La Cosa: fantascienza paranoica e guerra fredda

Parthenope
Il ritratto di una società violenta e psicotica in uno dei film horror-fantascientifici più iconici di sempre: “La Cosa”. Voto UVM: 5/5

La Cosa è indubbiamente uno tra i cult cinematografici più discussi di sempre: remake di La cosa da un altro mondo di Christian Nyby e Howard Hawks (1951), fu eclissato dal roboante successo della fantascienza sciatta e buonista di E.T. l’extra-terrestre in quel novembre del 1982 ma riuscì, nel tempo, a farsi strada nel cuore degli appassionati grazie ad una sceneggiatura semplice ma ricca di colpi di scena, degli effetti visivi straordinari per l’epoca e tutt’ora mozzafiato, nonché La magistrale colonna sonora di Ennio Morricone. Tutti questi elementi, coadiuvati da una regia politica e visionaria del maestro John Carpenter, delineano una pellicola ricca d’azione ma con tempi dilatatissimi, orrorifica e disgustosa ma al tempo stesso leggera e grottesca, fantascientifica nella sua atmosfera e nel suo iconico villain ma terribilmente concreta ed impressionista nelle sue dinamiche e nella critica contro una società americana violenta, paranoica e menefreghista.

LA TRAMA

Il film si apre con l’inseguimento di un cane da parte di due ricercatori norvegesi a bordo di un elicottero. I due sembrano più che determinati a sopprimere la bestia in fuga, la quale trova rifugio nella base americana U.S. Outpost #31, ma la cattiva sorte fa si che il pilota rimanga coinvolto nell’esplosione dell’elicottero, causata dal lancio maldestro di una granata, e che l’altro ricercatore non riesca a spiegare la gravità della situazione ai suoi colleghi statunitensi, per via della barriera linguistica che li separa: nel picco massimo di tensione, il norvegese colpisce erroneamente uno degli americani e la situazione degenera in una sparatoria. Ucciso il pazzo straniero dal comandante Garry (Donald Moffat), la crew dovrà affrontare una minaccia ultraterrena, che sembra infettare ed assumere le sembianze di ciò che tocca, e che loro stessi hanno lasciato entrare…

Frame di “La Cosa” (1982) di John Carpenter. Produzione: Universal Pictures. Distribuzione: CIC.

LA DECOSTRUZIONE DELL’EROE

Nonostante le varie personalità del gruppo siano ben delineate ed ampiamente caratterizzate, tra i 12 membri della squadra di ricercatori spicca immediatamente quella di R.J. MacReady (Kurt Russel), per via del suo carisma prorompente ed anche grazie ad una certa spavalderia.

La messa in scena suggerirebbe il più banale dei protagonisti valorosi e puri di cuore, eppure già nei primi minuti del film MacReady perde a scacchi contro un computer e lo accusa di aver barato, per poi annegare i suoi circuiti nel Whiskey; ciò che all’apparenza potrebbe sembrare il classico eroe da film d’azione americano, sicuro di sé e sempre pronto a salvare la situazione, Carpenter lo trasforma lentamente in una macchietta arrogante, cocciuta e violenta, perennemente confusa ed incapace di accettare la sconfitta.

UNA REGIA FUNZIONALE ED INNOVATIVA

Le sue abilità registiche, Carpenter, le aveva già messe in mostra in svariate pellicole, passando dai classici horror slasher come Halloween – La notte delle streghe a film d’azione ritmati alla 1997: Fuga da New York, eppure non aveva ancora sfoggiato una tale creatività e polivalenza come in questo film: il regista statunitense dà voce a tutte le sue influenze accostando momenti di body horror puro a dialoghi freschi e cadenzati, alternando scene d’azione con un montaggio serrato ad inquadrature fredde e serafiche (e per questo inquietanti), il tutto mantenendo il ritmo sempre costante ed oscillando continuamente tra il destabilizzante ed il grottesco.

Di grande aiuto furono gli interventi di Robert Bottin, un artigiano degli effetti speciali analogici che contribuì ad ideare ed a realizzare la “cosa” nelle sue varie e spaventose forme.

Frame di “La Cosa” (1982) di John Carpenter. Produzione: Universal Pictures. Distribuzione: CIC.

GLI ANNI ’80 E LA VISIONE DI CARPENTER

Negli anni ’80 del secolo scorso la guerra fredda era ormai agli sgoccioli, e gli U.S. spalancavano le porte al cosiddetto “Edonismo Reaganiano“, un decennio segnato dal consumismo dilagante, nonché una vacua ricerca dell’appariscenza e della spensieratezza nettamente in contrasto con le lotte politiche e il clima di terrore che avevano segnato gli ani passati: i cittadini americani rigettarono l’impegno collettivo atto a migliorare la società e si rinchiusero nella loro sfera privata, perseguendo unicamente la propria felicità personale.

