagliata. Intendo dita sui corpi, creare costellazioni,
inalare profumi, cuori che battono insieme,
respiri che viaggiano allo stesso ritmo,
e poi sorrisi,
sinceri dopo un po’ che non lo erano più. Ecco, fate l’amore e non vergognatevene, perché l’amore è arte, e voi i capolavori.

Solitudine
S’anche ti lascerò per breve tempo, solitudine mia,
se mi trascina l’amore, tornerò,
stanne pur certa;
i sentimenti cedono, tu resti.

Alda Merini visse la solitudine del malato che non è solo fisica – essere chiusi tra le quattro mura di una clinica restando esclusi dalla vita fuori – ma anche psicologica: il malato è un diverso e per questo rimane isolato dalle persone ‘normali’. A proposito della solitudine in manicomio, in Diario di una diversa la poetessa scrive: “Si parla spesso di solitudine, fuori, perché si conosce solo un nostro tipo di solitudine. Ma nulla è così feroce come la solitudine del manicomio”. Ma la diversità di Alda Merini che la condanna all’isolamento non è solo quella del malato, ma anche quella dell’artista: “scrivere una poesia è un momento di grande solitudine”, disse la Merini in un’intervista a Loris Mazzetti, aggiungendo che “il timbro del manicomio che ti porti dietro per tutta la vita è un timbro di alienazione”.

Alda Merini ha avuto amori e figli, ma la solitudine – dell’artista e della reclusa – è stata la sua vera compagna di vita, che nella poesia ‘Piccoli canti’ infatti chiama ‘solitudine mia’, parlando di lei come di una vecchia amica che l’ha fatta soffrire ma di cui ormai non può fare più a meno, e a cui infine dice ‘tornerò, stanne pur certa’.

Concludo dicendo che questa grande poetessa dalla sensibilità elevata, con la sua voglia di essere una donna libera e diversa, cercò di cogliere la forza e il limite della parola nel silenzio di un’immagine. Era bella e unica perché non rassicurava nessuno, non stava da nessuna parte, non difendeva verità assolute! Viveva l’amore con semplicità, sapeva custodire e proteggere il senso della vita. Prediligeva la notte, sua compagna muta ma vicina, dove i suoi dubbi più belli, le sue fragilità e i suoi versi sbattevano e battevano come farfalle notturne contro i battiti nascosti della sua solitudine.

A tutti i giovani Alda lasciò un grande messaggio:

A tutti i giovani raccomando:
aprite i libri con religione,
non guardateli superficialmente,
perché in essi è racchiuso
il coraggio dei nostri padri.
E richiudeteli con dignità
quando dovete occuparvi di altre cose.
Ma soprattutto amate i poeti.
Essi hanno vangato per voi la terra
per tanti anni, non per costruirvi tombe,
o simulacri, ma altari.
Pensate che potete camminare su di noi
come su dei grandi tappeti
e volare oltre questa triste realtà
quotidiana.
Alda Merini , da < La vita facile>.

Con queste sue intense parole Alda ci spiega il senso della vita, invita ognuno di noi ad amarla, amare i poeti e i libri “per volare oltre questa triste realtà quotidiana”.

Gabriella Puccio

Al via l’annuale concorso di poesia organizzato dal liceo “Galileo Galilei”

Oramai giunto alla sua 7^ edizione, anche per l’anno scolastico 2018/2019, il Liceo Scientifico-Linguistico “G. Galilei” di Spadafora bandisce l’annuale Concorso di Poesia intitolato all’omonimo istituto sul tema:

“un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.” (U. Saba, Trieste)

Il concorso è rivolto a tutti gli studenti universitari dell’Ateneo di Messina, agli studenti universitari presso Atenei nazionali diplomati presso un istituto di istruzione superiore di Messina e provincia, agli studenti iscritti a scuole medie o superiori di Messina e provincia.
I componimenti inediti dovranno essere presentati entro e non oltre le ore 12 del 31 gennaio 2019 secondo le seguenti modalità: tramite posta (racc. AR) all’indirizzo LICEO SCIENTIFICO-LINGUISTICO “Galileo Galilei” – concorso di poesia – Via Nuova Grangiara, 98048 Spadafora (ME) (farà fede il timbro postale), oppure consegnandoli fisicamente presso la Segreteria del Liceo Scientifico-Linguistico “G. Galilei”.

Ogni concorrente proclamato vincitore per la propria categoria riceverà un premio di € 200,00. Saranno inoltre assegnate pergamene con menzione di merito ai concorrenti autori di componimenti ritenuti particolarmente meritevoli dalla Commissione.
Il luogo e le modalità della premiazione saranno comunicati tramite missiva o telefonicamente ai vincitori del premio e alle scuole di appartenenza.

