Galleria Vittorio Emanuele III: gran tesoro dell’inconsapevole Messina

img_7268Uno dei quattro monumentali edifici che danno forma circolare alla caratteristica piazza Antonello, sul corso Cavour, è il Palazzo della Galleria Vittorio Emanuele III. Unica nel suo genere nel Meridione, insieme alla Galleria Umberto I di Napoli, è espressione di quello stile liberty, ma eclettico allo stesso tempo, tipico del periodo della ricostruzione post-terremoto del 1908.

La sua storia prende il via nei primissimi anni Venti, allorquando gli interessi pubblici del Comune, desideroso di restituire a Messina uno spazio che rivitalizzasse il centro urbano nelle ore diurne e serali, si sposarono con quelli privati della Società Generale Elettrica della Sicilia, che finanzierà i lavori, nella speranza di dare finalmente una sede decorosa e definitiva ai propri uffici. Il progetto fu affidato all’architetto e ingegnere messinese Camillo Puglisi Allegra, noto e operativo in tutta Italia. I lavori, intrapresi nel 1924 e conclusi nel 1929, consegnarono alla città un edificio prestigioso, che fu intitolato “al nome Augusto del Sovrano”.

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img_2026L’ingresso principale, posto su Piazza Antonello, è costituito da un portico con un monumentale arco segnalato da robuste paraste e da un fastigio sopraelevato. All’interno, la Galleria si compone di tre bracci, che conducono ai tre ingressi, e che danno all’edificio la forma di una “Y”. Le volte a botte che sovrastano i bracci hanno dei lucernai a vetri colorati. Le ripartizioni geometriche della pavimentazione, realizzata con tesserine a mosaico, sono in armonia, se non addirittura in diretta relazione, con le forme e le composizioni della copertura sovrastante.

I tre bracci confluiscono, al centro, in uno spazio esagonale su cui, in asse, sitrova una cupola vetrata. Si tratta in realtà di una doppia volta, protettiva all’esterno, artistica all’interno, ideata al fine di mitigare le escursioni termiche. Il telaio metallico di sostegno delle vetrate artistiche, a differenza di altre monumentali Gallerie italiane ed europee, è ancorato ad una struttura intelaiata in cemento armato, anziché in ferro o ghisa.img_2023

Altra peculiarità progettuale della struttura è la presenza di una scalinata interna all’estremità del braccio che porta all’ingresso di via Oratorio della Pace, elemento atipico per una Galleria del genere ma necessario per far fronte alla differenza di altezza tra leimg_2012 strade urbane. In ogni caso, ai tempi fu considerato un edificio d’avanguardia, grazie alle stupefacenti decorazioni (opera degli scultori Ettore Lovetti, Giuseppe Ajello e Antonio Bonfiglio) e alle innovative soluzioni tecniche: prime fra tutte le reti idriche, elettriche e telefoniche, con installazione completamente incassata.

Per il suo pregio, l’edificio è stato dichiarato nel 2000 bene d’interesse storico- artistico ai sensi della legge 1089/39.

Ma qual è stato il suo ruolo negli anni? Pensata come piccolo cuore pulsante della città, ricco di uffici e negozi, in realtà ad oggi la Galleria è adibita solamente a luogo di ristorazione e cocktail bar. Inoltre, per anni, ha versato in uno stato di pressoché totale abbandono: ha dato rifugio agli sbandati ed è stata valvola di sfogo per i vandali. Tutto questo nonostante i tre restauri, eseguiti negli anni 60, 90 e nei primi anni 2000.

L’ultimissimo restauro, invero, si è concluso proprio in questo dicembre. I lavori, voluti dal Comune e sostenuti dalla Soprintendenza ai Beni Culturali e da diversi gruppi privati, hanno impegnato anche alcuni ragazzi dell’Istituto professionale Verona-Trento che sono stati gli esecutori materiali dell’opera di riqualificazione e abbellimento della Galleria. La speranza è che questa sia la volta buona e che a nessun messinese (e non solo) pianga più il cuore nel vedere una tale bellezza deturpata. Che, insomma, sia la vera rinascita della Galleria! 

