Il Monte di Pietà: vita e morte, denaro e potere nella Messina barocca

8493143Messina, 1581. La città porta ancora i segni della recente pestilenza del 1575: la falce della malattia ha mietuto spietatamente oltre 40.000 dei suoi abitanti, e quella che era una delle maggiori città del Rinascimento siciliano è ora messa in ginocchio dagli strascichi del contagio e dalla carestia che ne è seguita, e fatica a rialzarsi in piedi. A essere maggiormente prostrate dalla miseria sono le classi meno abbienti della popolazione, spesso costrette, per sopravvivere, a indebitarsi con usurai e strozzini. Proprio in questo contesto si inquadra l’azione dell‘Arciconfraternita degli Azzurri: una delle tante confraternite dell’epoca con finalità religiose e assistenziali, nata quarant’anni prima, nel 1541, con lo scopo primario di prestare assistenza e conforto, durante le ultime ore di vita, ai condannati a morte. È in quest’anno infatti che si decide di affiancare a questa attività preesistente una nuova mansione: la gestione di un banco dei pegni, una struttura nella quale i bisognosi potevano ottenere piccoli prestiti a basso interesse dietro la cessione di un pegno, che veniva messo all’asta qualora il debito non fosse stato saldato entro un certo periodo di tempo.

Nasce così, in Via dei Monasteri, oggi Via XXIV Maggio, il primo nucleo del Monte di Pietà, i cui resti possiamo ammirare tutt’ora, all’incrocio con Via della Munizione, assieme a quelli della chiesa di Nostra Donna della Pietà, sede dell’Arciconfraternita. Il complesso monumentale si articola su più livelli e assume l’aspetto odierno in un periodo di quasi due secoli. Nel 1616, infatti, gli Azzurri decidono di ampliare la sede del Monte di Pietà e affidano l’incarico all’architetto Natale Masuccio, ex gesuita. È suo il progetto del palazzo, la cui architettura maestosa conserva i lineamenti classicheggianti tipici del manierismo toscano, stile molto in voga a Messina grazie all’influenza del Calamech e del Montorsoli, ma rivela già, nel sapiente gioco di chiaroscuri, di pieni e di vuoti, la transizione verso i fasti scenografici del primo Barocco. Purtroppo, Masuccio non poté ammirare la sua opera completa, perché morì qualche anno dopo, mentre i lavori erano fermi ancora alle fondamenta, per via di beghe giudiziarie col vicinato; la costruzione riprenderà diversi anni dopo, nel 1648, e sarà ultimata solo nel Settecento inoltrato con la costruzione del primo piano dell’edificio, distrutto poi dal sisma del 1908.

Entrati nell’edificio, e superato il breve corridoio centrale, su cui si aprono gli ambienti interni laterali, si raggiunge un ampio loggiato a tre archi, che a destra dà sulla rampa d’accesso al piano superiore e a sinistra offre alla vista una piccola fontana raffigurante un putto che cavalca un delfino. A catturare immediatamente lo sguardo è però la grandiosa corte interna, chiusa anteriormente dalla scenografica scalinata che porta all’ingresso della chiesa di Nostra Donna della Pietà. L’intero complesso fu costruito nel 1741, per commemorare i 200 anni di esistenza della Confraternita; l’impianto della scalea, progettato da Antonino Basile e Placido Campolo, interpreta con eleganza il gusto tardo-barocco per la teatralità con i suoi giochi di concavità e convessità. Fulcro della struttura è la Fontana dell’Abbondanza, posizionata al centro della scalinata, opera dello scultore Ignazio Buceti, che qui personifica l’Abbondanza in una giovane donna con una mano sulla cornucopia piena d’oro, simbolo di fertilità, e l’altra sul seno prosperoso: un segno di buon auspicio per un futuro migliore, rivolto ai meno fortunati che erano costretti a rivolgersi ai prestiti del Monte di Pietà.

In cima alla scalinata, la scena era chiusa dalla chiesa di Nostra Donna della Pietà, parzialmente perduta nel terremoto del 1908. Ne sopravvive oggi molto poco: parte della facciata settecentesca, dai lineamenti grandiosi ma austeri, se paragonati a quelli di altri edifici sacri contemporanei in stile barocco siciliano; e infine, nella zona in cui si trovava l’abside, i resti di una cripta con una galleria in asse con il castello di Rocca Guelfonia. La tradizione vuole che servisse ai confrati per prelevare, dalle segrete della Rocca, i condannati a morte, e portarli in chiesa, dove sostavano in preghiera prima dell’esecuzione capitale.

Ricchezza e miseria, denaro e potere, vita e morte si incontravano dunque in questo luogo unico, nei secoli “sudici e sfarzosi”, per dirla con Manzoni, della Messina barocca.

