La Maternità surrogata diventa un reato universale

Maternità surrogata, l’Italia rende la pratica un reato universale e introduce nuove severissime pene. I genitori che faranno ritorno in Italia dopo esser ricorsi alla pratica della “gestazione per altri“, rischiano dai tre mesi ai due anni di reclusione oltre ad una sanzione pecuniaria che potrà arrivare fino ad un milione di euro.

Infatti il 16 ottobre si è discusso ed approvato al Senato il Disegno di Legge sulla Maternità Surrogata, precedentemente approvato dalla Camera nel luglio del 2023, che estende la perseguibilità del reato di gestazione per altri (GPA) anche ai cittadini italiani che ricorrono o hanno già ricorso alla pratica all’estero.

Cosa prevede la legge e cosa cambia

Il ddl introduce una norma che modifica le precedenti disposizioni, ovvero l’articolo 12 della legge 40 del 19 febbraio 2004 che al comma 6 già punisce con la reclusione da 3 mesi a due anni e con una multa dai 600.000 euro ad un milione di euro “chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità”.

La norma, considerata legge simbolo di Fratelli d’Italia, estende le sanzioni anche a chi ha un figlio con la GPA anche se va all’estero e in un paese che considera la pratica totalmente legale. L’intervento del capogruppo della Lega, espressione della maggioranza di governo, Massimiliano Romeo spiega la ratio della norma:

“Con questo provvedimento vogliamo infatti evitare che il divieto previsto in Italia venga aggirato, andando all’estero per commissionare un bambino che poi viene riconosciuto nel nostro Paese”

Maternità surrogata o utero in affitto, di cosa si tratta? 

La maternità surrogata o gestazione per altri (Gpa), detta volgarmente utero in affitto, è una pratica in cui una donna, definita madre surrogata o gestante per altri, porta a termine una gravidanza per conto di una coppia o di un singolo che non possono avere dei figli naturalmente. Questa pratica, già reato in Italia, può essere svolta dietro retribuzione o con fine altruistico. A livello scientifico accade che gli ovuli e lo sperma della coppia vengono utilizzati per creare un embrione tramite la fecondazione in vitreo, embrione che sarà poi impiantato nella madre surrogata la quale porterà avanti la gravidanza per poi “consegnare” il figlio ai genitori designati.

Cosa si intende per reato universale? 

Come detto, la nuova norma trasforma la maternità surrogata in un reato universale, al pari di gravi reati quali l’omicidio. Si tratta di una fattispecie perseguibile penalmente ovunque sia compiuta nel mondo derogando di fatto il principio di territorialità. Se prima infatti si poteva essere perseguiti per la GPA solo se effettuata nel territorio italiano, la nuova norma trasformando il reato in un reato universale rende penalmente perseguibili chiunque la effettui anche al di fuori del territorio nazionale, anche se effettuata in paesi dove la pratica è riconosciuta come legale.

Cosa dicono le opposizioni 

Le opposizioni si sono compattate in una forte critica unanime, dentro e fuori l’Aula del Senato. La senatrice Elena Cattaneo definisce il provvedimento «un manifesto ideologico a danno delle famiglie e bambini». Il capogruppo di Isaia Viva, Ivan Scalfarotto attacca dicendo che il nuovo provvedimento viola l’articolo 3 della Costituzione e la senatrice M5S Alessandra Maiorino parla di «un obbrobrio giuridico» che equipara la GPA ai crimini di guerra e alla tortura.

Francesco Pio Magazzù

Pesca sostenibile, l’Italia contro le novità UE: “Regolamenti privi di logica”

L’Italia fa ancora una volta il campanello tra le campane dell’Ue, tentando un flebile contro-suono sull’acustica comunitaria. La questione contesa, come in altre recenti occasioni, riguarda la sostenibilità di un settore economico, particolarmente: la sostenibilità nella pesca.

Il Consiglio dei Ministri dell’Unione Europea ha approvato una nuova normativa a proposito, ancora più stringente e, secondo alcuni, ancora più dannosa. Vediamo quindi ora cosa prevede, perché l’Italia non si è schierata a suo favore e come questa potrebbe smuovere il mercato ittico.

 Pesca sostenibile, i punti principali del regolamento

Riporta le informazioni Il Sole 24 Ore. Lunedì 26 maggio, in una riunione del Consiglio dei ministri Ue dell’Agricoltura, la maggioranza assoluta dei membri comunitari ha approvato il pacchetto per la pesca sostenibile già proposto dalla Commissione europea. “La maggioranza assoluta” per così scrivere, perché è solo per un’approvazione, quella dell’Italia, che non è stata raggiunto l’accordo unanime.

La misura sicuramente più incisiva prevista dal pacchetto è quella che sancisce lo stop definitivo per la pesca a strascico a partire dal 2030. Seguono, per importanza, la normativa che prevede l’obbligo di telecamere a bordo dei pescherecci grandi oltre i 18 metri e l’inasprimento delle regole sul “margine di tolleranza”, che riduce al minimo la flessibilità nelle operazioni di trasbordo e di cattura accidentale.

L’Italia che non ci sta: non chiamateli “no green”

Nell’Italia che non ci sta, ci stanno in molti: a partire dal Ministro dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste Francesco Lollobrigida, passando per gli altri componenti della maggioranza di governo e giungendo fino alle associazioni degli imprenditori e i sindacati dei lavoratori.

Tutti soggetti che non si considerano “no green”, ma che sono pronti a essere etichettati così se essere (molto) “green” comporta ingentissimi costi. Ed è su quest’ultimo aspetto che si deve valutare ogni ragione.

In nome della sostenibilità, sostengono gli italiani della categoria: si possono presagire sanzioni e sanzioni pecuniarie, eccedendo più di quanto già si eccede, e poi, soprattutto, “la fine della pesca a strascico porterebbe alla perdita di 7mila posti di lavoro e alla fine del business per il 20% della flotta peschereccia italiana, con un drastico abbattimento dei ricavi del settore del 50%“.

Pesca
Pesce. Fonte: Wikimedia Commons

 

Annalisa Tardino: “Regolamenti privi di logica” 

Annalisa Tardino, eurodeputata della Lega, componente della Commissione Pesca e commissario regionale del partito in Sicilia, ha commentato le scelte dell’Unione con una nota:

Come anticipato all’indomani dell’accordo siglato con il Consiglio dell’Ue, la commissione pesca del PE ha oggi votato il regolamento Controlli, con il voto contrario da parte della Lega. I gruppi di maggioranza a Bruxelles, complici le assenze degli eurodeputati di Pd, M5s e terzo polo, hanno dato il via libera a nuove misure vessatorie nei confronti dei pescatori, categoria sempre nel mirino delle restrizioni dell’Ue, tartassata da regole e norme che invece di sostenere un settore di vitale importanza per l’economia costringono le imprese alla chiusura. Tutto questo grazie ai soliti fanatici delle ideologie green e alle nostre sinistre: le avevamo invitate a schierarsi a favore della nostra pesca e invece hanno disertato la votazione in Commissione. Il provvedimento prevede l’obbligo di telecamere a bordo dei pescherecci, per i quali è anche previsto un inasprimento delle regole sul cosiddetto ‘margine di tolleranza’ che riduce al minimo la flessibilità nelle operazioni di trasbordo e di cattura accidentale. Questo vorrà dire ancora più sanzioni. Una nuova vergognosa decisione che, all’inizio, prevedeva nella proposta originale telecamere a bordo di pescherecci a partire dai 12 metri di lunghezza, mentre grazie al lavoro e all’impegno della Lega sarà applicato solo alle imbarcazioni oltre i 18 metri. Una misura che ci consente di escludere gran parte della nostra flotta. Continueremo ad impegnarci per questo settore e lottare contro provvedimenti lontani dalla realtà, scritti da chi, evidentemente, non è mai salito su una barca da pesca, e che tendono solo a impedire ai nostri pescatori di poter lavorare, mentre favoriscono i nostri Paesi competitor dell’area mediterranea non soggetti a questi regolamenti asfissianti e privi di logica.

