Edoardo Albinati per Taobuk. Intervista esclusiva al Premio Strega 2016

Si è svolto ieri al Rettorato il terzo appuntamento della rassegna “Leggere il presente” – organizzata dall’Ateneo, dall’Accademia Peloritana dei Pericolanti e da Taobuk – in cui è stato protagonista Edoardo Albinati. Lo scrittore ha presentato il romanzo “La Scuola Cattolica”, un’opera che traccia un ritratto dei “ragazzi bene” della Roma degli anni ’70, alla ricerca di precisi modelli di virilità, in un universo ovattato, creato appositamente per proteggerli e tutelarli. Un cosmo dal quale però uscirono anche gli assassini del massacro del Circeo (1975), alcuni dei quali erano stati compagni di scuola di Albinati. UniVersoMe è riuscita a sottoporre qualche domanda al vincitore del Premio Strega 2016.

Nell’affrontare il tema dei delitti di femminicidio, lei dice che la società mette troppa pressione addosso alle persone fino ad un “eccesso di reazione”, macchiandosi così di un crimine nefando. Lei da dove inizierebbe per cercare di far diminuire questa pressione?

“La pressione è molto forte sugli individui, però è anche vero che questi non la reggono. Perciò la pressione dovrebbe essere di meno, ma è imprescindibile una sorta di educazione al fallimento, alla precarietà. Qualcuno che dica a tutti che: la vita è precaria ed è fatta in grande parte di delusioni, mancanze e di insoddisfazioni, ergo non c’è nulla di terribile in questo poiché è costitutivo della vita stessa. Probabilmente in questo modo verrebbero accettate in maniera meno drammatica le frustrazioni e non ci sarebbe questa reazione violenta ogni qual volta si viene privati di qualcosa. Sembrano bambini che privati del proprio giocattolo tirano fuori il coltello e uccidono i genitori; chiaramente questo non è accettabile. “

Nel suo libro lei parla di una generazione diventata adulta negli anni settanta nel mezzo di una crisi valoriale e dell’esplosione della violenza non solo politica. Cosa pensa di questa generazione, nata secondo alcuni: senza bellezza, senza valori, impregnata di omologazione?

“In realtà queste stesse cose si dicevano della mia generazione. Già io, avrei dovuto essere un figlio della televisione omologato a questa, quindi se questo è un processo, è iniziato già da molto tempo. Ai ragazzi di oggi non abbiamo nulla da rimproverare perché i primi a guardare la TV e a seguire dei modelli consumistici siamo stati noi, i cosiddetti baby boomers, quelli nati negli anni ’50 e ’60. Sì è vero, vige il brutto nella società di oggi. È vero anche gran parte del nuovo è brutto, ma questo non è iniziato adesso. Voglio dire il moderno non è certo iniziato oggi.”

Lei descrive la mascolinità da un punto di vista innovativo, quasi rivoluzionario per i tempi dicendo che se c’è un sesso debole, è quello maschile. Che pensa della frase del critico Philipe Daverio su un ipotetico stravolgimento delle camere di governo, relegando gli uomini esclusivamente a parlamentari data al loro tendenza all’elucubrazione, al contrario le donne al Governo perché più capaci di portare le cose a termine?

“Trovo sia una boutade quella del prof. Daverio: il  Parlamento fatto di uomini e il Governo fatto di donne, si può dire tutto il contrario di tutto. Proprio oggi però leggevo una impressionante statistica sul fatto che i paesi che hanno un maggior numero di donne nel Parlamento sono quei paesi in cui la libertà femminile è minore. Esempio: in Etiopia il 40% dei parlamentari è di sesso femminile ma l’Etiopia non è nemmeno tra i primi cento paesi al mondo per emancipazione. Quindi l’idea che l’emancipazione femminile si misuri con le persone che stanno in Parlamento pare sia fallace. Tuttavia è vero che le donne nella società italiana occupano molto raramente posizioni di potere. Questo non solo per quel che riguarda la politica ma anche nell’industria e nel lavoro in generale, quindi la donna è in una posizione minorità in Italia esattamente come i giovani. Trovo impressionante quanto la nostra realtà politica, economica e sociale sia di fatto una gerontocrazia di maschi.”

Alessio Gugliotta

Eventi del fine settimana

Venerdì 5

  • DA ANTONELLO A CARAVAGGIO: LA LUCE DI MESSINA NELL’ARTE

DOVE: Salone delle bandiere – Piazza del Municipio

QUANDO: dalle ore 17:00 alle ore 20:00

COSA: Per la Giornata Mondiale dei Diritti Umani, si terrà il convegno su Antonello e Caravaggio, fautori della storia artistica italiana.

Interverranno il Dott. Franco Leone, esperto d’arte, scrittore e poeta; il Prof. Domenico Venuti, presidente dell’Associazione Nazionale del Fante di Messina e del Centro Europeo di Studi Universitari ( CO.B  – G.E.); il Dott. Giuseppe Previti, presidente della fondazione “Antonello da Messina“; Renato Di Pane, scrittore e poeta e la dicitrice Clara Russo.

 

  • SPAZI DI SOVRANITA’ NELL’EPOCA DELLA GLOBALIZZAZIONE

DOVE: Aula ex Chimica del Dipartimento di Giurisprudenza

QUANDO: dalle ore 17:00 alle ore 19:30

COSA: L’associazione Morgana invita a partecipare alla conferenza sopracitata.

Introducono: Giuseppe Domenico Di Giorgio, presidente dell’associazione Morgana; Diana Gerace, presidente dell’associazione Oltre la Linea.

Modera: Alberto De Luca, dottore di ricerca in storia dell’Europa Mediterranea.

Sarà previsto il riconoscimento di CFU per gli universitari.

 

SABATO 6

  • BUONA LA PRIMA : LAMAGARA

DOVE: Teatro dei 3 Mestieri – S.S. 1q4 Km 5,600 Via Roccamotore

QUANDO: dalle ore 20:45 – replica domenica 7 alle ore 18:30

COSA: Calabria, 1769, Cecilia viene processata per stregoneria. Ma chi è questa donna? Fata o strega? Lucifera, portatrice del sole o della luna?

Vedrete questo e molto altro a LAMAGARA, scritto da Emilio Suraci ed Emanuela Bianchi.

 

  • WORA WORA  WASHINGTON LIVE 

DOVE: RETRONUVEAU – Via Croce Rossa, 33

QUANDO: dalle ore 22:30 e show dalle 23:45

COSA: Serata perfetta per gli amanti della techno/ electro e per farsi catturare dal ritmo pulsante ed ossessivo dei Wora Wora Washington.

Ingresso 5€

  • WHORKSHOP DI SCRITTUTA A CURA DI DANIELA ORLANDO

DOVE: ARB – via Romagnosi, 18

QUANDO: dalle ore 10:00 alle ore 13:00 e dalle ore 14:00 alle ore 18:00; domenica 7 dalle ore 10:00 alle ore 13:00

COSA: È un liogo liberon in cui si gioca con le parole, si apre la mente e si sperimenta. Non importa avere esperienza, l’importante fornirsi di amore per la scrittura.

Il workshop prevede una quota pro-capite di 40€, ma per studenti e/o disoccupati di 20€.

È indispensabile la prenotazione per messaggio al numero 3357841234

 

DOMENICA 7

  • SECONDA EDIZIONE MESSINA CHE VALE

DOVE: Palazzo Mariani

QUANDO: dalle ore 10:30

COSA: abiili artigiani esporranno le loro creazioni e i ricercatori del CNR e dell’Università mostreranno i loro recenti lavori.

All’ex Palazzo delle Poste saranno anche presenti gli studenti delle scuole superiori con i loro progetti e artisti con le loro opere.

Nel mentre, si potranno gustare i prodotti tipici messsinesi.

 

  • CAMMINO DELLO JEDI

DOVE: Multisala Iris – Via Consolare Pompea, 240

QUANDO: dalle ore 13:00 alle ore 18:30

COSA: seminario di spada laser e tecniche di combattimento ispirato a Star Wars.