Gianpaolo Basile

Messina tra Oriente e Occidente: piazza Lepanto e l’Annunziata dei Catalani

La Sicilia, si sa, è stata per secoli il cuore pulsante del Mediterraneo, un grande calderone nel quale le maggiori civiltà che si sono sviluppate sulle coste del Mare Nostrum hanno riversato senza sosta i loro frutti, e Messina ne è stata la porta: luogo di incontro, certo, per via del porto ricco e florido che l’ha resa un punto nodale negli scambi commerciali con il resto del mondo conosciuto; ma anche luogo di scontro, a causa della posizione di cruciale importanza strategica che ha consentito di trasformarla in un indispensabile punto di controllo militare.

Non esiste luogo che possa aiutarci a comprendere questo duplice ruolo meglio di quello che stiamo andando a descrivervi oggi: stiamo parlando di Piazza Lepanto, piccola piazzetta di forma triangolare che dà sulla via Cesare Battisti, a pochi passi dal Duomo, e su cui si affaccia uno dei meglio conservati monumenti storici di Messina, la suggestiva Chiesa dell’Annunziata dei Catalani.
Costruita nella seconda metà del XII sec.,secondo alcuni storici sopra i resti dell’antico Tempio di Nettuno, in epoca aragonese divenne cappella reale e fu concessa a una congregazione di mercanti catalani, da cui il nome. Più volte rimaneggiata nel corso della sua storia centenaria, e risparmiata dal terremoto del 1908 (è per questo che il suo piano di calpestio si trova circa 3 metri più in basso di quello del resto della città) la chiesa si presenta come un curioso ibrido stilistico, dove, su una base architettonica di stile bizantino, si innestano, armonizzandosi fra loro, elementi decorativi arabi, romanici, latini e normanni.

 

Nonostante la facciata anteriore appaia abbastanza spoglia, eccezion fatta per l’elegante portale fiancheggiato da colonnine e sovrastato dallo stemma romboidale aragonese, la vista posteriore, che dà sulla via Garibaldi, rende abbondantemente l’idea di questo coacervo stilistico, con le tre absidi adornate


dalla successione di loggette cieche sorrette da colonnine e la elegante decorazione ad intarsio, in cui la tradizione geometrica dell’architettura araba incontra quella del romanico europeo: il tutto sovrastato dalla cupola centrale ad alto tamburo, di struttura tipicamente bizantina. Se poi si ha la fortuna di trovarla aperta, si può entrare all’interno, dove gli archi bicolori e le colonne fanno quasi pensare a Cordova, alla Grande Moschea. Il risultato complessivo è quello di un suggestivo incontro di culture e mondi differenti.

 

 

 

 

Ma le attrattive di Piazza Lepanto non finiscono qui. Proprio davanti alla facciata principale, è stato trasportato, a seguito delle ristrutturazioni urbanistiche successive al sisma del 1908, il monumento a don Giovanni d’Austria, datato 1573, opera del carrarese Andrea Calamech, allievo dell’Ammannati. Il monumento ci ricorda che proprio da Messina, che nel ‘500 era un avamposto di prima linea nella lotta all’espansione ottomana e alla pirateria barbaresca, partì la flotta della Lega Santa che affrontò quella turca nella Battaglia di Lepanto: e al comando di questa flotta c’era proprio questo giovane generale, figlio bastardo di Carlo V e appena ventiquattrenne all’epoca del conflitto. Il sanguinoso scontro, consumatosi il 7 ottobre 1571, si concluse con una sudata vittoria delle armate cristiane, cui molti storici attribuiscono un ruolo chiave nella storia del mondo occidentale. Ed è proprio di vittoria l’espressione che illumina il volto giovanile della scultura bronzea che rappresenta il condottiero trionfante, con in mano il bastone di comando a tre fasci (emblema della triplice alleanza fra Spagna, Venezia e il Papato), al fianco una grande spada e indosso una armatura da parata finemente cesellata: simboli di trionfo che quasi fanno trascurare all’osservatore il macabro dettaglio del piede sinistro, che calpesta la testa mozzata del comandante nemico, il turco Ali Pasha; un dettaglio inconsueto, nella statuaria celebrativa dell’epoca, e proprio per questo prezioso in quanto testimone della accesa rivalità della città di Messina verso il nemico ottomano.

 

In Piazza Lepanto, dunque, si condensano le tracce di un passato che ha visto Messina all’interfaccia fra Oriente e Occidente, come luogo di incontro e integrazione di elementi culturali da un lato, di inevitabile conflitto militare e religioso dall’altro; un complesso intreccio di suggestioni che oggi, agli occhi del visitatore contemporaneo, non può che strappare una riflessione su tematiche più attuali che mai.

Gianpaolo Basile