Francesca Giofré

Foto di Giulia Greco

 

Dal XIII secolo uno sguardo dall’alto su Messina: il Santuario di Montalto

img_9853Uno dei luoghi più belli e ricchi di storia a Messina è sicuramente il Santuario di Montalto. Bello perché si staglia alto, sul colle della Caperrina, con la sua caratteristica facciata affiancata da due campanili cuspidi e, così, si rende visibile e si fa riconoscere da diversi punti della città. Ricco di storia perché la sua nascita e la sua presenza a Messina sono legate a diversi episodi storici che hanno scandito la vita della città.

 

 

 
Le sue origini, innanzitutto, sono da ricercare secoli addietro: durante i Vespri Siciliani, allorquando anche Messina, il 28 aprile 1282, un mese dopo Palermo, decise di ribellarsi alla dominazione degli Angioini. Tradizione vuole che la Madonna, sotto le vesti di una Signora Bianca, rincuorasse la popolazione messinese, con il suo manto proteggesse le mura della città e, con le mani, deviasse le frecce dei nemici. Fu proprio la Madonna a volere la costruzione del santuario: apparve nel 1294 ad un fraticello, un eremita di nome Nicola, e gli ordinò di radunare sul colle della Caperrina la cittadinanza. Lì, il 12 giugno, a mezzogiorno, una colomba bianca con il suo volo disegnò il perimetro della chiesa da costruire. Alla posa della prima pietra partecipò anche la Casa reale Aragonese, con la Regina Costanza. Nel 1295 la chiesa fu terminata e dedicata a Santa Maria dell’Alto, poi divenuta S. Maria di Montalto. L’8 settembre 1300 giunse a Messina, su una nave proveniente dall’Oriente, un quadro raffigurante la Vergine Maria col Bambino. Doveva essere donato alla Cattedrale, tuttavia divenne così pesante che nessuno riuscì a spostarlo. Una “Signora Bianca” apparve in sogno ad un marinaio e gli confidò di voler vedere quel quadro nella chiesa a lei dedicata. L’icona così, ridiventata leggera, fu portata subito nel Santuario di S. Maria dell’Alto e lì ancora si trova: dopo i danni subiti a causa del terremoto del 1908 (la manta d’argento che ne rivestiva il corpo l’ha in parte protetto, ma i visi sono stati irrimediabilmente rovinati) e il restauro degli anni ’80, è stata posta sull’altare maggiore della chiesa.

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img_9854Durante la battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571), poi, il popolo messinese si raccolse in preghiera proprio a Montalto. A perpetua memoria dell’aiuto materno dato alla città in quella occasione, il Senato messinese fece scolpire una statua marmorea della Madonna che fu posta su una torre accanto alla chiesa, e ora si trova sulla facciata del nuovo santuario fra le due torri campanarie. Ogni anno, il 12 giugno, in occasione della festa della Colomba, viene issato lo stendardo della città nelle mani della Madonna, come a volersi affidare costantemente a Lei.

Un’altra data storica legata a questo santuario è il 1743: in quell’anno la peste imperversava a Messina, così il Senato si rivolse direttamente alla Vergine perché liberasse la città e fece voto di offrire ogni anno un cero. Un voto, o una semplice tradizione oramai, che ancora oggi viene rispettata: nel giorno della festa della Colomba, infatti, l’Amministrazione comunale offre alla Vergine di Montalto un cero votivo di 25 libbre.

Arriviamo ora alla storia recente, in particolare al terremoto del 1908 che fece con questo santuario quello che fece con la maggior parte degli edifici di Messina: lo ridusse ad un cumulo di macerie. Nel 1911, però, la chiesa era di nuovo in piedi, la prima a risorgere dalle rovine.
Nel 1928 si operò un ampliamento dell’edificio, secondo il progetto dell’architetto Francesco Valenti, che comportò anche qualche modifica alla struttura originaria. Oggi l’architettura della chiesa si presenta come un misto di romanico e gotico.

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Nelle due torri campanarie ci sono ben 27 campane: due sono state salvate dal terremoto; le altre 25 sono state ottenute, nel 1929, fondendo il bronzo dei cannoni tolti ai nemici nella guerra del ‘15/’18 e donati dal Governo al Vescovo di Messina, S.E. Mons. Paino. Le campane sono di grandezza differente (la più grande pesa 19 quintali e ha un diametro di 1,5 m, la più piccola pesa 23 kg e ha un diametro di 36cm) e possono riprodurre qualsiasi melodia; ogni campana ha un nome, la figura del Santo a cui è dedicata, un motto e l’anno di fusione.
Dal piazzale antistante la chiesa si può godere di una vista mozzafiato su Messina e lo Stretto. Un panorama che lasciò estasiato anche papa Wojtyla, quando, nel corso della sua visita nella città peloritana, nel giugno del 1988, ebbe modo di conoscere anche questo luogo. Ed è per tenere viva la memoria di quell’avvenimento che nel 2014 una statua ad altezza naturale di Giovanni Paolo II è stata posta nel punto esatto dove, posando la mano sulla ringhiera, egli espresse il suo stupore dinanzi a cotanta meraviglia.