Il costo è di 10€ e si consiglia di indossare guanti per la protezione delle mani, maglietta nera ( o a tema Star Wars ) e pantaloni scuri.

 

  • LA SICILIA SUONA A SEI CORDE- SECONDO RADUNO DI CHITARRISTI IN SICILIA

DOVE: Spazio LOC – via del Fanciullo, Capo d’Orlando (ME)

QUANDO: dalle ore 16:30 alle ore 21:00

COSA: è un evento ideato e organizzato da Corrado Salerno con la collaborazione di Marco Corrao, patrocinato dallo Spazio Loc del comune di Capo d’Orlando.

L’ingresso è libero; per info chiamare 3402112990 o scrivere a corraoma@gmail.com

Jessica Cardullo

Arianna De Arcangelis

“Il primo uomo cattivo” di Miranda July

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“Questo libro vi farà ridere, sussultare e immedesimarvi in una donna che non avreste mai previsto di essere. E quando Miranda July parla della maternità, il libro diventerà la vostra bibbia.” Lena Dunham

Ci sono persone che scelgono i libri basandosi sulla copertina , non rientro fra questi ma nella scelta de “Il primo uomo cattivo” mi è capitato di sceglierlo proprio per il disegno e i colori esterni e per l’autrice : Miranda July della quale avevo visto solo un film e letto qualche intervista.

 

Cheryl Glickman è la protagonista-narratrice del racconto, lavora alla Open Palm una società no profit che si occupa di autodifesa per le donne.

Conduce una vita piuttosto semplice, forse monotona, minimale soprattutto nell’economia domestica dove vige il principio di efficienza.

E’ affetta da globus hystericus, un nodo alla gola, ed infatuata di un collega, una figura ricorrente nella narrazione. C’è la maternità, ma non descritta come nella maggior parte dei film o libri, Cheryl ha una relazione quasi karmica basata sul “primo sguardo” con Kubelko Bondy lo spirito di un bambino che lei immagina di vedere nei figli altrui.

La vita di Cheryl prende una direzione inaspettata quando deve ospitare Clee, figlia ventenne dei suoi capi all’Open Palm. Una ragazza che è totalmente opposta a lei, dalla fisicità, Cheryl molto magra, quasi androgina, Clee viene definita “molto donna”, allo stile.

Clee è un personaggio un po’ sgradevole, sporca, una passiva-aggressiva, in alcune situazioni attiva-aggressiva.

Ed è in questo momento che il libro prende una piega che non mi sarei mai aspettata e la July si dimostra perfetta narratrice: tracciando il crescere della libido di Cheryl con una nota ironica e , di contrappasso, delicatamente il suo istinto materno. Ci rende partecipi ai sussulti della protagonista.

 

I meno puritani di me non si scioccheranno delle crude scene di violenza , le descrizioni delle condizioni igieniche di Clee mi hanno nauseata ma sono funzionali al personaggio , non le si perdonano ma si accettano.

Cheryl vede solo il suo mondo non c’è contorno, essenziale.

Sono personaggi sgradevoli in parte, così maniacali, strani, imprevedibili da essere in realtà comuni e umani , che alla conclusione del libro li accettiamo.

Miranda July è una artista stimolante e provocatoria, a vent’anni trasferitasi a Portland entra nel movimento delle Riot grrrl (il movimento punk-rock femminista) e inizia a frequentare, colei che è la sua più stretta amica, Carrie Brownstein (altra artista eccezionale) chitarrista e voce delle Sleater Kinney , band simbolo del movimento e ancora oggi una delle migliori rock band femminili.

Definirla è difficile, è una regista, scrittrice, musicista, attrice, creatrice di app , è un soggetto molto stravagante, irriverente a tal punto da pensare che sia folle : è geniale.

“Il primo uomo cattivo” è il suo primo romanzo, caldo, ironico, disgustoso è pura vita comune.

Arianna De Arcangelis 

 

 

Mistaman apre il suo tour a Messina-Intervista esclusiva per UniVersoMe

 

mistamanrealtaaumentatatourQuando si dice buona la prima. Giovedì 2 dicembre il rapper Mistaman, artista di punta dell’etichetta discografica Unlimited Struggle, ha aperto a Messina al Retronouveau il tour di promozione del nuovo album “Realtà aumentata”. Rilasciato il 4 novembre scorso, il disco rappresenta la sesta fatica dell’artista trevigiano classe ’76, che dopo più di vent’anni di carriera riesce ancora a sorprendere i suoi ascoltatori con qualcosa di attuale ma senza perderà le sue peculiarità artistiche. Scrivono su di lui: “I giochi di parole e le doppie chiavi di lettura dei suoi testi sono quanto di più tecnico il rap italiano possa offrire”. Noi di UniVersoMe siamo riusciti ad intervistarlo in esclusiva, e poichè i giochi di parole rivestono un ruolo quantomai centrale nella sua produzione, abbiamo deciso anche noi di metterli al centro della nostra intervista.

Partiamo dal titolo dell’album: “Realtà aumentata”; una visione sovrapposta alla realtà per aumentarne la comprensione. Chi  ascolta il tuo ultimo lavoro, di cosa si deve rendere conto?

Nell’album ci sono  due dimensioni: una introspettiva che tocca tasti molto personali come la musica e il mio interrogarmi nel farla; l’altra di più ampio respiro sul sociale. Il filo conduttore di tutto, ciò di cui vorrei la gente si rendesse conto, è di non dare per scontate le cose ma di andare in profondità. Questo è il concetto, è un disco contro la superficialità!

“E se la terra trema non ci resta che, fare festa come, se non c’è domani” (Non c’è domani, 2016). Quindi la soluzione a tutto è fregarsene?

È una canzone che propone una soluzione sarcastica. Il pezzo inizia come una presa di coscienza della crisi e delle cose che non vanno finché non si capisce che la soluzione a tutto è fare festa, ma è una soluzione sarcastica perché è quello che normalmente fanno le persone, quindi non va inteso letteralmente. Ci tenevo a sottolinearlo. -La soluzione a tutto è ascoltare il tuo disco?-  Macchè magari! La soluzione purtroppo, a differenza di quello che ci fanno credere le varie forze politiche, non è semplice. Credo sia necessario immergersi nella complessità delle cose e venir fuori con piccole soluzioni a piccoli problemi. Trovo che le soluzioni grandi siano quasi sempre populiste.

“So che devo smetterla di prenderla alla lettera o finisce, che il mio dj si esibisce con un frullatore, perché il traduttore non capisce che avevamo chiesto un mixer” (Lost in translation, 2016). Sei uno dei rapper più tecnici della scena italiana, ma sei sicuro che la gente ti capisca? Ti senti un’artista incompreso?

Io ho sempre cercato di non sottovalutare l’ascoltatore. Se fossi uno che si misura  con un pubblico generalista o se preferisci mainstream, mi dovrei porre fortemente il problema di essere comprensibile e addirittura cercare di dire qualcosa che quando la gente mi ascolta dice: “Merda questo la pensa come me!”. Dovrei essere comprensibile e allo stesso tempo dire delle cose condivisibili. Ad esempio nel brano “Se non ti piaccio”, io dico che dopo tutto quello che ho fatto penso di potermi permettere di avere l’arroganza di dire: “se non ti piaccio non c’è problema,ciao”. Se ascolti la mia musica  mi aspetto che tu in primis abbia voglia di approfondire. Quindi in conclusione, non voglio né sottovalutare l’ascoltatore né abbassare il livello di ciò che faccio per arrivare a più persone. In passato c’è stato un tentativo da parte mia di rendermi più comprensibile però alla fine, la mia complessità interiore si è sempre tradotta in una complessità dei testi.

img_9932“Scrivo col cuore neanche tocco penna e carta elettrodi sul petto il testo è  sull’elettrocardiogramma” (Posse Cut, 2014). Dando per certo che tu non scriva i tuoi pezzi in cardiologia, come si struttura il tuo processo creativo?

