Rachel Corrie. Morire di Palestina

Da quasi diciannove mesi, in tutti i media occidentali, ascoltiamo ripetere a tamburo battente un mantra. I civili inermi, a Gaza, muoiono sotto le bombe israeliane, ‘‘per colpa di Hamas”. Inoltre, affermano gli stessi media in loop, Israele bombarderebbe scuole, case e ospedali perché sotto ci sarebbero i tunnel di Hamas.

La narrazione di questi media è priva di critica nei confronti di Israele.

Inquietante, però, non è solo la mancanza di obiettività e razionalità: ancor più grave è che, nel riportare le notizie, si giustifichi implicitamente la strage quotidiana di centinaia di Palestinesi.

Si afferma che, nell’esplosione della bomba che ha fatto la strage  di donne e bambini nella tendopoli di turno a Gaza, tra le cento vittime “ci sarebbe uno dei responsabili dell’assalto del 7 ottobre”.

Questa narrativa ripetuta morbosamente sta macchiando tutto l’Occidente d’infamia, e la storia verrà a chiederci il conto.

È forse questo il tanto osannato Occidente dell‘Illuminismo, della democrazia e i suoi valori? o siamo forse assuefatti dalla banalità del male e non ce ne rendiamo conto?

L’evento di cui scrivo non riguarda i morti a Gaza dopo il 7 ottobre 2023, almeno non direttamente. La storia in questione racchiude una verità inconfutabile: a Gaza si è sempre morti di Palestina e per la Palestina, per mano israeliana.

 

Questo articolo è dedicato a una studentessa americana, di ventitré anni. Una giovane attivista per i diritti umani, un’idealista mossa da un grande senso di empatia per gli oppressi.  Scossa per le ingiustizie del mondo, si recò a Gaza nel 2003. Il suo scopo era vedere con i suoi occhi e documentare cosa l’occupazione israeliana significasse. Provò allo stesso tempo a opporsi al neocolonialismo incarnato da Israele. Era al suo ultimo anno di college e faceva parte dell’International Solidarity Movement.

Il suo nome era Rachel Corrie.

Rachel Corrie
Rachel Corrie
Fonte : https://www.theguardian.com/world/2015/feb/12/rachel-corrie-family-appeal-israel-court

Chi era Rachel Corrie?

Rachel Corrie era nata il 10 aprile 1979 negli Stati Uniti, nella città di Olympia dello Stato di Washington. Al college, studiava arte e relazioni internazionali.

Fin da bambina era sempre stata molto sensibile alle ingiustizie che flaggellano il mondo. Era diventata, infatti, un’attivista per la pace, e credeva fermamente nella non violenza.

Rachel Corrie, come membro dell’International Solidarity Movement nel 2003, durante il suo ultimo anno di università, decise di recarsi in Palestina, precisamente a Rafah, nella striscia di Gaza. Il suo obiettivo era quello di dare il suo contributo alla causa palestinese.

Andò a Gaza per documentare con i suoi occhi e le sue parole la realtà quotidiana dei palestinesi, oltre a esser decisa a prender parte ad azioni non violente per contrastare l’esercito di occupazione israeliano.

Per capire veramente chi era Rachel Corrie, nulla è meglio di leggere le sue stesse parole.

Riporto qui una parte di una sua e-mail, che scrisse per i suoi genitori durante il suo soggiorno. E-mail che la famiglia ha autorizzato alla diffusione nei media dopo la sua morte.

“Sono in Palestina da due settimane ed un giorno ed ho ancora poche parole per descrivere ciò che vedo. E’ più difficile per me pensare a ciò che sta succedendo qui quando mi siedo a scrivere negli Stati Uniti che sono qualcosa come il portale virtuale del lusso. Io non so se molti dei bambini qui abbiano mai vissuto senza i buchi di carri armati alle pareti e senza le torri di un esercito di occupazione che li sorveglia costantemente da un orizzonte vicino. Io penso, sebbene non sia del tutto sicura, che anche il più piccolo di questi bambini capisce che la vita non sia così ovunque. Un bambino di otto anni è stato ucciso da un carro armato israeliano due giorni prima del mio arrivo e molti bambini mi sussurrano il suo nome, Alì — oppure mi indicano i suoi posters sui muri. Ai bambini piace farmi usare il poco arabo che conosco chiedendomi “Kaif Sharon?”, “Kaif Bush?” e ridono quando io dico “Bush Majnoon” “Sharon Majnoon” rispondendo nel mio arabo limitato. (Come sta Sharon? Come sta Bush? Bush è pazzo, Sharon è pazzo). Naturalmente questo non è proprio ciò che credo, e qualche adulto che conosce l’inglese mi corregge: Bush mish Majnoon… Bush è un uomo d’affari. Oggi ho cercato di imparare a dire “Bush è un oggetto”, ma non credo sia stato tradotto giusto. Ad ogni modo ci sono qui più bambini di otto anni consapevoli della struttura del potere globale, di quanto lo fossi io qualche anno fa–almeno riguardo ad Israele.”

Gaza prima del 7 ottobre e prima di Hamas

Giornalisti italiani di grande fama, ma anche di grande disonestà intellettuale, nel corso di questi ultimi diciannove mesi, hanno affermato sui giornali e nei talk show televisivi che Gaza prima del 7 ottobre 2023 fosse libera. Anzi, a parer loro, è occupata da Hamas: fondamentalmente, Israele sta “liberando” i civili palestinesi proprio da essa. Tutto bellissimo, se non fosse che li libera uccidendoli.