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In conclusione, possiamo dire che il Santuario di Montalto rappresenta uno dei simboli di Messina, tanto che esso compare anche nello “spettacolo” di musica e automi in bronzo a cui dà vita ogni giorno a mezzogiorno l’orologio astronomico del Campanile del Duomo. In particolare, ad essere rappresentata è la tradizione della fondazione: una colomba sorvola un colle e subito dopo da questo, lentamente, emerge il Santuario. Tutto ciò a riprova del fatto che Montalto è una tappa imprescindibile se si vuole tracciare una storia della città dello Stretto.

Francesca Giofrè

Foto Giulia Greco

La chiesa di Sant’Elia: una perla barocca celata nel cuore di Messina

img_2595Chi, come noi di Messina da Scoprire, ama avventurarsi per le vie della città alla ricerca di tracce e tesori dal suo passato perduto, sa bene che Messina non è una città adatta a visitatori superficiali: nel contesto della città moderna, sono i dettagli anche più piccoli e apparentemente più nascosti a indicarci la strada verso le meraviglie del passato. Capita così che, girando nel pieno del centro cittadino, in una strada che affluisce alla via Garibaldi, a poca distanza da Piazza Cairoli e letteralmente a due passi da Santa Maria degli Alemanni e da Santa Caterina in Valverde, un occhio attento possa appena notare la facciata austera di una piccola chiesa col suo altrettanto piccolo campanile. Sembra una chiesetta quasi insignificante, se non fosse per l’unico indizio costituito da un elegante portale a timpano spezzato, dall’aspetto tardo seicentesco.

 

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Dietro il portale si trova un piccolo vestibolo all’interno del quale ci danno il benvenuto i resti di una acquasantiera barocca in marmo. Vi si accede scendendo alcuni scalini; anche questo, per il visitatore più preparato, potrebbe costituire un indizio, dato che il fatto che il pavimento della chiesa sia più basso rispetto al piano di calpestio delle strade cittadine, così come per la chiesa dell’Annunziata dei Catalani e per la vicina Santa Maria degli Alemanni, ci dice inequivocabilmente che quello che troveremo, al di la del vestibolo, è in parte sopravvissuto al terribile sisma del 1908, a seguito del quale le strade furono ricostruite su un livello più alto rispetto a quello originario.

Si entra così nella chiesa di Sant’Elia, una delle pochissime chiese di Messina a conservare gran parte della struttura e degli interni originari. Struttura molto antica, la cui presenza è documentata fin dal 1462, era una volta annessa ad un monastero; vide il suo massimo sviluppo nel corso del XVIII sec., quando, a seguito della peste del 1743, dopo una serie di presunti accadimenti miracolosi il santo fu eletto compatrono della cittimg_2594à, il cui Senato per voto offriva annualmente alla chiesa due cerei e vi si recava a sentir messa; la struttura attuale per come la vediamo oggi può esser fatta risalire al periodo di tempo che va dal 1694 al 1706, nel quale, probabilmente a seguito di danni subiti in un terremoto, la chiesa fu ampliata e abbellita; nonostante questa struttura di base sia rimasta pressochè invariata, molte sono le cicatrici lasciate dal tempo, dalle calamità naturali, delle guerre (subì infatti gravi danni sia a seguito dei moti del 1848 che dei bombardamenti della seconda guerra mondiale) e dell’incuria (fu per molti anni tramutata in un magazzino a seguito degli espropri del periodo postunitario).