Carpenter coglie perfettamente questo clima di disinteresse apatico e disillusione politica, e lo trasforma nel suo film in una crescente diffidenza tra i membri della crew, alle prese con una minaccia che potrebbe tranquillamente assumere le sembianze dell’uomo con cui hai condiviso la stanza fino a ieri; la fiducia reciproca viene meno, la cooperazione diventa impossibile ed è così che l’uomo è costretto a regredire allo stato di bestia.

IL FINALE

La Cosa
Frame di “La Cosa” (1982) di John Carpenter. Produzione: Universal Pictures. Distribuzione: CIC.

Del resto è la natura stessa della “cosa” a rappresentare una minaccia ideologica per gli americani: il timore di essere assimilati ad un essere senza identità, che può diventare la tua identica copia in tutto e per tutto è indubbiamente terrificante, ma nella cultura dell’io tale prospettiva scardina completamente ogni certezza che abbiamo su ciò che siamo effettivamente.

Nel film risulta impossibile distinguere un organismo originale da uno assimilato, ed in alcuni momenti sembra che neanche quest’ultimo si renda conto di essere ospite della “cosa” fino a quando essa non si palesa. Il culmine viene raggiunto nel finale, quando gli ultimi superstiti si incontrano dopo aver fatto esplodere la base: la minaccia sembra svanita, eppure la tensione è al suo picco; non vi è un minimo segno di empatia, solo due esseri umani pronti a morire da soli pur di non dialogare l’uno con l’altro. 

 

di Aurelio Mittoro

Longlegs: Un horror disturbante con un inquietante Nicolas Cage

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Longlegs, un horror disturbante con un magistrale Nicolas Cage. – Voto UVM: 5/5

Longlegs, l’ultima fatica cinematografica del regista Oz Perkins, è un horror disturbante e a tratti subdolo che si eleva dallo standard del genere anche grazie ai suoi protagonisti. Un ritrovato Nicolas Cage registra un’interpretazione magistrale.

Longlegs: Trama e personaggi

Lee Arker (Maika Monroe), giovane agente dell’ FBI dotata di grande intuito ma di poca esperienza, si trova ad indagare su di una serie di omicidi-suicidi avvenuti nell’Oregon degli anni 90. La dinamica degli omicidi è sempre la stessa: il capofamiglia in un raptus omicida fa fuori tutti prima di togliersi la vita. La costante? Le figlie femmine compiono gli anni il 14 del mese e sul luogo del delitto si ritrovano dei messaggi incomprensibili firmati dal killer Longlegs. Grazie al suo sviluppato intuito Lee riesce a decifrare i messaggi criptati e a segnare una svolta nelle indagini, che la porterà presto a scoprire un profondo e oscuro legame tra lei e il killer, interpretato da Nicolas Cage.

Tra parallelismi e omaggi: Longlegs trova presto la sua autenticità

Longlegs nella sua trama, omaggia grandi pellicole come Il silenzio degli innocenti e Zodiac. Chi è amante del genere non potrà non notare il parallelismo tra la giovane Lee e Clarice, protagonista del cult di Jonathan Demme, interpretata da Jodie Foster. Il Longlegs di Nicolas Cage è per Lee quello che erano Hannibal Lecter e Buffalo Bill per l’agente Clarice. E come non rivedere nei messaggi oscuri del killer ciò che muove Zodiac, il serial killer dello zodiaco. Ma Longlegs è molto di più di un omaggio a grandi pellicole, trova la sua identità in un mix di generi e in una meta-narrazione che va oltre a ciò che vediamo.

Un film disturbante come il killer di Nicolas Cage

La pellicola si prende i suoi tempi per costruire la storia e, minuto dopo minuto, la tensione cresce sempre di più in uno sfondo austero e inospitale. A far crescere la tensione e a rendere disturbante la pellicola ci pensa Nicolas Cage con la sua interpretazione. Che l’attore fosse tornato a recitare a grandi livelli lo si sapeva già dai tempi di “Pig“, ma qui pur con un minutaggio ridotto ci regala una grandissima performance. Il suo killer satanista, disturba lo spettatore sin dalla sua prima apparizione che avviene nel primo minuto del film. I colori del viso quasi albini, la voce tirata e un vestiario da cantante anni 80 si miscelano a delle espressioni facciali che rendono il Longlegs di Nicolas Cage disturbante alla sola vista.

Frame di “Longlegs”. Regia: Oz Perkins. Distribuzione: C2 Motion Picture Group.