Per ulteriori informazioni è possibile consultare il regolamento presente nel bando: http://www.maurolicomessina.gov.it/wp-content/uploads/2018/12/Bando-concorso-di-poesia-Liceo-Galilei-2018-2019.pdf .

 

Claudia Di Mento

L‘illustratore di Pinocchio: disegni, poesie e scritti di Ugo Fleres

Ho tante smanie / sotto il cappello / leggo – e dimentico / scrivo – e cancello

Messina da Leggere si arricchisce di un nuovo tassello. Tracceremo in questa puntata un profilo biografico dedicato a Ugo Fleres: critico d’arte, ma anche romanziere, disegnatore e autore di versi.

L’ingegno multiforme di Ugo Fleres non ha conosciuto freni. La sua versatilità irriducibile gli ha permesso di muoversi come una scheggia impazzita percorrendo i più disparati territori dell’arte. Eppure non sono molti, nella sua terra natale, ad averne conservato il ricordo. Gli anni centrali della sua vita sono spesi tra gli incarichi affidati dal ministero dell’Istruzione e le frequentazioni, sfociate nell’incontro e amicizia con altri esuli siciliani, dei circoli letterari e giornalistici nella capitale.  E avendo bene in mente quell’ambiente Luigi Pirandello lo ricorda in una lettera, pervasa di un sentimento di malinconia, dell’ottobre del 1924: “Vivo a Roma quanto più posso ritirato; non esco che per poche ore soltanto sul far della sera, per fare un po’ di moto, e m’accompagno se mi capita, con qualche amico: Giustino Ferri o Ugo Fleres”. A Pirandello, Fleres, fece anche un ritratto, e svolse il ruolo di intermediario per introdurlo a Luigi Capuana. Lo stesso Capuana parlò di “abbandono alla fantasticheria riflessiva” nei riguardi dello scrittore messinese ed ebbe delle parole di elogio per le poesie contenute nella raccolta Sacellum (1889).

era un bel fanciullone nonostante la bionda lanugine di barba e il cappellone di castoro e il passo grave con cui girellava per l’Urbe (Luigi Pirandello, 1937)

Lasciata in gioventù Messina, dove nacque l’11 dicembre 1857, figlio di un procuratore legale originario di Savoca, dopo avere frequentato l’Istituto Tecnico, si stabilì, obbedendo al suo talento artistico, a Napoli, dove divenne allievo del pittore Domenico Morelli. Nella città partenopea si trattenne solo un paio di anni per trasferirsi presto a Roma. Qui riuscì a farsi strada, studiando i classici latini e greci, imparando lo spagnolo e il francese, iniziando a stringere contatti che lo porteranno a militare come illustratore nelle file di alcuni giornali. Negli stessi anni scrisse dei poemetti e una novella, Il cieco (1879), appuntandola in una sorta di diario personale. Nonostante la frequenza di lezioni all’università rimase fondamentalmente un’autodidatta. E fu grazie anche all’amico poeta G.A Costanzo che venne preso nel 1880 nella redazione del periodico letterario Capitan Francassa, dove pubblicò prose d’arte a cui associava spesso, celandosi dietro a una sequenza di pseudonimi bizzarri (Ariel, Fortunio, Fantasio o Leo Fergus, ad esempio) illustrazioni e disegni realizzati a penna e a matita. Contemporaneamente Fleres si dedicò anche all’attività di scrittore, lavorando allo stralunato scritto La musica dell’occhio.


Gli incontri con Luigi Pirandello si fecero nel tempo più frequenti. Pirandello lesse in vari momenti a Fleres Il Fu Mattia Pascal e i due, insieme, esplorano gallerie d’arte, musei, pinacoteche, per trarne spunti da utilizzare nella produzione letteraria. Contro le mode letterarie, in primo luogo il dannunzianesimo, ma anche il filone della Scapigliatura e in nome di una “sincerità” del fare letterario, fondarono anche una rivista, Ariel (1897-1898), periodico a cadenza settimanale. A presentare al pubblico il romanzo L’Anello è sempre l’amico agrigentino, nascosto dietro il nome d’arte di Giulian Dorpelli. In questo scritto Fleres racconta l’ambiente del teatro operistico alle soglie del ‘900 con tutti i suoi retroscena e i personaggi che vi gravitano; un parallelo, potremmo dire, del pirandelliano Quaderni di Serafino Gubbio operatore, dedicato alla nascente industria cinematografica. Ma il poliedrico messinese è passato alle memorie, soprattutto, per essere stato il primo ad avere dato fisicità e forma concreta al burattino di legno di Carlo Collodi nelle  Avventure di Pinocchio (1882) apparso sul Giornale per bambini. In origine, quello che poi sarà stampato come romanzo nel 1883, era uscito per metà a puntate con un altro nome, ed era stato sospeso quando l’autore, stanco del personaggio, aveva deciso di farlo morire. La prima vignetta si apre proprio sulla scena in cui Pinocchio, impiccato a una quercia, riprende a camminare e porta così avanti la storia. Oltre alle novelle, contenute in Profane Istorie, i romanzi (Vortice esce nel 1887), Fata Morgana (in cui scrisse anche in dialetto messinese) la passione predominante di Fleres resta l’arte, a cui si dedica con fervore, ottenendo, dopo la cattedra di storia dell’arte al Magistero, la nomina a direttore, agli inizi del ‘900, della Galleria nazionale di arte moderna di Roma, carica che mantenne, con qualche interruzione nel periodo della prima guerra mondiale, fino al 1933. Al Fleres si deve anche una interessante produzione nel campo del melodramma, con libretti per il teatro: da Uranio, La tazza per the, a Il trillo del diavolo, messo in musica dal Maestro Falchi.

