Piccolo cuore stazione

Aria aveva una sola certezza nella vita: niente dura per sempre.

Sembrava essere il suo destino quello di vedere spalle voltate e sempre più lontane. Perfino il suo nome le era sfuggente.

Aria non aveva mai conosciuto il calore di un abbraccio materno, né, tantomeno, la disciplina di un padre severo. Era cresciuta nello zelo, per lo più ignorata.

Aveva anche creduto di essere un fantasma, per un certo periodo della sua vita. Era viva e vegeta, però, e il palpitare che sentiva nel petto ne era la prova tangibile. Troppe volte ne aveva percepito la vuotezza e altrettante lo aveva dovuto trattenere, nella paura che le scappasse il respiro.

Aria aveva l’innamoramento facile. Non pensate di lei che fosse una di quelle a cui bastasse incrociare lo sguardo di un passante per perdere la testa. Era semplicemente innamorata dell’amore stesso, in tutte le sue forme, e come un’assetata cercava di afferrarlo e spremerlo, sperando di ricavarne qualche goccia per bagnarsi le labbra.

Aria, dovete sapere, era anche poco scaltra: non capiva di avere per le mani uno scarto, frammenti di sentimento gettati via come cartacce, da chiunque le passasse abbastanza vicino e per abbastanza tempo da convincerla di volerle rimanere accanto. Una pallida riproduzione di ciò che davvero cercava, edulcorata dalla sua stessa mente.

Aria sognava e sperava e, forse spinta dal timore di rimanere sola, finiva spesso per tessere storie sui volti che incontrava, imbellettandoli e facendoseli andare a genio. Se ne affezionava.

Un continuo andirivieni aveva, così, popolato il suo piccolo cuore stazione, i benvenuti e gli addii all’ordine del giorno.

Tremante di fiducia, rimaneva ferma ogni volta ad attendere un ritorno, ma, anche se per brevi e intensi momenti sembrava che questo potesse essere possibile, non ve ne era mai stato davvero uno.

Solo nel buio della sua cameretta, nascosta dal mondo e priva di maschere, osava concedersi di lasciarsi andare allo sconforto.

Stringeva forte le palpebre, aumentava la presa delle braccia sul cuscino, nell’illusione di abbracciare un corpo caldo e vivo, e pregava.

Con il tempo, però, aveva smesso di fantasticare su ipotetici finali alternativi e attese per il futuro, e un pensiero aveva superato gli altri:

Magari, in un’altra vita, sarò io quella ad andare via.

Valeria Vella

Niente pazzie d’amore

Un altro inverno sta arrivando
Un’altra estate è andata via
Sono finiti e amori e storie
Sono finite le poesie.

C’è chi ha sofferto per un volto
Chi esulta per un vecchio incontro
Qualcuno pensa ad una notte
Qualche altro balla tra la gente.

Mani si incrociano, graffiano e stringono
Corpi si sfiorano, toccano e uniscono
Volti si guardano, baciano e ridono
Cuori si scaldano tremano e pulsano.

Spesso mi chiedo che cosa si provi
Quando due anime vanno in simbiosi
E sulla pelle rimbalzano brividi
E nella mente si accendono folgori.

Questa bachata che non ho ballato
Un grande ponte che mai ho attraversato
Un canto frivolo pieno di vita
La gioventù che diventa infinita.

 

Giuseppe Libro Muscarà

 

 

Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Gradatim

Mi domando a volte dove prendano forma le parole,
in un percorso da dentro a fuori, da fuori a dentro
spingono dalla nostra testa al foglio
o rimbalzano nei pensieri dalle pareti del mondo?
Non sono né giovane né vecchia,
né adulta né bambina,
della vita nelle mani ho talmente poco,
eppure non riesco ancora a superare lo scoglio delle emozioni.
Se fossi un’onda mi domanderei
se devo lasciarmi infrangere o devo cercare di tuffarmi oltre
e come un’onda continuo a fare sia l’uno che l’altro;
come una particella, secondo la fisica quantistica, sono sia l’uno che l’altro
dipende in quel momento dove guardo.
Ma oggi non ho occhi, ho solo orecchie,
e riesco a sentire solo il rumore dell’acqua
e della pietra che si scontrano,
sarà forse l’impatto il vero punto di repere.
Oggi voglio essere solo quello, per un giorno solo
e se dovrò stare in silenzio starò in silenzio,
e se dovrò stare ferma starò ferma,
e se potessi congelare la cucina,
il mal tempo e le stoviglie sparse in giro lo farei
e tornerei qui solo all’occorrenza,
per non dover versare parole da dentro a fuori
né ingoiarle da un bicchiere che ho già svuotato la notte prima,
ma per poterle solo leggere
in un momento del tempo che non è né atto né agente
ma solo fluido e discreto,
così discreto che potrebbe sembrare uno spiraglio di vento sopra la fiamma di una candela
che la fa dondolare senza mai spegnerla.
Non mi fraintendete, non voglio essere immobile
desidero solo muovermi più lenta degli altri.

 

                                                                                                                                                         

                                                                                                                                       Sofia Pugliatti                                           

Immagina

Immagina di essere solo, nascosto sotto un muro retto da una trave arrugginita, con la polvere addosso che ti sgorga dagli occhi insieme alle lacrime, che serpeggia tra le tue dita, che si mischia al sangue delle ginocchia sbucciate.

Immagina di essere uomo, donna, vecchio o bambino. Di respirare, bere e mangiare come ogni essere umano, ma sentendo dentro di te un vuoto, qualcosa che ti manca, che fa di te qualcosa di dimezzato.

Immagina di ascoltare la radio in un lurido scantinato, ascoltando il grande uomo bianco, il padrone dei padroni, affermare che è dovere aiutare chi viene aggredito, chi è vittima del bullo, chi è soggetto a persecuzione.

Immagina un cielo oscuro illuminato da fiori in fiamme, tempeste di pollini, rombi di api, e poi il silenzio. Mortale silenzio, per un attimo o due, e poi urla levarsi nella notte.

Immagina di essere un puntino nella folla oceanica, in processione dietro una bara bianca. Con le ambulanze che scorrazzano qua e là, e due schiere di cavalieri di carta con scudi di plastica a spingerti ora da una parte, ora dall’altra.

Immagina di essere un padre, una madre, un nonno o un figlio, e di riuscire a contare nella tua vita più funerali che feste di compleanno. Di avere almeno un lutto in casa, un martire laico da ricordare o vendicare.

Immagina di essere figlio di nessuno, padre di niente, cittadino del nulla. Essere vivente solo perché ancora in grado di respirare, ma privato d’ogni cosa che rende l’uomo un uomo.

Immagina di esserti fidato dell’uomo bianco. Delle sue promesse mancate, delle sue prese di posizione, dei suoi finti moti di sdegno.

Immagina di essere tu l’aggredito. Tu la vittima del bullo. Tu la persona da sostenere. E immagina il tuo volto nel vedere che no, il grande uomo bianco sostiene l’aggressore, sostiene il bullo.

Immagina di essere un Gazawi. Padre, figlio e fratello di uomini senza diritti né patria. Senza una bandiera intorno a cui raccogliersi, una terra da difendere e tramandare, un governo da sostenere o contestare.

Avresti potuto immaginarlo.
Ma ieri casa tua è stata colpita da un missile.
Sei morto tu, tua moglie, tua figlia di sei anni e tuo figlio di tre.

Diranno che eri un terrorista. O che nascondevi un terrorista o che in ogni caso, in quanto palestinese, eri un potenziale terrorista.

Non è poi così difficile prendere un uomo, spogliarlo di ciò che è, vestirlo di ciò che non è, ucciderlo per ciò che lo si è fatto diventare.

Ora che hai finito di soffrire, libero dalle catene bianche e azzurre, lontano dai cavalieri dagli elmi stellati, scommetto che puoi vedere noi, uomini bianchi, riempirci la bocca di buone intenzioni e le mani di banconote insanguinate.