Se l’esterno, frutto prevalentemente delle ricostruzioni novecentesche, poteva esserci apparso spoglio e freddo, gli interni si rivelano in tutta la loro opulenza barocca; anzi, la sontuosa coltre di stucchi che adorna le pareti dell’unica navata è solo una minima parte dell’originale apparato decorativo (per come ce lo mostrano alcune foto d’epoca), e il tempo ha in buona parte sbiadito o cancellato le dorature che originariamente li ricoprivano parzialmente. Poco resta anche degli affreschi che ornano i grandi riquadri fra gli altari laterali, dipinti dai fratelli Filocamo nel 1706, e rimaneimg_2587ggiati, a seguito dei danni subiti nell’insurrezione del 1848, da Giacomo Grasso nel 1859. Perduto interamente è invece il soffitto, che recava un grande affresco, sempre dei Filocamo rimaneggiato da Grasso, rappresentante l’ascesa al cielo del profeta Elia, santo dedicatario della chiesa.
Sulle colonne in stile corinzio dell’abside semicircolare, che una volta ospitava diverse tele oggi al Museo regionale, svolazzano leggiadri angioletti in stucco, che reggono dei festoni dorati; al centro troneggia infine un bell’altare settecentesco a tarsie marmoree.
Perla rara e dimenticata dell’arte e dell’architettura barocca messinese antecedente il Terremoto, la piccola chiesa di Sant’Elia continua a dimostrarci come, a Messina, le apparenze spesso ingannino: chi direbbe mai che dietro quella facciata anonima si cela un piccolo gioiello di storia e arte locale?

Gianpaolo Basile 

Ph: Erika Santoddì

Messina Medievale: attraverso la Storia e la “Badiazza”

img_9617Paesaggio mozzafiato: da un lato i monti Peloritani, dall’altro il letto della fiumara San Michele.

Ci troviamo poco fuori Messina, precisamente al monastero di Santa Maria della Valle, conosciuto più comunemente come “La Badiazza”.
La sua fondazione, collocata intorno all’ XI secolo, ad opera di monache Benedettine, è legata ad un fatto leggendario a cui si ispirava un quadro raffigurante una Madonna con accanto una scala. Secondo la leggenda, approdava nella città peloritana una nave di mercanti provenienti dall’oriente che, dopo aver scaricato della merce, avrebbe dovuto proseguire per la rotta. Tuttavia, al momento della partenza, la nave non si staccò da terra; l’accaduto fu subito interpretato dai marinai come una punizione, dovuta al furto, per mano loro, di un’icona raffigurante una Madonna e tenuto nascosto nella nave. Confessato il furto, i marinai riuscirono “miracolosamente” a riprendere il mare, e l’icona fu trainata da un carro di buoi che pose fine alla sua corsa precisamente ai piedi dei colli S. Rizzo, dove fu eretta la chiesa.

img_9601Il monastero e la Chiesa furono intitolati a nome di Santa Maria della Scala. Purtroppo, numerosi documenti ci portano a conoscenza dello sfortunato destino dell’Abbazia.
Quest’ultima, infatti, è stata vittima di molteplici vicissitudini, tra le quali: l’assedio per mano delle truppe di Carlo D’Angiò, le quali la saccheggiarono e incendiarono; la peste del 1347, durante la quale l’icona fu portata in processione per la città al fine di scongiurare la pestilenza, ma che portò al suo abbandono; i numerosi straripamenti e terremoti che hanno contribuito al suo declino.  Successivo alla suddetta peste è l’utilizzo dell’Abbazia come residenza estiva che portò poi alla fondazione di un Monastero ed una Chiesa entro le mura cittadine, che oggi sono intitolate a Santa Maria della Valle. La vecchia chiesa, ormai in avanzato stato di deterioramento, risentì dell’alluvione del 1855 e del terremoto del 1908.

Tutto ciò che ad oggi è rimasto, è un bell’esempio di arte medievale che accomuna vari aspetti dell’architettura siciliana del tempo.

img_9610L’interno si articola in tre navate a pianta quadrata con un ampio transetto sormontato da cupola centrale. Il santuario, richiama lo schema della qubba islamica, divenuta modello per le chiese cristiane di età normanna, la copertura a cupola è di chiara derivazione normanna, mentre le crociere costolonate a sezione rettangolare sono riconducibili a età sveva. Da notare è la somiglianza con la Chiesa cistercense di Santo Spirito del Vespro a Palermo. D’altronde le ipotesi avanzate riguardo l’epoca di costruzione, assegnano la fondazione (quasi) certa ai normanni, ma non si escludono influenze sveve o aragonesi.