                                                                                                                Eulalia Cambria

Da Messina a Greenwich: la parabola letteraria di Bartolo Cattafi

Una delle pagine migliori riservate a figure poco raccontate e adornate da orpelli di inchiostro della storia della letteratura italiana del’900 reca il nome di Bartolo Cattafi; personalità, all’interno di questa, tra le più inquiete e singolari. Estraneo alle scuole e alle etichette dei critici, il suo lascito poetico ha coinciso con una ricca avventura umana costellata da viaggi negli anni della giovinezza e della maturità, in primo luogo all’interno del mediterraneo, senza mai sfuggire al richiamo dello Stretto, nonostante le esigenze di trovare un posto nel mondo lo portarono per un certo periodo di tempo, dopo una laurea in Giurisprudenza conseguita all’UniMe, a trasferirsi a Milano, arrivando a stringere contatti importanti coi letterati Giovanni Raboni e Vittorio Sereni, continuando a scrivere versi “in preda a non so quale ebbrezza, stordito da sensazioni troppo acute, troppo dolci”. In un bel volumetto che è stato pubblicato da pochi anni, curato da Nino Sottile Zumbo – Le isole lontane – si è tenuto conto di questo suo vagabondare come di un serbatoio capace di nutrire fascinazioni dalle quali Cattafi ha tratto memorie organizzate e trasferite sul verso e nei dettagliati reportage, alcuni tuttora inediti.

In una nota autobiografica, del resto, aveva scritto di sé: “Nato il 6 luglio 1922 a Barcellona Pozzo di Gotto (Me) (…). Si reca all’estero ogni volta che può e come può (…). Tra i paesi visitati predilige Irlanda, Inghilterra e Scozia”. Gli anni ’50 e ’60 furono quindi per Cattafi un girovagare dettato da un vero e proprio bisogno, come è stato detto, “biologico”, di far coincidere l’attività poetica con l’esistenza in movimento. La poesia per Cattafi nasce, con parole sue, “sotto il segno dell’imprevisto” ed è di conseguenza “avventura, scoperta” per tentare di approdare a “una decifrazione del mondo”. Questo amore per il viaggio è rivolto più che agli ambienti come entità materiali al modo di percepirli e rappresentarli. Una delle isole lontane di Bartolo Cattafi è proprio l’Inghilterra esaltata nelle prose dai titoli Sbarcare a Londra e Ordinata campagna inglese contenute nell’ultima sezione del volumetto. Per lo scrittore Londra rappresenta un punto cardine non solo geografico, poiché: “Si parte sempre da Greenwich/dallo zero segnato in ogni carta e in questo/ grigio sereno colore d’Inghilterra” (poesia omonima contenuta nella raccolta Partenza da Greenwich, 1955).

Poeta prolifico, pubblicò, fino alla sua morte (avvenuta precocemente nel 1979), un notevolissimo numero di raccolte. Prima tappa cruciale è il volume L’Osso, l’anima (1964), al quale è seguito un lungo periodo di silenzio, non privo tuttavia di una brillante vena creativa espressa nelle opere grafiche e in alcuni oli e acquarelli. Il ritorno alla poesia avvenne con L’aria secca del fuoco (1972): la prima sezione dal nome “lo stretto” comprende sedici poesie dedicate a Messina e al suo mare. Una di queste, Cancro, parla del tram a vapore che collegava la linea Barcellona Pozzo di Gotto – Messina, leggibile sulla targa posta oggi dalla Pro Loco, nella città di nascita del poeta, dove un tempo c’era la stazione e adesso si trova la villa comunale. Tutta la produzione di Cattafi abbraccia sovente colori e immagini che fanno capo a Messina, anche quando il suo autore non amò mai rimanere avvinghiato a un solo paese. A questo proposito occorre citare alcuni versi della poesia intitolata Da donna Giovanna, storica trattoria della città dello Stretto, frequentata anche da Salvatore Quasimodo (“una granita di caffè con panna” diceva “è un endecasillabo perfetto”) che recita: “Qui da Donna Giovanna trattoria/ mangio all’ombra d’eucalipti e di palme assenti/ macerie di terremoti e fumanti sciagure/ fatti d’arme commerci alghe e malcerte/ creature d’abisso marino.”