“Hai visto?” ti immagino dire a tuo figlio “Quanto sono poveri quegli uomini bianchi, che pur essendosi arricchiti d’ogni cosa hanno perso il bene più importante: la coscienza”.


Giuseppe Libro Muscarà

*immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

L’arancio tra le dita

Dentro il buio ed il silenzio

di una notte senza tempo

mentre chiudo gli occhi piano

vedo arancio e poi mi perdo

Nei tuoi occhi tondi e scuri

negli occhiali troppo grandi

la frangetta che li copre

il tuo riso li solleva

Li sollevi con un gesto

con l’arancio tra le dita

poi ti volti verso destra

e sollevi l’obbiettivo

Una goccia fatta d’oro

che si muove sotto il viso

ti rimbalza sopra il collo

irradiando il tuo sorriso

Un foulard poi vola via

si perde nella foschia

ti alzi subito il colletto

lo riacciuffi in un momento

Poi ti chiudi anche la giacca

ci incrociamo di sfuggita

ti allontani lentamente

con l’arancio tra le dita

   Giuseppe Libro Muscarà

*Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

    

Il fantasma nell’armadio

Vi è mai capitato di vedere cose che gli altri non vedono? Di poter distinguere, senza averne la totale coscienza, tra il “nostro” mondo e quell’altro? Avete mai visto una di quelle che vengono definite da medium ed esorcisti presenze? All’inizio della mia vita faticavo a crederci anch’io, ma poi ho dovuto accettare che la sola spiegazione possibile di fronte a ciò che percepivo (che gli altri non notavano) era nel soprannaturale. Mi chiamo Edward, Ed per gli amici, e oggi sono noto per aver fatto qualcosa, ma una volta non solo non ero famoso, ma non ero neanche creduto per ciò che ero capace di vedere. Sono nato nel Connecticut, nel lontano 1926. Già nell’infanzia ho avuto diversi problemi. Una volta attorno all’età di otto anni ho vissuto uno dei momenti che avrebbero cambiato per sempre la mia vita…

…Ero appena rientrato a casa dopo aver giocato con i miei amici, la cena era quasi pronta e, dopo mangiato, andai a dormire. Neanche i miei genitori andavano a letto molto tardi, il giorno dopo li aspettava il lavoro: mio padre era un agente di polizia e non poteva fare tardi pena licenziamento. Io, invece, come tutti i bambini di otto anni, avevo la scuola che mi aspettava. Perciò dopo la doccia indossai il pigiama.
Quella notte non avrei dormito, ma non lo sapevo ancora.
Chiusi la porta, spensi la luce, e mi sdraiai sul letto. Mi stavo per assopire, quando percepii un rumore. Probabilmente i miei genitori non erano ancora andati a dormire, pensai, ma poco dopo mi addormentai. Subito dopo, ecco, lo stesso rumore: sembrava un fruscio contro la parete. Questa volta mi alzai, infastidito, per capire se i miei erano ancora in piedi.
Uscii dalla stanza ancora scalzo, e vidi che era tutto buio. A tentoni, cercando l’interruttore, accesi la luce, scesi le fredde scale che portavano al pian terreno (perché non mi ero preso la briga di indossare le ciabatte!?), e mi stupii nel notare che non c’era nessuno sveglio.
Tutto taceva, i miei genitori erano a letto. Accesi la luce, controllai l’ora. Erano passate tre ore da quando mi ero addormentato e l’orologio segnalava la mezzanotte passata. Iniziai a guardarmi intorno, lì tutto solo nel salotto di casa. I contorni del divanetto erano abbastanza sfocati, la stoffa aveva diverse forme nell’oscurità. Nulla di inquietante, era solo il salotto dopotutto. Mi tranquillizzai e decisi di tornare a letto.
Ma quel rumore tornò. Er strano, fino a poco prima non lo sentivo…ma cosa poteva essere?
Accesi la luce della lampadina e a un tratto rimasi immobile. C’era l’armadio aperto, notavo l’anta appena scostata, probabilmente perchè mi ero dimenticato di chiuderlo. Subito dopo aver accostato le ante, tornai sotto le lenzuola senza spegnere la luce preso dall’ansia.
Cosa poteva essere quel rumore?
Ma, ecco che di nuovo, straordinariamente, l’anta si scostava da sola, lasciando intravedere l’oscurità dell’armadio. Cominciai a sudare, con coraggio mi alzai dal letto, richiusi l’anta dell’armadio e anche la porta della mia camera. Poteva essere stato un soffio di vento, anche se la finestra era chiusa, le tende tirate. Tornai a letto, in attesa di un eventuale rumore. Nulla di fatto. Bene, potevo coricarmi di nuovo.
Fsss-fsss… di nuovo quel movimento strano, come di qualcosa che struscia contro una porta. Mi voltai dall’altra parte, ma con un forte scatto, l’armadio si spalancò completamente, facendo cadere a terra i vestiti che c’erano dentro.
Nell’oscurità dell’armadio si materializzò qualcosa, sembrava una specie di luce verde, con una forma sferica. Non credevo a ciò che stavo vedendo, eppure ero certo di essere sveglio. Piano piano, si definirono i contorni di un viso scarno, sembrava una signora. Non avevo idea di chi fosse, non l’avevo mai vista prima. Pochi capelli, rughe in fronte, orbite scavate, denti marci che probabilmente sapevano di stantio. Il volto dell’anziana rivolse uno sguardo alla stanza con il suo viso galleggiante a mezz’aria (non capivo come fosse possibile), poi mi notò e puntò gli occhi su di me. Ero paralizzato e lei strizzò l’occhio e lentamente si dissolse, lasciando un odore stantio nell’aria...