C’è un nucleo di cuore, sotto uno strato esterno di cervello. Faccio pezzi sia di tecnica pura, in cui magari dico cose che sono tutt’altro che impegnate, sia pezzi “conscious”, cosa che attinge sicuramente un po’ da quello che è lo stile di noi della Unlimited Struggle che facciamo canzoni serie e profonde. L’hip-hop ha una componente gioviale e poi una parte riflessiva, ma in realtà queste parti si compenetrano di continuo. In quest’album il brano “Irreversibile” è un pezzo contro la mentalità del consumismo fine a se stesso, che però è fatto con una tecnica estremamente fine. Purtroppo fare tante cose diverse è un autogol artisticamente parlando. L’ascoltatore si aspetta sempre la stessa cosa, e quando tu gli dai tante cose diverse è più facile deluderlo. È un caro prezzo da pagare, ma lo pago volentieri.

img_9931 “Volevi tutto subito così hai stretto i denti hai subìto, sembra che tutti provino a passare un provìno ,e che mai si destino dal proprio destìno” (A100, 2014). Cosa pensi dei rapper usciti dai talent-show?

Me la fanno spesso questa domanda sui talent. In verità qualche sera mi è capitato di stare a casa con amici e guardare questi programmi. Devo dire che sono uno spettacolo divertente da vedere e da commentare. Però a me quello che non piace è l’idea che un’artista vada a farsi giudicare e che si sottometta a quello che di fatto è un potere come quello televisivo e quello delle case discografiche. Preferirei una realtà che venisse dal basso, che sfidi il potere. Il fatto che uno per avere questi riflettori addosso debba chinare la testa e sottostare a questo circo, io lo trovo opposto al senso dell’arte. Nel ’94 quando ho iniziato eravamo opposti al mainstream, certamente da parte nostra c’era un’attitudine un po’ immatura, un po’ punk, ma l’hip-hop stesso nasce come una controcultura. Io vorrei fossimo tutti contro la commercializzazione dell’arte, non biasimo loro perché dovrebbe esserci un sistema che aiuta i giovani in Italia a fare musica. Invece, vuoi per la tassazione, vuoi per una mancanza di opportunità non viene realmente permesso ad un talento di esprimersi. Il business musicale italiano non è facile per i giovani, capisco perché vanno in questo tipo di programmi.

img_9972“È il giorno del comizio e han sempre la soluzione, se io fossi in Parlamento forse non sarei migliore, ma mangerei di meno è una questione di costituzione” (Si salvi chi può, 2014). Anche il 4 dicembre è una questione di Costituzione. Tu voti Sì o No?

Io voterò No. Ritengo che dentro questo referendum abbiano infilato un po’ di tutto. Ho paura che sia l’ennesimo specchietto per le allodole, ed è un peccato perché l’idea di velocizzare il percorso delle leggi in Parlamento è lodevole. Ma sappiamo bene che ci hanno infilato tante cose meno valide, tra cui il fatto di scegliere i senatori dalle regioni e dalle città metropolitane. La democrazia è stata già hackerata in più modi e questo a me sembra nient’altro che l’ennesimo tentativo.

Foto di: Giulia Greco

Alessio Gugliotta

Intervista con la scrittrice Noemi Villari

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Per chi ama l’avventura e la fantasia, leggere Believeland, è un tuffo in un mondo in cui le parole d’ordine sono proprio queste; ma c’è di più: credere, un’imprescindibile parola che accompagna il lettore per tutto il romanzo.

La giovane scrittrice Noemi Villari, con il suo primo libro, apre una finestra su un nuovo mondo: Believeland; creature e poteri magici si intrecciano alla vita di alcuni adolescenti, protagonisti del romanzo che coinvolgono il lettore con le loro emozioni.

La gentilissima Noemi, subito dopo la presentazione del suo libro, ha risposto ad alcune domande e ha regalato dei preziosi consigli agli appassionati di scrittura.

 

 

 

 

Parliamo degli albori di Believeland: inizi a scriverlo quando eri nella primissima fase dell’adolescenza, avevi dodici anni. L’idea che hai avuto allora è rimasta la stessa?

  • L’idea è stata elaborata diverse volte e aveva tutt’altra impostazione; del modello iniziale è rimasto il concetto del mondo fantastico di Believeland, che prima non si chiamava così: un aneddoto simpatico riguarda, per l’appunto, il nome. All’inizio l’ho chiamato Magics (che in realtà è quello delle Winx), poi Magic Village (che sa molto di villaggio turistico) ed infine quello attuale.

Le protagoniste, in un certo senso, è come se fossero cresciute con me e ho lasciato loro un’età adolescenziale perché mi piace trattare questo periodo della vita, che per me è fondamentale nella nostra esistenza: se si capisce ciò che prova un adolescente, si capisce come diventerà da grande.

A quale personaggio sei più legata?

  • Istintivamente rispondo che sono più legata ad Alessia (la ragazza del mondo reale), perché proviene dal mio stesso contesto scolastico, ovvero da un istituto d’arte, a cui tengo molto, quindi ho voluto che lei, almeno in questo aspetto, fosse identica a me. Poi, come personaggio, è stato elaborato in modo totalmente opposto al mio: lei indossa una maschera di sicurezza che nasconde la sua insicurezza e, invece, per me è al contrario.

 

Un aggettivo con cui descriveresti il tuo libro.

  • Più che un aggettivo, a me viene in mente la parola “credere”, sostanzialmente il motore che fa camminare il romanzo.

 

Hai un luogo in cui preferisci scrivere?

  • Solitamente, preferisco scrivere a letto con il pc sulle gambe e di sera; invece, la mattina preferisco prendere appunti sui quadernoni (perché mi piace scrivere a mano), ma sulla scrivania.

 

Progetti futuri: scriverai ancora?

  • Sicuramente continuerò a scrivere: ho un’idea per continuare Believeland, ma vorrei anche guardare nuovi orizzonti, per affrontare tematiche diverse.

Di certo, non voglio abbandonare questo racconto, a cui sono legata affettivamente.

 

 

Hai dei consigli per i giovani scrittori?

  • Sicuramente direi loro di seguire il primo istinto ed iniziare a scrivere partendo da ciò che sentono, per poi affidarsi alla tecnica.

Consiglierei anche di usare internet, dove ci sono molti siti che guidano alla scrittura e dove, personalmente, ho imparato tanto. Poi, apprendere dai libri che si leggono ma, soprattutto, impegnarsi per realizzare il proprio sogno.

 

 

 

Jessica Cardullo

 

Umberto Spaticchia e il suo ‘’Null01- La storia di Downey’’: quando le menti messinesi si mettono in gioco

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A tutti i lettori chiediamo: cosa è che vi attrae di un libro? La copertina, il titolo, il nome di quell’autore famoso, il posto in classifica.

Tra le caratteristiche, secondo noi, dovrebbe essercene anche un’altra: è stato scritto da un mio concittadino. A maggior ragione se, lui o lei, è uno studente come noi. In questo caso stiamo parlando di un lui: Umberto Spaticchia, giovane di 21 anni, nerd alla mano e spiritoso.

Il suo libro, Null01- La storia di Downey, distribuito dalla Libreria Bonanzinga (anch’essa nostrana), è stato presentato presso i locali dell’istituto tecnico industriale Verona Trento e in alcune province di Messina.

Noi abbiamo avuto il piacere di averlo come ospite di Radio UniversoMe e questa è la sua intervista.

Umberto, tu hai scritto questo libro, ‘’Null01- La storia di Downey’’, che si può trovare sia in forma digitale che cartacea. Di cosa parla?