Gabriele Nostro

Francia e Italia discutono. Il problema? I migranti

Non è una novità che Italia e Francia si scontrino: il Ministro dell’interno francese Gérald Darmanin accusa la premier Giorgia Meloni, sostenendo che l’Italia sia alle prese con una «gravissima crisi migratoria».

Durante la messa in onda del programma Les grandes gueules dell’emittente televisiva Rmc, Darmanin ha così esposto le sue preoccupazioni:

Meloni, come Le Pen, è stata eletta dicendo “vedrete questo, vedrete quello” e poi quello che vediamo è che l’immigrazione non si ferma e sta crescendo

Il problema si pone anche in Tunisia:

La verità è che in Tunisia c’è una situazione politica che porta soprattutto molti bambini a risalire attraverso l’Italia e che l’Italia è incapace di gestire questa pressione migratoria

Il ministro dell’Interno francese Gerald Darmanin, attacca Giorga Meloni in un’intervista su Rmc. Fonte: Today

L’inizio dei problemi tra Francia e Italia

Tutto ha avuto origine lo scorso novembre, quando l’Italia si è rifiutata di accogliere i migranti a bordo della Ocean Viking, dando però per scontato che l’aiuto venisse da parte della Francia. Dopo due settimane di navigazione, la nave della Ong francese Sos Mediterranée è approdata a Tolone, nel sud della Francia.

A seguito dell’aumento di sbarchi nel suolo francese, Elisabeth Borne – Primo Ministro francese – ha dichiarato che la Francia si appresta a schierare 150 poliziotti in più al confine con l’Italia così da controllare il flusso irregolare di migranti.

Tajani annulla la visita a Parigi

Antonio Tajani – Ministro degli Esteri – era atteso a Parigi per incontrare Catherine Colonna ma l’incontro è saltato. Tajani si è così giustificato:

Non andrò a Parigi per il previsto incontro con la ministra Catherine Colonna. Le offese al governo ed all’Italia pronunciate del ministro Gérald Darmanin sono inaccettabili. Non è questo lo spirito con il quale si dovrebbero affrontare sfide europee comuni

Non si è fatta attendere la risposta della ministra degli esteri francese Catherine Colonna:

Ho parlato col mio collega Antonio Tajani al telefono. Gli ho detto che la relazione tra Italia e Francia è basata sul reciproco rispetto, tra i nostri due paesi e tra i loro dirigenti. Spero di poter accoglierlo presto a Parigi

Decreto Cutro diventa legge

E mentre Darmanin “attacca” l’operato del governo Meloni, la Camera dei Deputati ha approvato la fiducia alla conversione in legge (con 179 voti favorevoli, 111 contrari e tre astenuti) del decreto migranti detto anche decreto Cutro – chiamato così perché varato dal Consiglio dei ministri che si riunì a Cutro dopo la strage dei migranti.

Cosa prevede?

Il decreto limita l’applicazione della protezione speciale

  • non potrà essere convertita in permesso di soggiorno per ragioni lavorative;
  • potrà essere rinnovato solo per sei mesi;
  • viene esclusa la concessione per ‘gravi condizioni psicofisiche’;
  • i richiedenti asilo sono esclusi dal sistema di Accoglienza Integrazione, sarà riservato solo a chi ha già ottenuto lo status di rifugiato;

Potenziamento dei CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio):

  • raddoppia il tempo di permanenza nei CPR;
  • aumenta il numero di CPR (previsto uno per regione);

Inasprite le pene per gli scafisti, con la novella al Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e la condizione giuridica dello straniero (D. Lgs. 286/1998) che puniva «promuova, diriga, organizzi, finanzi o effettui il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato», che porta la pena fino a due ai sei anni di reclusione.

Inoltre, viene previsto un nuovo reato aggravato dall’evento in caso di «morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina», con pene dai 20 ai 30 anni di reclusione.

Infine, è previsto l’arresto in flagranza, anche differito, per reati commessi durante il soggiorno in un centro di prima accoglienza.

Gabriella Pino

Italia-UE, l’Unione rimprovera sulle concessioni balneari (e agisce legalmente)

Ancora una volta il diritto europeo sembra poter prevalere su quello italiano, in un sistema che i sovranisti definirebbero “di subalternità” e gli europeisti-globalisti “di collaborazione”. Comunque si consideri, l’ultimo atto di gestione UE mira a risolvere una questione molto particolare che interessa la nostra penisola: la questione delle concessioni balneari.

Il governo italiano ha spesso sostenuto la necessità di prorogare le concessioni, mentre l’Unione ne ha frequentemente richiesto la rapida rimessa al bando. Quali sono state le mosse legislative dell’una e dell’altra parte? Quali le loro ragioni? Di seguito un quadro dei recenti accadimenti per guardare al problema con più consapevolezza. 

Concessioni balneari, la proroga e i suoi perché

Riporta le informazioni Mondo Balneare. Lo scorso 23 febbraio, alla Camera dei Deputati, è stato approvato in via definitiva il decreto Milleproroghe, sancente, tra le varie proroghe, quella relativa alle concessioni balneari. Essenzialmente: la scadenza delle concessioni balneari è stata ufficialmente spostata dal 31 dicembre 2023 al 31 dicembre 2024.

Curioso che già allora il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella avesse promulgato la norma con riserva, manifestando i suoi dubbi circa la compatibilità della stessa con le norme europee. 

Comunque, il regolamento precisa due motivazioni scusanti la proroga di un anno. La posticipazione sarebbe stata operata per effettuare la mappatura del demanio marittimo al fine di verificare «la sussistenza della scarsità della risorsa naturale disponibile», e per istituire un tavolo tecnico tra i ministeri competenti e le associazioni di categoria per concordare i contenuti della riforma delle concessioni balneari.

Tale d’altronde è stata avviata solo dal precedente governo Draghi, con la legge sulla concorrenza che per la prima volta in Italia ha introdotto la riassegnazione dei titoli tramite gare pubbliche.

