Mens Sana in Corpore Sano: la relazione fra mente e corpo

Comprendere il significato dell’esistenza della stretta relazione fra mente e corpo ha rappresentato uno dei più grandi misteri di interesse per gli studi filosofici durante i secoli.
Il ruolo appartenente alla psiche nel determinare l’insorgenza delle implicazioni fisiche venne preso in considerazione dalle scienze mediche solo posteriormente.

Dualismo Corpo-Mente

Fin dagli albori delle indagini sull’animo umano è nata la contrapposizione tra la teoria encefalocentrica e quella cardiocentrica.
Il cardiocentrismo fu una teoria filosofica sostenuta da Aristotele, il quale considerava il cuore sede dell’anima umana e responsabile delle funzioni mentali, sensitive e motorie.
Ben presto si contrappose al cerebrocentrismo sostenuto da Ippocrate e successivamente da Galeno. La teoria identifica il cervello come sede della coscienza, responsabile delle attività sensitive e motorie.

La dimensione psichica del dolore influenza il corpo

Il dibattito aperto da Cartesio sulla descrizione meccanica delle strutture e delle funzioni organiche ha assunto connotazioni puramente materialistiche, ascrivendo definitivamente la localizzazione delle funzioni psichiche al cervello.

Le Passioni dell’Anima (1649) fu una delle ultime opere di Cartesio e venne dedicata alla principessa Elisabetta di Boemia che era molto malata e la cui malattia, secondo il filosofo, rappresentava la conseguenza dell’afflizione dell’anima.

In quest’opera Cartesio connota le passioni come inscindibili dall’essere umano e classifica non solo le loro cause, ma i loro effetti espressi attraverso il corpo.

Le Emozioni nella Genesi dei Comportamenti

A fine carriera Charles Darwin pubblicò L’Espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali (1872) riportando l’origine biologica delle emozioni.
Le emozioni agiscono tramite la motivazione rendendo possibile l’inizio di un movimento necessario per riportare l’organismo alle condizioni di sicurezza ed equilibrio fisico.

I comportamenti per evitare o scappare da un pericolo si sono evoluti per rendere un organismo competitivo in termini di sopravvivenza.
Ma in modo inappropriato una fuga prolungata o un comportamento di evitamento potrebbero mettere l’animale in una condizione di svantaggio.

Se un organismo si sente continuamente minacciato nella propria sopravvivenza, le sue energie non potranno essere impiegate per nutrirsi, curarsi e riprodursi.

Le Emozioni agiscono nella Comunicazione

Le emozioni agiscono nella comunicazione fra gli individui, intervengono nelle dinamiche relazionali caratterizzando il linguaggio non verbale tramite i movimenti del viso e dei muscoli del corpo.
La comunicazione dello stato emotivo tramite la postura e la mimica facciale segnala le proprie intenzioni agli altri e genera in loro una reazione.

La Regolazione del Sistema Nervoso Autonomo

La miriade di variazioni, oscillazioni e segni che si possono notare in modo istintivo nell’interlocutore durante una conversazione, ad esempio i movimenti oculari o il cambio di tono della voce, unitamente alle proprie fluttuazioni interiori, come il battito cardiaco, la salivazione e il respiro, sono prodotte dalla sincronia di un unico sistema regolatore: il Sistema Nervoso Autonomo.

Il Sistema Nervoso Simpatico provvede ad accelerare le funzioni del corpo e a consumare energia per le reazioni necessarie a far funzionare l’organismo.
Il Sistema Nervoso Parasimpatico funge da freno e risponde allo stimolo dell’autoconservazione.

La denominazione di Sistema Nervoso Simpatico “sym pathos” venne attribuito quasi duemila anni fa da Galeno che ne osservava il funzionamento tramite le emozioni.
Infatti, come osservato da Darwin, il Sistema Nervoso Simpatico è responsabile della regolazione dell’arousal. Davanti a un pericolo permette la genesi dei comportamenti contrapposti di attacco e comportamento evitante, espresso tramite la fuga.
Porta il sangue ai muscoli per le azioni rapide, sollecita il rilascio di adrenalina da parte delle ghiandole surrenali che agisce sull’aumento del battito cardiaco e della pressione sanguigna.