Sì, è pubblicato anche in cartaceo ed è disponibile presso la Libreria Bonanzinga. Il libro viene esposto come un secondo viaggio dantesco (niente di meno!). È un romanzo a sfondo psicologico- narrativo e parla di come una persona può reagire a seguito di uno shock, sia esso positivo o negativo. Ognuno di noi, infatti, può reagire in maniera diversa: chi inizia a soffrire di depressione, chi sviluppa doppie personalità. In questo caso, attraverso il romanzo, viene raccontata la storia di questo uomo che fa il programmatore informatico e nel tempo libero studia biologia. A un certo punto si trova in uno stadio di fermo appunto perché, essendo un informatico e non un biologo, non riesce ad andare avanti, si trova davanti a un muro: lui, infatti, studia su studi già fatti. E questo lo porta ad uno stato di depressione e stress. La sua mente, quindi, non può far altro che trovare altri piani che prendono vita sotto forma di un’ape azzurra. Questa si riferisce all’ unica guida mentale dello stato in cui si ritrova.

Quindi, sostanzialmente, un viaggio nella sua stessa mente.

In un certo senso. Il punto sta, però, nel fatto che è tutto fine a sé stesso, non coinvolge il mondo, tutto avviene nella sua testa. Intorno a questo sta il secondo viaggio dantesco: è come un Dante dei nostri giorni.

Diciamo però le cose come stanno, Umberto: un romanzo non è un vero romanzo se i personaggi non fanno all’amore almeno una volta.

Eh, diciamo che, nel mio caso, i personaggi lo fanno con il cervello!

Sappiamo che lo hai presentato in alcune province di Messina, a giorni, inoltre, lo presenterai proprio qua a Messina, presso l’istituto Verona Trento.

Sì, lo ho presentato sia a Spadafora, che nel comune di Naso dove ho trovato persone, che mi hanno ospitato, davvero squisite. La presentazione a Messina durerà circa un’ora e spero di vedere il coinvolgimento delle persone de dei ragazzi! Devo dire che, comunque, sono contento, perché ha avuto molti feedback positivi. Oltre i soliti curiosi, anche alcuni professori mi hanno i complimenti, dicendo che ho preso spunto da Kafka (che io, però, non ho mai letto!).

Toglici una curiosità, come è nato il tuo libro? Cosa ti ha ispirato?

Allora, il libro è nato da un disegno che ho fatto io stesso: sarebbe l’ape che c’è sulla copertina del libro. Quindi la storia è stata ispirata da me stesso. Poi ci sono stato un anno a scriverlo, tra alti e bassi, per cui ci sono dei momenti di allegria e dei momenti un po’ più introspettivi, legati al fatto che, ovviamente, durante questo anno, io stesso ho affrontato periodi della mia vita diversi.

Ma quindi è un po’ autobiografico?

No, vi giuro di no!

Da cosa è nata questa idea di scrivere un libro? Ad alcuni rimane per sempre questo ‘’sogno nel cassetto’’, tu, invece, ci sei riuscito!

Io sono dell’idea che tutti possono scrivere un libro e che, allo stesso tempo, non tutti possono. Perché, inutile nasconderlo, ci sono dei momenti in cui vorresti mollare tutto, perché non ci riesci, non sai più cosa devi dire: il classico blocco dello scrittore. Bisogna avere costanza, questo sicuramente, e non mollare nemmeno durante quei momenti. Bisogna essere, in ogni caso, fieri delle proprie opere.

Umberto per noi sei un grande esempio anche perché, se non sbaglio, ancora non sei laureato. Secondo te, cosa serve realmente a un ragazzo, che magari non ha terminato gli studi come te, per mettersi in gioco e realizzare qualcosa di concreto?

No, purtroppo, ancora no!

Secondo me il problema non è tanto dei ragazzi che non fanno qualcosa, il problema sta nel fatto che non c’è partecipazione. Questa è la grande pecca dei nostri cittadini. Ci sono tantissimi eventi di diverso genere in tutta la città, in svariati locali e così via: ma nessuno partecipa. Ci lamentiamo tanto ma poi, a conti fatti, il nuovo non ci interessa.

E allora grazie perché sei un grande esempio per la nostra generazione e, soprattutto, in bocca al lupo!

Grazie a voi ragazzi, siete fortissimi!

Elena Anna Andronico

 

Recensione ”Io non ho paura” di Niccolò Ammaniti

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Piantala con questi mostri, Michele. I mostri non esistono. I fantasmi, i lupi mannari, le streghe sono fesserie inventate per mettere paura ai creduloni, come te. Devi avere paura degli uomini, non dei mostri.”

 

Michele, 9 anni, è uno dei tanti bambini del libro che sente la naturale necessità di avventurarsi, di sperimentare, di conoscere, di esplorare i territori nelle campagne del paesino in sud Italia dove vive. A causa di una penitenza durante un gioco, finirà per scoprire un ragazzino nascosto in un buco.

Tutto sarà un mistero per lui, un mistero che a poco a poco verrà svelato, facendo scoprire a Michele il mondo dei grandi che sognano di diventare ricchi e andarsene via di lì.

Quando diventi grande te ne devi andare da qui e non ci devi tornare mai più.”

 

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Io non ho paura” di Niccolò Ammaniti è un romanzo duro e crudo ma tutto filtrato dalla mente di un bambino che conosce appena il male, è un libro commovente, anche se a tratti straziante, ma pieno di quella purezza e innocenza tipicamente infantile.

Serena Votano

La mia Taormina, il mio festival, il mio cinema

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Se nella vita hai una passione allora hai il dovere verso te stesso di coltivarla al meglio. La mia grande passione è il cinema. Quest’anno, grazie ad UniVersoMe, ho avuto l’occasione, insieme ad alcuni colleghi del giornale, di poter vivere una straordinaria esperienza andando al Taormina Film Fest. Si tratta, per chi non lo sapesse, di uno dei più importanti festival cinematografici d’Italia e d’Europa. Vanta ogni anno migliaia di curiosi e tantissime celebrità del mondo del cinema e non che provengono da tutte le parti del mondo. Non poteva non farmi gola un esperienza del genere.

Personalmente ho avuto l’opportunità di andarci per due giorni (il festival dura una settimana) e di poter assistere ad alcune proiezioni interessanti e di incontrare dal vivo alcune delle personalità più influenti del cinema. Ma l’esperienza non finisce qui. L’aria di cinema che si respira non è l’unico aspetto degno di nota. Il contesto è straordinario. Taormina è uno scenario mozzafiato (in tutti i sensi visto che abbiamo fatto la salita che porta dalla stazione al centro di Taormina a piedi). La vista, il borgo, gli odori, tutto ti fa immergere in un contesto fatto di cultura e arte.

Andiamo ora al festival in sé. Come detto prima gli ospiti sono di altissimo livello. Ho avuto l’immenso piacere di incontrare Harvey Keitel dal vivo che ci ha raccontato Hollywood, un posto lontano per noi, con gli occhi di chi Hollywood l’ha fatta e vissuta. Possiamo ricordare la carriera di Harvey Keitel per essere stato l’attore che ha lanciato la carriera di grandissimi registi come Martin Scorsese e Quentin Tarantino. Su questi due signori ha anche raccontato qualche aneddoto piuttosto interessante. Presente anche il regista Oliver Stone che ha parlato del suo ruolo da produttore nel film documentario Ukraine on Fire. Tra gli ospiti anche grandi personaggi italiani come il divertentissimo Enrico Brignano, la simpaticissima Noemi e Claudio Santamaria che ha parlato del suo ultimo grande successo di critica e di pubblico Lo Chiamavano Jeeg Robot.

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Oltre gli ospiti, il festival offre ai suoi visitatori proiezioni eccellenti. Nella serata di apertura è stato proiettato nel teatro antico l’ultimo film della Pixar Alla ricerca di Dory in anteprima nazionale. Ma non solo le grandi produzioni di Hollywood. Ci sono anche tantissime proiezioni di produzioni minori e nostrane che in questo festival trovano modo di farsi conoscere. Oltre il sopracitato Ukraine on Fire ho avuto anche il piacere di vedere il documentario di Fabio Lovino WeWorld presenta: Mothers.