Tirreno e Jonio

 “Si cambiano sovente i connotati

diventano violenti

schiumano sul luogo dello scontro 

e le seppie schizzano inchiostro

le triglie s’aggirano torve come squali

i passeggeri si tengono alle maniglie

se l’acciuga avanza come un mostro”

 

La stessa scrittura in prosa (spesso con accenti lirici) degli articoli apparsi su varie riviste manifesta questo legame verso quei luoghi dell’infanzia. In un volume fotografico dell’Automobile Club d’Italia,Lo stretto di Messina e Eolie” (1961), l’autore nell’introduzione delinea i tratti geografici e storici della città. Ma Cattafi è uno scrittore che sorpassa la dimensione locale, e se la sua Barcellona gli ha intitolato il Palacultura e lo ricorda (sempre mai abbastanza!) con periodici reading di poesie, aumentano al contempo le traduzioni in lingua straniera. E’ Carlo Bo a usare questi termini: “Quando si tireranno le somme del libro della poesia del Novecento, a Cattafi spetterà un posto privilegiato”. E a noi non rimane che adoperarci per riscoprire un autore a lungo dimenticato nell’attesa di una nuova edizione che consegni la ristampa dell’intera opera.

 

 

Eulalia Cambria

Messina da Leggere: la Città come parco letterario

 

 

In quanto porta della Sicilia, Messina, nei suoi quasi tremila anni di storia, è stata porto per antonomasia di flussi commerciali e culturali.

Poiché l’arte, evolutasi di pari passo con il progresso della società umana, è stata, spesso, ambasciatrice e voce espressiva del patrimonio culturale delle varie etnie succedutesi come dominatrici ed anima della nostra isola, questa rubrica vuole ripercorrere e rivalutare, attraverso l’indagine nel vasto mondo della letteratura, i luoghi della nostra città che quotidianamente appaiono abituali, talvolta anonimi allo sguardo del messinese, ma che, al contrario, proprio dietro il loro silenzio, nascondono una storia narrata dalla penna dei più grandi autori della nostra cultura di tutti i tempi.

Cercheremo, in questo modo, di ripresentare Messina come “parco letterario”, secondo l’idea che fu di Stanislao Nievo, il quale nel 1992, forgiò questo termine per indicare tutti quei luoghi che hanno ispirato un autore nella produzione di opere letterarie.

Il concetto di “parco letterario” si contrappone nettamente al pensiero disfattista e pessimista che spoglia Messina di ogni bellezza ed interesse. Per dare al lettore un’idea di cosa si intende per “parco letterario”, basti pensare alla fortuna che la città di Messina può vantare quotidianamente nell’affacciarsi sullo Stretto di Messina: proprio tra i due lembi di Sicilia e Calabria separati da una striscia di mare, l’aedo Omero narrò dei due famigerati mostri Scilla e Cariddi,  famelici divoratori di navi e marinai, tra le cui grinfie passò la ciurma dell’impavido Ulisse. Quello stesso scenario ritorna nei ricordi successivi di un turista Edmondo De Amicis che, nel 1866, scrisse nel suo diario di viaggio della: “La bella Messina, privilegiata d’una delle più favorevoli situazioni geografiche del mondo, dove due mari si congiungono (…)” – tracciando dei messinesi un profilo dettagliato degno di riguardo.

La dolce penna di De Amicis, testimone della precoce ripresa della città dal terribile terremoto che la rase al suolo nel 1783, segue proprio l’apocalittica cronaca del disastro sismico riportata da un altro grande padre della letteratura europea quale Wolfgang Goethe. Di una Messina che non esiste più ci parlano, ancora, le annotazioni del professor Giovanni Pascoli, il quale nel 1898, dal balcone della propria abitazione in Piazza Risorgimento (l’odierna Piazza Don Fano), scrisse della veduta attraverso la finestra di Palazzo Sturiale: “Si vede il forte Gonzaga sui monti…dall’altra finestra il mare, su l’Aspromonte…” , tessendo gli elogi della straordinaria natura geografica di Messina e del suo porto, che definì “il più bel porto del mondo” ; e fu proprio da quella posizione che, qualche decennio prima, il filosofo Friedrich Nietzsche, dalla stiva di una nave proveniente dal continente italiano, scrisse piccoli componimenti noti come “Idilli di Messina”. Benché i poemetti del filosofo non rechino alcun riferimento alla città, il lettore potrà rivivere senz’altro l’animo di Nietzsche recitando i brevi ed eccentrici versi davanti una cortina del porto che, a causa del sisma del 1908, non presenta più i caratteri che il pensatore poté ammirare dal ponte della nave. Allo stesso modo quei ricordi dell’allora elegante porto di Messina sormontato dalla raffinata e monumentale Palazzata, permangono nei diari di altri grandi intellettuali e scrittori che visitarono la nostra città, i quali le riconobbero un carattere cosmopolita del tutto unico rispetto agli altri capoluoghi siciliani, prerogativa che non intaccò mai lo stereotipo del messinese generoso, polemico e chiacchierone, tipicamente siciliano.

