Il Palazzo Reale di Messina: una grande storia durata sette secoli

All’incrocio tra la via I Settembre e il Viale San Martino oggi sorge il Palazzo della Dogana, costruito in stile Liberty, nel 1914, su progetto di Giuseppe Lo Cascio.
Vi è da sapere, però, che in quella stessa area in antichità si trovava una delle più maestose regge della Sicilia: il Palazzo Reale, voluto dai Normanni nella seconda metà dell’XI secolo e rimasto una delle principali residenze reali dei re e vicerè di Sicilia fino alla fine del XVIII secolo.

In realtà, molto probabilmente, il Palazzo aveva un’origine ancora più antica: i normanni, infatti, non avrebbero fatto altro che riedificare un preesistente castello arabo, dimora degli emiri durante la dominazione islamica della Sicilia. Ciò si evince da alcune iscrizioni arabo normanne del XII secolo, che verosimilmente ornavano una delle facciate della reggia e che oggi sono conservate al Museo regionale di Messina.
Ad ogni modo, il Palazzo Reale ebbe grande rilievo in epoca normanna: nel 1061, Messina fu la prima città siciliana conquistata da Roberto il Guiscardo e il fratello minore Ruggero (diventato poi il primo Conte di Sicilia). Proprio nella città dello Stretto, i sovrani normanni si stabilirono e cominciarono ad erigere fortificazioni, fra cui appunto la grandiosa reggia che divenne la loro residenza. Solo dopo la morte di Ruggero, sua moglie Adelasia del Vasto, regina madre e reggente, e l’erede al trono Ruggero II si trasferirono a Palermo.

La reggia messinese continuò comunque ad avere la sua importanza: il sovrano spesso tornava a soggiornarvi, essendo la città peloritana la seconda capitale di quello che divenne, nel 1130, il Regno di Sicilia. A cavallo tra il 1190 e il 1191, il Palazzo ospitó anche re Filippo II di Francia : diretto verso la Terra Santa, per combattere la Terza Crociata, le tempeste invernali lo costrinsero infatti a fermarsi a Messina per diversi mesi.

Nel corso dei secoli, la reggia subì diversi rimaneggiamenti. Nel periodo aragonese, più precisamente sotto il dominio di Federico III, fu eseguito un ampliamento.
Successivamente, dal 1565 al 1589 il Palazzo fu riconfigurato in chiave rinascimentale per volere del vicerè Garcia di Toledo e su progetto dell’architetto toscano Andrea Calamech. Mentre in epoca medievale l’edificio aveva probabilmente sei torri, nella ricostruzione attuata da Calamech si presentava poi con quattro torri, quattro logge e quattro saloni grandi.
Sempre in epoca spagnola ulteriori ampliamenti e rinnovamenti furono eseguiti per volere dei vari vicerè di Sicilia.

Nel 1714, cioè un anno dopo che l’isola era stata ceduta dallo spagnolo Filippo V al duca di Savoia Vittorio Amedeo II, il messinese Filippo Juvarra, architetto reale di casa Savoia, elaborò un progetto di ristrutturazione e ampliamento di quella che sarebbe stata la dimora del nuovo sovrano. L‘intenzione era quella di conferire alla reggia lo status e quindi le caratteristiche di una corte europea. Il progetto di Juvarra, tuttavia, non fu eseguito a causa del rientro della corte sabauda a Torino dopo pochi anni.
Da alcuni rilievi fatti sull’edificio per volere di Carlo IV di Borbone, nel 1751, sappiamo come al tempo era strutturato lo stesso e quindi possiamo anche provare ad immaginare come si svolgeva la vita al suo interno. Nei corpi bassi del palazzo si trovavano le rimesse, il carcere, la chiesa e la casa del custode; al piano terra i locali di servizio, ossia la lavanderia, la cucina, la cavallerizza, ecc.); al piano nobile gli uffici (la Segreteria di Stato, la Tesoreria, l’archivio); al terzo piano gli appartamenti reali, una cappella e un salone per le feste da ballo; al quarto livello, infine, gli alloggi per la servitù.

Buona parte di tutto ciò andò distrutta nel terremoto della Calabria meridionale del 1783. Da lì ebbe inizio la parabola decisamente discendente di quella che un tempo fu un’imponente reggia. Ferdinando I delle Due Sicilie nel 1806 decise di spostare la sede del Palazzo Reale presso il Palazzo del Gran Priorato Gerosolimitano dell’Ordine di Malta. Mentre quel che rimaneva del vecchio edificio reale venne ulteriormente danneggiato nel 1848, durante la rivolta antiborbonica. A partire dall’anno dopo, le strutture che avevano resistito furono adibite a magazzini per il porto.
Il resto lo fece il terremoto di Messina del 1908: l’edificio fu raso al suolo, come del resto gran parte della città peloritana. Nel dopo-terremoto, poi, le parti superstiti vennero distrutte completamente per costruire su quella stessa area strategica, a ridosso del mare e del porto, il Palazzo della Dogana.
Oggi del Palazzo Reale non rimane altro che un nome e qualche testimonianza, perlopiù iconografica (raffigurazioni pittoriche, piante e progetti). Per molti, poi, “Palazzo reale” è solo una fermata del tram… Ma noi ci auguriamo che, dopo aver qui ripercorso la sua storia, ad ognuno, passando da quel luogo o anche solo leggendo o pensando a quelle due paroline, torni in mente che lì si è svolta una parte importante della storia siciliana e che da lì sono passati gli uomini che appunto hanno scritto tale storia.

Francesca Giofré

Largo San Giacomo: dalla Storia allo scavo

E’ l’estate del 2000 quando il Comune di Messina finanzia uno scavo con l’intento di svuotare dall’acqua la cripta della Cattedrale. A quest’opera di bonifica, tuttavia, si deve anche un altro merito: l’aver riportato alla luce una cripta settecentesca, edificata sui resti della Chiesa consacrata a San Giacomo Apostolo.

Le carte storiche di Messina, come la planimetria effettuata da Gianfrancesco Arena dopo il terremoto del 1783, confermano l’esistenza della struttura dietro al Duomo, e la vedono inglobata in un caseggiato alle sue spalle verso Est.

A causa della falda acquifera affiorante, non è stato possibile approfondire gli studi sullo scavo, ma si ipotizza l’edificazione dell’opera normanna intorno alla seconda metà dell’ XI e XII secolo; a sostegno di questa ipotesi, troviamo alcuni particolari stilistici, quali i pilastri che separano la navata, la tecnica di costruzione delle mura e la pavimentazione povera, aspetti che la avvicinano molto ad altre opere di periodo normanno, come la Chiesa di Santa Maria della Valle, comunemente conosciuta come “ ‘a Badiazza”.

