Ghemon in tour a Messina. Intervista esclusiva per UniVersoMe

Ritorna a Messina Ghemon dopo il grande successo di critica e pubblico per l’album “ORCHIdee”. Il rapper di Avellino che ha cambiato il modo di intendere il rap e la musica black in Italia, con una ricchezza musicale e lessicale caratterizzata da una forte parte melodica stasera presenterà la sua ultima opera “Mezzanotte“, esibendosi insieme al gruppo “Le forze del bene“. Noi di UniVersoMe siamo riusciti ad intervistarlo in esclusiva.

Stasera sei a Messina al Retronouveau per  la seconda volta. Sei già venuto in città con il tour di Orchidee, io c’ero e della tua performance mi ha colpito più di tutto questa inusitata formula del rap sugli strumenti dal vivo invece che semplici strumentali. Oggi la riproponi con il gruppo “Le forze del bene”; cosa ti piace di questa struttura?

La verità è che ne sono sempre stato affascinato. Nel Rap che ascoltavo da ragazzo a un certo punto c’è stato uno smarcamento dalle strumentali e dal deejaying con un ritorno agli strumenti dal vivo. Oggi in più ci sarà anche tanto cantato, tutte cose che avrei desiderato fare prima ma i tempi non erano ancora maturi. Sono contento di averlo fatto perché trovo molto più stimolante in studio il momento creativo con la band.

Ho letto che stavolta rispetto a Orchidee ti sei cimentato anche nella composizione delle musiche. Ci racconti un po’ come è andata?

È stata una cosa bella e spontanea che avevo sempre pensato di fare senza averne il coraggio, forse per rispetto delle competenze dei musicisti. Però è stato molto bello cimentarsi in qualcosa di nuovo soprattutto a 35 anni.

L’album mi è parso una profonda riflessione dopo ciò che ti è capitato negli ultimi anni. Per dire un titolo esplicito: “Dopo la medicina”. Anche se è una frase fatta che “ammettere di avere un problema è il primo passo per risolverlo”, tu come hai fatto il primo passo?

C’è voluto molto più coraggio a vivere queste cose piuttosto che dirle, oggi parlarne è un gioco da ragazzi. Diciamo che la frase fatta in fondo è vera. Nel primo passo sono stato supportato dalla mia compagna di allora, però tutto è partito da me. La depressione clinica è un argomento pesante però già parlarne lo alleggerisce e io sono contentissimo di averlo fatto. Va detto comunque che io non mi sono mai vergognato di parlare di queste cose, lo facevo già in pezzi come “Fantasmi” anche se lì il tutto aveva un linguaggio più criptico.

In Italia questo è un po’ uno stigma, tu hai un grande coraggio nel parlarne nelle tue canzoni e nelle interviste. Scrivi di tutto questo solo per esprimerti o c’è anche una valenza educativa, diciamo propedeutica a far fare il primo passo a chi ti ascolta e vive lo stesso disagio?

Finché scrivevo l’album, era per me. Invece dal momento in cui l’ho pubblicato è diventato propedeutico. Ogni volta che qualcuno tratta un argomento un po’ più complicato diventa noioso e sicuramente è un carico di responsabilità maggiore che mi prendo, però preferisco assumermi ciò piuttosto che parlare dei soldi che faccio o delle cose che compro. Le persone mi ringraziano per aver parlato di argomenti di cui avrebbero voluto parlare loro e questo per me vale tantissimo.

Meraviglioso tutto quello che stai facendo adesso, ma la domanda sul futuro non posso non fartela. Disco nuovo, tour pieno di date, hai pubblicato un libro da poco. Però recentemente hai dichiarato che ti piacerebbe fare una sorta di talk show. Ora, ti conosco come innovatore, anticonformista, quindi ti chiedo, ma fai sul serio su questa cosa?

In realtà è un progetto che è già in divenire. Nasce dall’esigenza di trattare argomenti che non riesco a toccare nelle canzoni. Far uscire quella parte di me più ironica e chiassosa. Non mi interessa fare il comico però voglio utilizzare un contenitore creativo più ampio di quello che utilizzo oggi. Più che un talk-show mi piacerebbe fare dei monologhi perché non è molto diverso da quello che già faccio scrivendo canzoni o scrivendo libri. Voglio dire non è che a 36 anni mi rincitrullisco e mi viene voglia di andare a fare il tronista a Uomini e Donne (ride di gusto).