Il Sistema Nervoso Parasimpatico promuovendo la secrezione di acetilcolina costituisce il freno inibitorio dell’arousal.
La sua azione permette il rilassamento dei muscoli, il rallentamento del battito cardiaco e il ritorno ad una frequenza respiratoria normale; accelera la digestione e la cura delle ferite.
Le osservazioni di Darwin lo riconducono alle funzioni autoconservative, di accudimento, protezione e accoppiamento.

La Teoria Polivagale

Le osservazioni condotte da Charles Darwin hanno ispirato gli studi neurofisiologici e neuroanatomici sul Sistema Nervoso Autonomo, portando all’elaborazione della teoria polivagale da parte di Stephen Porges che la presentò nel 1994.

L’indagine dei circuiti vagali ha portato alla conoscenza del loro ruolo nel determinare la condizione di “sentirsi al sicuro“, intervenire nella percezione dello spazio peripersonale e del coinvolgimento sociale.
Sentirsi al sicuro favorisce il mantenimento dell’omeostasi, il principio per cui ogni costituente degli esseri viventi deve trovarsi in equilibrio per poter svolgere correttamente le sue funzioni.

Il Nervo vago con le sue diramazioni è responsabile di tre stati fisiologici che intervengono quando viene turbata l’incolumità. Il ramo vagale ventrale complesso (VVC) è frutto dell’evoluzione verso la costruzione da parte delle specie di una vita di relazione.
Infatti, durante le difficoltà, la richiesta di supporto tramite il coinvolgimento relazionale rappresenta il primo livello di risoluzione del pericolo, se l’ottenimento di aiuto da parte delle persone care risulta inefficace, l’unica strategia per la sopravvivenza rimane la più primitiva di attacco o fuga.
Se si è intrappolati e non si riesce a fuggire interviene il meccanismo di “freezing”, congelamento, in cui l’organismo cerca di preservarsi “spegnendosi” consumando il minor quantitativo di energia possibile.

Porges ha coniato il termine “neurocezione” per descrivere la capacità di valutare il rischio e la sicurezza, insiti nell’ambiente di ognuno di noi.

Quando un evento traumatico non viene elaborato correttamente e non viene ristabilita la condizione di sicurezza nell’integrazione fra corpo e mente si esperisce una neurocezione fallace che provoca l’asincronia nella regolazione delle risposte comportamentali automatiche.

Costanza Brunati

Le monde. Description du corps humain. Passions de l’âme. Anatomica. Varia – Oeuvres de Descartes (vol. XI) (1897-1913)

Le Passioni dell’Anima – Renato Cartesio (1649)

Il Corpo Accusa il Colpo – Bessel Van der Kolk (2015)

The Expression of the Emotions in Man and Animal – Charles Darwin (1872)

Polyvagal Theory: A Science of Safety, Stephen W Porges, Front Integr Neurosci (2022)

L’esperimento carcerario di Stanford

La mente umana è piena di lati oscuri e di misteri ai quali forse non daremo mai una spiegazione razionale in toto.

Tuttavia gli studi condotti fino ad oggi risultano essere indispensabili al fine di comprendere, seppur in minima parte, quali possano essere i determinanti di uno specifico comportamento e se questi siano influenzati o meno da vari fattori.

L’esperimento carcerario di Stanford offre una nuova chiave di lettura sull’importanza che hanno i fattori esterni circa il comportamento umano in determinate situazioni. Ciò può offrire degli spunti rilevanti per la psicologia e per la sociologia, ma ha fornito materiale anche per svariati film dei quali vogliamo parlarvi oggi.

Gli studenti durante l’esperimento – Fonte: simplypsychology.org

I fatti

Venne condotto nel 1971 nell’Università di Stanford a Palo Alto dal professor Philip Zimbardo.

Il professore pose alla base dell’intero esperimento la teoria della deindividuazione. Secondo Zimbardo, soggetti facenti parte di un gruppo coeso, in determinate situazioni, tendono a perdere l’identità personale ed il senso di responsabilità per mettere in atto comportamenti aggressivi e violenti, che in altri contesti non porrebbero mai in essere a causa di questioni morali o vincoli personali.

Egli selezionò 24 studenti che avrebbero dovuto trascorrere 14 giorni all’interno del seminterrato dell’Università adibito a carcere. Infatti, l’esperimento prevedeva una simulazione vera e propria di vita carceraria per studiare i comportamenti dei giovani, i quali vennero quindi suddivisi casualmente in due gruppi da 12 fra detenuti e guardie.

I prigionieri erano obbligati a indossare divise tutte uguali tra loro e dovevano sottostare alle regole imposte dalle guardie.

I carcerieri avevano in dotazione anch’essi una divisa con l’aggiunta di un paio di occhiali da sole, che non permettevano ai detenuti di guardarli negli occhi. Erano inoltre provvisti di manganello, manette e fischietto e soprattutto erano liberi di stabilire i metodi da attuare per mantenere l’ordine.

Il professor Zimbardo con alcuni studenti che interpretano i detenuti poco prima di iniziare l’esperimento – Fonte: science.howstuffworks.com

Inizialmente fu preso come una sorta di gioco da ambedue le parti.

Il secondo giorno i detenuti decisero per divertimento di attuare una ribellione. Si strapparono i vestiti e si barricarono tutti insieme in alcune celle mentre insultavano i carcerieri. Le guardie sedarono la rivolta e decisero di spezzare il legame di solidarietà tra i detenuti. Di lì in poi il clima all’interno del carcere non fu più lo stesso. Gli agenti infatti iniziarono a punirli con percosse e li costrinsero a cantare canzoni oscene, a defecare in dei secchi che non venivano poi lavati, a pulire le latrine a mani nude. Insomma, in pochissimo tempo le guardie si trasformarono in degli autentici aguzzini ed i prigionieri diventarono vittime passive delle loro angherie.

Due detenuti dopo solo 3 giorni vennero rilasciati in quanto manifestarono preoccupanti segni di crisi. Un detenuto ebbe un’eruzione cutanea di origine psicosomatica quando gli fu rifiutata la richiesta di essere rilasciato. Alcuni prigionieri, fortemente spaventati, decisero di obbedire meticolosamente a qualsiasi ordine impartito dalle guardie.

Vi fu anche un tentativo di evasione di massa che venne contrastato a fatica dalle guardie e dallo stesso professor Zimbardo.

Dopo soli 5 giorni il professore fu costretto ad interrompere l’esperimento dato che i prigionieri mostrarono segni di disgregazione individuale e la loro percezione della realtà era compromessa da forti disturbi emotivi, mentre le guardie continuavano a comportarsi in modo sadico.

Considerazioni

L’esperimento di Stanford conferma la fondatezza della teoria della deindividuazione dell’individuo.

Quando l’esperimento inizia a dare i suoi frutti – Fonte: angolopsicologia.com

Si è dimostrato che assumere una funzione di controllo su altri soggetti nell’ambito di un’istituzione (in questo caso il carcere) induce a riconoscere le regole di quella determinata istituzione come unico valore al quale adeguarsi.  Ciò comporta un mutamento della psicologia umana. Chi deve far rispettare le regole (guardie) agisce senza vincoli come pietà o sensi di colpa, che in un altro contesto ne frenerebbero le azioni. Chi è obbligato a rispettare le regole (detenuti) invece non è più padrone di un’autonomia personale, ma l’unica cosa che può fare è uniformarsi al volere collettivo del gruppo.

A questo fenomeno il professore diede il nome di effetto Lucifero.

Cinema

Sull’esperimento di Stanford furono girate tre pellicole: The Experiment – Cercarsi cavie umane (2001) di Oliver Hirschbiegel, The Experiment (2010) di Paul Scheuring, Effetto Lucifero (2015) di Kyle Patrick Alvarez.

Il primo è un film di produzione tedesca che si discosta parecchio dalle reali vicende del 1971. Innanzitutto non furono scelti degli studenti per condurre l’esperimento, bensì persone comuni dopo un annuncio pubblicato sul giornale. La trama risulta essere fortemente romanzata, tant’è che il film ad un certo punto si trasforma in un action movie. Risultato: film mediocre.

The Experiment del 2010 presenta nel cast attori di alto calibro come Adrien Brody e Forest Whitaker. Il film è un remake della pellicola tedesca, quindi anche in questo caso non vengono scelti degli studenti per mandare avanti l’esperimento e non viene analizzato approfonditamente il tema della vicenda, ma si trasforma anch’esso in un action (si basa più sulla volontà del personaggio interpretato da Brody di trattenere il suo istinto violento). È un prodotto più elaborato del primo film e gli attori sono autori di eccellenti interpretazioni.

Effetto Lucifero del 2015 è il film maggiormente incentrato sull’esperimento. I ruoli da detenuti e da guardie vengono ripartiti tra studenti.

Scena del film Effetto Lucifero del 2015 – Fonte: programma.sorrisi.com

Nel corso della pellicola si assiste ad una graduale alterazione comportamentale di tutti i soggetti, ma resta un film psicologico, non diventa un film d’azione come gli altri (dove mancava solo Bruce Willis). È l’unica delle tre pellicole che conduce un’attenta analisi sulle varie fasi dell’esperimento stesso e ne approfondisce i contenuti, non utilizza il lavoro di Zimbardo come una scusante per girare una pellicola e guadagnarci. Inoltre la fotografia e le luci del film destano stupore.

 

È giusto condurre un esperimento su giovani menti che magari ancora non sono del tutto mature per scopi scientifici? A voi l’ardua risposta.

Vincenzo Barbera

Studiare ascoltando musica conviene?

Sempre più spesso in biblioteche e aule studio possiamo vedere ragazzi con la testa china sui libri e gli auricolari. Ma ascoltare musica mentre si studia è utile alla concentrazione e migliora la performance? O si tratta solo di una distrazione per il nostro cervello e rallenta l’apprendimento? 

La scienza ha provato a dare risposta alla domanda. Così, se sei preoccupato per il prossimo esame che è dietro l’angolo, forse può servirti capire se continuare a studiare con le nuove hit di Sanremo in sottofondo ti aiuterà a raggiungere l’obiettivo sperato!

Come di frequente nella scienza la risposta è: dipende. La soluzione non è affatto univoca e gli effetti della musica sulle attività cognitive dell’uomo mostrano una grande variabilità da individuo a individuo. Inoltre incide molto anche il tipo di canzone ascoltata. Diverse ricerche rivelano che ascoltare musica che piace migliora l’umore e riduce lo stress (secondo uno studio condotto negli Stati Uniti al pari di ricevere un massaggio), permettendo così di raggiungere livelli di arousal maggiori (letteralmente “risveglio”, in pratica significa uno stato di eccitazione maggiore). Questo promuove una migliore concentrazione e ritenzione delle informazioni studiate. Di contro però chi non è portato per il multitasking potrebbe distrarsi più facilmente e vedere le proprie capacità di comprensione ridotte.

Pertanto gli scienziati hanno identificato due principali tipologie di persone, sulle quali l’ascolto di canzoni produce effetti differenti. Persone estroverse mostrano in generale una maggiore capacità nel mantenere l’attenzione anche in situazioni scomode e sono meno sensibili al rumore. Tale popolazione studia più frequentemente ascoltando musica e mostra rendimenti migliori con questa. Coloro che invece tipicamente non studiano con la musica mostrano deterioramento delle prestazioni se vi sono esposti. Il peggioramento è progressivo nelle diverse condizioni: senza musica > strumentale > cantata. A questo gruppo appartengono persone più introverse.

Ciò sarebbe in accordo con la teoria della personalità dello psicologo tedesco Eysenck secondo cui persone estroverse sarebbero sotto-stimolate e ricercherebbero nuove esperienze e stimoli; individui introversi sarebbero invece sovraccaricati ed eviterebbero situazioni scomode.

Questi dati sono stati ottenuti esponendo un gruppo di studenti statunitensi al object-number test in diverse condizioni ambientali: senza musica, con strumentale e con musica cantata. Il test valuta l’apprendimento e la memoria a lungo termine.

In un altro studio un gruppo di 38 studenti cinesi della facoltà di infermieristica con età media di 19.4 anni hanno svolto un esame con e senza musica in sottofondo. Gli studenti che hanno svolto l’esame con la musica hanno mostrato una riduzione significativa nell’ansia, misurata attraverso indicatori biologici (frequenza cardiaca e temperatura corporea).

In altre parole, la musica riduce l’ansia e lo stress, modifica la frequenza cardiaca e la pressione sanguigna migliorando l’ossigenazione dei tessuti. Tuttavia questi effetti positivi dipendono dalla personalità del soggetto e soprattutto dal tipo di musica ascoltata: canzoni senza parole e particolarmente gradite dall’ascoltatore possono funzionare come un boost per lo svolgimento di attività cognitive complesse. Musica vocale distoglierebbe l’attenzione provocando rendimenti peggiori.

Gli effetti della musica sul nostro cervello sono complessi e ancor oggi non totalmente compresi. Quando ascoltiamo una canzone siamo avvolti da un’esplosione di emozioni, ricordi di luoghi o esperienze passate. Questo avviene per l’attivazione della corteccia prefrontale mediale. Si tratta di un’area coinvolta nella formazione di memorie autobiografiche, processi emozionali e relazionali e spiega perchè una canzone può provocare esperienze così intense. Ascoltare musica può inoltre apportare benefici all’umore e al comportamento di persone affette da Alzheimer e altri tipi di demenze. La memoria musicale è infatti spesso preservata nei pazienti con Alzheimer perchè le aree correlate non sono danneggiate dalla malattia.

Gli utilizzi e le potenzialità della musica sono quindi numerosi. Tuttavia solo nuove ricerche potranno chiarire tutti i meccanismi che spiegano gli effetti positivi della musica sul cervello. Quanto allo studio, ascoltare musica con le dovute accortezze può essere utile: il giusto tipo di canzone per il giusto ascoltatore può rappresentare una marcia in più per fare bene al prossimo test!

Mattia Porcino

Stamattina non ti sei svegliato!

Stamattina non ti sei svegliato!

No, non ero in camera tua questa mattina, se te lo stessi chiedendo.

Sta’ tranquillo, non so neanche dove abiti.

Magari proprio tu che stai leggendo sei in piedi dalle 07, e magari scrivendo così non sto guadagnando simpatie.

Capita, non posso sempre individuare il target di chi legge.

In ogni caso…

Stamattina non ti sei svegliato! E neanche io!

Aspetta, aspetta che ti spiego, ma prima…sappi che quest’articolo è solo per persone mature e responsabili. I piagnoni non sono i benvenuti.

Libero di continuare, ma poi non dirmi che non ti avevo avvisato!

Tornando a noi…

 

Ciò che sto per dirti potrebbe far venire un cortocircuito al tuo cervello e la tua visione del mondo ne risulterebbe completamente modificata.

La ricompensa però vale il rischio, te lo assicuro. 

La sola conoscenza di questo concetto che sto per spiegarti mi ha consentito di prendermi la responsabilità della mia vita.

Ti pare poco!?

Certo, detta così non vi è nessun vantaggio, ma andiamo con ordine.

Quello che voglio spiegarti oggi è la Metafora della carrozza, ideata dal filosofo Gurdjeff.

Troppe cose che non vanno?

 

So che tutto ciò che è legato alla filosofia può risultare poco pratico, e a volte anche inutile, ma in questo caso parliamo di qualcosa di pratico, sperimentabile sulla tua pelle.

 

Secondo questa metafora l’essere umano è un veicolo destinato al trasporto di un passeggero.

 

Sei mai salito su una carrozza?

Sai bene che questo veicolo è trainato da una coppia di cavalli. Questi sono legati alla struttura su cui siedono il cocchiere e il passeggero.

 

Ecco, questi siamo noi.

Ma in che senso?

 

È necessaria una premessa

 

Ognuno di noi dispone di un corpo, all’interno del quale si trova una mente. Molto spesso proviamo emozioni.

Questi (corpo, mente, emozioni) messi insieme fanno…ciò che siamo.

 

Tutto chiaro? Bene.

 

Adesso arriva la parte delicata

Questo è il punto in cui mollano tutti, qui l’entusiasmo va scemando, qui il pregiudizio vince su tutto.

Ma se sei arrivato fin qui, nonostante l’avvertimento iniziale, sei un temerario!

 

Non so se tu sia credente, ateo o agnostico. Adesso non ha importanza.

Qui non c’entra Dio, la religione o il moralismo.

 

Semplicemente credo che anche tu sia d’accordo sul fatto che sei qualcosa di più 

 

-del corpo che muovi

-delle emozioni che provi

-dei pensieri che fai

 

Per comodità chiameremo questo “essere qualcosa di più” Coscienza (puoi chiamarlo Anima, Io o Essere. Sii libero, è solo una questione di termini).

 

Bene, adesso lasciamo la parola alle immagini.

 

Boom.

 

Questa è la metafora della carrozza.

Come vedi ci troviamo su una carrozza, che è il nostro corpo, trainata da dei cavalli che sono le nostre emozioni.

Il cocchiere, la nostra mente, li guida.

La Coscienza è trasportata da questo veicolo.

 

La domanda da 1 milione di dollari adesso è: chi guida la carrozza su cui sei seduto?

 

Rifletti bene, anche se vorresti dire che a guidarla è la Coscienza perchè ti fai sentire a posto 😉

 

Se scopri che il/la tuo/a ragazzo/a ti ha tradito e ti infuri o soffri, chi sta guidando? Non sono forse i cavalli (le emozioni) che perdono le staffe e ti trascinano di qua e di là?

 

Se si presentasse l’occasione della tua vita e per coglierla dovresti trasferirti in un altro paese e lasciare immediatamente la tua famiglia, il tuo partner, la tua città e tu decidi di no perchè “sai cosa lasci ma non sai cosa trovi” o perchè “non so se andrà bene”, non è forse il cocchiere (la mente) a seguire sempre il solito e tranquillo percorso?

E questi sono solo due esempi.

 

Adesso il titolo dell’articolo risulterà più chiaro.

 

Il vero tu è la Coscienza! 

Corpo, mente ed emozioni non sono cattivi, non fraintendere. 

Anzi sono strumenti fondamentali che “Tu Coscienza” devi usare per vivere al meglio. Ma tu non sei gli strumenti!

 

Ecco perchè ti dico che stamattina non ci siamo svegliati.

 

Stamattina il cocchiere avrà seguito sempre lo stesso percorso meccanicamente oppure i cavalli ti avranno sballottato qua e là. 

Tu non c’eri, tu non hai dato loro indicazioni. Ti sei lasciato trasportare.

 

Già solo sapere questa cosa dovrebbe darti una “svegliata”.

Ricordatene quando starai male per qualcosa o avrai un pensiero fisso, o in qualsiasi altra situazione.

Se vivi dormendo, non stai vivendo davvero.

Il mondo, la nostra vita sono davvero meravigliosi ma noi non siamo presenti per goderceli.

 

Angela Cucinotta

The Theory of Mind: alla scoperta del nostro pensiero e di quello altrui

jmTantissime sono le qualità che ci rendono unici in natura, ma nessuna è equiparabile alle nostre attività cognitive superiori, che sebbene non siano da considerarsi una esclusiva del genere umano, rasentano in esso quanto di più perfetto la natura ci abbia donato. Ovviamente tutto quello che ci caratterizza oggi non è altro che il risultato di millenni di lenta evoluzione che hanno portato allo sviluppo di queste straordinarie quanto ancora poco conosciute capacità. E quale di queste ci rende particolarmente unici se non la capacità di sviluppare dei pensieri? O meglio ancora  la capacità di immedesimarsi nella mente degli altri? Proprio quest’ultima abilità è nota come “Theory of Mind” (ToM), ed è alla base della nostra personalità, delle nostre relazioni sociali e quindi della capacità della nostra specie di costituire delle società così complesse. Ma non ci fermiamo qui perché siamo in grado, grazie a queste capacità, di assaporare tutte le sfaccettature tipiche della comunicazione, dall’ironia ai sottintesi, dall’umorismo alla decodificazione del linguaggio del corpo. Pensiamo a una mamma che vede il proprio figlio tornare da scuola sbattere la porta di casa e lasciare cadere lo zaino, la prima cosa che sarà portata a pensare è che qualcosa è andato storto. Questo è un tipico esempio di “vitality forms”, studiato dallo psichiatra Daniel Stern, secondo cui analizzando 4 variabili di una determinata azione, ossia forza, direzione, tempo e spazio, siamo in grado di capire lo stato mentale di chi ci sta davanti. Più recentemente secondo uno studio tutto italiano ad opera di Rizzolatti e Gallese sembra che si sia individuato un circuito “somatosensoriale-insulare-limbico” che si attiva quando viene osservata una vitality form e quindi un’azione.

Nell’essenza della ToM è da considerarsi la presenza di una sinergia, un legame indissolubile tra l’attività cognitiva e l’attività affettiva. Entrambe contribuiscono in maniera differente ma allo stesso tempo indispensabile al cosiddetto processo di mentalizzazione ossia alla rappresentazione interna degli stati mentali propri e di altri individui: in altre parole non è possibile che tale processo si verifichi se non vi è un adeguato apporto sia delle dotazioni cognitive che della componente affettiva.

Il bimbo durante la sua crescita va incontro a diverse fasi che precedono lo sviluppo di una vera e propria ToM; ad esempio all’età di 2 anni circa ci rendiamo conto che i desideri sono alla base delle nostre stesse azioni e di quelle altrui, a 3 anni si sviluppa la cosiddetta triade “Desiderio-credenza-azione” con le quali siamo in grado di compiere determinate azioni perché pensiamo che in tal modo possiamo soddisfare i nostri desideri. Fino all’età di circa 4 anni quando, siamo finalmente in grado di prendere coscienza dell’altrui pensiero. Infatti grazie a un semplice esperimento, eseguito come un semplice gioco e denominato test della falsa credenza, è possibile appurare che il bimbo è in grado di dipingere nella sua mente un quadro di quello che sta avvenendo nella mente di un altro soggetto.

Inizialmente lo sviluppo della ToM veniva considerato un processo intraindividuale, e proprio da alcune critiche mosse da Fonagy, psicologo e psicanalista ungherese, secondo cui la figura del bimbo veniva ridotta a quella di un semplice “elaboratore isolato di informazioni”, nacque la più ampia concezione di un bimbo immerso nella realtà che lo circonda e dalla quale viene profondamente influenzato, che prende il nome di “svolta contestualistica”. Da questo momento un’ampia serie di studi hanno dimostrato come ruoli di primaria importanza vengano giocati dai genitori e dal tipo di linguaggio che essi adoperano, si è visto come l’utilizzo di termini che si riferiscano a stati mentali di altri, rappresenti un fattore stimolante l’abilità dei bambini di “leggere le intenzioni”. Basti pensare a quando da piccoli lasciavamo un gioco solo per un momento e nostro fratello ce lo “scippava”, immediatamente scoppiavamo a piangere; a quel punto la mamma veniva a tranquillizzarci e a rimettere la pace e ,magari, riferendosi al nostro fratellino diceva : “pensava che avessi smesso di giocare, non voleva farti piangere”. Altre ricerche hanno sottolineato che la presenza di fratelli, soprattutto se di età maggiore, rappresenti un vantaggio rispetto a chi è figlio unico, in quanto il continuo rapportarsi, dialogare, giocare e litigare, sono tutte attività che favoriscono lo sviluppo delle capacità mentali del bambino.

Purtroppo ci sono casi in cui si riscontrano anomalie nello sviluppo della ToM, ed è il caso dell’autismo in cui una delle ipotesi è che questi bimbi non riescano a sviluppare la capacità di meta-rappresentazione che sta alla base della Teoria della Mente e che li porta conseguentemente, a una difficoltà di interazione col mondo circostante. Altro caso patologico in cui questo deficit si verifica è la schizofrenia, che però non è necessariamente accompagnato da una qualche anomalia durante l’infanzia, al contrario dell’autismo. E proprio al fine di affrontare al meglio queste patologie di cui ancora molti meccanismi si disconoscono, è importante che la ricerca vada avanti e prosegua il suo incessante lavoro soprattutto per quanto riguarda l’individuazione delle aree cerebrali interessate nello sviluppo della ToM, al fine di evidenziarne il genere di alterazioni che sono alla base dello sviluppo di queste patologie, per poter attuare poi tutte le pratiche terapeutiche in nostro possesso.

Andrea Visalli