Quello che voglio trasmettere a te che stai leggendo questo pezzo è un invito. Taormina è un gioiello di città che ospita uno dei festival cinematografici più importanti al mondo. Noi studenti messinesi abbiamo la possibilità di vivere questa magnifica esperienza da protagonisti. Che siate appassionati di cinema o semplici curiosi il mio invito è quello di prendere parte attivamente alla prossima edizione. Abbandonate per qualche giorno gli esami della sessione estiva e perdetevi nella bellezza di Taormina e nella bellezza del cinema.

Nicola Ripepi

Earthset: quattro chiacchiere con la Band

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Provenienti da varie parti d’Italia, formatisi nell’ambiente musicale dell’underground bolognese durante gli anni universitari e reduci dal loro primo tour, Ezio Romano (chitarra e voce principale), Luigi Varanese (basso e cori), Costantino Mazzoccoli (chitarra e cori) e Emanuele Orsini (batteria e percussioni), hanno presentato al pubblico italiano il loro LP “In A State Of Altered Uncosciousness”.

Nella musica degli Earthset c’è davvero di tutto. Era vero quello che mi disse Luigi il bassista quando parlammo prima della loro esibizione nell’anfiteatro della cittadella universitaria: “noi abbiamo smesso da tempo di chiederci che genere facciamo” e, d’altra parte, che importa catalogare, dare un’etichetta.

Loro punto di forza è una musica instancabile, innovatrice figlia della tradizione, un’energia che percorre ogni loro pezzo e un senso di panico, come se questo mondo, come se la loro stessa musica stesse stretto agli Earthset. Proprio questo mi porta a profetizzare una rapida ascesa di cui questo punto di partenza, questo loro primo lavoro, ha posto le basi.

Già dall’intro “Ouverture” si intuiscono atmosfere intimiste che faranno eco in tutto l’album; segue una sezione di ballads progressive e fortemente melodiche: “Drop”, “The absence theory” e “rEvolution of the Species”, in cui si incontrano atmosfere Gothic, Post-Punk e Brit Pop.

Le sonorità mutano invece in “Epiphany” che si apre con un lungo arpeggio di Ezio ed un cantato romantico e travolgente, fino alla potente scarica finale. Sentirete un grande riff di basso che aprirà l’unico pezzo cantato quasi interamente da Luigi, “So What”: un punk sbronzo e caotico, che ricorda Dead Kennedys, il movimento anarchico anni ’80, e la New Wave degli Smiths. E’ il pezzo più accattivante e che mi ha fatto pensare di definirli “gli Hendrix del Punk”. Ma il pezzo non finisce in un silenzio imbarazzante, bensì in due note dissonanti di basso che saranno poi l’intro di “Skizofonia”, personalmente il mio pezzo preferito, una prova di maturità incredibile per una band appena al primo album.

Sicuramente è anche il pezzo più sperimentale, un vero “stato di alterata incoscienza”. Sviluppato sopra l’atmosfera oscura di un basso distorto e del delay martellante della chitarra, dall’acustico al noise vibrato e potente, per poi chiudere nel caos puro di uno splendido riff di basso su un tappeto indefinito e ipnotico, splendidamente ritmato da una lenta batteria, e da due voci di chitarra e i “canti dell’anima” che tanto ricordano “the Great Gig in the Sky”.aa

Gone è invece il pezzo più Hard Rock, dalle sonorità dei Guns ‘n Roses al Pop Punk, pur non disdegnando la consueta composizione multiforme, giovanile e rivoluzionaria, che chiude con complesse parti in dispari, per lasciar spazio al lungo arpeggio di apertura di A.S.T.R.A.Y., in cui Ezio può dar prova delle sue eccellenti capacità canore e chitarristiche, in uno splendido assolo finale. Non  a caso è un pezzo di cui è spesso stato richiesto il bis live. Pezzo impreziosito da stacchi “rumorosi” e acustici, prodigiosamente scanditi dalla predominanza del rullante di Emanuele, e di crescendo di batteria sempre al posto giusto.

E chi pensa al rock e alla letteratura horror come può non pensare a “the Call of Chtulu” del secondo album dei Metallica. Ebbene dimenticatelo, perché l’iniziale piano riverberato di chitarra, è ancora più precisamente in linea con le atmosfere orride e bizzarre di Lovecraft. Ed è proprio questo il nome della perla espressionista degli Earthset; una vera chicca di progressione ritmica claustrofobica e ossessionante, con seconde voci disturbanti di Costantino nel sottofondo della voce piangente e disperante di Ezio. Qui Emanuele e Luigi sembrano in trance musicale, grandi interpreti degli arpeggi che risuonano in tutto il pezzo, per poi alla fine lasciare lo spazio a Costantino per uno dei Riff-Solo più azzeccati che mi sia mai capitato di sentire.

Un viaggio nel sentiero della follia che porta all’addio struggente di “In A State Of Altered Uncosciousness”, una ballata dissonante e tormentata di nome “Circle Sea”, dimostrazione di maturità musicale e di scrittura nella perfetta metrica del testo, inscindibile dall’apparato musicale. Sognante e spaziale al contempo. Una poesia in musica, che come suggerisce il nome “mangia se stessa” nel finale, confuso e melodico al contempo. Nel perfetto gioco circolare del serpente che si morde la coda e rimanda all’ Ouverture iniziale.

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Ma adesso è tempo di parlare direttamente con loro.

R: Ciao a tutti ragazzacci!

D: Siete in tour per la promo del vostro primo lavoro in studio. Avete suonato avete già avuto 4 date in Sicilia, tra cui una all’Horcynus Orca ed una a Giardini Naxos. Ezio è messinese, quindi già ha avuto a che fare con la realtà siciliana: che impressione ha lasciato invece su voi tre questa Sicilia e il suo contesto musicale? E quali differenze notate col la vostra Bologna, in genere l’Emilia e il resto d’Italia?

Luigi: Beh dal punto  di vista estetico, sicuramente un’isola splendida, una regione bellissima in cui non ero mai stato. Dal punto di vista musicale invece delle realtà interessanti esistono e si sente buona musica. Bologna ha una scena musicale fin troppo attiva per certi versi, che rischia di divenire dispersiva.

Costantino: Possiamo infatti citare il Music House 17 a Trecastagni, che è una piccola realtà, nata da poco, molto interessante sia come sala Prove, che di registrazione, che di negozio di strumentazione, oltre che come Live House.

Emanuele: invece al nord di posti come questo è più immediato trovarne, non sono così tanti come a Bologna, che è una città dove si fa e si respira molta cultura, ma se si cerca bene si possono trovare ovunque. Qua ho notato tanti ragazzi che hanno voglia di cambiare e conoscere cose nuove rispetto al quotidiano. Molto attivi. È la prima cosa che ho notato.

Ezio: Concordo, la realtà che ho lasciato quando me ne andai da qui si è evoluta. Vi ho ritrovato Giovani propositivi che tentano di portare avanti un discorso musicale non prettamente commerciale.

 

D: “The place where grows this kind of tune

And you can see the Earth-set from the moon…”

“Il luogo dove cresce questo tipo di tonalità e puoi vedere la terra tramontare dalla luna” : recita così uno dei versi più belli della vostra “A.S.T.R.A.Y.” , nona traccia del vostro “In A State Of Altered Uncosciousness”.

Il paragone è d’obbligo con Floyd, che amarono prendere un frammento di Brain Damage per dare un nome ad uno degli album più importanti della storia: Dark side of the moon.

E la prima cosa che si nota ascoltando il vostro album, è che c’è di tutto: dai Tool, ai Floyd, ai Muse, ai Rush, senza però mai ridursi ad un semplice copia incolla di altri artisti. Tutto ha sapore di nuovo e di “antico”. Gli Earthset sono qualcosa di nuovo. Mi chiedo dunque cosa significhi per voi “Earthset”, cosa “In a State of Altered Uncosciousness”?

Ezio:  Earthset è un’immagine che viene da quella lirica citata che è in sé un omaggio ai Pink Floyd ed utilizza la stessa rima di Eclipse, perché è un brano sull’ispirazione artistica, e chi più dei Floyd ha ispirato le generazioni successive. Anche questa rappresentazione di trovarsi sul suolo lunare a vedere la terra che tramonta è tutto una meta-citazione di Dark Side Of The Moon.