Nel corso della sua storia, la Chiesa subì numerosi restauri dovuti anche ai frequenti straripamenti del torrente San Giacomo, scorrente in quella zona della città fino al 1548, anno in cui gli Spagnoli eressero una nuova cinta di mura. Tra il XV e il XVIII secolo, possono essere collocate le numerose sepolture rinvenute sotto i pavimenti: secondo i dati fornitici da Gallo, solo nel 1753 verrà costruita una vera e propria cripta per i defunti, identificabile in quella rinvenuta nel 2000.

 

Di questa cripta, grazie agli scavi odierni, è possibile distinguere chiaramente alcune parti restanti, fra cui dei particolari sedili forati: sono i cosiddetti colatoi. Per capire la loro funzione, dobbiamo rifarci all’usanza, diffusissima in Sicilia e in tutto il Meridione in generale, in particolare lungo il XVIII sec., della scheletrizzazione naturale dei cadaveri. Questa pratica antica, che oggi non potremmo fare a meno di definire decisamente macabra, bene si inquadra nel solco delle tradizioni tipicamente meridionali legate al culto dei defunti, come ad esempio la mummificazione, anch’essa praticatissima in Sicilia (si pensi al cimitero dei Cappuccini di Palermo o alle, più vicine, mummie di Savoca).

Nel caso della scheletrizzazione, però, i cadaveri venivano rivestiti con i loro abiti migliori e lasciati, in posizione seduta (grazie all’aiuto dei fori che tutt’ora è possibile vedere), a decomporsi naturalmente nelle apposite nicchie, finchè non ne rimanevano solo le ossa, che venivano a quel punto raccolte e messe in appositi ossari. Questo rituale, che agli occhi del lettore moderno potrà sembrare persino ripugnante, era all’epoca ammantato di un preciso significato religioso, legato al tema della caducità delle cose terrene, tanto che in alcuni luoghi era previsto che dei membri del clero, o anche i parenti stessi del defunto, si recassero periodicamente a visitare i colatoi per pregare e meditare sulla morte; come si può intuire, si trattava di una usanza tutt’altro che salutare, tanto che in vari modi nel corso degli anni le autorità provarono, spesso invano, a scardinarla. 

 

 

 

La primitiva Chiesa medievale era completamente sotto terra, proprio per questo se ne perse la memoria. Tuttavia, al suo interno, era contenuto qualcosa che ne conferma l’esistenza: un antichissimo marmo, oggi custodito nel Museo Regionale di Messina, che si pensa rappresenti l’apoteosi di un eroe o il mito di Icaro.

Sappiamo con certezza che, nella prima metà dell’Ottocento, la chiesa era ancora aperta al culto. Solo dopo, la sede parrocchiale fu trasferita nella chiesa della Madonna dell’Indirizzo e poi nella chiesa Santa Caterina Valverde. L’antica chiesa non esisteva più dal 1902, al suo posto si trovava la casa del Cav. Ruggero Anzà.

Con il terremoto del 1908 la Chiesa della Madonna dell’Indirizzo e la Chiesa di Santa Caterina furono distrutte. Vent’anni dopo, oltre il Torrente Zaera, fu edificata una chiesa in nome di San Giacomo Apostolo, la prima in muratura aperta al culto. Il nuovo complesso parrocchiale, in stile neoromanico, sorge sul primo comparto dell’isolato 54, delimitato dalle vie Reggio Calabria, Buganza, Napoli e Lombardia ed occupa un superficie di mq 1345 circa. Tra i tanti restauri, l’ultimo venne effettuato negli anni 1977-1978.

Fino a poco tempo fa godere dello spettacolo che questo scavo offre, era praticamente impossibile a causa di una distesa di verde dalla crescita incontrollata e di montagne di spazzatura. Oggi, fortunatamente, grazie ai volontari di “PuliAMO Messina” con l’affiancamento della Soprintendenza ai beni culturali e della direttrice dell’Orto Botanico, è stato restituito al monumento il proprio valore storico-culturale.

Erika Santoddì

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco

Dove terra e mare si congiungono: Il Santuario della Madonna di Dinnammare

Messina sarà sicuramente piena di bei posti dai quali ammirare i paesaggi che la terra e il mare ci offrono, ma quale posto migliore del monte Dinnammare per ammirare la bellezza degli abissi?

Sembra, infatti, che il nome “Dinnammare” derivi dal termine latino “bimaris”, poiché dalla sua vetta è possibile avere visuale del mar Jonio e del mar Tirreno, ammirare la città di Messina in tutta la sua grandezza e lo Stretto nella sua maestosità.

Facente parte della catena montuosa dei Peloritani e alto 1127 m, il monte ospita sul suo imponente cucuzzolo il Santuario della Madonna di Dinnammare. La sua edificazione in loco è spiegata da due leggende.

La prima narra di un pastore, che trovandosi un giorno sulla montagna, inciampò su una tavoletta di marmo con su impressa l’immagine della Vergine Maria. Tornato a casa con la tavoletta, la mattina seguente, non la trovò più; iniziò a cercarla, e infine la ritrovò nello stesso posto in cui il giorno prima ebbe la fortuna di imbattersi. Il parroco di Larderia, paese di origine del pastore, una volta venuto a conoscenza del fatto, volle che questa miracolosa lastra di marmo fosse conservata nella chiesa del paese. Così fu fatto; ma anche da lì la tavoletta scomparve per essere ritrovata sul monte, nel medesimo luogo. A quel punto la decisione da prendere fu semplice: tutti furono d’accordo che la lastra di marmo fosse destinata a quel monte, e che dovesse essere edificata una chiesa per custodire e pregare la Madonna di Dinnammare.

La seconda leggenda riporta, invece, che la sacra Immagine provenisse dal mare, trasportata da due mostri marini, i quali la lasciarono sulla spiaggia di Maregrosso. Alcuni pescatori iniziarono ad adorare l’icona, e nel tempo quel tratto di spiaggia si trasformò in un santuario, tanto era il numero dei fedeli che si riunivano in preghiera. In seguito, su iniziativa degli stessi pescatori, l’immagine della Madonna fu portata sul monte, dove adesso sorge la chiesetta.

Nonostante questo, non sappiamo di preciso il periodo di costruzione della chiesetta, ma si preferisce l’epoca bizantina.

Questa, d’ispirazione medievale, è stata ricostruita nel 1899 dai militari che l’avevano abbattuta per edificare l’omonimo forte, che doveva servire per il controllo di tutta l’area dello stretto dalle incursioni provenienti da sud e da nord.