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Ad oggi, purtroppo, la Chiesa è chiusa al pubblico. Tuttavia, il Comune di Messina ha avviato un’opera di restauro a cura della Soprintendenza ai Beni Culturali di Messina ed un iter per la riqualificazione della zona; di fatto, la Chiesa è raggiungibile imboccando la Via Palermo e procedendo lungo il letto della fiumara San Michele per un, non troppo lungo, percorso dissestato.

Erika Santoddì

Ph: Giulia Greco

Musica, Maestro! Breve passeggiata storica e musicale fino al teatro Vittorio Emanuele di Messina

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L’argomento della storia della musica messinese, particolarmente caro agli storici locali, non è altrettanto caro al grande pubblico: i nomi dei compositori messinesi sembrano essere stati totalmente cancellati dalla memoria collettiva, le loro musiche paiono quasi bandite dai programmi di concerti ed eventi culturali, e forse non è un caso se l’attuale Conservatorio di Messina è intitolato ad Arcangelo Corelli, grandissimo violinista e compositore settecentesco, che, ciò nondimeno, con Messina e la sua storia musicale ha ben poco a che spartire…

Eppure pare che negli scorsi secoli Messina sia stata una città di primissimo piano nel panorama musicale siciliano e nazionale. Nel suo periodo d’oro, che culmina nel XVII sec. per concludersi con la tragica parentesi della rivolta antispagnola del 1674-1678, la produzione musicale a Messina era fiorente e riguardava prevalentemente musica sacra e strumentale: la Cappella Senatoria del Duomo di Messina era seconda per prestigio solo a quella di Palermo, e vide l’operato di musicisti come Bernardo Storace, Michelangelo Falvetti, Giovanni Antonio Pandolfi Mealli e Vincenzo Tozzi, tutti nomi assolutamente ignoti ai più ma che (soprattutto i primi due) di recente iniziano ad essere oggetto di un rinnovato interesse da parte degli addetti ai lavori e degli esecutori di musica antica.

 

Meno si sa invece per quanto riguarda la musica teatrale: le già scarse notizie riguardanti il ‘600 diventano ancora più sparute per quel che riguarda il ‘700, anche se già da tempo è documentata in città la presenza di un teatro regio, il cosiddetto Teatro della Munizione, così chiamato perché ricavato a partire da un deposito di armi e munizioni nei pressi della via omonima, nel centro della città. È invece nel secolo successivo, con lo svilupparsi e il diffondersi del genere dell’Opera lirica, che si sentì il bisogno di dotare la città di un teatro nuovo e più grande: il vecchio Teatro della Munizione, infatti, secondo le testimonianze del La Farina, scrittore e letterato locale, era ormai decisamente attempato, e non più adatto alle esigenze dell’epoca. In quel periodo, oltretutto, Messina aveva visto la nascita di diversi compositori di opera lirica, fra i quali il più celebre è indubbiamente Antonio Laudamo, a cui oggi è intitolata l’omonima Filarmonica; diversi di loro però, come il meno conosciuto Mario Aspa, autore di diverse opere, o il provinciale Placido Mandanici, originario di Barcellona Pozzo di Gotto, preferivano lasciare la città per fare successo e far eseguire le proprie opere in teatri più grandi e famosi, come il Fondo e il San Carlo di Napoli, o la Scala di Milano.

A Messina, insomma, la mancanza di un teatro al passo coi tempi impediva lo sviluppo di una scena musicale attiva e vivace, tanto che, all’epoca, era diffusa l’opinione secondo la quale i messinesi non avessero gusto per il teatro: luogo comune contro il quale si trovò a polemizzare prima, nel 1836, il pubblicista messinese Carlo Gemelli e in seguito, nel 1840, lo stesso La Farina.
Fu anche per questo motivo che, dietro ordine regio, si decise di edificare un nuovo teatro per la città di Messina, teatro che sarebbe sorto al posto di una prigione sita sulla centrale via Ferdinanda, oggi via Garibaldi, e il cui progetto fu affidato al napoletano Pietro Valente e al messinese Carlo Falconieri. I lavori, iniziati nel 1842, diedero vita al teatro “Santa Elisabetta”, che, inaugurato nel 1852 con l’esecuzione di una opera del Laudamo, sarà poi rinominato dopo l’Unità d’Italia, col nome che porta tutt’oggi: “Vittorio Emanuele II”.