Eppure, se usciamo dalla logica schizzofrenica dell’eterno presente, costantemente pompato dalle notizie dell’ultima ora, e se andiamo a studiare la storia dei luoghi di cui parliamo, scopriremo che la Gaza in cui si è recata Rachel Corrie nel 2003 era occupata da Israele.

L’occupazione israeliana era in essere dal 1967 e durò fino al 2005. Dopo, si era apparentemente ritirata. Israele continuò, però, a mantenere il controllo dello spazio aereo e marittimo, e sigillò anche i confini, con la costruzione di muri fortificati. Rese, così, Gaza la prigione a cielo aperto più grande del mondo.

Come si può definire una prigione a cielo aperto un luogo libero?

La retorica dei tunnel

Macerie e bulldozer, bulldozer e macerie. Sono queste le immagini tra le più comuni che vediamo su Gaza, ma non solo a Gaza. Sono un’immagine standard anche quando arrivano le riprese fatte in Cisgiordania.

Quando si denuncia l’abbattimento indiscriminato di case di civili palestinesi o delle stesse strade, l’IDF (Forze di difesa israeliane) sostiene che questa demolizione sistematica sia dovuta alla presenza di ordigni esplosivi o tunnel di Hamas.

Nel 2003, però, Hamas non controllava Gaza, e le truppe israeliane erano saldamente dentro la Striscia. Erano presenti anche diversi insediamenti di coloni israeliani, che andavano espandendosi, come hanno fatto e continuano a fare indisturbati, in Cisgiordania. Una delle pratiche principali che permette l’espansione territoriale di Israele sta proprio in questa strategia. Demolire i villaggi palestinesi per costruirci sopra nuovi insediamenti israeliani.

Rachel Corrie lo sapeva bene. Era consapevole anche che Israele è nato proprio cosi. Il fulcro della Nakba del 1948 è consistito proprio nella distruzione metodica e indiscriminata di 523 villaggi palestinesi, che espulse e uccise a suon di bombe i loro abitanti. Villaggi che sono stati rimpiazzati con nuovi insediamenti sionisti.

A Gaza non si distrugge per cercare i tunnel di Hamas da dopo il 7 ottobre 2023. A Gaza ciò è sempre accaduto, così che Israele applicasse il proprio dominio coloniale sulla terra di Palestina. Distruggere tutto per rendere invivibile l’area, forzare i civili a scappare se non per paura di morire, per l’impossibilità materiale di vivere una vita dignitosa.

Rachel Corrie a Rafah mentre protesta contro l'abattimento di case di civili palestinesi.
Rachel Corrie a Rafah, mentre protesta contro l’abbattimento di case di civili palestinesi
Fonte: fonte: https://ilmanifesto.it/rachel-corrie-icona-della-lotta-per-i-diritti-dei-palestinesi

Morire a 23 anni di e per la Palestina

La filosofia e la strategia delle azioni non violente che ispiravano i membri  dell’International Solidarity Movement consisteva nel piazzarsi davanti i bulldozer. L’idea era di contrapporsi tra le case e i mostri d’acciaio. Ragazze e ragazzi, armati solo di megafoni e dalla forza del loro coraggio, per urlare e dissuadere gli uomini all’interno dei bulldozer dall’andare avanti nella loro opera di distruzione.

Rachel Corrie era consapevole del privilegio dell’essere bianchi e occidentali. Forse pensava, insieme agli altri attivisti, anche loro occidentali, che il loro passaporto li avrebbe difesi dalle macchine d’acciaio. Solitamente, nel resto del mondo, quanto gli attivisti interpongono i loro corpi per fermare un’ingiustizia, questa equazione risulta vera. Ma in Palestina no. In Palestina, gli israeliani hanno licenza di uccidere chiunque si frapponga davanti il progetto di dominio coloniale sionista.

Quel 16 marzo, Rachel Corrie era proprio lì, in prima linea, nel tentativo di difendere la casa di una famiglia palestinese. Era salita sopra un cumulo di terra e fronteggiava l’operatore del bulldozer. Al suo livello, poteva guardarlo dritto negli occhi, mentre gli gridava al megafono di fermarsi. Ma Rachel Corrie cadde. Non fece in tempo a rialzarsi, o forse non ci riuscì. L’operatore israeliano del bulldozer le passò di sopra, schiacciandola e uccidendola.

Le grida degli altri attivisti non servirono

In quel luogo, oltre Rachel Corrie, erano presenti altri sei attivisti, tre britannici e tre statunitensi. Quando Rachel cadde, tutti iniziarono a correre verso il mezzo, gridando all’operatore di fermarsi. Ma questi non si fermò.

Successivamente alla sua morte, si tenne in Israele un processo ”farsa” nei confronti dell’operatore che guidava il bulldozer. Questi sostenne che, quel 16 marzo, non vide più la ragazza, quindi pensò che si fosse fatta da parte.

Nessuno fu incriminato dell’assassinio di Rachel Corrie, se non lei stessa. Il tribunale israeliano sostenne che lei era lì per difendere i ”terroristi”. Affermarono che si fosse volontariamente messa in una condizione di pericolo.

La causa del decesso era, dunque, da imputare a lei stessa e alla sua condotta imprudente.