Recenti restauri hanno riportato alla luce, dopo aver tolto tutti gli intonaci, la naturale bellezza delle murature in mattoni a faccia vista. Al suo interno si conserva un rilievo marmoreo dell’‘800 raffigurante la “Madonna di Dinnammare”: l’iconografia è quella tipica, la Madonna col Bambino in trono, retta da due mostri marini o delfini. Semplice, completamente in pietra e poco luminosa, ogni anno, il 3 Agosto, ospita il pellegrinaggio che parte di notte dal Villaggio Larderia per giungervi sulle prime ore del mattino, attraverso sentieri tracciati nella montagna, con in testa il quadro della Madonna; il 5 Agosto il quadro ritorna, ripercorrendo gli stessi passi dell’andata, alla chiesa di San Giovanni Battista, a Larderia, nella quale avviene l’emozionante ingresso tra le navate.

Erika Santoddì

Ph: Giulia Greco

Una luce sul mare: la torre della Lanterna di San Ranieri

Zancle, “la Falce”, la chiamavano i nostri progenitori greci: a testimonianza di come Messina, città antichissima, abbia sempre avuto, fra le sue peculiarità, quel braccio di terra a forma di falce che si protende verso la Calabria e poi si volge di nuovo verso le sue spiagge, definendo così una ampia baia che ai nostri antenati deve essere sicuramente parsa provvidenziale, nel contesto di un mare capriccioso e difficile come lo Stretto. Un posto perfetto per costruirvi quello che sarebbe diventato e rimasto per secoli uno dei porti commerciali e militari più importanti del Mediterraneo. Su quel lembo di terra lambito dalle acque del mare, guardiano dello Stretto, da tempi immemori la Lanterna di San Ranieri continua a fare luce: per anni e anni ha guidato i naviganti, mostrando loro, in quelle pericolose acque, l’imboccatura di un porto sicuro. 

La storia della Lanterna si perde nei secoli passati confondendosi con la leggenda. Così, se la storia ci attesta la presenza di alcuni monaci che risiedevano in questa penisola, sulla cui punta si trovava l’antico Archimandritato del Santissimo Salvatore, già a partire dall’XI secolo, è la leggenda a raccontarci del santo monaco Ranieri (o Rainieri), forse identificabile con quel san Ranieri da Pisa di cui le agiografie riportano un soggiorno a Messina, a metà del dodicesimo secolo. La tradizione vuole che il buon Ranieri si recasse ad accendere ogni giorno fuochi di segnalazione ai naviganti, per proteggerli dalle insidie del pericoloso gorgo detto “Garofalo”, che proprio lì, nelle vicinanze della Falce, mieteva le sue vittime fra i marinai.

Proprio nel luogo in cui secondo la leggenda san Ranieri accendeva i suoi fuochi, fu costruita, negli anni successivi alla sua morte, una cappella dedicata al suo culto, presso la quale si stabilì una comunità di monaci terziari francescani, i “Continenti di San Ranieri”: furono loro, nel 1310, i primi a costruire sulla penisola una struttura adibita a faro, che prende appunto il nome di Lanterna di San Ranieri. 

Della antica Lanterna e della cappella si perdono le tracce nel 1500: è in questo periodo che, a seguito della visita a Messina dell’Imperatore Carlo V, in clima di aperta tensione nei confronti dell’espansione ottomana, su impulso del vicerè Ferrante Gonzaga Messina si trasforma da porto prevalentemente mercantile a imprendibile piazzaforte militare; l’Archimandritato viene distrutto e al suo posto viene edificato il forte omonimo del Santissimo Salvatore, e al posto dell’antica Lanterna, presumibilmente ormai in rovina, sorge la massiccia torre quadrangolare a bugne che tutt’ora scruta silenziosamente, come un vigile guardiano, le acque del mare. 

Sulle vicende riguardanti la sua costruzione molto è stato scritto da parte di storici e studiosi, ma continua ad aleggiare una certa aura di mistero. Una tradizione che origina nell’Ottocento, per la precisione da Giuseppe La Farina, la attribuisce al celebre scultore e architetto fiorentino Giovanni Angelo di Michele, detto il Montorsoli: ed in effetti Giorgio Vasari, che del Montorsoli fu contemporaneo e biografo, parlando di lui nella sua edizione del 1568 delle sue “Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti” a proposito delle sue opere messinesi scrive in appena mezzo rigo “fu fatta in su la marina, di suo ordine, la torre del fanale”. Quel che è davvero misterioso è come mai tutte le altre fonti storiche fino all’Ottocento, parlando del Montorsoli, trascurano di identificare la Torre tra le sue opere. Ancora, nessun accordo vi è sulla data di costruzione: se una epigrafe, che si trovava affissa sull’edificio e che alcuni storici attribuiscono a Francesco Maurolico, pone la data al 1555, sotto l’impero di Carlo V, altre fonti parlano di una torre che fu restaurata e in seguito demolita nel 1556, altre ancora datano l’edificio al 1566, o ad altre date ancora; lungi dal voler scendere nei meandri un po’ oscuri della storiografia locale, quel che è certo è che, per quanto riguarda la sua costruzione, l’ultima parola non è ancora stata detta. 

Oggi la Torre della Lanterna, che da almeno 5 secoli resiste indenne ai terremoti e alle calamità naturali, è proprietà della Marina Militare Italiana e viene aperta al pubblico solo in particolari occasioni; sormontata da un faro moderno di costruzione successiva, con i suoi tre lampi bianchi ogni 15 secondi continua a segnalare le coste sicule alle navi che transitano nello Stretto, oggi come secoli fa. E anche se adesso il Garofalo non ci fa più paura e le mitiche Scilla e Cariddi, divoratrici di uomini, solidamente incatenate ai piedi del Nettuno nella celebre fontana, non sono più in grado di nuocere alle nostre grandi navi a motore, ogni volta che, passeggiando sulla banchina del Porto, posiamo lo sguardo sulla sua massiccia mole cinquecentesca, non possiamo fare a meno di pensare a quante vite, erranti sul mare, siano state tratte in salvo grazie alla luce soccorritrice della Lanterna di San Ranieri. 

Gianpaolo Basile

ph: Elena Anna Andronico

Ai tempi dell’università (a)Social: Instagram.

Sicura è solo la morte, diceva mia nonna. Cara nonnina, se tu ci fossi ora penseresti che siamo degli imbecilli (già lo pensavi all’epoca di MSN, quindi figurati).

Sicura è solo la morte… E gli studenti che procrastinano le loro giornate sui social. Quelli sono sicuri forse più dell’amica friz, là.

E qua subentriamo noi. In un momento di intesa riflessione shakespeariana, essere o non essere, dormire o non dormire, mangiare o mangiare fino a scoppiare, ci siamo chieste…

Facebook o Instagram? Questo è il problema.

Un problema davvero esistenziale (si vede che non ne abbiamo tanti di problemi, no?). Beh, guardiamo in faccia la realtà: è così.