 

Ai giorni nostri il teatro, rimasto quasi illeso dopo il terremoto del 1908 ma ampiamente danneggiato dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale e smantellato negli anni ’50, è stato ricostruito interamente: la facciata, abbastanza fedele al progetto ottocentesco, è arricchita da fregi e bassorilievi rappresentanti effigi di musicisti e drammaturghi celebri e scene mitologiche, opera di Saro Zagari, ed è sormontata da un gruppo marmoreo allegorico, scolpito dallo stesso autore: rappresenta il Tempo, alato e con la clessidra in mano, che disvela la Verità, a sinistra, mostrandola alla città di Messina, personificata nella figura a destra. L’interno invece, completamente moderno nella struttura, è adornato, sulla volta, da un celeberrimo dipinto raffigurante la leggenda di Colapesce, opera di Renato Guttuso del 1985.

Attivo ogni anno con la sua stagione teatrale e operistica, il Vittorio Emanuele continua a essere uno dei centri principali dell’intrattenimento culturale della città; e magari sarebbe interessante se al suo interno potessero tornare a suonare un po’ più spesso le note di Laudamo, Aspa, o di qualcun altro dei tanti compositori messinesi che il tempo e l’incuria hanno, forse immeritatamente, consegnato all’oblio…

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco

Il cosmo, il tempo e la città: l’orologio astronomico del Campanile del Duomo di Messina.

img_2037Fin dalle antichità più remote il calcolo del passare del tempo, sulla base del moto degli astri, è stato uno dei primi interessi dell’uomo: lo studio del firmamento, i cui corpi celesti col loro comportamento immutabile segnavano il trascorrere delle stagioni, regolando la vita sulla Terra secondo le leggi del Cielo, è sempre stato un argomento in bilico fra la scienza e la teologia e il fascino che esso esercita sull’uomo è rimasto immutato nei secoli. I primi grandi orologi astronomici, nati in Europa nel 1300, erano enormi macchine di precisione legate a doppio filo alla vita civile e religiosa della città in cui erano costruiti: destinati a fare bella mostra di sè sulla cima di alte torri campanarie, questi grandi orologi non solo scandivano il tempo e lo comunicavano all’intera comunità attraverso il suono delle campane, ma riproducevano, coi loro meccanismi, quello che secondo la visione dell’epoca era l’ordine del Cosmo, facendosi imitazione, attraverso l’ingegno e la tecnica umana, del disegno divino. Non è dunque un caso se la massima diffusione di questi orologi si ebbe nel periodo rinascimentale (magnifici esempi, gli orologi meccanici di Praga o di Strasburgo), quando il rinnovato interesse verso l’astronomia, benchè mosso da motivazioni teologiche, contribuì a creare quella temperie culturale che, nei secoli a venire, permetterà infine a Keplero e Newton di spiegare quello stesso ordine appoggiandosi esclusivamente sulle leggi della meccanica: atto di nascita della fisica e della scienza moderna.

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Questi grandi orologi, per la loro complessità considerabili un po’ i computer dell’epoca, erano spesso ben più che semplici strumenti di misura, e gli stessi artifici tecnici che permettevano alle lancette di muoversi venivano spesso adoperati, come nel famoso orologio di Strasburgo, per dare vita ad automi, statue mobili che adornavano il prospetto e destavano stupore e ammirazione nei cittadini; l’orologio quindi, macchina mirabile, diventava un motivo di vanto e una sorta di simbolo per la città che lo possedeva.

Forse pensava a questo, monsignor Angelo Pajno, quando nel 1930 commissionò all’orologiaio alsaziano Theodore Ungerer il progetto di un monumentale orologio astronomico, per la nuova torre campanaria del Duomo di img_2069Messina. E forse una logica simile, in tempi così lontani e culturalmente diversi dal rinascimento europeo e dalla sua concezione, appunto, pre-scientifica del tempo e dell’astronomia, potrà sembrare anacronistica; ma non per Messina, città che in quegli anni iniziava a riacquisire una forma dopo gli orrori del terremoto del 1908, bisognosa dunque di ricostruirsi una identità civica; e non per Pajno, che vedeva la Chiesa come l’artefice principale di questa ricostruzione ideologica e materiale, come testimonia la sua intensa attività nella costruzione di edifici di culto, che gli valse il soprannome di “Muratore di Dio“.