Alla famiglia di Rachel Corrie fu negato qualsiasi tipo di risarcimento e riconoscimento. 

Fonte: https://thejerusalemfund.org/2023/03/rachel-corries-legacy-striving-for-justice-and-accountability-in-the-face-of-oppression/

Rachel Corrie una delle centinaia di migliaia di vittime innocenti del sionismo

Rachel Corrie era innocente. Rachel Corrie non è stata la prima e neanche l’ultima vittima di Israele e del sionismo.

Oggi come ieri, in Palestina, si continua a morire. Dal fiume Giordano al mare Mediterraneo.

Solo nella striscia di Gaza, da dopo il 7 ottobre 2023, il conto sommario ufficiale dei morti supera le cinquantamila vittime. Vari report internazionali, però, calcolano che, sommando i dispersi e le morti indirette, dovute alle malattie, alle ferite causate dai bombardamenti, alla fame e alla sete, oltre che alla mancanza di ospedali rimasti attivi, nella Striscia di Gaza il numero delle persone morte sia di centocinquantamila, se non duecentomila persone.

I numeri purtroppo sono destinati a crescere, e non si avrà una stima certa fino a quando non ci sarà un cessate il fuoco, e non si scaverà sotto le macerie.

Cosa è questo, se non il genocidio del popolo palestinese?

L’assassinio di Rachel Corrie, avvenuto venti anni prima del 7 ottobre 2023,  mostra che la volontà granitica del sionismo, di uccidere e distruggere chiunque prenda le difese della Palestina, non sia una conseguenza del 7 ottobre 2023, ma, piuttosto, lo standard con il quale si è fondato ed eretto lo Stato coloniale di Israele.

Chi si oppone al progetto sionista paga con la vita. Poco importa se ci si oppone con la violenza o senza: il sionismo non guarda in faccia nessuno, e risponde a tutte e tutti nello stesso modo. Ovvero, con la foga omicida.

Restiamo umani.

 

Fonti:

https://it.palestinechronicle.com/nel-pieno-del-genocidio-a-gaza-leredita-di-rachel-corrie-continua-a-vivere/

https://ilmanifesto.it/rachel-corrie-icona-della-lotta-per-i-diritti-dei-palestinesi

https://www.peacelink.it/palestina/a/277.html

https://www.caritasroma.it/wp-content/uploads/2019/03/Rachel_Corrie.pdf

https://www.theguardian.com/world/2012/aug/27/rachel-corrie-death-israel-verdict

 

La Kefiah, un simbolo tra resistenza, radici e tradizioni

La kefiah è il simbolo del popolo palestinese e della lotta per la liberazione della Palestina.

La kefiah è un copricapo tradizionale, diffuso anche tra le altre popolazioni dell’Asia Occidentale, le quali hanno prodotto la propria variante. In Giordania, ad esempio, la kefiah viene chiamata “hatta”. La si può trovare anche in Siria e in Iraq, dove la chiamano “shemagh”. Nei paesi del Golfo Persico, come il Qatar o l’Arabia Saudita, viene chiamata “gutrah”.

La kefiah è un indumento distintivo del mondo arabo, sia storicamente che per l’immaginario collettivo. Essa però non porta con nessun significato religioso. Da sempre è indossata da arabi di fede cristiana e drusa, oltre che da chi professa la fede islamica.

Nel corso dei decenni è divenuto il vessillo non solo del popolo palestinese, ma anche di tutte le donne e uomini liberi nel mondo che si oppongono alle guerre, e all’imperialismo occidentale.

 

Da indumento tradizionale a simbolo di autodeterminazione e resistenza

Tra gli anni 60 e 70 del secolo scorso, con lo scoppio della guerra del Vietnam, negli Stati Uniti e in tutto il mondo occidentale emerse il movimento pacifista. Un’onda internazionale che si mosse dal basso, un movimento che diventò il ”megafono” che rappresentò le istanze di tutti i popoli oppressi del mondo. Dal Vietnam alla Palestina, dall’embargo di Cuba da parte statunitense al colpo di stato fascista in Cile. Dall’Angola al Mozambico che lottavano per l’indipendenza, dal Portogallo fino al Sud Africa dell’apartheid. Il movimento pacifista, tra marce di folle oceaniche e azioni dimostrative, si mostrò come l’impersonificazione della vera opinione pubblica che denunciava le barbarie dei nostri tempi. 

Così la kefiah oltrepassò i confini levantini per divenire un simbolo di solidarietà internazionale. Il simbolo di chi ha a cuore la libertà dei popoli.

Nessuno è libero fino a che non siamo tutti liberi

recitavano i cartelloni tra le mani dei manifestanti.

Nelson Mandela con la kefiah in segno di solidarietà al popolo palestineseFonte: https://www.aljazeera.com/wp-content/uploads/2023/12/afp.com-20060304-PH-PAR-ARP1559147-highres-1701775047-e1701777815420.jpg?resize=770%2C513&quality=80
Nelson Mandela con la kefiah in segno di solidarietà al popolo palestinese

La kefiah fu indossata sia dalle persone comuni che protestavano per la pace sia dai leaders dei popoli in rivolta. Da Fidel Castro a Nelson Mandela In particolare, tutti i leaders di sinistra nel mondo indossarono la kefiah. Indossarla era già di per sè un’azione politica. La chiara espressione del sostegno alla causa palestinese. Nei decenni, anche Che Guevara si recò in visita a Gaza varie volte, prima del suo assassinio.  