UE
Spiaggia. Fonte: Wikimedia Commons

L’opposizione italiana e dell’UE

Sia la minoranza nel Parlamento italiano che l’UE come istituzione hanno presto fatto valere la propria opposizione sulla scelta. Chi ha contestato la decisione contenuta nel Milleproroghe si è appellato alla questione dell’imparzialità e della “proroga dei privilegi”.

Perché non rilanciare la concorrenza invece di conservare l’esclusività dei possedimenti? Perché non dare moto a un mercato più libero? Queste le domande più assiduamente proposte, insieme ad altre provocazioni del tipo: che il governo, nell’interesse dei partiti che lo costituiscono, si comporti così per non perdere i consensi di chi ora gode delle zone balneari a basso costo?

L’azione UE 

Riporta le informazioni Ansa.it.

Le concessioni di occupazione delle spiagge italiane non possono essere rinnovate automaticamente ma devono essere oggetto di una procedura di selezione imparziale e trasparente. I giudici nazionali e le autorità amministrative italiane sono tenuti ad applicare le norme pertinenti del diritto europeo, disapplicando le disposizioni nazionali non conformi

Questo recita una vertenza della Corte di giustizia UE, coinvolgente l’Autorità italiana garante della concorrenza e del mercato e il comune di Ginosa (Taranto), decisa ieri mattina. Il processo in merito pone le sue origini nel dicembre del 2020, quando il comune di Ginosa, nel rispetto della normativa nazionale, aveva automaticamente prorogato le concessioni balneari, attirando l’ostilità dell’Agcm, ora risultata vincitrice nel contenzioso.

La rassicurazione di Meloni 

Dopo la simbolica sentenza, che potrà fare da precedente e da prova legale, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha rassicurato che il Paese si allineerà alle leggi comunitarie.

Non è la prima volta che Meloni si mostra cedevole sulla faccenda, diversamente da altri membri del suo entourage. Per questo è plausibile credere al suo indirizzo, ora giustificato in risposta a un’avversione europea più tangibile di prima.  

Gabriele Nostro

Energie rinnovabili, l’UE ridefinisce il prossimo traguardo

Nel 2009, i leader dell’UE avevano fissato un obiettivo: il consumo energetico dei Paesi comunitari, entro il 2020, avrebbe dovuto essere coperto per almeno il 20% dalle fonti energetiche rinnovabili (energia solare, eolica, geotermica, idroelettrica, da biomassa). Un obbiettivo che è stato raggiunto, ora da riscrivere per il futuro 2030. I responsabili dell’Unione si sono consultati più volte a proposito e, saltando una prima definizione del traguardo formulata nel 2018, hanno fatto quadra su una nuova quota: si dimostrerà pareggiabile o troppo ambiziosa?

Energie rinnovabili: gli ottimi risultati

Un rapporto nominato “Trends and Projections in Europe 2020” dell’European Environment Agency (EEA) ha proclamato i successi dell’Ue in confronto ai suoi tre principali obiettivi climatici ed energetici da raggiugere entro il 2020. In particolare, l’Ue ha ridotto le emissioni di gas serra del 20% rispetto ai livelli del 1990, aumentato al 20% la quota di utilizzo di energia rinnovabile e migliorato del 20%  l’efficienza energetica.

E anche la nostra Italia ha ben operato sulle energie rinnovabili, utilizzandole come valore di oltre un quinto dei consumi complessivi di energia (20,4%). Efficientamento onorevole, anche considerato che la percentuale da rispettare per il Belpaese, decisa dalla direttiva del 2009, era pari al 17%.

Risultati ottimi e…mire ottimistiche!

Fatti i conti con gli ottimi risultati del passato, le istituzioni Ue hanno rimodulato le mire comuni in un’ottica più ottimistica. Nel 2018, infatti, era stato concordato l’obiettivo di una quota del 32 % del consumo energetico da fonti rinnovabili entro il 2030. Ma ieri, come riportato da RaiNews, tale percentuale è stata innalzata a 42,5%.

La Commissaria europea all’energia Kadri Simson ha così commentato i termini dell’accordo:

Accolgo con favore l’accordo provvisorio con il Parlamento e il Consiglio su una serie rafforzata di norme sulle energie rinnovabili. Abbiamo raggiunto un compromesso ambizioso. La nuova direttiva rinnovabili è un passo importante nella realizzazione del Green Deal e del RePower Eu.

L’Europarlamento e il Consiglio Ue dovranno ratificare l’intesa per renderla efficace. La direttiva, in quanto tale, obbliga gli Stati membri a pervenire un determinato risultato senza lineare i mezzi utili a ciò, comunque presentando alcuni vincoli più specifici…

Energie rinnovabili: i parametri stringenti della direttiva

Entro il 2030 le energie rinnovabili dovrebbero contribuire al 49% dell’energia utilizzata dagli edifici. Gli Stati membri dovranno scegliere se usare le rinnovabili come quota del 29% nel consumo di energia nel settore dei trasporti, o se ridurre del 14,5% dell’intensità di gas a effetto serra nei trasporti grazie all’uso di fonti rinnovabili.

Inoltre, le rinnovabili dovranno contribuire ai consumi del settore con almeno il 5,5% di biocarburanti avanzati (cioè provenienti da materie prime non alimentari) e carburanti rinnovabili di origine non biologica (idrogeno rinnovabile e carburanti sintetici a base di idrogeno).

Energie rinnovabili
Pale eoliche. Fonte: Startmag

L’impegno “green” dell’Unione, le ultime novità

Gli impegni “green” dell’Unione non si limitano certo alla questione delle energie rinnovabili. Recentemente, altri due temi hanno generato anche più clamore, soprattutto per i loro contingenti fattori di svantaggio economico.

L‘Unione Europea ha deciso che dal 2035 non si potranno più vendere nuove auto con motori benzina o diesel. Un duro colpo per le molteplici aziende vicine alla produzione di un genere di auto che potrà diventare presto obsoleto.

Non meno spinosa è la faccenda della direttiva sulle “case verdi”. Essa prevede l’ottimizzazione energetica degli edifici con l’ambizioso obiettivo di arrivare ad emissioni zero entro il 2050. Sulla sua legittimità si pongono i dubbi di chi crede che il mercato immobiliare subirà una scossa: per la svalutazione degli immobili non energicamente ottimizzati, per le spese di efficientamento energetico necessarie e per la ristrutturazione di edifici storici non considerati tali dalla direttiva.

Gabriele Nostro

Addio baby influencer? Dalla Francia una proposta a tutela dei più piccoli

Lo shareting, crasi tra sharing (condividere) e parenting (fare i genitori), è la pratica genitoriale di condividere sui social spezzoni di vita dei propri figli minorenni. Si pone alla base del fenomeno dei baby influencer: dei suoi vantaggi (like e profitti facili per chi condivide) e dei suoi svantaggi (disagi -in varietà e in varie età- per chi “è condiviso”). Vediamo ora, particolarmente, cosa di controverso rivelano gli studi scientifici sull’abitudine: quindi perché e in che misura, in Francia, un deputato ha proposto una stretta legale a proposito.