L’elevata considerazione di Messina da parte dei grandi intellettuali ed artisti della nostra storia, è dimostrata dalle cronache che ricordano un Richard Wagner e signora passeggiare frequentemente presso la piazza del Teatro Vittorio Emanuele; sempre a Messina,  in una non specificata chiesa a metà degli anni ’70 del 1800, si celebrò il matrimonio tra il grande poeta catanese Mario Rapisardi e la giovane Giselda Fojanesi, unione che causò, successivamente, l’attrito tra il Rapisardi ed il più giovane Giovanni Verga, instancabile dongiovanni e corteggiatore della Fojanesi.

Ben più importante valore hanno, di certo, le numerose dediche che vari intellettuali ed artisti rivolsero alla città all’indomani del terribile sisma del 1908: tra questi vanno ricordati Hermann Hesse, Ruggero Leoncavallo, il succitato Pascoli, Salvatore Quasimodo, Gabriele D’Annunzio e tanti altri monumenti della cultura che ebbero a cuore la nostra città e dei quali la nostra rubrica approfondirà emozioni, sentimenti e ricordi tangibili dai loro lasciti letterari.

Saranno proprio queste memorie a cui la rubrica porrà attenzione, ripercorrendo meno i funerei elogi della città distrutta, quanto più soffermandosi sul ricordo felice dei luoghi tutt’ora esistenti di Messina che testimoniano, silenti, i passi, le parole, i versi e le prose custodi di un passato ormai perduto ma che, nonostante ciò, ci appartiene come eredità identitaria del vero messinese, attraverso la testimonianza e le parole degli illustri.

Francesco Tamburello 

Nietzsche a Messina: un viaggio “alla fine del mondo”

Era il 31 marzo del 1882: una mattina come tante al porto di Messina, allora florido e importante approdo commerciale, a cui continuamente facevano scalo navi mercantili da tutta Italia e dal mondo. E, molto probabilmente, nessuno sapeva che quel mercantile appena arrivato da Genova trasportava con se un ospite davvero speciale. Proprio quella mattina, infatti, viene portato a terra in barella, stanco, provato da una notte insonne, dal mal di mare e dai dolorosi attacchi di emicrania di cui soffre ormai da diversi anni, uno dei personaggi più importanti e controversi della cultura europea e occidentale: Friedrich Wilhelm Nietzsche. 

Il soggiorno messinese del grande filosofo tedesco è una delle tappe forse meno conosciute della sua biografia: un po’ per la sua brevissima durata ( poco meno di un mese), e un po’ perché è scarsa la documentazione riguardante le ragioni della sua permanenza in Sicilia; tutto ciò che si sa a riguardo proviene dalla sua ricca corrispondenza privata con parenti ed amici, mentre pare che di questo viaggio temporaneo del grande pensatore, che pure all’epoca godeva già di una certa notorietà negli ambienti colti dell’epoca, non sia trapelato niente di pubblico. 

Facciamo un po’ di storia: in quel periodo, Nietzsche ha 38 anni ed ha già lasciato da alcuni anni l’insegnamento di Lingua e Letteratura greca all’Università di Basilea, per ritirarsi a vita privata nel famoso “rifugio” di Sils Maria, in Engadina. Le precarie condizioni di salute non gli consentono più di adempiere ai suoi doveri didattici: soffre infatti di violente emicranie con aura,  che oggi sappiamo essere probabilmente nient’altro che la fase prodromica di quella devastante malattia neurologica su base genetica (l’arteriopatia cerebrale ereditaria nota oggi con l’acronimo di CADASIL) che aveva già ucciso suo padre e che, di lì a qualche anno, lo porterà allo scompenso psicotico (il celebre “crollo mentale” di Torino del 1889, a seguito del quale scriverà i famosi “biglietti della follia”) e, successivamente, alla morte.