Le nostre giornate di studio oscillano tra momenti di noia e dolore, con piccoli picchi di ‘’questa la pubblico su Instagram o su Facebook?’’

E, quindi, la vera domanda è: e TU, si tu, lettore di UniVersoMe… Che studente sei?

 

Lo Studente su Instagram:

  • L’instagrammer ‘’Solo Nature Morte’’

Questa è una delle categorie più atroci che descriveremo.

L’instagrammer “solo nature morte” vive in diretta streaming manco fosse al Grande Fratello speciale Università. Il suo profilo instagram è costantemente aggiornato; Foto, foto, foto e ancora foto ovunque e comunque. Se vi dicessi che il soggetto in questione vive costantemente con lo smartphone in mano, sarei banale (chi di noi non lo fa, dai.. su)

La sua particolarità, però, è quella di tenere sempre attiva la fotocamera. La mattina si sveglia? Foto del libro accanto alla tazza di premuta d’arancia. SCATTATO E POSTATO. Deve dare un esame? Foto del prima e del dopo al libretto (Anche qui… Scattato e Postato) Arriva in facoltà? Foto di sedie, banchi, penne, matite, cattedra e professore.. #LessonTime.

Si, perché gli hashtag sono forse la parte peggiore. Rigorosamente in inglese giusto per sentirsi un po’ più vicini ai colleghi di Oxford, che poi vorrei proprio vederlo uno che ad Oxford utilizza un hashtag del genere (Amici di Oxford vi lanciamo una sfida. Tutti con l’hashtag #ItaliansDoItBetter)

Il posto preferito degli Instagrammer “solo nature morte”? Senza dubbio le biblioteche, il miglior punto di ritrovo per gli scatti da 30 e lode.

  • L’influencer instastories compulsivo

Dai, ammettiamolo: a chi di noi non è piaciuta l’idea delle InstaStories? Quando MARK ZUCKENBERG, sempre il solito simpaticone, ha aggiornato l’app ha fatto un passo in avanti verso la nostra completa rovina (sono quasi sicura che faccia parte di un complotto internazionale per lavarci il cervello a tutti).

 

Da quel momento le persone si sono divise: chi ha continuato a postare in tranquillità e chi ha iniziato ad avere l’InstaStory compulsiva.

E qua entriamo in gioco noi studenti: similmente all’amichetto del punto 1, lo studente ossessionato dalle InstaStories mostra ogni singolo minuto della sua giornata di studio.

Autoproclamandosi regina delle celebrità (no bella, no magnifica MA senza pietà per noialtri), lo studente influencer ci rende perennemente aggiornati dei suoi spostamenti.

 

Non solo: fa l’update come le app. Si aggiorna. Prima erano solo video o foto di lui a lezione/mentre studia/ in biblioteca/ #pausacacca! Poi sono subentrati gli effetti. E i Boomerang. E i video da lontano che tanto c’è l’opzione senza mani (manco fossimo alle giostre). E gli adesivi. E gli adesivi con la posizione. E gli adesivi con l’orario. MA BASTA MARK TI PREGO ABBI PIETA’.

 

Speriamo solo che le sue conoscenze non si eliminino dopo 24h come le sue amate storie, sennò mi sa che finisce a #18&sto.

  • Il Chiara Ferragni dei Poveri

Ah meraviglia. Loro non sono studenti, sono degli sculati. VE LO GIURO. Sono i nostri Chiara Ferragni: viaggiano, ogni notte fanno serata, si rilassano con lo shopping e #Sushino?, che non guasta mai.

 

Che tu guardi i loro post e ti chiedi: MA COME CAZZO FAI, AMICO?

Sui loro profili l’università non è esistente, zero. Solo nuovi outfit, nuovi piatti, nuovi luoghi con #landascape da sogno. Ma PERCHE’?

 

Eppure studiano, vengono a lezione. Come lo sai? Perché LI VEDI. Cavolo, sempre abbronzati e rilassati, pronti per il prossimo hashtag, mentre tu fai schifo e ti sei ridotto come un verme insonne che dalla vita non ha niente.

 

ChiarE Ferragni: vogliamo sapere il vostro segreto. VI PREGHIAMO. Rendereste la nostra vita migliore.

 

  • L’incoerente

Avete presente quello che “no, le Nike le odio”, e poi le compra. “No, io a quella festa? Mai” e poi ci va. “No, io con quella non ci uscirei mai” e poi ci si fidanza (vabbè, diciamo che questo nei film succede tipo sempre)

 

L’incoerente è incoerente sempre, ma anche e soprattutto sui social. Odia e percula tutti quelli che ne fanno un utilizzo spropositato “Compà, cazzo ti posti?”. Finge di essere completamente disinteressato all’universo di like e commenti, si perché FINGE.

 

Prova particolare ribrezzo per coloro i quali sputtanano l’#UniversityLife su Instagram. Ma, ve l’ho già detto… FINGONO, FINGONO SEMPRE.

Con un po’ di attenzione riuscirete a scovare la loro reale ma segreta passione.

 

L’incoerente ha iniziato a seguire Università degli Studi di Messina, UniVersoMe, Vita Universitaria e Lo Studente Modello (con tutte foto di studenti a petto nudo in passerella) L’incoerente ha messo “mi piace” a una foto di Pietro Navarra. Ha lasciato un commento su una foto di “Studenti Disperati”… “Chi non si dispera non piglia CFU” ha scritto…

 

Poi si laurea e… Corone d’alloro, tesi di laurea, torte, champagne e regali. #AdMaiora. No… #AdFanculo.

 

“Ma io uso di più Facebook”… Non ti preoccupare, caro lettore. Arriverà anche il tuo momento, basta che aspetti la prossima settimana.

@elegram18  ( Elena Anna Andronico)

@vanemuna ( Vanessa Munaò)

La chiesetta di San Tommaso il Vecchio: una amara rivincita del fato

Ci sono luoghi a Messina in cui la Storia fa capolino senza dare troppo nell’occhio, con discrezione, come una presenza silenziosa ma fedele che veglia su certi piccoli angoli di città. Capita così che passeggiando in pieno centro, a pochi passi dalla Galleria Vittorio Emanuele, su una delle prime traverse della via Cavour, Via Romagnosi, appaia ad un certo punto nel mezzo dei palazzi residenziali la sagoma quasi anonima di una piccola chiesetta, sulle cui mura in mattoni grezzi, dagli angoli contornati in pietra lavica, grava il peso di chissà quanti secoli: è la chiesa di San Tommaso il Vecchio.