Baby influencer, i danni cerebrali

Riporta le informazioni Ultima Voce. Un bambino che è reso “personaggio pubblico” può subito soffrire di un disturbo identitario: psicologico e sociale. Passando molto tempo sotto le pressioni di uno smartphone, un piccolo rischia di confondere la dimensione reale e virtuale, creando per sé un mondo promiscuo.

In tale mondo promiscuo le difficoltà nei rapporti si possono moltiplicare. Le relazioni con lo spazio, il tempo e le altre persone possono diventare snervanti e ansiogene.

Ma probabilmente è un altro il guaio più grande dello shareting

Baby influencer come vittime pedopornografiche

Leah Plunkett, nel suo libro Sharenthood: Why We Should Think before We Talk about Our Kids Online, ha focalizzato, in merito al tema, il problema della diffusione di informazioni riservate.

Tutto ciò che viene pubblicato su un profilo aperto diventa di dominio comunitario. E la cessione della privacy, soprattutto se di un infante indifeso, lascia sempre a un’incognita il punto della sicurezza personale.

Gli hater acquisiscono la facoltà di attaccare verbalmente (o attraverso tastiera) il condividente e/o il condiviso. Ma assai più inquietante è l’ombra della pedopornografia; poiché, secondo uno studioil 50% delle foto che circolano sui forum pedopornografici sono state inizialmente condivise dai genitori.

Baby influencer
Baby influencer. Fonte: HealthDesk

In Francia una decisa presa di posizione

Riporta le informazioni Notizie.it. In Francia è stato Bruno Sruder, deputato di Renaissance, a lanciare la proposta di imporre un divieto per la pubblicazione di foto e video di minori sui social, dichiarando:

I primi due articoli stabiliscono che la protezione della vita privata è uno dei compiti dei genitori, che devono associare il figlio alle scelte che lo riguardano. Il messaggio per i genitori è che il loro compito sia anche quello di proteggere la privacy dei figli. In una società sempre più digitalizzata, il rispetto della privacy dei minori è ormai imprescindibile per la loro sicurezza, il loro benessere e il loro sviluppo

Sruder ha trovato solidarietà tra i colleghi. Infatti, il Parlamento francese ha approvato il disegno di legge adottato in prima letture dall’Assemblea nazionale lunedì 6 marzo. La Francia, d’altronde, è sempre stata in prima linea per la “difesa digitale” dei minori.

Nel Paese, pochi giorni fa, è stata accettata la proposta di alzare a 15 anni l’età minima per avere accesso ai social. Inoltre: dapprima di oggi i maggiorenni possono denunciare i genitori che hanno diffuso loro immagini senza consenso, abbonando loro sino a un anno di detenzione e 35mila euro di multa.

Dalla Francia all’Europa

Dalla Francia il moto potrebbe espandersi in Europa, coinvolgendo pure l’Italia. Perché, secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, a novembre 2022 l’Autorità garante per i diritti dell’infanzia avrebbe posto la questione all’attenzione della premier Giorgia Meloni.

L’appello di Carla Garlatti, dal 2020 Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, è ancora “senza risposta”; ma chissà che non ne riceva una proprio in questi giorni, quando gli occhi sulla questione sono più concentrati.

Gabriele Nostro

Del Toro dona la vita a Pinocchio

Un film eccezionale che rinarra Collodi attraverso la psiche di Del Toro – Voto UVM: 4/5

 

Del Toro ci regala un altro grande pezzo di cinematografia col suo Pinocchio. Non si tratta di una semplice trasposizione del classico di Collodi, bensì – come vedremo – di un totale rifacimento della storia.

Il regista dei recenti Nightmare Alley e de La forma dell’acqua ci regala un racconto molto più crudo di quello a cui ormai siamo abituati, anche per via delle libertà che la Disney si prese decenni fa nel suo film. Ed in questo è un film di Del Toro in tutto e per tutto: per sua stessa ammissione, infatti, la pellicola non si è limitata ad un semplice riadattamento ma a narrare una storia profondamente diversa che risonasse con l’intimo del regista.

                                                                                                 

Burattini che prendono vita

Ciò che più di ogni altra cosa in questo film traspare è la crudezza. Ogni personaggio riesce ad esprimere una varietà di emozioni enorme, soprattutto per un film in stop-motion.

Uno degli aspetti più interessanti da analizzare è proprio questo: riuscire a trasmettere la stessa mimica di un attore tramite un “burattino” da manovrare fotogramma per fotogramma è un’impresa quasi impossibile, e questo film riesce ad essere uno degli esempi migliori sotto quest’aspetto.

Pinocchio sullo sfondo di un paesino sulle montagne liguri. Frame dal trailer di “Pinocchio di Guillermo Del Toro”. Fonte: Netflix

La pellicola è stata girata con in mente l’imprecisione: sia quella dei movimenti umani sia quella di un’animazione “fatta a mano”. Ogni personaggio ha qualche imperfezione che lo caratterizza, ma che soprattutto riesce a spiccare sullo schermo. Gli occhi sono forse la parte che risalta di più in questa animazione ed è qui che il legame col live action si sente maggiormente. Il regista ha trasposto la sua esperienza con gli attori in questo nuovo lavoro, portando ad un nuovo estremo le possibilità della stop-motion.

Geppetto. Frame dal trailer di “Pinocchio di Guillermo Del Toro”. Fonte: Netflix

Anche la regia risulta ben studiata e chiarissima nell’esposizione. Il film trasuda da ogni frame il famoso stile di Del Toro, cupo ma colorato. Se consideriamo la tecnica utilizzata, il numero e la varietà di inquadrature risultano ancora più strabiliante. La camera inquadra benissimo ogni personaggio e i set sono costruiti ad hoc per permettere ciò, con un realismo ed una cura maniacale.

Il nuovo Pinocchio

La trama è forse l’elemento più controverso del film. Ricorda molto le altre produzioni di Del Toro con una grande enfasi sull’onirico nella prima parte e un ritorno al reale verso metà della pellicola. È una cifra stilistica che torna anche qui, arricchendo la storia di Collodi di un sottotesto storico e politico. Ciò si ricollega in maniera perfetta alla metafora narrativa generale della trama: il legame tra la vita e la morte ed il nostro vivere nella coscienza di entrambe.
In questo modifica anche parecchio la storia originale – come già detto – ma il tutto risulta una narrazione interessante. La nascita di Pinocchio deve tutto al mostro di Frankestein: Geppetto è un falegname poverissimo caduto nell’alcol e interi personaggi vengono eliminati ( Fata Turchina, Mangiafuoco), altri vengono aggiunti. Il tutto risulta all’inizio straniante, ma ci si abitua presto a vedere sotto una nuova luce questa storia, che Del Toro è riuscito a fare sua in tutto e per tutto, modernizzando anche aspetti del romanzo che oggi avrebbero stonato con la nostra coscienza moderna.

Volpe, il nuovo proprietario del circo, a destra il Mangiafuoco “scartato”. Frame dal trailer di “Pinocchio di Guillermo Del Toro”. Fonte: Netflix

Le uniche recriminazioni che facciamo alla pellicola sono da imputare alla parte finale. Alcune scelte sembrano derivate da una fretta produttiva che elimina per parte del film alcuni dei personaggi più interessanti, mentre altri su cui riponevamo aspettative vengono lasciati in secondo piano.

Tutte le dinamiche delle scene finali non ci sono sembrate convincenti assieme all’utilizzo di una computer grafica scadente.

Conclusioni

Detto questo, il film risulta essere forse la cosa più lontana in tutto e per tutto dal romanzo originale, ma che in esso affonda le radici del suo spirito. Uno spirito che traspare anche dai vicoli dei vecchi paesini italiani, dalla loro povertà e dai loro modi di fare.

È una storia che parla di morte e del saper vivere assieme e che lo fa con un tatto che solo Del Toro sa trasmettere.

 

Matteo Mangano

Esterno Notte: la morte che cambiò l’Italia

Nell’era in cui non tolleriamo gli spoiler, la serie tv di Bellocchio tiene incollato lo spettatore davanti ad una storia di cui tutti conosciamo il triste finale. Un capolavoro senza eguali – Voto UVM: 5/5

 

Era la mattina del 9 Maggio del 1978 a Roma. Le macchine sfrecciavano per le vie della Città Eterna, i bambini e i ragazzi correvano a scuola sfidando il tempo per non arrivare in ritardo, nei bar si sentiva il profumo del caffè e dei cornetti caldi, una giornata come le altre. In una delle innumerevoli vie della città, era parcheggiata una Renault 4 rossa targata Roma N57686. Nel cofano di quella macchina c’era il corpo dell’onorevole Aldo Moro. La sua salma fu estratta dagli artificieri: era ripiegato e irrigidito, presentava i tipici segni della morte. Fu trovato con un abito scuro, lo stesso del rapimento, ma macchiato di sangue. Da quel momento in poi la monotonia di Roma fu spezzata: scoppiò il caos.

Non tutti conoscono bene questa storia. La serie Esterno Notte, firmata dal regista Marco Bellocchio, ha riacceso l’attenzione su un caso che dovrebbe essere studiato sui libri di scuola, una pagina della nostra storia che non dev’essere dimenticata.

Esterno Notte (2022)

Marco Bellocchio riporta Aldo Moro in tv, in modo prepotente, ci fa vedere quella politica nascosta e marcia che ha lasciato un uomo alla deriva, ci porta indietro nel tempo, nel 1978, l’anno che rivoluzionò l’Italia: il delitto Moro, i tre Papi, l’economia in ripresa, la graduale ascesa dell’Europa. Un decennio noto come gli “anni di piombo”: lotte popolari, e terrorismo. Tutti combattevano per un ideale, chi con la disobbedienza civile e chi con le armi. Anche lui, Aldo Moro, voleva porre un cambiamento, ma fu uno di quelli che per le sue idee e azioni fu strappato alla vita.

La serie si apre su uno scenario di disordini provocati dagli estremisti, che portano distruzione nelle strade romane, si incamminano infuriati sotto la sede centrale di Democrazia Cristiana. All’interno c’è Aldo Moro. Ma i nemici dell’onorevole non sono solo fuori, ma anche all’interno dell’edificio.

Fonte: the vision
 Fonte: The Apartment, Kavac Film, Rai Fiction, Arte France Cinéma, Lucky Red

La regia di Bellocchio è spettacolare nel mettere in mostra questo scenario apocalittico. Le scene rispecchiano alla perfezione i sentimenti e la sensazioni che tutti provarono per il delitto di Moro. Guardando le immagini ci chiediamo come sia potuto succedere tutto ciò.

Tre appuntamenti per tre serate: la prima parte è narrata dal punto di vista dei membri della DC, la seconda dalle brigate rosse, e la terza dalla famiglia di Aldo Moro. Una trinità: tutti messi di fronte al dramma personale e collettivo.

Una delle immagini più potenti e tristi dell’intero film, è quella di Moro che impersona Gesù. Abbandonato, lasciato solo con la croce, mentre i suoi colleghi della Democrazia Cristiana lo osservano soddisfatti e nei loro sguardi prende forma un sorriso nascosto. Nessuno fa niente per aiutarlo, rimangono inermi.

fonte: primo piano
Fonte: The Apartment, Kavac Film, Rai Fiction, Arte France Cinéma, Lucky Red

Esterno Notte è una serie che fa male perché proviamo tenerezza -verso Aldo Moro – e rabbia: ci sentiamo privati di nuovo di un uomo che avrebbe potuto cambiare l’Italia. Bellocchio, regista tra gli altri de Il traditore, è riuscito un’altra volta a mettere a nudo i nostri sentimenti e l’Italia del ’78.

Un Aldo Moro inedito

Un cast spettacolare, che ha reso il lungometraggio memorabile. Gli attori sono già noti al pubblico. Abbiamo Toni Servillo nel ruolo di Paolo VI: il suo è un lavoro sublime.  Margherita Buy, interpreta Eleonora Moro, la moglie del martire, uno splendido e magnifico Fausto Russo Alessi nei panni di Francesco Cossiga, Daniela Marra in quelli di Adriana Faranda, l’ex brigatista italiana, e Davide Mancini nel ruolo di Mario Moretti, un ex brigatista. Last but not least, Aldo Moro interpretato da un Fabrizio Gifuni, che è riuscito a farci provare dolore verso un uomo abbandonato.

Fabrizio Gifuni (Aldo Moro) in una scena del film. Fonte: The Apartment, Kavac Film, Rai Fiction, Arte France Cinéma, Lucky Red

Quello di Gifuni è un Moro inedito, lontano dalla flemma tipicamente democristiana, un po’ incazzato con un sistema che lo lascia solo e lo condanna ingiustamente a morte. Tuttavia ci sbagliamo se pensiamo che questa è una serie su Moro: è una serie invece in cui si sente la sua assenza, un’assenza che pesa su un’ Italia che – a parte pochissime eccezioni – non ha conosciuto più nella propria classe politica uomini della stessa statura morale.

Verità storica o libera interpretazione?

Dalle accuse della figlia Maria Fida alle proteste di qualche parlamentare, tante sono state le critiche suscitate dalla serie, che presenterebbe effettivamente in più punti inesattezze storiche. Se Esterno Notte suscita così tante polemiche per la sua rielaborazione un po’ troppo “libera” di un fatto realmente accaduto, è perché va a stuzzicare una ferita ancora aperta nella coscienza collettiva degli italiani. Ma possiamo pretendere verità storica dal cinema o da una serie tv? Spesso l’arte, soprattutto quella con la A maiuscola- e di Arte  con la A maiuscola si tratta in questo caso – “piega” la realtà ai suoi fini espressivi. Non confondiamo Esterno Notte con un documentario, è piuttosto un’opera cinematografica. Lo stesso regista ci avverte:

«Per chi volesse una verità storica, non sono io la persona adatta»

Bellocchio ha torto. In Esterno Notte tuttavia la storia c’è e parla ancora a un presente che chiede giustizia di fronte a un mistero, di fronte a quel corpo di Moro nel cofano della Renault rossa, l’agnello immolato sull’altare dell’ideologia e della ragion di Stato.

Fonte: The Apartment, Kavac Film, Rai Fiction, Arte France Cinéma, Lucky Red

Perché verità storica non è solo un’istantanea che ricalca in maniera esatta il mero fatto, ma anche interpretazione del passato alla luce di ciò che viene dopo, nell’ottica delle conseguenze di un evento tragico che ha cambiato per sempre le sorti della politica italiana.

Allora ben venga la condanna di una classe politica inetta che ha fatto del suo Presidente di partito un martire, perché così è avvenuto nella retorica successiva a quei giorni terribili. Ben venga il ritratto di un Governo che si è reso complice anche solo col silenzio inerte di un atto terroristico perché, come diceva Pasolini, «il peccato non è fare il male, ma non fare il bene».

Il tassello mancante nella storia di Aldo Moro

Troppo indulgente con i terroristi o con altre forze implicate nel rapimento? No. Quella di Bellocchio è un’interpretazione: in quanto tale ritaglia solo un pezzo di una realtà complessa quale quella del caso Moro. Qui il focus si sposta soprattutto sui compagni di partito, ma la serie va letta come completamento di quel Buongiorno, notte del 2003 che si svolgeva invece nello spazio asfittico dei terroristi che guardavano il proprio ostaggio dallo spioncino.

“Buongiorno, notte”(2003), regia di Marco Bellocchio. Qui la storia è raccontata dal punto di vista dei terroristi, dipinti da Bellocchio in maniera tutt’altro che indulgente

Se nel film del 2003, il terrore negli occhi di Chiara ( Maya Sansa), la terrorista “pentita”, la coscienza risvegliata delle BR, era un grido sublime sulle note dei Pink Floyd, qui il sublime non c’è.

Tutta la vicenda assume invece i contorni del grottesco (soprattutto in personaggi come Cossiga), dell’assurdo, del kafkiano. Il presidente della DC è effettivamente processato e condannato dalle BR per una colpa incomprensibile. Davanti a questo teatro dell’insensato si rivolta lo stesso Moro nella sua bellissima confessione col sacerdote accorso per somministragli i sacramenti poco prima della fine.

Ma asfittica come il film è anche l’atmosfera della serie, non negli spazi ma nei tempi: lo spettatore è posto sempre davanti allo stesso angosciante spettacolo, ma ripreso da prospettive diverse. La tragedia di Via Fani è vista ora dagli occhi dello stesso Moro, ora del Ministro degli Interni, ora del Papa e via dicendo. Qualcuno disse che l’inferno dev’essere un posto in cui ogni cosa incessabilmente si ripete: la stessa sensazione di impotenza “infernale” ci pervade quando guardiamo Esterno Notte.

Le diverse prospettive convergono nel punto di fuga dell’ultimo episodio, La fine, in cui avviene il tragico epilogo che tutti conosciamo. Ma manca ancora un tassello, un’altra voce narrante. Davanti al corpo di Moro che suscita pietas viene chiamato in causa un altro punto di vista: quello di ognuno di noi.

 

Alessia Orsa

Angelica Rocca

 

Manovra finanziaria 2023 del governo Meloni: stanziati 35 miliardi

Dopo poco più di un mese dall’insediamento del nuovo governo guidato da Giorgia Meloni iniziano i primi bilanci sul futuro del nostro paese. Lo scorso 21 novembre il Consiglio dei ministri si è riunito a Palazzo Chigi per approvare, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, Giancarlo Giorgetti, il disegno di legge recante il bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2023 e il bilancio pluriennale per il triennio 20232025.

Il testo del decreto ancora non è presente per intero, però possiamo cogliere alcune delle tematiche  trattate tramite le parole pronunciate in conferenza stampa dalla premier Meloni, che ritiene questa manovra economica «importante e coraggiosa» affinché l’Italia possa «tornare a correre». Il documento deve essere ancora approvato da ambo le camere prima della fine dell’anno; da quel momento capiremo in che direzione i nostri rappresentanti vorranno condurre il paese.

Dalla teoria alla pratica: STOP al reddito di cittadinanza dal 2024

Fonte: Money.it

«Lo Stato si deve occupare delle persone aiutandole a trovare un lavoro, non mantenendole all’infinito nella loro condizione».

Queste le parole della Meloni su una delle più centrali tematiche nei programmi di riforma dei partiti di centro-destra, ovvero il Reddito di cittadinanza. Tale misura, voluta dal Movimento 5 Stelle durante il primo governo Conte, per una politica attiva nel lavoro per il contrasto della povertà e disuguaglianza, tra poco più di un anno sarà totalmente abolita.

Infatti, dal primo gennaio 2024 chi potrà lavorare, i cosiddetti “occupabili”, perderà completamente questo beneficio. Mentre per chi non potrà lavorare come disabili, anziani e donne in gravidanza, verrà rivisto. Ci sarà per loro un sussidio economico ma con diverse modalità.

«Noi abbiamo sempre detto che il Reddito di cittadinanza era una misura sbagliata, perché uno Stato giusto non mette sullo stesso piano dell’assistenza chi può lavorare e chi non può farlo».

Il Reddito sarà abolito per chi è in condizioni di lavorare alla fine del 2023. Quindi, la paura per molti è che venga tolto senza offrire un’alternativa. Ma sembrerebbe che ancora nell’imminente nuovo anno, chi non potrà lavorare, in quanto soggetto fragile, continuerà a riceverlo come in questi ultimi anni. Per tutti coloro definiti “abili al lavoro tra i 18 e i 59 anni”, che non hanno nel nucleo familiare disabili, minori o persone a carico con almeno 60 anni d’età, entreranno in vigore alcune modifiche. Infatti, il Reddito non potrà essere percepito per più di otto mesi e salterà al primo rifiuto di un’offerta di lavoro. Inoltre, per agevolare fino al 2024 l’ingresso nel mondo del lavoro, sono stati previsti corsi di formazione e altre iniziative.

Allarme caro energia: stanziati 21 miliardi 

La crisi energetica incombe sullo scenario nazionale e internazionale e la guerra in Ucraina è una delle cause. Ad esempio, nel nostro paese circa il 46% del gas utilizzato arriva dalla Russia, per poi produrre circa il 60% dell’energia. È chiaro che questa dipendenza ha portato a delle forti conseguenze, come il caro dei costi sulle bollette.

La premier Meloni in conferenza, Fonte: Leggo.it

«Come avevamo promesso la voce maggiore di spesa di questa manovra di bilancio riguarda il tema del caro bollette. Su una manovra complessiva di 35 miliardi, i provvedimenti destinanti al caro energia sono circa 21 miliardi di euro».

Sul versante delle imprese è stata confermata l’eliminazione degli oneri impropri delle bollette. Si prevede un rifinanziamento fino al 30 marzo 2023 del Credito d’imposta per l’acquisto di energia elettrica e gas naturale. «Noi confermiamo e aumentiamo i crediti d’imposta- dichiara la Meloni- che passano dal 40% al 45% per le aziende energivore e gasivore», mentre per bar, ristoranti ed esercizi commerciali  «passeranno dal 30% al 35%». Per il comparto sanità e per gli enti locali, compreso il trasporto pubblico locale, vengono stanziati circa 3,1 miliardi.
Sempre su questo tema a sostegno delle famiglie, lo Stato vuole intervenire con un “bonus sociale bollette”. La platea si allarga e la misura si concretizza sui nuclei più bisognosi, così viene innalzata la soglia ISEE da 12.000 euro a 15.000 euro.

La legge di bilancio e le decisioni d’impatto fiscale 

Questo disegno di legge per il 2023 riporta tre misure che riguardano prettamente le tasse:

  1. Espansione del tetto per il regime forfettario delle partite IVA 
  2. Taglio al cuneo fiscale
  3. Tregua fiscale, condono che prevede la cancellazione di cartelle esattoriali inviate prima del 2015.

Nella manovra si parla di Flat tax come l’equivalente di “tasse piatte”. La più dibattuta è quella che riguarda l’aumento della soglia di ricavi o compensi per i beneficiari del regime agevolato della partita IVA. Quel regime che attualmente permette di versare le tasse con una quota fissa o piatta del 15%. Ad oggi, la soglia sta a 65 mila euro annui, ma con la legge di Bilancio verrebbe alzata a 85 mila euro, per giungere a 100 mila euro nel 2025. Sarà così?

Per quanto riguarda la tregua fiscale, le cartelle esattoriali (atti con i quali la pubblica amministrazione intima ai contribuenti di pagare cifre non ancora pagate) saranno cancellate a due condizioni:

  • In primo luogo, queste devono risalire ad un periodo antecedente al 2015
  • In secondo luogo, devono essere di un importo di massimo mille euro 

Per la riduzione del cuneo fiscale, ovvero delle tasse che il singolo lavoratore paga allo Stato ogni mese in detrazione dal proprio stipendio, la manovra stanzia 4,2 miliardi per aumentare le buste paga dei dipendenti con redditi medio-bassi.

Aiuti mirati con Quota “103” per le pensioni, famiglie e natalità  

In materia di pensioni il decreto prevede l’avvio di un nuovo schema di anticipo pensionistico, che possa consentire di andare in pensione con 41 anni di contributi e 62 anni di età anagrafica e non gli attuali 67. Da “Quota 100” si lasserebbe a “Quota 103”, un punto caro al vicepremier e ministro delle infrastrutture, Matteo Salvini, il quale ha aggiunto che “chi rimarrà a lavoro beneficerà del 10% in più di stipendio”.

Il ministro dell’Economia Giorgetti insieme alla premier, Fonte: QuiFinanza

Il ministro dell’Economia Giorgetti ha dichiarato anche che «la più grande riforma delle pensioni è quella che premia la natalità». Infatti, per le famiglie sono previste maggiorazioni sull’assegno unico per i figli, l’aggiunta di un mese di congedo parentale facoltativo retribuito all’80% e utilizzabile fino al sesto anno di vita del bambino.

Queste certo sono solo alcune delle tematiche affrontate in conferenza stampa. «In tanti si aspettavano- dichiara il ministro Giorgetti- che facessimo un po’ di follie, mega-scostamenti di bilancio, così non è stato. Anzi abbiamo avuto coraggio anche su scelte impopolari». In un paese come l’Italia in cui l’economia è stagnante, i tassi di disoccupazione sono esorbitanti, queste scelte saranno quelle giuste? Verranno portate a termine?

Marta Ferrato

Cosa sta succedendo nello Yemen, un Paese dimenticato da tutti

Sullo sfondo del conflitto Russo-Ucraino, il concetto di guerra si è insinuato – dirompente come non accadeva da decenni – nell’immaginario comune. L’uomo realizza che la guerra è parte integrante della sua natura, deludendo ogni aspettativa sulla sua limitata localizzazione nel tempo e nello spazio.
Eppure, così come l’attuale guerra in Etiopia, in Tigray, quella yemenita è un tristissimo esempio del famoso adagio “Due pesi e due misure”: 7 lunghi anni di ostilità e scontri violenti nell’area mediorientale, territorio strategico per eccellenza incastonato tra l’Oman e l’Arabia Saudita, sono finiti nel dimenticatoio degli impotenti osservatori e volutamente ignorati dai potenti.

Lo Yemen protagonista di tre crisi nel mezzo di una guerra civile fuori controllo. Fonte: European Affairs Magazine

Dal 2015 in poi (anno ufficiale di inizio del conflitto) lo Yemen ha continuato ad essere un Paese privo di controllo, nonché teatro di un terribile scontro di interessi che vede contrapposti le milizie della minoranza sciita degli Houthi – governante il nord del paese – e l’esercito del legittimo governo in esilio.
Stiamo parlando di quella che l’ONU ha definito come la peggiore catastrofe umanitaria in corso, con oltre 380 mila vittime e 4 milioni di sfollati interni; dove oltre 20 milioni di persone (circa il 70% della popolazione) sopravvivono solamente grazie all’assistenza sanitaria di organizzazioni ed iniziative umanitarie, i cui fondi però non sono mai abbastanza. Ma la cosa più grave è che più della metà degli innocenti colpiti da tale flagello è rappresentata da bambini.

L’origine del conflitto

Lo Yemen è uno dei più antichi luoghi abitati del pianeta, una nazione dalla bellezza paesaggistica sfaccettata, con canyon, deserti, oasi, e lunghe coste incontaminate. Al posto dell’attuale origine semitica del nome odierno, gli antichi romani si riferivano alle regioni più meridionali della penisola arabica con il termine Arabia Felix (Arabia Felice), un’area ricca di spezie, incensi e snodo di scambi commerciali con Africa e India. Tuttavia, considerando quello che accade oggi in Yemen, il termine Felix è decisamente surreale e anacronistico.

Fonte: Documentazione.info

Il conflitto yemenita ha radici relativamente lontane, le quali diventano significativamente serie già a partire dai primi anni ’90, quando nella regione nord-occidentale del Paese, tra Sa’das e la capitale Sana’a, si andò formando un’organizzazione che in origine era più che altro una setta religiosa fondata dal clerico zaidita Hussein al-Houthi. In quanto zaidita sciita, Hussein era molto vicino ideologicamente e politicamente all’Iran e intesseva ottime relazioni con il leader supremo persiano, Ali Khamenei, così come anche l’altra realtà sciita in Medio Oriente, la libanese Hezbollah.

Il movimento di Hussein – inizialmente chiamato “la Gioventù Credente” – ha subito in seguito una radicalizzazione dovuta all’inasprirsi dei rapporti con il governo centrale, pertanto ora definendosi “Ansar Allah” (letteralmente i “partigiani di Dio”), altresì noti con il termine di Houthi. Nel 2014 il movimento ribelle degli Houthi prese il controllo della provincia settentrionale di Sa’ada e delle aree limitrofe, continuando ad attaccare e arrivando a prendere persino la capitale Sana’a, costringendo l’attuale presidente yemenita Hadi all’esilio.

Gruppo di Houthi ribelli. Fonte: The Defense Post

Si tratta quindi di una guerra indiretta tra i rivali regionali Arabia Saudita e Iran (che sostengono rispettivamente il governo riconosciuto e gli Houthi), ma anche la competizione nel fronte anti-houthi fra gruppi e milizie sostenute dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti (es. i secessionisti del Sud).

Chi è Hadi?

Abd Rabbih Mansour Hadi è un politico yemenita, entrato nell’esercito all’inizio degli anni ’70 e schieratosi inizialmente contro gli Houthi al fianco dello storico presidente Ali Abdallah Saleh, che per più di trent’anni era rimasto ai vertici di uno dei regimi più longevi della regione e alla guida di un Paese lacerato da guerre e carestia. Quest’ultimo ha scelto Hadi come vicepresidente dopo la guerra civile scoppiata nel 1994 a causa di un tentativo di golpe da parte di militari e politici di fede marxista, con l’obiettivo di realizzare la secessione del Sud e ricostituire un nuovo governo indipendente (come la Repubblica Democratica Popolare dello Yemen del Sud del 1967).

Il presidente Hadi. Fonte: Agenzia Nova

Quando il 27 febbraio 2011 Saleh si dimise, Hadi si insediò formalmente alla presidenza della Repubblica, tentando in extremis un accordo con gli Houthi, per una condivisione del potere, concedendo loro una riforma istituzionale che gli avrebbe fatto acquisire un maggior peso politico e modificando l’assetto del paese in sei regioni federali. Gli Houthi, però, si dichiararono insoddisfatti delle proposte e, irritati dell’annunciata decisione governativa di un taglio ai sussidi, nel mese di gennaio 2015, guidati dal generale Abdul-Hafez al-Saqqaf, attuarono un colpo di stato, invocando le dimissioni di Hadi; a questo si aggiungeva la generale crisi economica e sociale del paese – già allora il più povero del mondo arabo – afflitto da gravissimi problemi come disoccupazione e inflazione alle stelle.

Hadi è da anni in esilio in Arabia Saudita e all’età di 77 anni, non godendo di buona salute, ai primi di aprile 2022, ha lasciato i poteri al Consiglio presidenziale, nella speranza di avviare una fase di transizione, accolta con favore da sauditi ed emiratini, che hanno annunciato nuovi aiuti finanziari per la ricostruzione.

Il vero motivo del coinvolgimento di Arabia Saudita

Emirati Arabi Uniti (EAU) e Arabia Saudita hanno, senza ombra di dubbio, contribuito in maniera decisiva alla frammentazione del Sud e del Nord del Paese, cooperando con alcuni alleati nella regione invasa per mantenere la legittimità del governo del presidente Hadi, l’unico riconosciuto a livello internazionale. Ma al di là della questione ufficiale, le vere motivazioni per l’intervento saudita in Yemen erano molte: l’Arabia condivide un confine di migliaia di chilometri con una nazione sull’orlo della guerra civile; una nazione dove chi rischiava di finire al potere era un clan sciita, alleato dell’Iran. E uno Yemen in mano agli Houthi avrebbe significato per i sauditi la rovina: isolamento totale, blocco dello stretto di Bab el-Mandeb oltre a quello di Hormuz e (punti strategici di traffico navale) e addio ai miliardi di barili esportati nel mondo. Niente export, niente petrodollari; niente soldi, niente potere. Ed ecco che l’incubo in versione Yemen – ma più esteso –sarebbe potuto diventare realtà dell’Arabia Saudita.

Il presidente Hadi con il principe saudita bin Salman. Fonte: la Repubblica

L’invio di armi USA e italiane

È intuibile che una guerra che va avanti da anni non potrebbe fare altrimenti senza il coinvolgimento di grandi protagonisti della scacchiera mondiale quali USA e Italia, vergognosamente responsabili dell’invio costante di armi. Chiaramente le denunce alle principali aziende produttrici di armi non sono mancate, ma ciò non decolpevolizza il governo italiano, che secondo l’Osservatorio dei Diritti nel primo semestre 2020 avrebbe inviato armi a sauditi ed emiratini (tra pistole e fucili semiautomatici) per un valore di 5,3 milioni di euro. Senza contare poi le bombe. A gennaio 2021 l’export è stato fortunatamente bloccato dal governo italiano. E ancora, Amnesty International nel 2018, titolava, riprendendo un articolo del Washington Post:

“Gli Stati Uniti non dovrebbero prendere parte ai crimini di guerra in Yemen”.

Il riferimento non era soltanto alla vendita di armi, ma anche all’invio di mercenari attraverso la compagnia militare privata Academi, un tempo nota come Blackwater.

Una pace più che necessaria

Di fronte a tali fatti, diviene quasi superfluo sottolineare l’esasperazione di una popolazione yemenita segnata da anni di sofferenze e privazioni: niente elettricità o acqua potabile, e quindi epidemia di colera; niente carburante per le auto e prezzi del cibo irraggiungibili per il cittadino comune, alcuni dei quali sono arrivati al punto – stando a quanto riportato da Al Jazeera da vendere letteralmente un rene al prezzo di 5-10,000$. Organi che poi sono rivenduti a clienti benestanti degli altri paesi del golfo a prezzi esorbitanti (anche 100,000$):

“La gente che ha un po’ di soldi tira avanti, ma gli altri non hanno nulla, quelli come me non riescono ad avere nemmeno il pane”, ha detto uno dei milioni yemeniti in stato di miseria.

I bambini, in Yemen, non possono andare a scuola. Fonte: Piccole Note

Pacificare l’area è dunque di fondamentale importanza. Anzitutto ristorerebbe parzialmente la sicurezza dei traffici nel mar Rosso: si pensi solo al rischio del formarsi di nuovi Foreign Fighters di matrice integralista, che approfittino del conflitto per dare vita a nuove cellule terroristiche. Inoltre, una possibile ragione a favore della pace – se mai ci fosse bisogno di sottolinearlo – potrebbe discendere dal raffreddamento delle relazioni tra gli stati del Golfo (sauditi e emiratini) dovuta alle guerre ucraina e siriana: le due monarchie assolute, infatti, non hanno voluto assolutamente aderire alle sanzioni contro la Russia e di aumentare la propria produzione di greggio per compensare le mancate forniture di Mosca. Ma forse il beneficio più grande, che la fine di questa guerra avrebbe, è uno in particolare: la fine di una catastrofe senza pari, dopo sette anni di una guerra che però viene raramente menzionata dai media nostrani.
Paolo Pezzati, policy advisor per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia, commentando il conflitto in Yemen, ha parlato di “Una vergogna internazionale” aggiungendo che:

“Quello che continua a succedere in Yemen, nel silenzio dei grandi decisori internazionali, è una vergogna che intacca il senso di umanità”.

Gaia Cautela