Un Nietzsche fisicamente fragile, quindi, ma intellettualmente in fermento: sono gli anni della sua piena maturazione dal periodo “wagneriano” del suo pensiero agli sviluppi nichilisti che lo renderanno, negli anni, così importante e rivoluzionario per la storia della filosofia occidentale.  Sono anni di intensa attività filosofica, punteggiati qua e là da frequenti viaggi, alcuni dei quali a scopo di cura termale, nelle vicine mete del Nord Italia (Venezia, Torino, Genova e la Liguria) e del sud della Francia. Ed è in questo contesto che si inquadra il viaggio a Messina, successivo, o forse addirittura contemporaneo, alla stesura dei suoi “Idilli di Messina”, la raccolta di poesie successiva alla sua celebre opera filosofica, “La gaia scienza”

Perché proprio Messina? Le certezze sono poche, ma le ipotesi, come al solito, si sprecano. Forse quel grande intellettuale, appassionato lettore di Goethe, era rimasto suggestionato dalla sua pittoresca descrizione della Sicilia nel suo “Viaggio in Italia” (non era forse Goethe a scrivere che “l’Italia, senza la Sicilia, non lascia nello spirito immagine alcuna?”). O forse intendeva incontrare il vecchio amico e compositore Richard Wagner, l’idolo della sua giovinezza filosofica, con cui da tempo aveva interrotto i rapporti, e che in quel periodo si trovava a Palermo e avrebbe in seguito raggiunto Messina, l’11 di Aprile del 1882. Non sono del tutto chiaro i motivi della partenza, ma quel che è certo è che per Nietzsche si trattava di una esperienza esaltante: all’amico e discepolo, il compositore Heinrich Koeselitz, quel “Peter Gast” che diventerà anche, dopo la sua morte, uno dei principali revisori della sua opera omnia assieme alla sorella, Nietzsche scrive: “Alla fine del mese, vado alla fine del mondo”.

A Messina Nietzsche, che pernotta nei primi tempi in un ostello vicino al Duomo, sembra trovarsi molto bene e provare persino un effimero giovamento dalle sue condizioni di salute. Dalle lettere alla famiglia e agli amici, si evince tutta la sua meraviglia riguardo la bellezza dei luoghi e l’ospitalità dei messinesi, insieme alle sue intenzioni di prolungare la permanenza fino all’estate, o anche oltre. Non si sa nulla di come impiegasse il suo tempo nell’Isola: è probabile che abbia girato a fondo la città e i dintorni, e  forse visitò anche Taormina, la città in cui Goethe partorì una delle opere che gli erano più care, il poema drammatico “Nausicaa”.

Nemmeno è noto se alla fine sia riuscito a incontrare Wagner; è verosimile infatti che l’eccelso musicista non sapesse nulla della sua presenza a Messina, mentre al contrario, la breve visita del compositore tedesco alla città dello Stretto ebbe una notevole e calorosa accoglienza da parte della stampa e del pubblico. Quel che è certo, invece, è la data della sua partenza: il 23 di Aprile del 1882, vinto dal caldo e dallo scirocco, che evidentemente non era abituato a sopportare, Nietzsche rientra da Messina per ricongiungersi, a Roma, con l’amico Paul Rée. 

Così finisce il breve viaggio “alla fine del mondo” di uno dei pilastri della storia del pensiero nella Sicilia del mito, della bellezza classica, del Mediterraneo; il suo viaggio nella calda e bella Messina della fine dell’800, del suo crepuscolo dorato prima della rovina, è forse una tappa insignificante di una delle tante peregrinazioni della sua travagliata vita; ma chissà se, come alcuni studiosi ipotizzano, alcune delle opere di questo colosso della filosofia, come “Così parlò Zarathustra” non abbiano visto la luce, o perlomeno il primo concepimento, proprio qui, sulle assolate rive dello Stretto… 

Gianpaolo Basile

Image credits:

Di sconosciuto – http://ora-web.swkk.de/nie_brief_online/nietzsche.digitalisate?id=234&nr=1, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=95964

 

 

Sebbene la primavera

Il sole accarezza le mie palpebre che piano piano si sbarrano per accogliere quell’infuocato, quanto fastidioso, spiraglio di luce che fuoriesce dalla tapparella.

Con la mano a penzoloni cerco di avvicinarmi al cellulare poggiato sul comodino per sapere che ora sia; sbuffo: mancano due minuti prima che suoni la sveglia.

Con fatica, scosto le coperte dentro cui mi avvolgevo fino a qualche secondo prima, e mi precipito in cucina per preparare una tazza di caffè, che spero mi aiuti nel risveglio.

Sarà questo calore che mi sembra di avvertire guardando oltre la mia finestra, o forse il cielo azzurro senza nessuna macchia bianca, o forse ancora gli uccellini che sento cinguettare da lontano, non so perché esattamente, ma avverto una sensazione di rinascita questa mattina.

Mi scappa un sorriso.