 

La forza di un popolo e i suoi simboli  

Originariamente, la kefiah in Palestina non era indossata indistintamente da tutta la comunità palestinese. Storicamente, infatti, indossavano la kefiah coloro che vivevano nelle zone rurali, contadini, e beduini.

Nelle città palestinesi, per via dell’influenza della dominazione ottomana, era diffuso il “tarbouchè ottomano“, un copricapo di forma conica di colore rosso.

Nel 1917, durante la Prima guerra mondiale, con la sconfitta ottomana, la Palestina passò dall’occupazione ottomana a quella britannica, durata fino al 1948.

L’occupazione britannica portò alla grande rivolta araba del 1936, conseguenza della brutalità coloniale che assecondava l’insediamento di coloni sionisti provenienti da tutto il mondo.

Il susseguirsi di attacchi alle comunità palestinesi rurali provocò la rivolta delle classi contadine. Gli insorti erano facilmente identificabili. I partigiani palestinesi, per non farsi identificare, durante le rivolte iniziarono a coprirsi tutto il volto con la kefiah. Di conseguenza, chiunque indossava una kefiah divenne sospetto e passibile di arresto da parte delle autorità coloniali. 

I leaders palestinesi dell’epoca, come risposta, invitarono tutta la popolazione ad abbandonare il tarbouchè ottomano, divenuto “il copricapo dei traditori”.  Esortarono tutta la popolazione a indossare la kefiah.

Questa strategia rese impossibile l’individuazione dei ribelli da parte delle autorità coloniali.

L’apice della kefiah, adottata come simbolo della Palestina per antonomasia, si ebbe però solo nel 1967. Dopo la sconfitta degli Stati Arabi contro il neo Stato sionista nella guerra dei sei giorni, e l’occupazione anche di Gaza e di tutta la Cisgiordania da parte del nuovo stato coloniale.

Il fallimento della repressione e la censura della bandiera della Palestina e i suoi colori

Una delle prime conseguenze della totale occupazione della Palestina fu che la bandiera palestinese venne vietata da una legge varata dall’occupante israeliano.

Nel 1980, Israele varò un’ulteriore legge che vietava le opere d’arte di “significato politico”; altresì vietava le opere d’arte composte dai quattro colori della bandiera palestinese. I palestinesi vennero arrestati per aver esposto tali opere d’arte.

Fu così che la kefiah sostituì la bandiera palestinese, equivalendosi nel suo significato di resistenza al colonialismo.

Oltre alla kefiah, per sfidare la legge imposta dagli israeliani ai palestinesi, iniziò a diffondersi la pratica tra chi protestava di portare  con alle manifestazioni delle angurie, frutto che contiene i quattro colori della bandiera palestinese.

Il divieto di esporre la bandiera della Palestina verrà abolito solo nel 1993, con gli accordi di Oslo firmati dal leader della resistenza palestinese dell’epoca, Yasser Arafat, anch’egli uno dei maggiori sponsor della kefiah. Questi non si è mai mostrato in pubblico senza indossarla.  

 

Anguria simbolo di protesta e diritto all'autodeterminazioneFonte: https://www.bing.com/images/search?view=detailV2&ccid=lMP3TQyP&id=370A6588D30BB16F932B5DF4AC0EC44D9D779096&thid=OIP.lMP3TQyPP-2ZmlmQTejhMwHaE8&mediaurl=https%3a%2f%2fwww.indy100.com%2fmedia-library%2fpalestinian-farmers-in-the-northern-gaza-strip-in-2021.jpg%3fid%3d50420812%26width%3d1200%26height%3d800%26quality%3d85%26coordinates%3d0%252C0%252C0%252C0&cdnurl=https%3a%2f%2fth.bing.com%2fth%2fid%2fR.94c3f74d0c8f3fed999a59904de8e133%3frik%3dlpB3nU3EDqz0XQ%26pid%3dImgRaw%26r%3d0&exph=800&expw=1200&q=watermelon+protest+palestine&simid=608045122402729502&FORM=IRPRST&ck=1B5D1F658A32DC2443C2933507EA3E33&selectedIndex=83&itb=0&ajaxhist=0&ajaxserp=0
Manifestanti palestinesi che hanno reso anche il frutto un simbolo del loro diritto all’autodeterminazione

 

La mercificazione della grande industria della moda ha decostruito il significato di lotta della kefiah

Negli anni 2000, la kefiah ha vissuto un momento di appropriazione e mercificazione da parte del mercato della moda mondiale. Questo, tendendo a spogliarla del suo profondo significato storico, culturale e di lotta, decostruì l’implicazione simbolica di chi la indossava e la trasformò in un indumento comune, l’ennesimo prodotto fashion.

Il mercato fu esondato da svariati tipi di kefiah, che differivano per forma colore e dimensione. Marchi come Balenciaga arrivarono a produrre la propria versione nel 2007, al prezzo di tremila euro al pezzo e anche Chanel e Fendi proposero la loro variante.

Ciò nonostante, la kefiah ha continuato a essere il simbolo della Palestina e della sua lotta per la liberazione.

Svariate celebrità l’hanno indossata come messaggio di solidarietà per il popolo Palestinese, come Roger Water dei Pink Floyd. Tuttavia, nonostante gli accordi di Oslo siano falliti e benchè dal 2007 la striscia di Gaza sia divenuta il piu grande campo di concentramento della storia dell’umanità, la causa palestinese è caduta nell’ombra. Forse, più che cadere, sono stati i riflettori dei media occidentali ad essersi girati dall’altra parte, contribuendo a far cadere nell’oblio la causa palestinese.