Non mi ricordo a che giorno risale quest’episodio, ma da lì le cose sono cambiate. Prima non sapevo cosa fosse una casa infestata, ma a quanto pare quella in cui vivevo lo era. Più volte lo spirito di quella signora venne a farmi visita durante le notti, e io puntualmente scappavo a dormire nel letto dei miei genitori. Cercai di dirlo a mio padre, la sua risposta fu: “Ed, c’è una ragione logica per tutto ciò che accade in questa casa”. Non ha mai saputo spiegarmi ciò che mi si presentava davanti durante la notte e ogni volta che tornavo in camera sentivo sempre lo stesso odore nell’aria. Aprivo l’armadio pronto a darmela a gambe nel caso di fantasmi, ma non trovavo nulla, solo una macchia verde sulla stessa parete dove si materializzava il volto della signora anziana, che scoprii che aveva abitato in quella casa nel lontano 1791. Era una vecchia nobildonna francese, fuggita in tempo nel periodo della rivoluzione, e il suo spirito era rimasto lì, in quella casa. La stessa che fu anche la mia.
All’inizio non sapevo se credere a quello che vedevo e sentivo e a scuola mi davano continuamente del pazzo. Ma alla fine avevo ragione io…
Lo spirito dell’anziana nobildonna mi disse che, data la sua indecisione nel passare oltre (e giungere così nell’aldilà), era rimasta in una dimensione a metà fra questo mondo e quell’altro, quello che non vediamo. Questo è uno dei motivi alla base della mia fede, che condivido con mia moglie, ed è stato uno dei motivi che mi hanno spinto a divenire ciò che sono stato in vita. Certo, investigare il paranormale non è divertente o avventuroso così come si potrebbe pensare, infatti nella mia vita ho avuto molta difficoltà. C’è stato un caso, uno dei tanti che io e mia moglie abbiamo affrontato, che mi ha lasciato impressa una consapevolezza: non importa quanto riesca a dare prove di una brutta verità, ci sarà sempre qualcuno che non ti crederà. E se c’è una cosa che ho imparato in vita è che bene e male esistono. E siamo noi a dover scegliere da che parte stare…

Roberto Fortugno