Da quante centinaia di anni questa piccola chiesetta si trovi lì è qualcosa che gli storici non riescono ad oggi a determinare univocamente. Sulla facciata anteriore, che oggi è visibile solamente dai palazzi circostanti o dal cortile recintato, raramente aperto al pubblico, una iscrizione latina riporta la dedicazione a San Tommaso Apostolo e la data 1530; ma alcuni studiosi ritengono che si tratti di una costruzione molto anteriore. Del resto quella curiosa cupola sul suo timpano circolare, benchè oggi in parte alterata nella sua fisionomia dai restauri novecenteschi, tradisce quegli influssi arabo-bizantini che resero così ricca e variegata, nei secoli successivi all’anno mille, l’arte normanna in Sicilia; ed è dunque al Medioevo, e all’architettura medioevale, che con ogni probabilità va ad ascriversi questo piccolo ma elegante edificio, che forse apparteneva ad un cenobio basiliano.

Quel che è certo è che è è dal XVI secolo che la chiesa di San Tommaso fa il suo ingresso ufficiale nella storia messinese. Probabilmente solo restaurata nel 1530, nel 1585 viene annessa al Conservatorio delle Vergini Riparate, una pia istituzione dedicata all’educazione delle fanciulle, la cui sede si trovava nei dintorni. Circa vent’anni dopo, il Conservatorio delle Vergini passa in gestione ai padri Teatini, uno dei molti ordini religiosi sorti in seguito alla Controriforma, e con esso la chiesetta, che viene dunque a trovarsi inclusa nei giardini del convento.

 

 

I Teatini, infatti, pur preservando intatta la vecchia costruzione, preferiscono fare le cose in grande e iniziano la costruzione di una nuova chiesa, molto più grande e più bella, per il cui abbellimento viene chiamato a Messina, nel 1686, uno dei più grandi architetti del periodo, membro dell’Ordine dei Teatini e attivo in tutta Europa. Si tratta di Guarino Guarini, e la chiesa che il suo estro concepisce, l’Annunziata dei Teatini, con la sua facciata barocca esuberante e maestosa, diventerà il modello per moltissime altre chiese siciliane ad essa successive, tanto da venir considerata dagli storici dell’Arte il vero atto di nascita del barocco siciliano settecentesco.

 

È così che, mentre la nuova chiesa diventa una delle più importanti e belle della città (prima del 1908 era davanti ad essa che si trovava il monumento a Don Giovanni d’Austria oggi in Piazza Lepanto), la vecchia chiesa di San Tommaso il Vecchio, ormai inutile e dimenticata, vive un periodo di progressivo abbandono: per tutti i due secoli successivi resta in disuso, a mo’ di rudere, nel giardino dei Teatini assieme ai resti del Conservatorio, e quando, a seguito dell’Unità d’Italia, con le leggi eversive i beni dell’Ordine dei Teatini passano in mano allo Stato Italiano, la chiesa viene venduta a privati e diventa addirittura la sede di un forno.

Eppure, a riprova del fatto che talvolta il fato sembra essere dotato di un pessimo senso dell’umorismo, quando su Messina cala la falce del terribile terremoto del 1908, la chiesa dell’Annunziata dei Teatini viene rasa al suolo e di essa oggi (purtroppo) non resta traccia alcuna, mentre è proprio la piccola, dimenticata, maltrattata chiesa di San Tommaso Apostolo a restare in piedi nonostante i secoli di storia.

Pare dunque che la sorte abbia voluto offrire una sorta di rivincita a questo luogo: eppure si tratta di una vittoria che ha un sapore amaro. Non solo perché ci è costata la perdita di uno dei monumenti artistici più belli e importanti della Messina pre-terremoto, ma anche perché ad oggi, pur essendo stata in parte restaurata negli ultimi decenni del secolo scorso, la chiesa di San Tommaso si trova in condizioni tutt’altro che ottimali: sfregiata da discutibili interventi architettonici posteriori; nascosta alla vista, per quanto riguarda la semplice ma elegante facciata principale, da alti palazzi residenziali; recintata dietro una robusta cancellata in ferro che blocca l’accesso al cortiletto antistante; aperta al pubblico in occasioni estremamente rare; in una parola, oggi come allora, dimenticata.

Gianpaolo Basile

Ph: Fernando Corinto; Riccardo Figliozzi

Per la foto dell’Annunziata dei Teatini: https://it.wikipedia.org/wiki/Chiesa_della_Santissima_Annunziata_(Messina)#/media/File:Messina_Santa_Annunziata.jpg

Messina, la memoria negata: passato, presente e futuro

Poco più di un anno è trascorso da quando ho iniziato la mia avventura qui ad UniVersoMe. Ricordo che inizialmente volevo dedicarmi alla rubrica di Scienza e Ricerca, ma che, alla prima riunione di redazione, proposi assieme ad Alessio Gugliotta di lavorare a una rubrica di cultura locale, che adesso curo come referente assieme a quella sui personaggi storici, e che il 9 marzo dello scorso anno uscì col suo primo articolo, con il nome di Messina da Scoprire. 

“Questo se la sta suonando e cantando da solo”, starete pensando. Ok, forse avete ragione, ma chiariamoci, non è della mia rubrica che voglio parlare in questo editoriale, quanto della città di Messina e del controverso rapporto della sua cittadinanza con il suo patrimonio storico, artistico e culturale.Si tratta di una tematica con la quale personalmente sono fissato al limite dell’ossessione, e nemmeno io so bene perché: forse perché Messina, come scrivevo nel mio primo articolo, è una città dove la Storia gioca a nascondino, perché le peculiari vicende che ne hanno segnato lo sviluppo storico e urbanistico oggi fanno sì che solo poche tracce di quello che è stato il suo passato riescano ad emergere distintamente dal tessuto urbano novecentesco, successivo al terremoto del dicembre 1908, su cui oggi la città si sviluppa.

Che la storia di Messina sia stata davvero importante è qualcosa che forse non tutti i suoi cittadini oggi percepiscono: eppure non è becero campanilismo, basta sfogliare qualche pagina dai libri di storia della Sicilia per farsene una idea; basti pensare che nel Cinquecento Messina si contendeva addirittura con Palermo il ruolo di capitale della Sicilia (Messana, nobile Siciliae caput, Messina nobile capitale della Sicilia, recita un motto latino dell’epoca) e che comunque fino alla fine del ‘600 era la seconda città della regione per importanza economica, politica, militare e culturale.

 

Se è dunque vero che il messinese medio spesso e volentieri non ha affatto contezza del grande passato della sua città, è anche vero che non glie ne si può fare del tutto una colpa: certo non è colpa sua se la storia della città è stata costellata di guerre, carestie e calamità naturali culminate in un terremoto devastante. Quello su cui però dovremmo iniziare a porci delle domande è perché quel poco che resta (indubbiamente poco, ma sotto certi aspetti più di quanto si tenda a pensare) venga così colpevolmente ignorato e trascurato. 

 

Da quando scrivo su Messina da Scoprire ho fatto un po’ il callo a vederne e sentirne davvero di cotte e di crude a riguardo. Gli esempi si sprecano e non pretendo affatto di essere esaustivo ed elencarli tutti (dovrei scrivere pagine su pagine e vi annoiereste a leggermi), ma qualche sassolino dalla scarpa voglio togliermelo. Al centro a due passi dal Duomo c’è uno dei più caratteristici monumenti dell’arte arabo-normanno-bizantina in Sicilia, un ibrido stilistico assolutamente peculiare e unico nel suo genere che è l’Annunziata dei Catalani: sembra banale, ma in anni che frequento Messina l’avrò vista aperta se è vero due o tre volte, praticamente un terno al lotto. Una altra piccola perla dello stile arabo-normanno si trova poco lontano da lì in via Romagnosi, è la chiesa di San Tommaso il Vecchio: sorvolando sul discutibile restauro novecentesco, anche lì i cartelli riportano un orario di apertura decisamente striminzito (dalle 8 alle 11) che a mia memoria difficilmente viene rispettato. E se questo succede in pieno centro, immaginiamoci poi cosa succede un po’ più lontano, e le condizioni in cui si trova la monumentale chiesa normanna della Badiazza, decisamente più periferica.

 

Di quella che una volta era la roccaforte principale di Messina, il castello di Rocca Guelfonia o Matagrifone, oggi resta solo una torre e qualche frammento di mura; l’antico portale cinquecentesco è abbandonato in un vicolo cieco, Via delle Carceri, senza neanche un segnale per raggiungerlo. La piccola chiesa di Sant’Elia, anche questa in pieno centro, a due passi da Cairoli, è una delle pochissime strutture ad essere sopravvissute in buona parte ai terremoti e dentro preserva i magnifici stucchi settecenteschi originali: altrove forse sarebbe un fiore all’occhiello dei percorsi turistici, invece è quasi totalmente sconosciuta a gran parte della cittadinanza, spesso chiusa, e i suoi interni sono anche deturpati da alcuni discutibilissimi interventi fuori stile che farebbero rabbrividire il buon Vittorio Sgarbi. Ciliegina sulla torta, ha fatto di recente discutere l’opinione pubblica l’“apertura” della “nuova” sede del Museo Regionale: virgoletto “nuova” perché in realtà i lavori si protraggono dagli anni ’80, e “apertura” perché comunque si è trattato di una apertura “a metà”, frettolosa e parziale, in cui, ieri come oggi, ancora una grande parte della vastissima collezione del Museo attende di essere mostrata al pubblico. 

Chiudo qui l’elenco non perché si sia concluso, ma perché non è mia intenzione trasformare questo mio editoriale in un rigurgito di lamentele generiche, che restano assolutamente fini a se stesse finché le problematiche che esse evidenziano non diventano di interesse pubblico. Del resto, la situazione non è proprio nera come potrebbe apparire e di recente abbiamo assistito a interventi di salvaguardia e valorizzazione assolutamente lodevoli, come quello sugli scavi di Largo San Giacomo, o sulla Galleria Vittorio Emanuele, ad opera di una associazione basata sull’iniziativa popolare, PuliAmo Messina. La lista però continua ad essere lunga ed è importantissimo che se ne parli, che la cittadinanza sia resa cosciente ogni giorno della grandezza e bellezza del proprio patrimonio culturale e artistico in modo da spingerla ad esigerne la rivalutazione. Davanti a un passato glorioso ma dimenticato, e a fronte di un presente da dimenticare, non ci resta che sperare in un futuro migliore. 

Gianpaolo Basile

 

La La L’Ateneo messinese

Alzi la mano chi ha guardato appiccicato alla televisione la tanto attesa e famosa “Notte degli Oscar”, durante la quale non sono mancati Epic Fail; il più clamoroso?! La consegna della busta sbagliata che vede come protagonisti i film “La La Land” e “Moonlight”. Ma, arriviamo al dunque: nonostante la regia di Damien Chazelle non è riuscita ad accaparrarsi l’Oscar per “Miglior Film”, La La Land si è comunque classificato in moltissime delle categorie per i premi più ambiti. Ho citato quest’esempio perché, forse in modo un po’ azzardato, il Premio Oscar si avvicina un pochino alla “Scelta dell’Università”.

Come sappiamo esistono diverse Università sparse in tutt’Italia, ognuna con diversi Dipartimenti e peculiarità. Tuttavia, ognuna di esse, pubbliche o private che siano, eccellono e/o  toppano in qualcosa. Di conseguenza, la scelta dell’Università non deve limitarsi soltanto alla valutazione del suo prestigio, ma deve guardare anche e soprattutto altri aspetti, quali i bisogni, le aspettative e le esigenze di ogni studente.

Ma in Sicilia, terra del Sole e del Mare, le Università: quali e quante sono?

Nel 1434 sorse la prima Università siciliana: il Siciliae Studium Generale, oggi Università di Catania che, classificata tra i mega atenei, conta oltre 40.000 iscritti. Fu invece il complesso rapporto creatosi tra Compagnia di Gesù e classe politica locale a sostenere la fondazione sulle rive dello Stretto, il 16 Novembre del 1548, attraverso l’aiuto dei giurati messinesi, del viceré Juan de Vega, l’intervento di Ignacio de Loyola e del Pontefice Paolo III S.Ignacio de Loyola, di quella che si può definire la prima Università collegiata gesuitica in Europa, l’unica in Sicilia a fornire una istruzione completa nelle arti liberali.

Lo Studium veniva ad essere governato, per la maggiore, dalla Societas Iesu, mentre alla città spettava soltanto l’onere di finanziare l’istituzione. La città rispondeva proponendo un modello universitario bipartito in: Diritto e Medicina, gestito dalla Giurazia messinese; Teologia, retto dalla Societas Iesu. Successivamente, nel 1565, si ha la completa adesione al modello universitario “bolognese”, che poco aveva a che fare con l’iniziale bolla pontificia: la Compagnia di Gesù viene, infatti, definitivamente esclusa dal controllo dello Studium.

Nel 1597, l’Ateneo peloritano si vede pronto a funzionare regolarmente, grazie anche alla “Nuova Fondacione delli Studii”: nuovi Statuti secondo i quali, lo Studium doveva essere gestito dalle élites cittadine nei momenti fondamentali, quali la scelta dei docenti, del rettore, dei riformatori, ecc.

L’Università di Messina, fino al 1679, anno della sua prima chiusura, riusciva a proporsi come tappa centrale per il percorso formativo delle élites culturali e cittadine; inoltre, la sua posizione strategica, faceva si che allo Studium messinese, arrivassero giovani studenti anche dalle terre della vicina Calabria, di Malta e dalla Grecia.

Come già anticipato, ad un secolo dalla sua apertura, a causa della  rivolta antispagnola, l’Ateneo si vede chiuso, per poi essere rifondato nel 1838 dal Re Ferdinando II, il quale, elevava la locale Accademia Carolina, al rango di Università, potendo stimare, fino ai primi del Novecento grandi intellettuali come Pietro Bonfante, Vittorio Emanuele Orlando, Giovanni Pascoli, Gaetano Salvemini. A dieci anni dalla sua riapertura, l’Ateneo si rivede soppresso per poi essere riaperto due anni dopo, subendo un calo d’utenza dovuto ad alcune leggi che vietavano l’immatricolazione di studenti provenienti da altre provincie siciliane e dalla Calabria.
Nel 1908, il terremoto che ha devastato Messina, ha contribuito alla distruzione di gran parte delle attrezzature e strutture dell’Ateneo tra le quali il Collegio dei Gesuiti che, sorgente sui resti di un antico tempio dedicato ad Apollo, è stato sin dall’inizio sede dell’Università. L’edificio fu edificato dal gesuita Natale Masuccio nel 1608,
progettato e collaudato secondo un modello che la Compagnia definiva “modo nostro” e che mirava a rendere collegate tutte e tre le aree dell’edificio: quella destinata alle scuole, quella per i religiosi e quella per la chiesa. Di quest’opera, tutto è andato distrutto, tranne il portale principale del collegio, che oggi si trova murato in una struttura secondaria, alla sede del rettorato, passando da via Venezian; su di esso la dicitura latina di “Primus ac prototypum collegium“, ci dice che questa scuola era la prima ad essere stata fondata dalla compagnia di Gesù e doveva servire da modello per tutte le altre.

Nel 1909 e negli anni a seguire, l’Ateneo riacquistava vitalità riuscendo a superare, grazie a rettori come Gaetano Martino e Salvatore Pugliatti, momenti storici e civili particolarmente difficili.

Tra gli alunni celebri, l’Università di Messina vanta: Santo Versace, Antonio Martino, Nicola Calipari, Paolo Fulci.

Dopo l’ateneo messinese, nel 1805 viene istituita l’Università degli Studi di Palermo e, di più recente istituzione è l’Università semiprivata Enna-Kore.

 

Oggi l’Ateneo messinese, propone un’ampia offerta formativa e si articola in diversi poli situati al centro e nelle periferie della città, tra questi: il Polo Papardo, il Polo Annunziata, ospitante anche la Cittadella Sportiva Universitaria; il Policlinico Universitario, ed il Centro Cittadino; conta circa 39.600 iscritti e viene quindi classificata tra gli Atenei medi, al 2° posto tra le Università Meridionali ed al 35° posto  tra le Università Statali.

Insomma, La La Land non potrà di certo vantare l’Oscar a “Miglior Film” come L’Università di Messina non potrà vantare di essere nella classifica tra le Università maggiormente prestigiose d’Italia, ma entrambi hanno e continueranno ad avere qualcosa che, forse è il caso di dire, non va bene a tutti ma, va bene a molti. Ed a noi, comuni studenti universitari messinesi, va bene così!

Erika Santoddì

Foto: Giulia Greco

Messina ed il Monastero di Montevergine Santa Eustochia Smeralda

 

DSC_0008“Oppresso da pene ed angustie
vengo a Voi, Santa Madre Eustochia,
per trovare nel vostro cuore
soccorso, conforto e pace.
Voi siete Avvocata, aiutatemi;
siete Protettrice, proteggetemi;
siete stata sempre fedelissima ascoltatrice, esauditemi;
ottenetemi da Gesù, vostro Divino Sposo,
le sospirate grazie e benedizioni celesti.
Amen”
Così recita
una delle preghiere della suora claustrale, che non è solamente un’elevazione della propria persona ma carità e dono d’amore per gli altri. Il sacrificio che compie per restare più vicina a Dio e partecipare della sua luce, si riversa misteriosamente sull’intera comunità degli uomini secondo le leggi della reversibilità nel bene e la Comunione dei Santi.

DSC_0027Ma, chi sono le suore claustrali? Entriamo nella macchina del tempo e configuriamo i parametri del viaggio all’anno 1212 d.C. quando, Santa Chiara fuggì dalla casa del padre, subì da San Francesco d’Assisi il taglio dei capelli e rice
vette il velo monastico. Inizialmente affidata all’ordine delle Benedettine, fu seguita dalla sorella e da altre compagne per poi essere trasferita negli umili locali della chiesa di San Damiano; da qui deriva il nome con il quale erano inizialmente designate: Povere Dame di San Damiano. A partire dal 1218 il cardinale Ugolino dei Conti di Segni iniziò a formulare per loro una nuova regola molto rigida, che prevedeva l’obbligo della clausura: questa regola fu rivista e definitivamente redatta da Chiara (per cui è detta Regola di Santa Chiara) e venne approvata da Papa Innocenzo IV il 9 agosto 1253. Anche a Messina esiste una comunità di clarisse che vive di preghiera e carità, l’unica nella diocesi di Messina ed in Sicilia. Questa realtà esiste grazie ad Eustochia Smeralda Calafato che nel 1464 ha fondato il monastero di Montevergine, oggi conosciuto anche sotto il nome di “Santa Maria degli Angioli”, per far rivivere lo spirito di vera povertà voluto da Chiara d’Assisi e che nei secoli era stato mitigato. In più di cinque secoli, molte donne hanno potuto abbracciare la regola di Chiara seguendo il Signore sulla via della perfezione.

Molto si sa sulla vita di Eustochia grazie ad uno scritto biografico redatto da una consorella. Si tramanda che sin da piccola la sua bellezza non passasse inosservata. Tuttavia, all’età di 15 anni decise di prendere i voti contro il parere della famiglia, ed entrò nel Monastero di Basicò con il nome di suor Eustochia, ove rimase per oltre dieci anni.
Amante della povertà e molto risoluta nei suoi propositi, riteneva che nel monastero non si osservasse alla lettera la regola delle clarisse, decise quindi di fondare un nuovo convento che chiamò “Montevergine“, dove alla sua morte vi erano ben 50 suore. Il suo Monastero ebbe scambi culturali e spirituali con altri monasteri dell’Osservanza. Il suo corpo è ancora incorrotto ed è conservato nel Monastero. Venne canonizzata da Giovanni Paolo II l’11 giugno 1988, durante una sua visita a Messina.

 

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La primitiva Via dei Monasteri, oggi corrispondente grossomodo alla Via XXIV Maggio, ove sorge il santuario di Montevergine, era una delle più importanti arterie urbane. In epoca greco-bizantina essa era denominata “dromo“, ossia corso per eccellenza, per la teoria di monasteri che la fiancheggiavano, spettacolare colpo d’occhio per chi ammirava la città dal basso e per chi proveniva via mare. In epoca contemporanea l’aggregato religioso di Montevergine costituisce l’unica istituzione superstite ai terremoti della Calabria, della Val di Noto, e di Messina del 1908.