Earthset raccoglie in una sola parola quello che per noi è l’esperienza artistica, cioè il porsi in una prospettiva diametralmente opposta rispetto a quella ordinaria. E’ la nostra prospettiva sul mondo, sulla musica, sull’arte.

“In A State Of Altered Uncosciousness” è invece un verso di “rEvolution of the species” , anche per questa nostra voglia di dare una coerenza ai nostri lavori e non essere un’accozzaglia di canzoni, come può essere in certe produzioni più commerciali. E’ il concept dell’album: lo stato di alterata incoscienza che esprime lo stato in cui molti di noi vivono le proprie esistenze sia in positivo che in negativo, una vox media. Ti trovi in questo stato nel momento in cui vivi in modo apparentemente cosciente alla società, ma sei incosciente verso te stesso e viceversa. Un concetto anche un po’ psicoanalitico di contrapposizione tra Sé e Collettività. Bisogna avere il coraggio di mettere in dubbio le proprie certezze, le recite della società, per svelare le sovrastrutture che sembrano il tuo Io, ma che in realtà non ti ritraggono e ti ingabbiano, incosciente a te stesso.

D: oltre al lavoro strettamente musicale, c’è una ricerca anche cinematografica (lo si può vedere dai vostri Videoclip, reperibili su youtube ) e poetica nei vostri testi, misto di esistenzialismo e ermetismo. Come la musica si fonde ai vostri testi per creare un prodotto così composto? E da dove nasce l’ispirazione per scriverli?

Luigi: Un testo sicuramente può nascere da ogni cosa, filtrata però attraverso l’esperienza personale. Così come Ezio racconta in “the Absence Theory” un suo momento privato, la canzone dove canto io, “so What”, è un racconto stilizzato di una mia serata di sbronza un po’ presa a male. Inoltre in quel periodo ero in fissa con un libro russo, un viaggio nell’estasi alcolica, un racconto tragicomico, per cui ci sono sicuramente influenze letterarie e musicali. Prendi “Lovecraft” ad esempio, dedicato all’omonimo scrittore, che è una trasposizione della novella “i Sogni Nella Casa Stregata”, che vi consiglio di leggere.

Emanuele: “rEvolution Of the Species” fa riferimento al periodo politico che stavamo vivendo, il governo Monti. Ci dava fastidio l’idea che se il sistema capitalistico fallisce e dimostra di essere pesantemente in crisi, vi sia la pigrizia mentale di non provare a trovare delle soluzioni,  ma si cerchi in tutti i modi di salvare il sistema coi suoi propri mezzi che già hanno dimostrato di essere fallaci.

Costantino: Dobbiamo metterlo in discussione questo sistema. Ed è proprio durante le nostre discussioni che ci facciamo i viaggioni e scriviamo i testi. Insomma la nostra musica nasce dal dialogo.

D: State già lavorando ad un nuovo Progetto?

Costantino: si,  abbiamo già prodotto del materiale che sarà condensato in un EP sul quale stiamo già lavorando. La produzione artistica sarà sempre di Carlo Marrone, Enrico Capalbo e Claudio Adamo. Per le batterie avremo alla produzione un altro produttore. Dovrebbe essere un EP a 4-5 Tracce, con brani che già suoniamo anche dal vivo.13442489_1195250337160438_1578367912385154853_o

D: cosa vedete nel futuro del panorama musicale italiano? Si va sempre più verso un sterilizzazione musicale, che porta alla celebrità burattini senza idee o sentite vento di cambiamento nell’aria?

Ezio: l’Italia è un mercato estremamente difficile, è un mercato in cui c’è poca attenzione verso le produzioni indipendenti a livello di grande pubblico. Il grande pubblico è quello del mainstream, dei talent, delle Major e purtroppo questo nei prossimi anni non lo vedo come una cosa in mutamento. Certo la scena indipendente sta crescendo anche se rimane in una cerchia ancora ristretta e appannaggio per lo più di certa critica del settore e appassionati del genere.

Luigi: purtroppo sono i sistemi di informazione principali ad avere il controllo, fin da piccoli siamo influenzati da quelli.

Costantino: Si infatti! Quello che interessa alle major è avere un ritorno economico, vendere. Quindi che loro abbiano uno o due artisti, anche se dureranno solo un anno, loro sanno che per quell’album rientreranno nelle spese e ci guadagneranno pesantemente, anche se poi scomparirà nel nulla.

Ezio: non vorrei buttarla sulla critica ai talent, ma si sa che sono il canale principale delle nuove proposte, per cui un ambiente indie, come quello in cui ci muoviamo noi arranca. La rete spezza molto e aiuta le realtà indipendenti, ma ancora non è abbastanza forte per supportare un mercato rivale di quello delle major, come magari avviene all’estero, prendi il caso di Grimes, artista canadese, a livello internazionale conosciutissima.

Luigi: si parla comunque di un tipo di prodotto più facilmente accostabile a quello che viene mandato dalle major, per cui è anche più facile. Comunque l’epoca delle rockstar col jet privato è bello e finito, non tornerà più. Dimenticatela.

Emanuele: un piccolo inciso, Alan Moore diceva che tutto ciò che ha un pubblico è classificabile, ma non fa sempre massa. L’underground non vuole essere troppo ristretto a livello di pubblico, anzi ha un pubblico molto vasto e non parlo solo di musicisti, ma di artisti, writers, DJ, non quelli da discoteca, ma i grandi producer. Certamente il mainstream è più visibile, ma la proporzione rimane su 60 e 40.

Luigi: io ho una teoria su questa cosa e penso che ogni 30 anni ci sia una rivoluzione musicale. La prima l’hanno fatta i Beatles, la seconda i Nirvana, fra un’altra decina di anni ne aspetto un’altra.

Ezio: dobbiamo essere pronti!

Luigi: eh, noi saremo già bell’e vecchi…

Emanuele: …ma soprattutto belli!

Luigi: insomma se uno pensa agli anni 90 per cui una scena indie minuscola diventa commerciale, grazie all’esplosione dei Nirvana a caso, e non si sa come siano arrivati a vendere così tanto. Però sono essenzialmente i nuovi Beatles. Hanno cambiato anche le sonorità pop che venne dopo. Fu una cosa imprevedibile, alla fine erano tre che nemmeno sapevano suonare bene, con dei suoni cacofonici, anche se degli ottimi interpreti.

D: se poteste salvare un pezzo ciascuno (o più di uno) quali salvereste?

Emanuele: lo so! “Maquiladora” dei Radiohead. È un pezzo bellissimo che non conosce nessuno! L’ho conosciuto da un loro live del ’94. Poi per ora lo ascolto ogni giorno, più volte, e siccome scegliere un pezzo in assoluto è impossibile, tanto vale scegliere quello con cui sei in fissa al momento.

Ezio: Non mi uccidete, ma io salverei Bach il corale della cantata 147, “Jesus Bleibet Meine Freude”. Costantino?

Costantino: Se dovessi salvare qualcosa dalla catastrofe universale, io devo andare per forza sui Pink Floyd. Lo prendo come un unico brano, ma per me è come se lo fosse: The Wall, nella sua integrità.

Luigi: io salvo “When the Music is Over” dei The Doors perché è il mio pezzo preferito che conosco da quando ero  bambino perché lo ascoltava mio padre e rimane nel mio cuore.

Ezio: posso aggiungere le “Variazioni Goldberg” sempre di Bach?

Costantino: sottoscrivo!

D: ho voluto fare questa intervista perché credo davvero nelle vostra capacità ed è sempre bello parlare con qualcuno della propria passione, i propri sogni. Earthset è un nome di cui spero sentiremo parlare, e consiglio a tutti gli amanti della musica l’ascolto di “In A State Of Altered Uncosciousness”. Questo spazio finale lo lascio a voi, per dire qualsiasi cosa vi salti in mente, dalla citazione alla confessione, alla lista della spesa.