La Storia dà ragione all’arcivescovo messinese: oggi l’amatissimo orologio, meraviglia dei turisti che accorrono a vederlo in piazza Duomo, è divenuto uno dei simboli più noti della Città e ne continua a raccontare la storia quando, ogni giorno a mezzogiorno, gli enormi automi in bronzo dorato che lo decorano prendono vita. Inizia il Leone, simbolo di Messina e pertanto posto nel punto più alto della facciata principale, alto oltre 4 metri: allo scoccare del dodicesimo rintocco gira la testa verso il pubblico, muove la coda e lancia un fragoroso ruggito, mentre le zampe agitano il vessillo con i colori della città. È poi la volta del Gallo, posto immediatamente sotto, che appena il Leone si ferma scuote le ali, muove la testa ed esegue il suo verso per tre volte. Ai due lati del Gallo si trovano le statue di Dina e Clarenza, le due eroine messinesi che, durante i Vespri Siciliani, nel 1282, sventarono l’attacco notturno dei Francesi suonando le campane e facendo rotolare massi dalle mura; le loro braccia, ruotando, fanno suonare le campane dei quarti e delle ore. Sotto Dina e Clarenza si trovano le tre cosiddette scene animate, che si attivano dopo il canto del Gallo.La prima partendo dall’alto rievoca la leggenda della Madonna della Lettera: davanti a Maria benedicente sfilano san Paolo e gli ambasciatori del popolo messinese, che da lei ricevono la Lettera da portare alla città. La seconda invece, destinata a una sorta di sacra rappresentazione, è progettata per cambiare, con un meccanismo girevole, a seconda del calendario liturgico: rappresenta la Natività nel periodo da Natale all’Epifania; l’adorazione dei Magi, nel periodo dall’Epifania a Pasqua; la Resurrezione, nel periodo da Pasqua a Pentecoste; la discesa dello Spirito Santo, nel periodo da Pentecoste a Natale.

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Infine, l’ultima scena animata è dedicata alla leggenda della fondazione del Santuario di Montalto, che emerge dalle montagne sorvolato da una colomba, sulle note dell’Ave Maria di Schubert. Ancora al di sotto delle scene animate, si trovano i due cosiddetti Caroselli, che non si attivano a mezzogiorno. Il primo, il Carosello delle Età, rappresenta quattro personaggi, un bambino, un ragazzo, un adulto e un anziano che sfilano di fronte a un minaccioso scheletro armato di falce, simbolo della Morte; direttamente ispirato
a quello dell’orologio di Strasburgo, si attiva ogni quarto d’ora; il secondo, più basso, è il Carosello dei Giorni, dove ciascun giorno della settimana è rappresentato da una divinità olimpica sul suo carro, che cambia appunto ogni giorno a mezzanotte. Sulla facciata laterale destra invece, si trova l’orologio astronomico propriamente detto, costituito dalla sfera della Luna, che indica le fasi lunari, dal quadrante del Calendario Perpetuo, che indica giorno, mese e anno, e dal quadrante dello Zodiaco, che riproduce le orbite dei pianeti intorno al Sole attraverso un sistema di lancette.

Meraviglia della tecnica dell’epoca e tutt’ora fonte di stupore e curiosità, l’orologio astronomico di Messina riprende quindi, completandola e rinnovandola in chiave moderna, la concezione degli antichi orologi astronomici; è allo stesso tempo orologio, sacra rappresentazione, orgogliosa messa in scena della simbologia civica, ingegnosa riproduzione delle leggi del Cosmo; e ripropone, con una tecnologia e un linguaggio chiaramente moderni, una idea antica quanto la cultura umana: quella della congiunzione tra il Cielo e la Terra.

Gianpaolo Basile

Gesù e Maria del Buon Viaggio al Ringo: storie di gente di mare

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Abbiamo già parlato di come la città di Messina e il suo mare siano da considerarsi un binomio inscindibile: per secoli, se non millenni, Messina è cresciuta in grandezza, ricchezza e potere grazie ai frutti che il suo mare le offriva, grazie ai commerci floridi del porto e all’importanza strategica delle sue fortificazioni nella lotta per il controllo del Mediterraneo; un rapporto di simbiosi che trova la sua manifestazione simbolica nell’eloquente impianto manierista della Fontana del Nettuno, emblema e allegoria della città. Sempre del mare parleremo, in questa uscita: ma stavolta cercheremo di discostarci dalla solenne retorica del potere economico e militare, e di guardare il rapporto fra la città e il suo mare con gli occhi umili dei semplici, dei marinai, dei pescatori, dei naviganti, di coloro che in mare ci lavoravano, ci vivevano e talvolta ci morivano pure, che dal mare traevano il loro pane quotidiano, offrendogli in cambio un pesante tributo di sudore, salato quasi quanto le sue acque.