Ancora non avete preso il biglietto? Ci vediamo stasera al Retronouveau alle 22:30.

Alessio Gugliotta

“From The Rooftop tour” intervista a Coez per UniVersoMe

Dicembre è stato un mese ricco di musica, che ha reso Messina super presente nelle tappe dei tour di artisti della scena underground italiana e non solo. Il 19 dicembre il locale Retronouveau ha ospitato il cantautore e rapper italiano Coez (nome d’arte per Silvano Albanese, classe ’83): concerto sold-out per la prima performance dell’artista nella nostra città. “From the rooftop tour” ha fatto impazzire tutti i fan del cantante, la caratteristica è quella di riproporre pezzi vecchi, nuovi e cover accompagnati da una chitarra acustica ed una loop station, a cura del chitarrista Alessandro Gaspare Lorenzoni.
UniVersoMe ha avuto l’occasione di intervistare l’artista.

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Riguardo la creazione di From The Rooftop hai detto “con l’intento di far conoscere cose nuove o cose vecchie persone nuove” I pezzi che hai scelto per la scaletta sono misti: cover, festa ring, brani dei tuoi dischi precedenti e dell’ultimo disco “Niente che non va”. Qual è il filo conduttore di questi brani?
Il filo conduttore si concentra già sulla struttura di questo tipo di performance: la voce accompagnata dalla chitarra, richiede canzoni e musiche più emotive. Abbiamo provato a fare qualcosa di più “up”, non dico di allegro perché nella mia discografia non c’è niente di veramente allegro e non sono uno che ascolta musica allegra (cioè mi piace il pop, ma sempre con un velo di malinconia). Abbiamo scelto anche pezzi di artisti come Calcutta, I cani, canzoni prettamente d’amore.

Loro cosa hanno detto per la tua scelta di cantare delle loro canzoni?
Erano contentissimi. Calcutta, ad esempio, ne era entusiasta, il suo manager mi aveva subito fatto ascoltare “cosa mi manchi a fare” ed ho pensato subito “questo fa il panico, è pazzesco, lo devo fare”. Lui inoltre aveva anche poche visualizzazioni su YouTube ed io stavo iniziando a creare il progetto “from the rooftop”, lo dovevo cantare assolutamente. Lui ha cantato una mia canzone nei suoi concerti, “le parole più grandi”…è stato un bel momento di musica italiana. Sono un loro fan.img_7216

La tua entrata nella scena musicale è segnata dalla concentrato sul genere rap. Dopo alcuni anni, con la pubblicazione del tuo primo album ufficiale “Non erano fiori”, si evince un notevole cambiamento verso un sound più pop. Stessa cosa vale per “niente che non va”. Senti di aver trovato il tuo posto o credi che ancora tu debba identificare/trovare la tua musica? Questa domanda te la faranno spesso.
Sì molto spesso, ed è anche giusto. Comunque no, sto continuando a sperimentare, ed il pubblico lo percepisce. Io ho sempre avuto propensione verso il melodico, già nel primo disco del “Circolo vizioso” io ero quello che faceva i ritornelli e secondo me quelli che sono rimasti sconvolti se lo dovevano aspettare…poi certo, se ci si concentra sull’ultimo disco ho quasi eliminato il rap, a parte Jet, in cui si sente l’influenza hip hop. Come ho sperimentato fino ad adesso lo farò anche nel prossimo disco: in ogni caso la dimensione giusta in cui possono coesistere vari generi è proprio il concerto.

Qual è il tuo rapporto con
Con le donne? Ahahah beh si può capire che è drammatico, lavoro troppo. No dai non ne parliamo.

Scriviamo “no comment!”, no seriamente, qual è il tuo rapporto con questa categorizzazione musicale, come quasi mettere in dei box “tu facevi rap, ora non più”. Cosa ti manca del rap?
Eh un po’ ci “ammattisco”. Diciamo che è una cosa che mi porterò sempre dietro, penso che il rap non lo mollerò mai del tutto. Ciò che mi manca è un po’ il cinismo o l’ironia nella scrittura, che cerco di riportare nei miei nuovi testi ma con il rap è una roba più affilata e diretta. La canzone tira dritta verso un punto, nel rap puoi infilarci vari slogan e giocare con le parole, mettere una cosa cattivissima e nella barra successiva una super dolce. Mi mancano tanto quei live con i miei migliori amici sul palco, quella dimensione più divertente, meno impegnativa e più familiare. Non che adesso non mi diverta, ma indubbiamente seguire un tour in cui sul palco ci siamo Gaspare ed io in veste più “formale”, la sensazione è diversa, non come quando cantavo nei centri sociali o per strada.img_7206

A rolling stone hai detto “se avessi voluto fare soldi avrei fatto l’avvocato”. Perché lo fai?
Non intendevo dire quello, la frase l’ho detta come battuta, evidentemente al giornalista serviva una frase per screditarmi ed intenderla sotto un punto di vista che non coincideva con il mio. Quello che volevo dire era che se tu stai in fissa solo sui soldi non ti metti a fare canzoni: un lato fondamentale per scrivere e sopratutto voler scrivere è essere giocherelloni, un po’ cazzoni che non ti porta a concentrarti solo sul denaro, la spinta principale non è solo quella. Io scrivo canzoni, punto. Io potrei sperare di fare soldi con la motozappa. Scrivo canzoni perché è la mia passione ed averne un guadagno, camparci, è solo una situazione in più ed indubbiamente un motivo di orgoglio.fullsizerender-2

Giulia Greco,Alessio Gugliotta

“Others”: intervista al fotografo messinese Davide Bertuccio

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Dal 19 al 25 Novembre, presso il Monte di Pietà – sala sud – è in mostra il progetto fotografico “Others” del giovane artista messinese Davide Bertuccio (classe ’91).  Others è il terzo di altri due progetti – “Here” e “Loneliness “ – in cui Davide sottolinea lo strano rapporto che si è creato tra l’uomo ed il “non luogo” in cui abita, ma non vive; definisce l’incomunicabilità che si viene a creare nel mondo reale durante il nostro stato di persone alienate. Sia l’uomo che la città diventano virtuali, situazioni che si ripropongono in ogni agglomerato urbano in cui i cittadini vagano per le strade, quasi per convenzione, creando intorno a se una nube ed isolandosi perdendo l’essenza dell’esistenza.
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Un giorno un famoso fotoreporter disse: Per “significare” il mondo, bisogna sentirsi coinvolto in ciò che si inquadra nel mirino. Questo atteggiamento esige concentrazione, sensibilità, senso geometrico. Quanto ti senti di appartenere alle situazioni che decidi di fotografare?

Tanto ovviamente. Nel momento in cui tu metti l’occhio all’interno del mirino fotografico (e poi “mirino” perché ormai le foto si fanno anche con il cellulare) ed inquadri una fotografia, decidi cosa far rientrare dentro l’immagine e cosa della realtà escludere: questo è fondamentale, per questo, a mio avviso, è importantissimo entrare dentro la storia e quello che vuoi mettere all’interno dell’immagine. Io chiaro, ho la duplice “veste” di fotoreporter e di artista, così mi definiscono! (ma io non amo definirmi così *risata*) io sono un fotografo, come rispondo sempre. Però sono due lavori ben distinti: uno è una messa in scena, vuol dire studi (studio di composizione dell’immagine, scelta dei personaggi) e in questo caso non ho molto rapporto con il mirino perché in realtà è più un rapporto con la mia testa, la mia visione ed il luogo. Per quanto riguarda Davide come fotoreporter il rapporto con il mirino e la realtà è tantissimo perché è più istintivo. Ad esempio sto per partire per la Palestina ed il lavoro è ben preparato: so cosa cercare, che immagini devo ricavare, ma non so cosa aspettarmi! Ed è quello pure il bello ed il difficile del lavoro, sapere cosa cercare e riuscire a coglierlo in quello che è la realtà.img_9580

La fotografia si suddivide in tante categorie, una di queste è il fotoreportage e tu ti definisci un fotoreporter. Quanto questa distinzione è significativa per te?
Secondo me poco, non amo dare delle distinzioni. Partendo dalla base filosofica, il significato originario, fotografia significa “scrivere con la luce”. A noi (io ho fatto l’università di fotografia) ci hanno sempre insegnato: cosa differenzia voi da un fotoamatore? Non la tecnica, perché magari il fotoamatore la possiede e potrebbe essere anche migliore della vostra, bensì la cultura, la quale è la base per tutto. Essere un fotografo non vuol dire saper scattare una fotografia, avere la macchina più cool del mondo, ma sapere perché si scatta quella foto, sapere cosa ci sia stato prima del mio arrivo, ciò necessità di uno studio intenso ed appassionato. Io credo tantissimo nella pre-produzione, che è ricerca. In ogni caso sono fotografo, e secondo me è la definizione giusta da dare per chi fa questo come professione, perché ritengo che siano tutte persone colte.img_9558

Tramite le tue fotografie hai la possibilità di studiare il mondo ed immortalare un momento per l’eternità: con questo progetto hai voluto concentrare la tua attenzione sul rapporto dell’uomo con la città, con l’ambiente in cui abita, ma non vive. In questi anni in cui hai cercato di fermare il tempo, hai notato delle evoluzioni nella società? 
Bella questa domanda, cioè bella contorta! Beh, le differenze macroscopiche non sono state tanto negli altri quanto in me, sono cambiato io e la mia visione del mondo. È normale, studio da tre anni, quindi noto in maniera diversa le cose: prima vedevo il mondo come un ragazzo messinese, privo di una profonda conoscenza che ho poi acquisito con lo studio, ed il mio occhio è cambiato. Quindi studiare fotografia, arte e tutto ciò che concerne la fotografia, mi ha permesso di vedere il mondo in senso critico. Alla fine ho compreso che le persone che non hanno niente, al contrario avevano di più e trasmettevano di più…e viceversa. […]

Quanto ritieni che la foto sia un ferma-immagine piuttosto che il movimento di questa che suscita nel tempo e nello spazio diversi, in coloro che osservano i tuoi scatti? È un ferma-immagine reale o è un movimento che suscita in chi osserva questo ferma-immagine?
Mh…credo che l’uno dipenda dall’altra. La foto è un ferma-immagine, questo non vuol dire però che essa non possa trasmettere qualcosa che sia al di fuori della realtà. La fotografia può essere una rappresentazione della realtà oggettiva, oppure può essere la rappresentazione soggettiva della realtà: questo è il fotografo. Ad esempio una tazzina può essere fotografata da più punti di vista, ognuno la fotografa con quello che è la propria esperienza…già il movimento parte da questo ferma-immagine. Chi lo guarda riceve il messaggio che ha interpretato con la propria visione e secondo il suo trascorso. E questo lo fa qualunque tipo di arte.img_9566-2

Quando sei passato alla post-produzione (momento in cui le foto vengono “ritoccate” ndr) qual è stato il tuo principale obiettivo? Quale verità volevi mettere in luce?
Sostanzialmente la post-produzione, per quanto abbia il suo peso specifico e spesso enorme nell’immagine, cerco di evitarla (da “buon” fotoreporter) e cerco di trovare delle situazioni nelle quali non ci sia la necessità di rielaborare le foto. Inoltre io sono un maniaco, credo tanto nella pre-produzione: controllare il luogo, la luce, rendermi conto del lavoro che ho intenzione di realizzare.

Qualcosa che vuoi dire ai lettori di UniVersoMe?
Beh innanzitutto grazie! Il messaggio più importante, per me, che posso mandare a tutti voi è: cercate di essere curiosi, come diceva Steve Jobs. La curiosità comporta, sopratutto qui a Messina in cui non c’è una vasta gamma di possibilità di scelta, la libertà, il coraggio e credere in se stessi per raggiungere i propri obiettivi e realizzarli e sopratutto mettersi in gioco. Le soddisfazioni arrivano sempre. La curiosità è proprio dietro l’angolo. Noi siciliani abbiamo tutta questa bellezza, la nostra isola ci cresce e questa bellezza l’abbiamo dentro di noi, e la riusciamo a scovare anche nella “bruttezza”. Siate voi stessi.

 

Giulia Greco

Ninni Bruschetta e la sua carriera da “attore non protagonista”

Ninni Bruschetta, regista teatrale, attore, sceneggiatore e direttore artistico del Teatro Vittorio Emanuele, torna presso l’Aula Magna del Dipartimento di Scienze Cognitive, Psicologiche, Pedagogiche e degli Studi Culturali, dove viene accolto con un calore che lui stesso aveva trovato e riscontrato nel lontano 2010, quando ebbe modo di presentare il suo libro intitolato “Il mestiere dell’attore”, con prefazione di Franco Battiato.

Questo suo nuovo lavoro, edito da Fazi Editore e intitolato “Manuale di sopravvivenza dell’attore non protagonista”, è un libro che racconta di un Bruschetta che inizia a fare un bilancio del suo mestiere fin qui svolto, mettendo a nudo con professionalità le proprie esperienze teatrali, televisive e cinematografiche, svolte nl corso di una quindicina di anni.

Raccontare, afferma l’attore messinese, è la cosa più bella che esiste.

Rispetto al suo primo libro, dove Bruschetta offre le sue riflessioni ben documentate su quello che è il ruolo dell’interprete rispetto al testo e rispetto al contesto in cui esercita il mestiere, in questo secondo suo lavoro, lo sceneggiatore è critico nei confronti dei meccanismi del mondo dello spettacolo. Bruschetta parla dello spettatore e di come questa figura, nel tempo, sia andata sempre più a peggiorare in quanto, in spazi brevi non solo è costretto a leggere la storia del protagonista che in quel momento l’attore recita, ma perde, al tempo stesso, il significato di che cosa è il cinema.

Al tempo stesso però, lo stesso spettatore, diventa colui che ti coccola, ti rende euforico. E’ all’interno dell’inquadratura che si trova il senso del cinema anche se, l’attore cinematografico, rispetto al collega teatrale, non avrà mai il senso di quello su cui sta lavorando. Il direttore artistico del Teatro Vittorio Emanuele spiega, ai ragazzi presenti del progetto cinema, coordinati dal professore Parisi, che “l’ attore deve essere sempre responsabile del linguaggio che usa e per confrontarsi con altre realtà, deve stare in continuo movimento”.

Nel corso dell’incontro, altro tema toccato è stato quello del settore cinema , fortemente in crisi e la comunicazione che si fa sui social, per promuovere i prodotti, non rappresenta nulla a livello nazionale in quanto chiusa e per questo motivo, non ha peso di alcun genere. Bruschetta, in base alla sua forma di pensiero, spiega che i giovani navigano su un piano completamente diverso da quello su cui viaggia lui e coloro che sono a lui coetanei. Non si sente di dar loro nessun consiglio ma, nello stesso tempo, afferma che un bravo attore, nel momento in cui va in scena, deve esser pronto a sospendere i propri giudizi personali su fatti e personaggi che sta andando a rappresentare. Da venti anni a questa parte, afferma a conclusione del suo intervento l’attore messinese, si è fatto all’interno del nostro paese uno scempio di cultura e solo un uomo di cultura, di cui lui non fa il nome, poteva distruggere la cultura stessa.

L’incontro con l’autore del libro “Manuale di sopravvivenza dell’attore non protagonista” e moderato dal professore Dario Tomasello, è poi proseguito con la proiezione di alcune clip che vedevano impegnato Bruschetta all’interno di vari contesti: da “La Trattiva” di Guzzanti a “Paolo Borsellino” passando per i “Cento Passi”.

Da ricordare che grande è stato il successo avuto da Bruschetta durante la tournée teatrale “Amleto di William Shakespeare” dove, all’interno del contesto, l’uomo Amleto acquisisce la consapevolezza di una caduta spirituale e sceglie di abbandonare il paradiso terrestre per essere un comune mortale con le sue imperfezioni.

Piero Genovese