Luigi: posso dire una cosa seria? Noi ci siamo conosciuti in ambito musicale, un consiglio che mi sento di dare a te e a tutti i musicisti è di sforzarsi di fare pezzi propri, di non aver paura. Anche da soli, a caso, ormai si riesce a registrare anche in camera! Non importa se i suoni fanno cagare, è il processo creativo che è importante. Quello che sta succedendo è che si scinde il processo creativo dal concetto di musica, cosa sbagliata.

Ezio: la musica è creatività! Anche se il mercato vi dice che facendo musica di altri riuscite a fare qualche serata in più, mettete in moto la  vostra creatività anche per una questione di soddisfazione personale.

Luigi: anche io ho iniziato da autodidatta in un gruppo cover e mi divertivo tantissimo, ma la soddisfazione che hai dopo che scrivi un tuo album, anche se poi i pezzi fanno schifo, è qualcosa in più.

Costantino: Perché è tua, semplicemente.

Ezio: Non fermate la musica, grazie di cuore a tutti.

Angelo Scuderi

 

 

”Seconda Primavera” di Francesco Calogero: intervista al regista

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Francesco Calogero è nato a Messina nel 1957 ed è uno dei registi che potremmo annoverare nell’ambito underground del cinema italiano, quello cioè che risulta ad oggi più vivo, più interessante e più intenso della sua controparte mainstream, colpevole di avere invece affossato un’industria e un’arte prima valide a livello internazionale.

Il 4 febbraio 2016, a sedici anni dall’ultimo lungometraggio Metronotte, è uscito nelle sale Seconda Primavera, toccante sesta prova della sensibilità da cui la filmografia di Calogero è attraversata. Stato, pochi mesi fa, nelle sale, Seconda Primavera racconta, nell’arco di sei stagioni, le storie incrociate di quattro personaggi, ciascuno rappresentativo di una diversa età della vita.

 

Lo abbiamo intervistato per via telematica per parlare con lui di Seconda Primavera e di cinema.

 

  1. Come nasce l’idea per Seconda Primavera?

 

Credo che tutto sia partito da una visita casuale alla villa che costituisce il set principale del film, in un plumbeo giorno d’autunno. Quel giardino, di cui avevo apprezzato la magnificenza in estate o in primavera, si presentava ostile, il suolo cosparso di foglie secche, i rovi cresciuti a dismisura, quasi a voler impedire l’ingresso ai visitatori, sferzati dal vento e dalla pioggia. In una villa lontana dal centro abitato, a rischio isolamento perché raggiungibile solo attraverso una strada sterrata sulla riva del mare, pronto a inghiottirla, è piacevole stare solo nella bella stagione: col cattivo tempo i suoi occupanti possono passare giorni rinchiusi dentro, in perenne stato di esasperazione. Ho provato a immaginare come potessero cambiare i rapporti tra alcuni personaggi, stagione dopo stagione, confinati in una casa piccola come quella, in una situazione in cui è stata data più importanza al giardino, alla vita all’aria aperta. Da lì, tra vita vissuta e numi tutelari di turno, è cominciata la consueta stratificazione: voci diverse alla Thomas Stearns Eliot, potrei dire, sottolineando così quanto io gli debba in termini distruttura sinfonica, o per le associazioni di temi e simboli. L’inizio dei Quattro quartetti sembra offrirci anche lo scenario, lo specchio d’acqua dove si alzano i fiori del loto alla luce del sole, ed il celebre giardino delle rose, quello a cui si accede attraverso la porta che non abbiamo mai aperto: in Seconda primavera è testimone di un abbraccio, dopo un divertito inseguimento, che nasconde il reciproco turbamento di Andrea e Hikma (due dei personaggi principali). Lo raccontiamo già nel manifesto del film, in cui la grafica Katia Donato rende brillantemente tali temi.

 

  1. Nel tuo film c’è tanto (buon) gusto per la citazione. Non solo T. S. Eliot, come riferisci adesso, ma anche Philip K. Dick, e poi Shakespeare e Bellini… e soprattutto, è impossibile vedere il personaggio di Hikma (interpretata da Desirée Noferini) senza pensare a La donna che visse due volte.Da cosa è derivato il bisogno di questi riferimenti?

 