Prima di essere completamente fagocitato dalla caotica realtà urbana delle palazzine residenziali anni ’70-’80 del moderno Viale della Libertà, il quartiere del Ringo altro non era che un piccolo e pittoresco borgo di pescatori e marinai, nato intorno ai primi del ‘600 su una piccola spianata di terra battuta in riva al mare, dove, secondo la tradizione, nei secoli precedenti si mettevano in riga (in francese, “haranguer”, da cui il nome) i cavalieri che sfilavano per partecipare ai tornei (le “giostre”) che si tenevano lungo il vicino torrente di Giostra. Nel 1598 in questo borgo si stabilisce la costruzione di un oratorio con una chiesetta dedicata a Gesù e Maria: questa chiesa diventa presto il centro spirituale del villaggio, tanto che viene fatta ampliare, nel 1644, a spese delle abitazioni circostanti, ed è in questo periodo che viene iniziata la costruzione della facciata. Punto di riferimento per i naviganti, che vi si recavano prima di prendere il mare per invocare protezione dai pericoli, la chiesa prende il nome di “Gesù e Maria del Buon Viaggio al Ringo”: sopravvissuta ai terremoti del 1783 e del 1908, guarda ancora, come 400 anni fa, lo Stretto, dal lungomare di Messina.

 

La sua facciata, di architetto ignoto, nasconde l’ambizione di creare una struttura monumentale e severa dietro una apparenza semplice, ma non per questo poco elegante o visivamente inefficace. Incorniciate dalle paraste, due nicchie accolgono le statue di Gesù, a sinistra del portale, e della Madonna, a destra: tradizione vuole che tenessero, dalle mani, due lanterne, per orientare i naviganti e i pescatori durante le ore notturne. Il portale, dall’architrave ornata con motivi floreali, dà accesso a una chiesa di piccole dimensioni, ad unica navata, che conserva, nonostante le evidenti manipolazioni successive, gran parte degli altari a tarsie marmoree, ascrivibili al XVIII sec., e diversi dipinti storici.

Sull’altare maggiore fa bella mostra di se, nella sua cornice argentata fiorita di decorazioni tardo-barocche, una tela raffigurante il Trionfo della Croce fra Gesù e Maria, di anonimo settecentesco; sempre anonimo, e databile allo stesso periodo, è il grande dipinto che occupa il primo altare di destra, con la Madonna del Rosario fra i santi Caterina e Domenico; mentre l’altare di sinistra ospita, circondata da una nube di stucchi settecenteschi, una tela seicentesca attribuita a Giovanni Simone Comandè, con la Madonna del Buon Viaggio che benedice la città, interessante testimonianza che ci permette di sorvolare, grazie alla prospettiva a volo d’uccello, il porto di Messina per come lo vedeva un uomo del ‘600. Sempre del Comandè è una altra tela raffigurante sant’Antonio da Padova, proveniente dalla perduta chiesa di Santa Maria inferiore. Sono dipinti semplici, senza pretese artistiche eccessive, la cui fattura un po’ rustica e il linguaggio diretto, farcito di stereotipi, non nascondono l’evidente finalità di devozione popolare; una religiosità ingenua, solo in parte mascherata dall’apparente fasto baroccheggiante delle cornici e degli stucchi, fasto che tradisce anch’esso, nella malcelata grossolanità di alcuni dettagli, una certa vena genuinamente popolaresca.

Una curiosità: ai due lati del portone, volgendo lo sguardo in alto è possibile notare due finestrelle coperte da grate, attraverso le quali gli abitanti dei palazzi circostanti potevano assistere da casa loro alle sacre funzioni. Uno di questi palazzi, Palazzo Formento, è ancora in piedi, nonostante le condizioni di abbandono quasi totale, a destra del portone della chiesa: un altro pezzo storico da valorizzare che ci ricorda che, dove ora ci sono le palazzine e il traffico, prima andavano in scena ogni giorno la vita, la fatica e le preghiere della gente di mare.

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco