Caso Samuel Paty. La Francia scende in piazza contro il terrorismo islamico

(Fonte: Il Post)

«Je suis Samuel»

Questo l’urlo di migliaia di persone scese in piazza nel weekend a Parigi, Lione, Lille, Tolosa e tante altre città francesi per commemorare Samuel Paty, professore di Storia , Geografia ed Educazione Civica, decapitato venerdì, davanti alla sua scuola a Conflans-Sainte-Honorine, alla periferia di Parigi, da un terrorista islamico.

Causa del brutale omicidio risulta l’esposizione in data 5 ottobre di alcune immagini satiriche, quelle famose vignette su Maometto “protagoniste” della strage del 2015, ai suoi allievi tredicenni, come previsto dal programma di educazione civica. Da quel momento il professore quarantasettenne, fino ad allora rispettato da tutti, è stato al centro di una violenta campagna di incitamento all’odio islamista, avviata da alcuni tweet offensivi e da una falsa denuncia di pedopornografia (aveva mostrato la vignetta di Maometto nudo ai ragazzi), e che si è tragicamente conclusa con la sua decapitazione.

L’omicidio di Paty

Abdoullakh Abuyezidvich Anzorov, è questo il nome dell’esecutore del professore, un russo di origine cecena di 18 anni, residente in Francia con lo status di rifugiato, e che è stato ucciso da alcuni agenti della polizia municipale dopo averli minacciati. L’omicidio è avvenuto subito dopo la fine delle lezioni dove il giovane ha decapitato Paty con un coltello gridando “Allah Akhbar“; successivamente, in rivendicazione del brutale gesto, ha postato le scioccanti immagini sul proprio profilo Twitter.

Tuttavia, parrebbe che l’insegnante di storia e geografia sia stato segnalato all’aggressore da uno o più studenti, dietro compenso ancora ignoto. Responsabili sarebbero dunque il padre di un’alunna del professore ed il militante islamista Abdelhakim Sefrioui, che aveva accompagnato inspiegabilmente il genitore a scuola per protestare contro le posizioni di Paty, sebbene ancora non è chiaro se vi sia un legame diretto fra Sefraoui e Abdoulakah Anzorov.

Omcidio che segue la scia di altri brutali atti spinti da odio islamista in Francia: l’accoltellamento, il 25 settembre a Parigi vicino la vecchia redazione del giornale satirico francese Charlie Hebdo, di due persone, da parte di un 25enne di origine pakistana, collegato al processo delle persone accusate di essere coinvolte nell’attentato del 2015 alla redazione del settimanale satirico, alla successiva sparatoria a sud di Parigi e al seguente attacco a un supermercato kosher.

Per tali motivi il ministro dell’Interno francese, Gérald Darmanin ha esposto misure decise al termine del Consiglio di Difesa contro questi atti islamico-fascisti, comunicando l’apertura di oltre 80 indagini per odio online, l’arresto tra i sostenitori dell’assassinio e la perquisizione di militanti islamisti, non necessariamente collegate alle indagini.

Sale a 15 il numero delle persone arrestate, tra cui una persona già condannata per atti terroristici e che ha dichiarato spontaneamente di essere stata in contatto con l’autore precedentemente all’accaduto.

(Fonte: La Repubblica)

Le manifestazioni

Quella contro la violenza fanatica è stata una mobilitazione massiccia: partiti, associazioni e sindacati hanno chiamato a raccolta i militanti per una serie di manifestazioni.

Domenica 18 ottobre la manifestazione più grande si è svolta a Parigi, a Place de la République, la stessa piazza che cinque anni fa ospitò il corteo dell’11 gennaio dopo gli attentati contro la sede di Charlie Hebdo. Tra le migliaia di persone anche tanti esponenti politici tra cui il premier Castex, il sindaco della capitale Anne Hidalgo, la presidente della regione Ile-de-France Valérie Pécresse. Oltre ai tanti cartelli in onore del “professore”, i presenti hanno effettuato un minuto di silenzio e hanno anche cantato la Marsigliese, l’inno della Francia, alcuni di loro hanno poi intonato la canzone “Adieu Monsieur Le Professeur”

Minuto di silenzio osservato anche a Lione. Tra la folla Gérard Collomb, l’ex sindaco che ha denunciato il ritardo nella lotta contro il radicalismo. “È un male profondo, bisognerà lottare a livello intellettuale. Gli insegnanti sono in prima linea per contrastare questa ideologia mortifera”, ha detto.

“Gli islamisti non dormiranno sonni tranquilli in Francia. La paura passerà sul fronte opposto”, ha detto il presidente Emmanuel Macron durante un vertice all’Eliseo con i principali ministri.

“Non ci fate paura. Non abbiamo paura. Non ci dividerete. Siamo la Francia!”. Lo ha scritto su Twitter il premier francese, Jean Castex.

Le critiche sociali

Bersaglio della manifestazione non risulta esclusivamente l’islamo-fascismo, ma anche le autorità stesse, che nei discorsi ufficiali esortano gli insegnanti a difendere le leggi della Repubblica ma poi incapaci di tutelarli abbastanza nella vita reale.
«Sono sconvolta ma purtroppo non sorpresa», dice Céline, una collega di Monsieur Paty, che cinque anni fa nella stessa scuola di Conflans-Sainte-Honorine cercò di far rispettare il minuto di silenzio in onore delle vittime di Charlie Hebdo, la quale racconta «Non era stato facile. Un allievo di CM2 (10-11 anni) aveva disegnato un kalashnikov. L’ho segnalato ma nessuno ha preso provvedimenti».

In piazza tanti professori, che raccontano episodi simili e ripetono con rabbia «poteva capitare a me». Fatiha Boudjahlat, insegnante (a Tolosa) di Storia e Geografia come Samuel Paty, autrice di saggi contro l’islamismo dichiara: «Questa atrocità è frutto di una lunga serie di vigliaccherie: in questi anni la gerarchia ha preferito nascondere i problemi, alimentando la prepotenza di tanti genitori islamisti che a scuola si comportano come clienti arroganti, e non come cittadini della Repubblica».

Il clima sociale è di grande tensione: Marine Le Pen denuncia «l’inutile politica delle candele e delle commemorazioni».

Manuel de Vita

Je suis Charlie

Charlie Gard.  Ha solo 10 mesi, ma tutto il mondo già lo conosce, tutti i mezzi di comunicazione ed i social networks, non hanno fatto altro che parlare di lui in questi giorni. Perché?

Perché la vita di questo bimbo, nella sua particolarissima forma, è segno di contraddizione per la società del nostro tempo che, pronta a legittimare anche i desideri più improbabili, priva della propria libertà chiunque non dovesse essere allineato con i “trend” del pensiero forte.

Chris Gard e Connie Yates, genitori del piccolo Charlie, hanno solo chiesto la vita, mentre medici e corti d’appello sentenziano morte. Morte per soffocamento ( sono filantropi, loro!) dal momento che “staccando la spina”,  Charlie non sarà più in grado di respirare autonomamente. E’ una malattia rara la sua, deplezione del DNA mitocondriale (16.ooo base paires che vengono, normalmente, tradotte in proteine funzionali, fondamentali per consentire all’organulo di adempiere alla sua funzione), si contano solo altri 16 casi del genere in tutto il mondo.

E’ senz’altro una situazione complessa ed estremamente delicata, però una cosa risulta incomprensibile: anche se  il bimbo non può essere portato negli Stati Uniti per tentare una cura sperimentale bocciata dai medici del Great Ormond Street Hospital di Londra, perché deve essere ucciso attraverso la rimozione del respiratore?

I genitori, infatti, fin dal primo giorno insistono nel dire che il bambino non soffre («se fosse così saremmo i primi a lasciarlo andare»). E che Charlie possa continuare a vivere è dimostrato proprio dal fatto che, da aprile a oggi, cioè da quando è iniziata la causa giudiziaria, il suo stato di salute non è peggiorato.

Di questo, i medici non sanno bene che rispondere. La decisione di staccare la spina è stata presa, dicono, “nel migliore interesse del bambino”, ma non è facile comprendere come la vita possa non essere nell’interesse di Charlie. E rimane, ancora, il nodo cruciale: secondo gli stessi operatori sanitari  “Non è possibile sapere se Charlie provi dolore o meno. Nessuno può esserne certo”. Quindi, non si può stabilire se ci sia o no accanimento terapeutico.

Però mi chiedo, quale medico e quale giudice può arrogarsi il diritto di porre fine alla vita di un bambino sulla base di qualcosa che non sa?

Poiché ammettono di essere nel dubbio, i dottori dovrebbero assisterlo fino alla fine e fare un passo indietro davanti a una vita che, per quanto fragile e sofferente, c’è.

L’emergenza di Charlie è l’emergenza di ogni uomo, perché la sua malattia coinvolge la fase vita in cui l’uomo è più debole e indifeso e ha bisogno di accoglienza, ancora di più se affetto da una malattia genetica o malformativa. Alla sua sofferenza non si è data una risposta concreta, si è negata la base minima della pietà umana decretando che se sofferenti non vale la pena vivere.

Concludo prendendo in prestito le parole di un pediatra e genetista francese (nonché scopritore della trisomia 21, più nota come “Sindrome di Down ed altre malattie cromosomiche), vissuto nel secolo scorso, Jérôme Lejeune:

«Se si volesse eliminare il paziente per sradicare il male, si avrebbe la negazione della medicina. Ma difendere ogni paziente, prendersi cura di ogni uomo, implica che ciascuno di noi debba essere considerato unico e insostituibile».

Dobbiamo servirci della medicina in modo etico per salvare vite, altrimenti essa rischia di diventare mero tecnicismo applicato, ma non al servizio dell’uomo. Charlie forse non può guarire, ma non per questo dev’essere ucciso da una scienza che si illude di essere onnipotente.

Ivana Bringheli