Penso che l’aria della primavera stia facendo sbocciare in me nitidi ricordi, che subito si impossessano della mia mente, in balia fra emozioni e profumi.

Il caffè: ne sento l’odore, come quando mi svegliavo con un bacio e la colazione mi era servita su un vassoio della stessa tonalità delle lenzuola.

Una nostalgica trepidazione si impossessa dell’allegria che una nuova bella giornata sembrava avermi portato.

  • “Ehi, buongiorno!” – sento alle mie spalle.
  • “Anche a te! Vuoi del caffè?”
  • “No, io lo prendo in ufficio con gli altri colleghi.”

Abbasso lo sguardo come per acconsentire; verso il caffè nella mia tazza e faccio per andarmene in giardino.

  • “Dove vai?”
  • “C’è una bella giornata, non voglio che diventi brutta”

Mi siedo sotto il gazebo che avevamo montato qualche tempo prima, ripromettendoci che nelle giornate più calde avremmo mangiato lì sotto.

L’inverno aveva portato nel nostro nido solo sfascio e rovina, e ci aveva fatto dimenticare anche quanto fosse bello condividere degli stupidi pasti. Quel vaso, poggiato sul tavolo, sfoggia ancora il fiore marcio di mesi prima: ha resistito ai venti più forti, alle giornate più rigide e alle piogge più violente; ora è immobile, deturpato, quasi morente e niente, ormai, è in grado di rianimarlo.

Sebbene la primavera fuori, dentro è tutto appassito.

 

Jessica Cardullo

 

 

Felice Bisazza e la Questione Bisazziana: dal classico “Settentrione” alla romantica “Dignità poetica”

Continuando  la catena di personaggi legati didatticamente alla storia del nostro Ateneo, vi presentiamo colui che ha fatto la storia della letteratura non solo in Sicilia, ma anche nel resto dell’Italia.

Stiamo parlando di Felice Bisazza, nome per molti familiare, per altri un po’ meno, ma che grazie al genio poetico è riuscito a farsi autore di poesie che, nel lontano 1851, gli hanno permesso  di figurare tra gli illustri professori dell’Università di Messina.

Nasce nella Città dello Stretto il 29 Gennaio del 1809, ed educato alla scuola classica nel Real Collegio Carolino delle Scuole Pie, già manifestava la sua propensione per la letteratura e la poesia. Terminati gli studi collegiali, ed intrapresa, per volere del padre,  la fallimentare carriera forense, si ritroverà poco più che vent’enne a pubblicare la prima raccolta di versi, dal nome “Saggi Poetici”. Quest’ultima, che non dava sospetto agli zelanti classicisti, dominatori della scena culturale e letteraria italiana, gli determinerà, da parte di re Ferdinando II, l’ onorificenza della Croce di cavaliere e la nomina a professore di Letteratura Italiana nell’Ateneo messinese.

La seconda metà dell’Ottocento poneva l’Italia e il resto dell’Europa di fronte all’evoluzione del “classicismo” e del  “romanticismo”, orientamenti tendenzialmente opposti ma che hanno trovato un punto di collisione nel movimento letterario di cui Felice Bisazza si faceva parte cospicua. Tra le sue numerose opere, ricordiamo  “Morte di Abele” e “Apocalisse” che, possiamo collocare tra gli scritti da lui tradotti; ed ancora “Il Settentrione” e “Leggende ed ispirazioni” di stampo antiromantico, ed infine, “Fede e Dolore” e “Sulla Dignità Poetica”,  dalle quali traspare, invece,  un romanticismo moralistico e devozionale che giustifica l’epiteto “Manzoni della Sicilia”. Da qui, si può cogliere, quindi, la svolta letteraria del poeta che porta data 27 Settembre 1832, giorno in cui pronuncerà un atto di adesione ai fondamentali principi del romanticismo lombardo.

Purtroppo, la peste che nel 1867 invase la città di Messina, lo coglierà il 30 Agosto; verrà sepolto, in un primo momento, nel cimitero dei colerosi a Maregrosso per poi essere trasferito, nel 1872, al Gran Camposanto nel Famedio degli uomini illustri. Il Comune peloritano nel 1874, ne pubblicherà gli scritti in una raccolta dal nome “Opere di Felice Bisazza da Messina”.

A lui sono oggi dedicati l’Istituto Magistrale di Via Catania ed una Via del centro cittadino.

Erika Santoddì

Image Credits:

http://www.torrese.it/poeta_felice_bisazza.htm

Sotto il velame e La mirabile visione: opere di un Pascoli messinese

Giovanni Pascoli

La scorsa settimana, scrivendo della storia del nostro Ateneo, abbiamo citato alcuni degli intellettuali ai quali è stato reso l’onore di poter figurare tra i più illustri professori dell’Università degli Studi di Messina; tra questi, uno tra i più celebri, conosciuti e studiati di tutti i tempi: Giovanni Pascoli.