 

Nuovamente attorno al collo di milioni di persone in tutto il mondo

Proteste pro PalestinaFonte: https://www.wlrn.org/government-politics/2023-10-13/palestinian-supporters-speak-out-in-south-florida-as-israel-hamas-conflict-rages-in-middle-east
Protesta pro Palestina
Fonte: Al Diaz Adiaz, @Miamiherald.com

Con l’inizio del genocidio a Gaza, iniziato il 7 ottobre 2023 e vergognosamente ancora in corso, il mondo ha preso nuovamente coscienza della causa palestinese e del paradosso dell’unica colonia occidentale esistente ancora al mondo, ovvero lo stato di Israele.

Le cronache del genocidio del popolo Palestinese hanno fatto che la kefiah tornasse attorno al collo di milioni di persone in tutto il mondo, indossata in solidarietà col popolo palestinese. Di conseguenza, è tornata protagonista negli schermi dei media.

Purtroppo, come nel 1967, assistiamo a tentativi da parte di chi sostiene il regime di appartaheid israeliano di criminalizzare questo indumento, tentando in tutti i modi di far associare la kefiah con il terrorismo nell’immaginario collettivo.

Tristemente assistiamo ad atti di repressione e anche arresti da parte della polizia in Stati democratici, come la Germania e l’Austria, nei confronti di attivisti colpevoli di indossare la kefiah. Svariati sono stati anche i casi di persone allontanate da locali pubblici perché indossavano una kefiahanche una semplice spilletta con la bandiera palestinese. Altri hanno perso il proprio impiego per il sol fatto che indossavano sul posto di lavoro tali simboli.

L’atteggiamento repressivo a cui assistiamo anche fuori dalla Palestina ha incoraggiato la protesta in tutto il mondo. Le piazze delle maggiori metropoli del mondo pretendono la fine del genocidio, il cessate il fuoco e la fine dell’occupazione israeliana, perpetrata impunemente  da oltre settantasei anni.

Non è una questione solo politica, è anche e sopratutto una questione etica, alla base dei valori e dei diritti umani su cui si basa la civiltà moderna.

Come scrisse Vittorio Arrigoni, attivista italiano per i diritti umani e giornalista, ucciso a Gaza nel 2011.:

Restiamo umani.

 

Vittorio ArrigoniFonte: https://www.bing.com/images/search?view=detailV2&ccid=9jgtv5D5&id=AA96DD11936B800EE24B5FA85FD0DE9C4763A275&thid=OIP.9jgtv5D5vQR28dw0pBfvVAHaF-&mediaurl=https%3a%2f%2f3.bp.blogspot.com%2f-6nyTzQE8tk8%2fVT3sColrgFI%2fAAAAAAAADQQ%2ff6-VT2yUDYY%2fs1600%2fVittoro-Arrigoni.jpg&cdnurl=https%3a%2f%2fth.bing.com%2fth%2fid%2fR.f6382dbf90f9bd0476f1dc34a417ef54%3frik%3ddaJjR5ze0F%252boXw%26pid%3dImgRaw%26r%3d0&exph=646&expw=800&q=vittorio+arrigoni&simid=608048511106972670&FORM=IRPRST&ck=6C8E8BF42A7AA283ED10C503D3A71EA4&selectedIndex=72&itb=0&ajaxhist=0&ajaxserp=0
Vittorio Arrigoni 

  

Fonti :

https://orientxxi.info/va-comprendre/perche-la-kefiah-e-il-simbolo-della-resistenza-palestinese,7111#:~:text=Uno%20strumento%20della%20Grande%20Rivolta&text=In%20Palestina%2C%20la%20kefiah%20%C3%A8,nero%20che%20circonda%20la%20testa

https://www.middleeasteye.net/discover/palestine-keffiyeh-resistance-traditional-headdress

 

 

 

 

 

Conflitto Israele-Palestina: dialogo con la Prof. Francesca Perrini

Lo scorso 7 ottobre nei kibbutz di Be’eri e di Kfar Azza, situati nel territorio di Israele in prossimità della Striscia di Gaza, le milizie di Hamas (il partito radicale di matrice religiosa che controlla la Striscia dal 2006) hanno commesso una strage di centinaia di civili israeliani, dando inizio ad una nuova fase del conflitto che intercorre tra Israele e Palestina da quasi un secolo. 

Palestina
Grafico mostra l’attacco di Hamas durante i primi giorni. Fonte: ISPI

Le parole della Prof. Perrini

Per riflettere sul tragico scenario degli eventi che stanno causando nuovi spargimenti di sangue abbiamo rivolto alcune domande a Francesca Perrini, Professoressa associata di Diritto Internazionale del nostro Ateneo.

  1. Le immagini di nuovi orrori, a più di un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, inondano i social media ed i notiziari. In questa occasione, l’attacco lanciato dal movimento militante Hamas, uno dei due principali partiti politici dei territori palestinesi, nei confronti di Israele ha attirato l’attenzione globale. Quali sono le origini storiche dell’ormai decennale conflitto?