Non è un vero e proprio bisogno, ma forse solo un desiderio di conforto, necessario per vincere le insicurezze che ti assalgono nel corso della tua ricerca: ti aiuta molto avvertire certe assonanze, rendersi conto che già qualcuno prima di te si è soffermato allo stesso modo sul medesimo dettaglio. Del resto, chi pensa di star creando qualcosa di inedito e rivoluzionario, è un illuso: i grandi libri sono stati scritti, e i grandi detti sono stati pronunciati. Per quanto riguarda Shakespeare, la vicenda del Sogno ci mostra anch’essa coppie che si scompongono e ricompongono, e un andirivieni tra città e campagna. Se seguiamo la suggestione di alcuni critici, e lo guardiamo dal punto di vista di Hikma, questo movimento dalla corte di Atene alla foresta rappresenta il passaggio dall’istintività giovanile alla razionalità della vita adulta: Seconda primavera non è soltanto la storia di una senilità, intesa in senso sveviano, ma anche un coming-of-age movie. In realtà tutto il Sogno, con i suoi continui richiami alla trasformazione – vedi quel che accade a Puck e Bottom, non a caso presenti entrambi nelle due scene esplicitamente citate nel film – rappresenta un’allegoria delle metamorfosi che avvengono nella vita di ognuno: dunque il discorso riguarda anche Andrea, e i ripetuti cambiamenti della sua vita nel teatro del suo giardino, piccola foresta incantata… E come il Sogno, anche Seconda primavera è una storia d’amore in tutte le sue forme, in cui si spazia da un sentimento irrazionale a quello frutto di calcolo; dall’amore platonico, in qualche misura rispettoso delle convenzioni sociali, a quello infedele, disgregatore di equilibri. In questo senso Riccardo è ora costruttore, ora sabotatore di una razionalità in perenne conflitto con la sua parte più oscura. Se si vuol leggere la vicenda in chiave psicoanalitica, c’è infatti un’ulteriore corrispondenza con il Sogno: laddove i due luoghi nei quali si svolge quella storia, la corte di Atene e la foresta, diventano per noi la città con tutte le sue pastoie giornaliere, dove bisogna rispettare le leggi (anche quelle edilizie), e dunque è la ragione a comandare (il Super-Io); e in opposizione c’è il giardino, l’Es, il nostro lato oscuro, la parte subconscia e irrazionale, il luogo notturno e magico dove a regnare sono i desideri e gli istinti. Tutti i personaggi della commedia, allo spuntar del sole, affermano di aver sognato: e in qualche modo lo fa anche Hikma, che sembra voler rinnegare la sua esperienza d’amore in quella notte (chiedendosi, “Forse ero sonnambula”). La citazione belliniana parte da qui, ma non solo. Quando ho messo in scena La sonnambula, alcuni anni fa, già meditando su Seconda primavera, avevo appuntato l’attenzione sul pericoloso percorso finale di Amina, imposto dal libretto, un camminamento alto e infido che da noi era diventato un ponte mobile. Ma prima di allora, ritrovare sul nostro set un ponte simile aveva fatto sì che mi imponessi di utilizzarlo a scopi narrativi. Parliamo di un elemento largamente simbolico: basti pensare all’etimo della parola “pontifex”, i sacerdoti sono coloro che costruiscono il ponte, che aiutano il passaggio tra la terra dei vivi e il regno dei morti. L’idea forte c’era già, il ponte era stato chiesto all’architetto Andrea dalla moglie Sofia, dopo la scoperta quasi casuale della terrazza, da quel giorno diventata il suo regno: così ho immaginato Andrea impossibilitato a tornare in quello spazio, a cui è legato da troppi ricordi dolorosi. Ammesso che non sia soltanto una sua immaginazione, ci riuscirà solo nel finale, come attratto da Sofia, ma anche commosso e suggestionato dal percorso rischioso di Amina, che sta ammirando a teatro. Anche l’eroina belliniana vive una condizione di revenante, quando il conte Rodolfo si turba nel rivedere nei suoi occhi quelli della donna profondamente amata nel passato. In realtà il tema dell’eterno ritorno è certamente più decadente e tardoromantico, e anche più anglosassone – pensiamo, per dire, a tanti personaggi di Edgar Allan Poe – rispetto al milieu in cui agivano il librettista Felice Romani e lo stesso Bellini. La verità è che un libretto dalla genesi tormentata aveva costretto il conte ad atteggiamenti contraddittori: così, caduta l’ipotesi che la fanciulla potesse essere sua figlia, non restava che accettare l’idea del Doppelgänger. E quando Amina, in stato di sonnambulismo, praticamente gli si offre, il conte resiste: insomma, anche lì la soppressione del sentimento erotico, vuoi per la situazione, vuoi per la notevole differenza d’età, vuoi soprattutto per quell’impressionante somiglianza che turba e blocca… Già, siamo giunti a Hitchcock. Ovviamente è un paragone che temo: Vertigo (La donna che visse due volte) è uno dei film più importanti della storia del cinema. In realtà, considerati i punti di contatto tra le due storie, mi sono limitato a mandare leggeri segnali, giocando sul filo dell’ironia. Parlando prima di camminamenti a rischio, di altezze, di equilibri precari, ho già fatto riferimento al tema dell’acrofobia, centrale nell’intrigo hitchcockiano. E così di seguito, mi è venuto naturale chiamare Scottie – utilizzando dunque il nomignolo del personaggio di James Stewart nel film – il nostro Jack Russell Terrier, scelto perché abile a scavare buche nel giardino: un aggancio al delirio di Riccardo, che nota il disappunto di Andrea per l’azione del cagnetto, e lo sospetta di aver occultato il cadavere della moglie (e dunque di temere un’eventuale involontaria riesumazione), infilando una suggestione simile nella revisione del suo romanzo. Se il racconto di un animale che rivela la presenza di un cadavere fa nuovamente pensare a Poe e al suo Gatto nero, in realtà qui ritorniamo alla Terra desolata, al monito rivolto a Stetson – che è un uomo d’affari della City misteriosamente associato alla battaglia navale di Mylae (cioè Capo Milazzo, un luogo molto vicino al nostro set di Acqualadroni) – a badare al cane che vorrebbe dissotterrare il cadavere da lui seppellito in giardino. Anche se il racconto fatto dal cane è verosimilmente rubato da Riccardo a Roog, il primo racconto che Philip K. Dick riuscì a vendere, ispirato dall’animale posseduto dal suo vicino… Tornando a Hitchcock, mi è sembrato pertinente chiamare “La moda che visse due volte” il negozio di abiti vintage appartenuti a Sofia: lo intravediamo nella foto custodita nel baule. Ma certamente i vestiti dell’una che finiscono addosso all’altra è un riferimento non da poco, e la scena dello chignon una citazione diretta, anche se con una netta differenza temporale: Kim Novak/Judy oppone una piccola resistenza a James Stewart sulla richiesta di raccogliere i capelli in uno chignon, esattamente come faceva la defunta Madeleine, perché teme che la macchinazione sia scoperta, ma poi rientra in bagno, e lo accontenta; Hikma si rifiuta recisamente, quasi a muso duro, anche lei impaurita dal fatto che Andrea la stia troppo pericolosamente assimilando a Sofia, ma poi ci pensa su, e la sera dopo decide di sfoggiarlo durante la cena, sente di doverglielo… Andrea appare poi inizialmente depresso perché si sente anche lui responsabile della morte della moglie, e da lì affetto da una sorta di necrofilia “per fedeltà”: esattamente come Scottie Ferguson “vuole andare a letto con una morta” (Hitch dixit). Lo stesso regista chiama “sesso psicologico” questo desiderio di ricreare un’immagine sessuale impossibile: è il sottile crinale su abbiamo deciso di far camminare il personaggio di Andrea, preparando il film con Claudio Botosso, che lo interpreta in maniera assai partecipata. Per quanto riguarda i sensi di colpa, il tormento per il ricordo di Sofia lo avvicina anche al personaggio di Laurence Olivier in Rebecca, la prima moglie, giusto per restare su Hitchcock. Anche per quel sospetto di omicidio che Riccardo getta su di lui…

 

  1. Personalmente ho sempre trovato difficile inquadrare la tua filmografia come quella di un cineasta di genere o d’essai. Alla luce dei dibattiti sulla validità di queste etichette, dobbiamo pensare ad un tuo rifiuto di esse, oppure pensi di farne parte?

Parlare di cineasta d’essai mi suona strano… in fondo, i miei film non sono così estremi, di quelli che piacciono solo ai critici o ai selezionatori dei festival. Anzi, direi che sono addirittura più contento, rispetto alla lettura delle recensioni favorevoli, quando percepisco chiaramente l’emozione provocata nel pubblico delle sale. E per fortuna è accaduto spesso, soprattutto con quest’ultimo film. Se parliamo di generi, l’ambito in cui mi muovo è sempre quello del dramedy, la commedia drammatica, a volte più carica di toni foschi, come accade in Seconda primavera, in altre circostanze più incline alla leggerezza. Un termine che mi fa pensare al mio primo film professionale, La gentilezza del tocco, il cui titolo fu spesso storpiato: erano gli anni della celebre Insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera. A questo proposito, ricordo che quando scrisse la prefazione al volume che racchiudeva le mie prime tre sceneggiature – si chiamava appunto anch’esso La gentilezza del tocco, fu pubblicato da Sellerio nel 1994 – Enrico Ghezzi definì i miei film “polizieschi del cuore”. Io mi ci ritrovo, mi accorgo che continuo a scrivere storie in cui il tema della quest, lievemente avvolta nel mistero (come avviene anche in Seconda primavera), è solo un pretesto per un’analisi amorosa, ed esistenziale lato sensu. Uno dei cineasti che ammiro maggiormente,l’americano John Cassavetes, dichiarava in un’intervista che nessuno può vivere senza filosofia. Ma lui attribuiva al termine filosofia un’accezione… come posso dire, rovesciata. L’amore per la saggezza, secondo l’etimo greco, era diventato per lui anche la sapienza, lo studio dell’amore. Come dire, ogni cineasta non può girare film senza analizzare l’amore. Ecco, direi che il mio genere – sempre senza mai perdere di vista il contesto sociale in cui si muovono i personaggi – sono i film filosofici d’amore.

 

  1. Un’ultima domanda.Seconda Primavera è uscito in un anno particolarmente prolifico per il cinema italiano. Oltre ai film di autori già affermati, come Sorrentino o Tornatore, l’opera ultima del compianto Claudio Caligari, Non essere cattivo, sono arrivati nelle sale giovani registi come Gabriele Mainetti ed il suo Lo chiamavano Jeeg Robot, premiato ai David di Donatello e Matteo Rovere, al suo terzo film con Veloce come il vento, che sembrerebbero promettere bene, in un panorama cinematografico da tempo artisticamente sterile. Hai dei nomi, tra i giovani registi nostrani, in cui riponi speranze concrete per risollevare le sorti del cinema nostrano?

 

Ovviamente per me non ha senso qui citare nomi fin troppo conosciuti. Io ripongo speranza nei giovani cineasti che si allontanano dal mainstream, spinti da un’ispirazione autentica, senza mirare ad épater le bourgeois, come si diceva un tempo, ma assumendosi dei rischi, e accettando la loro marginalità nei confronti di un sistema marcio – vedi quel che è successo al succitato Caligari, osteggiato in vita e celebrato solo dopo morto – come il nostro. Se faccio i nomi dei gemelli De Serio, o di Michelangelo Frammartino, sono certo che al grosso pubblico dicano poco, e questo racconta bene come sia irrimediabilmente compromessa la situazione italiana…

 

 

 

 

Angelo Scuderi e Andrea Donato