Ma,chi era Giovanni Pascoli prima dei suoi “cinque anni migliori, più operosi, più lieti, più raccolti, più raggianti di visioni, più sonanti d’armonie […]” (G.Pascoli a L.Fulci, 5 Luglio 1910) passati nella città dello Stretto?

Nasce a San Mauro di Romagna nel 1855 e cresce in un clima familiare agiato, fino a quando, il 10 Agosto del 1867, il padre, per ragioni ancora ignote, viene assassinato. Da quest’evento il poeta rimase fortemente provato. Ciononostante, la vocazione poetica lo spinge a scrivere poesie che fanno stretto riferimento all’accaduto, tra queste: X Agosto e La Cavallina Storna. Successivamente la famiglia venne colpita da numerose sciagure, quali la perdita del proprio status economico ed un susseguirsi di lutti che porteranno via la madre ed i fratelli. La sua tenacia per completare gli studi liceali e proseguire quelli universitari, lo porta con i fratelli a Rimini, dove frequenterà il liceo classico Giulio Cesare. Grazie ad una borsa di studio riuscì a trasferirsi a Bologna per gli studi universitari, avvicinandosi sempre più al movimento anarco-socialista che lo portò, in una manifestazione, a leggere pubblicamente un’ode dal titolo “Ode a Passannante” della quale si pentì e che venne criticata dalla sorella Maria, che, incredula, lo riteneva incapace di scrivere tali parole. Dopo essere stato arrestato nel 1879 per aver partecipato ad una protesta, ed in seguito alla morte del Re Umberto I, Pascoli si converte al Socialismo Umanitario. Conseguita la laurea, Pascoli intraprese la carriera di insegnante, arrivando, nel 1898, ad insegnare Letteratura Latina presso l’Università degli Studi di Messina. Il poeta va ad abitare, dapprima, assieme alla sorella Maria, in un appartamento al secondo piano di via Legnano, al civico 66; successivamente, da solo, in un appartamento di Palazzo Sturiale in Piazza Risorgimento, al civico 162, del quale parlerà entusiasta alla sorella Maria, in quanto l’alloggio si presenta “moderno, abbastanza vasto, e soprattutto sicuro contro il terremoto”. In questa sede, il poeta stringe amicizia con il portinaio, un certo Giovanni Sgroi, al quale Pascoli donerà un’ingente somma di denaro in seguito alla catastrofe sismica che metterà in ginocchio tutta la città di Messina. Qui scrive Sotto il velame. Saggio di un’interpretazione generale del poema sacro e La mirabile visione. Abbozzo d’una storia della Divina Commedia.

Nel tempo libero, il poeta amava passeggiare per la città; sue mete preferite erano la Palazzata, la Pescheria, la spiaggia di Maregrosso dalla quale poteva ammirare il Fretum Siculum ed il mare.

Nel 1902, Pascoli e la sorella lasciano Messina, in quanto il poeta è chiamato all’insegnamento in altre Università, ma l’amore per Messina ed i suoi abitanti non svanisce nel nulla, anzi, si sente ancora più forte nella sua reazione alla notizia del terremoto del 1908; la disperazione per l’accaduto, traspira e viene sintetizzata nelle parole Qui dove è quasi distrutta la storia, resta la poesia.”.

Le trasformazioni politiche e sociali dell’Italia di quei tempi e l’insuccesso nel tentativo di crearsi una famiglia, portarono Pascoli ad una situazione di depressione che sfociò nell’alcolismo, con conseguente cirrosi epatica. La malattia lo porterà a morire il 6 Aprile del 1912 nella sua casa di Bologna, in via Osservanza, al civico 2.

Recentemente, per iniziativa del Comitato Cittadino “100 Messinesi per Messina” è stata realizzata e collocata accanto al portone d’ingresso di Palazzo Sturiale, una grande lapide:

“AL NUMERO 162 DI PIAZZA RISORGIMENTO, ALPALAZZO STURIALE,

GIOVANNI PASCOLI, DOCENTE DI LETTERATURA LATINA ALL’ATENEO MESSINESE

NEL NOVEMBRE 1898 TROVO’ IL SUO ALLOGGIO IDEALE DOPO IL PRIMO DI VIA LEGNANO:

“BELLA VISTA…DALLA CUCINA SI VEDE IL FORTE GONZAGA SUI MONTI… DALL’ALTRA FINESTRA IL MARE SU L’ASPROMONTE…”

Il prossimo passo, sarà quello del Comune di Messina per l’acquisto dell’appartamento e la seguente istituzione di un “Museo Casa Pascoli”.

Erika Santoddì

Image credits:https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Pascoli#/media/File:Giovanni_Pascoli_01.jpg