È nel 1948, all’indomani della nascita dello Stato di Israele, che ha inizio il conflitto arabo-israeliano In questo lungo periodo alcune crisi sono state particolarmente gravi, come quella del 1967, la c.d. “guerra dei sei giorni”, che ha visto l’occupazione israeliana di una parte dei territori palestinesi, tra cui proprio la striscia di Gaza.

  1. Di quale status giuridico godono (o meno) gli attori sino ad ora nominati? Hamas può essere qualificato come un movimento insurrezionale, dunque come soggetto di diritto internazionale? 

Per il diritto internazionale lo Stato acquisisce la soggettività internazionale in maniera automatica se è in possesso di due requisiti fondamentali, vale a dire l’effettività e l’indipendenza. Uno Stato che effettivamente esercita un potere di governo su una comunità territoriale ed ha un proprio ordinamento giuridico è di fatto un soggetto di diritto internazionale.

In questo senso, non vi è alcun dubbio sulla soggettività internazionale dello Stato di Israele, mentre, come è noto, con riferimento alla Palestina la questione è più controversa, sebbene negli ultimi anni si siano fatti importanti passi avanti. Uno di questi è la risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la quale è stato riconosciuto alla Palestina lo status di non-member-observer-State. Ma anche l’ammissione della Palestina all’UNESCO e la sua adesione allo Statuto della Corte penale internazionale.

Quanto ad Hamas, la sua attività è limitata ad una parte di territorio ben delimitata e non può certo dirsi che rappresenti l’intero popolo palestinese.

  1. Dunque, la reazione israeliana ai fatti del 7 ottobre non può essere giustificata in virtù dell’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, che riconosce il “diritto naturale” alla legittima difesa dello Stato aggredito dall’aggressione perpetrata da un altro ente di diritto internazionale

Ciò non toglie che lo Stato aggredito ha diritto di difendersi. In questo caso la legittima difesa di Israele non si fonda tanto sull’art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, quanto sul più ampio concetto di autotutela, che, però, deve rispettare il requisito della proporzionalità. E, soprattutto, ciò che occorre sottolineare è l’obbligo che incombe alle parti in conflitto di rispettare il diritto internazionale umanitario, salvaguardando la popolazione civile. Purtroppo, queste sono le violazioni più atroci a cui assistiamo da giorni e – occorre ribadirlo – sono violazioni commesse sia da Israele che da Hamas.

  1. Quali, a Suo avviso, sono le prospettive future? La nascita e l’accettazione, da parte israeliana, di uno stato palestinese potrebbe permettere di alleviare i conflitti nell’area?

Non è facile fare previsioni, perché molto dipende da quanto gli sforzi diplomatici riusciranno a realizzare. Certamente l’auspicio non può che essere una pacifica convivenza tra due Stati sovrani nel pieno rispetto dei diritti del popolo israeliano e del popolo palestinese.

Aurelia Puliafito

Israele: sfrattati migliaia di palestinesi da un’area della Cisgiordania al fine di costruire un poligono di tiro

Sembra essersi conclusa una vicenda giudiziaria durata più di 20 anni riguardante una zona della Cisgiordania che fino a pochi giorni fa era abitata da migliaia di palestinesi. Diverse famiglie che vivevano nell’area di Masafer Yatta, infatti, sono state sfrattate dalle autorità israeliane ed in poco tempo hanno visto le loro abitazioni ridursi ad un cumulo di macerie.

I motivi dell’occupazione

«L’importanza vitale di questa zona di tiro deriva dalle sue uniche caratteristiche topografiche, che permettono di sperimentare strategie specifiche sia per piccoli gruppi di soldati sia per un battaglione».

Queste le parole dell’esercito israeliano estrapolate da un documento pubblicato sul Times of Israel, un giornale online tra i più rilevanti della zona.

l’idea di utilizzare Masafer Yatta come zona per esercitazioni militari era stata proposta già agli inizi degli anni 80. I primi problemi però arrivarono nei primi anni 2000, quando, la decisione dell’esercito israeliano di sfrattare circa 700 palestinesi dalla zona ha suscitato non poche polemiche. I residenti riuscirono ad ottenere la sospensione dello sfratto tramite una richiesta alla Corte Suprema.

La stessa Corte Suprema che il 5 Maggio scorso ha dato ragione all’esercito israeliano. Il corpo militare sostiene che i palestinesi che occupano Masafer Yatta siano solo dei nomadi. Non considerando la zona come dimora fissa di questi ultimi i militari israeliani ritengono sia loro diritto costruire un poligono di tiro.

immagine divenuta simbolo dello sfratto dei palestinesi. Fonte: avvenire.it

Il caso giudiziario

Il corpo militare di Israele rivendica il diritto alla costruzione del campo per l’esercitazione forte anche degli accordi di Oslo del 1993. Tali accordi stabiliscono che l’area C della Cisgiordania – all’interno della quale si trova la zona di Masafer Yatta – sia sotto controllo civile e militare del governo israeliano.

Dalla parte dei palestinesi si sono schierate varie associazioni per la difesa dei diritti umani. La più importante, l’ACRI (Association for Civil Rights Israel), sostiene che in realtà questa zona fungeva da dimora fissa per molti palestinesi prima ancora che l’Israele manifestasse l’intenzione di costruire il poligono di tiro. Non solo l’ACRI ma anche l’ONU, dopo che la Corte Suprema ha approvato la richiesta, si è espressa in maniera molto rigida nei confronti dell’operato israeliano:

«La decisione riguarda oltre mille palestinesi, inclusi 500 bambini, nella Cisgiordania occupata e consente lo sfratto dei residenti. Poiché tutte le possibilità legali interne sono state esaurite, la comunità è ora non protetta e a rischio imminente di sfollamento.»