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La chiesa era ad unica navata, abbellita con tarsie marmoree e grandi affreschi nel soffitto, opere di Letterio Paladino, come il quadro della Concezione e della Sacra Lettera. Il portale tardo cinquecentesco e la tribuna sono attribuiti agli architetti Maffei. La “basilica nuova”, costruita dopo il terremoto del 1908, è stata eretta dall’architetto romano Florestano di Fausto a partire dal 1952. È un edificio in stile romanico modernizzato, a tre navate. Nella sua semplicità e purezza di linee architettoniche è un vero monumento di fede e di arte. In fondo alla navata centrale, si apre l’ampio Presbiterio, fiancheggiato in alto da due matronei e dal maestoso organo. Sotto, il semplice e moderno coro in legno di noce e radica di olivo. Addossato alla parete di fondo si innalza il monumentale Trono dove è collocata l’ immagine della Madonna, una bellissima pittura, su due tavoloni di pino: una delle più belle immagini di Madonne italiche. Il Trono si compone di marmi pregiati, di statue e bassorilievi di bronzo, su uno sfondo di mosaico monocromo, opera di J. Hainal.

Ad oggi, il Monastero è situato in Via XXIV Maggio, 161 ed è aperto al pubblico per la Santa Messa e per la visita al corpo di Sant’Eustochia.

Erika Santoddì

foto: Erika Santoddì

San Francesco all’Immacolata: la chiesa che incantò Antonello

Antonello da Messina, "Cristo in pietà con tre angeli", 1475, Museo Correr, Venezia. Dettaglio. (da http://www.frammentiarte.it/2014/18-pieta-con-tre-angeli/, modificata)
Antonello da Messina, “Cristo in pietà con tre angeli”, 1475, Museo Correr, Venezia. Dettaglio.
(da http://www.frammentiarte.it/2014/18-pieta-con-tre-angeli/, modificata)

Il “Cristo in pietà con tre angeli”, oggi custodito al Museo Correr a Venezia, è secondo la critica una delle opere tarde di Antonello da Messina, verosimilmente dipinta durante il suo soggiorno veneziano, nel 1475. Della vita di Antonello sappiamo poco, ma una delle cose più assodate è  il suo lungo viaggio nel centro Italia e a Venezia: eppure ci piace pensare, con un po’ di bonario campanilismo (che non guasta mai, a patto di sapere quando fermarsi), che il Maestro messinese abbia voluto in qualche modo ricordare la sua terra patria, nella quale secondo alcune fonti tornerà e finirà i suoi giorni, nel 1479 . In effetti, fra le ali dell’angelo piangente a destra, in mezzo ai molti dettagli che Antonello, con la sua attenta e quasi maniacale sapienza miniaturistica rubata all’arte fiamminga, inseriva nei suoi dipinti, ce n’è uno che, forse anonimo per i più, fa sussultare chi conosce Messina: una massiccia struttura con tre absidi che, in maniera quasi inequivocabile, possono essere identificate come quelle di una delle più antiche e grandi chiese messinesi, San Francesco all’Immacolata.


Monumento antichissimo
, era il 1254 quando fu stabilita la sua costruzione, per intervento di un gruppo di monaci francescani che già nel 1212, quando san Francesco era ancora in vita, si erano stabiliti nella città dello Stretto, nella preesistente chiesetta di san Leone. Proprio presso questa comunità, secondo una pia tradizione, soggiornò sant’Antonio da Padova quando, nel 1221, di ritorno dall’Africa fece naufragio sulle coste sicule.  Ad appena 28 anni dalla morte del Poverello d’Assisi, in clima di piena espansione del suo culto, i conventi francescani di tutta la penisola fanno quasi a gara nella costruzione di imponenti chiese dedicate al santo e la comunità di Messina certo non può essere da meno: la prima pietra di questo poderoso edificio, seconda chiesa in Messina per dimensioni dopo il Duomo, arriva da Napoli, nel 1255, dopo esser stata benedetta nientemeno che da Papa Alessandro IV in persona.

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Nel XIV secolo, la chiesa cresce e si sviluppa secondo le linee rigorose ed austere di quello stile che i libri di storia dell’Arte codificheranno col nome di “Gotico francescano“, sotto l’occhio vigile del re Federico III d’Aragona, nipote per parte di madre di quel Federico II “meraviglia del mondo”: sotto questo monarca la chiesa diventa il luogo di sepoltura della famiglia reale e vi trovano requie le spoglie del nipote e successore, Federico IV d’Aragona, della nuora, Elisabetta di Carinzia, e dei due figli cadetti, Guglielmo e Giovanni, duchi di Randazzo.

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Un altro periodo di splendore di questa chiesa fu nel corso del Cinquecento, quando, nominata cappella reale dall’Imperatore Carlo V, si arricchì di opere pregevoli dei grandi maestri del Rinascimento siciliano, Gagini, Rinaldo Bonanno, Mazzola, Guinaccia. In questo periodo viene anche concluso il chiostro del convento. Ulteriori modifiche alla chiesa, stavolta in stile barocco, vengono effettuate a cavallo fra Sei e Settecento. L’inarrestabile declino, invece, inizia a seguito dell’esproprio del convento in periodo post-unitario, a seguito delle leggi eversive; nel 1884 un incendio devasta gli interni distruggendo molte delle opere che vi erano custodite; nel 1908, il Terremoto del 28 dicembre le assesta il colpo di grazia, radendola quasi interamente al suolo; solo parte delle absidi, proprio quelle absidi dipinte da Antonello, resiste alla sua furia distruttiva.

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Così inizia la ricostruzione, una ricostruzione faticosa e paziente perché condotta secondo criteri di fedeltà storica, riutilizzando, ove possibile, i conci e la pavimentazione d’epoca secondo il principio dell’anastilosi. Oggi le tombe reali sono perdute, forse per sempre, e le opere superstiti all’incendio del 1886 sono custodite al Museo Regionale, fatta eccezione per una statua in marmo di sant’Antonio, che si trova oggi nel giardino sotto le absidi, e una statua in legno e argento del XVIII sec., raffigurante l’Immacolata, che è tutt’oggi oggetto di venerazione popolare. Ma è grazie a questa ricostruzione, conclusa nel 1928, che possiamo oggi ammirare la mole austera del Tempio con un aspetto e una struttura  il più possibile fedele a quella trecentesca, e, salendo dal mare lungo il viadotto Boccetta, possiamo fermarci anche noi ad ammirare quelle possenti absidi che incantarono Antonello da Messina… 

Gianpaolo Basile

Foto: Erika Santoddì