Queste le dichiarazioni del coordinatore umanitario delle Nazioni Unite Lynn Hastings. Ha poi ribadito come «Tali sgomberi, con conseguente sfollamento, potrebbero equivalere ad un trasferimento forzato, che va contro le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ed il diritto internazionale».

La costruzione di un poligono di tiro come pretesto

Giustificare un’azione cosi “crudele” con la costruzione di un campo di esercitazione militare, al netto della profonda rivalità che esiste storicamente tra i due popoli, appare riduttivo. Nel 2020 a tal proposito è stato reso noto il resoconto di un incontro tra i vertici israeliani del 1981 in cui veniva suggerita l’idea di sfruttare la zona di Masafer Yatta come campo di addestramento militare al fine di evitare « l’espansione dei residenti arabi di quelle colline».

Questa dichiarazione fa apparire la costruzione del poligono di tiro come nient’altro che un pretesto per allontanare i palestinesi dalle zone della Cisgiordania. Nient’altro dunque che l’ennesimo passo in avanti (o indietro) di una lotta per i territori che va ormai avanti da più di mezzo secolo. Esattamente dagli anni del secondo dopoguerra. A nulla sono serviti i vari interventi da parte degli Stati Uniti o della stessa ONU per cercare di “fare da paciere”.

In un periodo storico in cui i conflitti del passato sembrano ritornare la speranza è che, almeno in questo caso, la diplomazia rieca a risolvere le controversie e non ci sia bisogno di far degenerare la situazione più di quanto non lo sia già.

Francesco Pullella

 

 

 

Cisgiordania, giornalista di Al Jazeera uccisa dall’esercito israeliano

Ai giornalisti deceduti durante reportage in zone di conflitto si aggiunge il volto di Shireen Abu Akleh, dipendente dell’emittente televisiva Al Jazeera, colpita con un proiettile alla testa e morta poco dopo essere stata portata in ospedale in gravissime condizioni.

L’uccisione di Shireen

La 51enne con cittadinanza americana e palestinese si trovava in Cisgiordania, territorio rivendicato dalla Palestina, ma sotto il controllo delle forze israeliane; in un campo profughi nella città di Jenin. Stava documentando un’incursione militare di matrice israeliana quando, arrivata sulla scena di un raid dell’esercito israeliano, è stata uccisa con un proiettile alla testa. Accanto a lei, Ali Al-Samoudi, un suo collega, è stato colpito da un proiettile alla schiena. Portato in ospedale, ora si trova in condizioni stabili. Come gli altri giornalisti presenti sulla scena, anche Shireen indossava il giubbotto antiproiettile con su scritto “press” e persino l’elmetto, normalmente utilizzati per proteggersi dai pericoli dei conflitti. Questo rende chiara la volontà di chi ha sparato.

Shireen Abu Akleh (Fonte: friulisera.it)

Al Jazeera accusa gli israeliani

L’emittente con sede in Qatar accusa i militari israeliani del decesso della giornalista conosciuta in tutto il mondo arabo e che, per trent’anni, si era fatta portavoce dei conflitti tra palestinesi e israeliani. In difesa, i componenti dell’esercito israeliano affermano di aver aperto il fuoco dopo essere stati esposti al “fuoco massiccio“, evidenziando la possibilità che la giornalista possa essere stata uccisa dai palestinesi. Le parole di Al-Samoudi, però, non lasciano spazio a equivoci:

“Il primo proiettile ha colpito me e il secondo proiettile ha colpito Shireen… non c’era alcuna resistenza militare palestinese sulla scena. Se ci fosse stata, non saremmo stati in quella zona.”

Una giornalista di Quds News Network lì presente, Shatha Hanaysha, ha dichiarato che, nonostante Shireen fosse già caduta a terra, il fuoco non si è fermato e, nell’immediato, nessuno è stato in grado di raggiungerla per aiutarla.

Le reazioni israeliane e americane

L’autopsia è stata condotta all’Istituto di medicina legale Al Najah di Nablus. Intanto il ministro israeliano degli esteri, Yair Lapid, afferma che Israele ha offerto ai palestinesi “un’indagine patologica congiunta” sulla morte di Abu Akleh:

“I giornalisti devono essere protetti nelle zone di conflitto e tutti noi abbiamo la responsabilità di arrivare alla verità.”

L’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, Tom Nides, si dice “molto triste” nell’apprendere la morte della donna e incoraggia “un’indagine approfondita sulle circostanze della sua morte” in un tweet.

L’orrore del funerale

Inquietanti“: è così che la Casa bianca definisce le immagini dei funerali che hanno fatto il giro del web. Tutto è cominciato all’uscita della bara dall’ospedale di Beit Hanina, quartiere arabo di Gerusalemme est: la polizia ha impedito che la bara fosse sollevata per essere portata in spalla da un gruppo di persone tra cui il fratello della giornalista. Successivamente la polizia ha assalito con i manganelli coloro che portavano il feretro della donna, facendolo inclinare verticalmente e quasi cadere. Al Jazeera ha ritenuto “aggressivo” l’atteggiamento della polizia israeliana in una circostanza così delicata. Gli agenti hanno giustificato il proprio comportamento sostenendo che dal corteo funebre sono state lanciate contro di loro pietre e altri oggetti.

Funerali di Shireen (Fonte: farodiroma.it)

 

Eleonora Bonarrigo

 

 

Israele e Hamas, raggiunto l’accordo per il cessate il fuoco. Il conteggio dei danni nella Striscia di Gaza

(fonte: ilpost.it)

Da giovedì sera Israele ha cessato il combattimento contro Hamas, l’organizzazione paramilitare a favore della Resistenza palestinese. La notizia è giunta al culmine degli 11 giorni di raid aerei e bombardamenti che hanno interessato la zona della Striscia di Gaza. Il ceasefire è stato raggiunto in seguito a giorni di trattative e dibattiti condotti principalmente dall’Egitto, Giordania e Francia. Il Ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry, ha confermato l’impegno dell’Egitto nell’ottenimento di una tregua.

Stiamo lavorando diligentemente per ottenere un cessate il fuoco. Ritengo che le conseguenze dell’escalation di violenza, delle perdite e della distruzione necessitino di tutto l’impegno necessario.

Nell’intervista della CNN, il Ministro ha anche rivelato di essere in contatto con diversi ministri dell’Unione Europea ed anche col Ministro degli Affari Esteri israeliano Gabi Ashkenazi. Il ceasefire è entrato in vigore a partire dalla notte tra giovedì e venerdì, l’1 ora italiana. Hamas ha deciso di accettare l’accordo, ma tramite un suo esponente, Ezzat El-Reshiq, ha anche espresso le proprie richieste.

È vero che la battaglia finirà oggi, ma Netanyahu ed il mondo intero devono sapere che le nostre mani rimangono sul grilletto e che accresceremo le capacità di questa Resistenza.

Sembra che le pressioni internazionali, in particolare dell’ONU, abbiano avuto la loro parte nel raggiungimento dell’accordo. Ma, ancor di più, si ritiene che Israele abbia raggiunto il proprio obiettivo principale: ridurre sensibilmente l’arsenale di Hamas e distruggere taluni dei tunnel sotterranei alla Striscia di Gaza dai quali vengono importati materiali bellici da Siria ed Iran, ossia i rifornimenti per la costruzione di missili da parte di Hamas – anche se molto rudimentali nella tecnologia. Dall’altra parte, Al Mayadeen, stazione televisiva libanese, ha affermato che Hamas abbia ricevuto «garanzie che le aggressioni israeliane alla moschea di al Aqsa e a Sheikh Jarrah sarebbero state fermate». Gli eventi appena citati sarebbero, infatti, le cause dell’insorgere del più recente conflitto.

(fonte: ilpost.it)

Un conteggio dei danni nella Striscia di Gaza

Negli 11 giorni di battaglia, le perdite subite dalla Palestina sono state di 232 contro i 12 dell’Israele; più di 1200 i feriti. La differenza nei dati non sorprende, viste e considerate la disparità di organizzazione ma, soprattutto, di equipaggiamento bellico tra i due Stati. L’ONU ha poi rivelato, tramite il proprio Coordinatore per i Processi di Pace nel Medio Oriente, Tor Wenneslandl’ammontare dei danni civili subiti dalla Striscia.

Il Coordinatore ha inizialmente sottolineato la situazione disagevole del sistema sanitario di Gaza, colpito da una carenza di provviste ed equipaggiamento necessari ad affrontare la crisi da COVID-19. Successivamente, il conteggio degli sfollati della Striscia è salito a 34,000, con la conversione di 40 scuole in rifugi. Altre 40 scuole, sette fabbriche ed almeno quattro ospedali hanno subito danni parziali o permanenti.

Haaretz, quotidiano israeliano, ha poi affermato che, secondo le autorità palestinesi, almeno 20 famiglie sarebbero state quasi totalmente spazzate via dai bombardamenti. Più di 4000 i missili lanciati nelle ultime settimane.

(A sinistra, i razzi Iron Dome d’Israele; a destra, quelli lanciati da Hamas. Fonte).

Il caso dei portuali di Livorno e le parole del Presidente USA

Sin dai primi giorni di conflitto, molte voci e proteste hanno animato il dibattito. Un accento particolare è stato posto sulla circostanza di soccombenza della popolazione palestinese in contrasto con l’imponenza israeliana. Per questo molti utenti, ma anche giornali, hanno ritenuto di non poterlo considerare un conflitto alla pari.

Intanto, anche in Italia alcuni portuali di Livorno hanno bloccato un carico di armi destinate all’Israele, dimostrando il proprio sostegno nei confronti della popolazione palestinese. La notizia ha subito fatto il giro del mondo ed è stata riportata anche dal quotidiano britannico online The Independent.

Oggi, il Presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden, in un discorso, ha affermato l’importanza di garantire ad entrambi gli Stati la pace.

Palestinesi ed Israeliani meritano entrambi di vivere in modo sicuro e protetto e di godere di eguali misure di libertà, prosperità e democrazia.

In attesa di successivi sviluppi, il sito Haaretz, che offre continui aggiornamenti sulla vicenda, ha riportato che poche ore fa Israele ha consentito l’entrata degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Gli aiuti sarebbero dovuti arrivare martedì, ma erano stati bloccati con fuoco di mortaio al valico di passaggio di Kerem Shalom, che connette la Striscia all’Israele.

Valeria Bonaccorso