Longlegs, quando la regia fa la differenza

Il vero punto di forza nella pellicola di Perkins, oltre le interpretazioni dei suoi protagonisti, è la regia. Il regista ha saputo usare egregiamente la macchina da presa e la fotografia per uscire dello schema dell’horror mainstream. Non sono i Jump scare ad inquietare, ma i piani decentrati, gli zoom lenti e inarrestabili e il sonoro che accompagnano la protagonista Lee ad inquietare lo spettatore e a tenerlo sempre costantemente con la sensazione che stia per accadere qualcosa. I primi piani poi sono fondamentali per mostrare emozioni e stati d’animo come quelli della giovane Lee, che finiscono per inquietare lo spettatore.

Una meta-narrazione celata nell’horror

La pellicola presto mette in mostra l’importante rapporto tra Lee e sua madre e il collegamento di queste con il killer Longlegs. E dietro una storia che nel suo terzo atto prende definitivamente la via dell’horror occulto, si cela una descrizione meta narrativa del rapporto madre e figli. Cosa è disposta a fare una madre per propri figli? C’è un limite o è anche ammesso vendere l’anima al diavolo? E quanti traumi del passato ci portiamo inconsapevolmente per poi tirarli fuori quando meno ce lo aspettiamo? Longlegs è anche questo, una riflessione sull’inconscio umano e sui rapporti d’amore familiari.

 

Un horror diverso per un cinema diverso

Negli ultimi anni il cinema hollywoodiano ha trovato forza nel genere horror. Ma sono fin troppi i film che nonostante le buone intenzioni finiscono per essere qualcosa di visto e rivisto. Trama lineare e nessuna inquietudine, solo adrenalina creata dai numerosi Jump scare ormai facilmente prevedibili. Ed è questa la forza di Longlegs, che sceglie una via più difficile, scelta negli ultimi anni anche da altre pellicole come It Follows e Hereditary. Perkins fa la scelta vincente di scegliere l’inquietudine e il simbolismo come motori della sua pellicola che solo verso la fine del terzo e ultimo atto si ricollega, almeno in parte, ai topos del genere hollywoodiano quali possessione e occultismo.

Frame di “Longlegs”. Regia: Oz Perkins. Distribuzione: C2 Motion Picture Group.

L’horror più spaventoso degli ultimi tempi?

La campagna marketing Usa di Longlegs è stata davvero aggressiva. La pellicola che vede Cage nel ruolo dell’omonimo killer satanista è stata pubblicizzata come l‘horror più spaventoso degli ultimi tempi, ma difficilmente può essere definita in questo modo. Ciononostante va riconosciuta la bellezza dell’operato di Perkins, Cage e Monroe e questa pellicola va riconosciuta come una delle meglio  girate del genere horror degli ultimi anni e come una delle migliori pellicole del 2024.

 

 

Francesco Pio Magazzù

Al chiaro di luna. Riflessioni sulla licantropia in età antica

Erede del fenomeno socio-religioso dello sciamanesimo, che percepiva l’ibrido uomo-animale come il più nobile fine a cui l’uomo potesse ambire, la figura del licantropo occupa una posizione di rilievo nel corpus folkloristico europeo e in altre parti del globo.

Che sia un diretto sviluppo del caso clinico della licantropia o, per l’appunto, eredità culturale dei credi animisti che l’homo sapiens praticò per gran parte della sua esistenza, l’uomo lupo, λúkος ἄνθρωπος, presenta alcune evidenti somiglianze con altre figure leggendarie. Basti pensare agli sciamani aztechi, capaci di trasformarsi in animali, i vampiri che mutano in pipistrelli, i guerrieri norreni úlfheðnar che si trasformano in lupi e tanto altro.

E se la figura dell’uomo che muta la propria forma è pressoché presente in tutte le culture umane, in quella europea l’uomo lupo, in particolar modo, vanta una tradizione millenaria che, tutt’oggi, influenza il gusto cinematografico e letterario dell’orrore.

 

Licantropo al chiaro di luna. Immagine realizzata con IA

 

Petronio e l’amore per l’orrore

La prima attestazione letteraria di questo fenomeno, che si configura essere più sociale che clinico, è contenuta nel Satyricon di Petronio, scrittore e poeta romano del I sec. a.C.
Nel LVII libro del Satyricon è narrata la vicenda di Nicerote, amico di Trimalchione, che racconta la sua storia ad un banchetto per intrattenere i commensali. Il racconto, però, non sarà così tanto allegro come spera l’amico Trimalchione.

Quando era ancora un servo, Nicerote aveva come amante la bella moglie dell’oste, Melissa.

Quando il suo padrone andò a Capua per smerciarvi delle cianfrusaglie, approfittando della prematura morte dell’oste, Nicerote decise di far visita a Melissa e invitò un soldato ad accompagnarlo durante il viaggio.

Arrivati nei pressi di un cimitero e alzatasi la luna splendente in cielo, i due si riposarono tra le tombe, in attesa dell’alba. Quand’ecco che l’ospite, dopo essersi allontanato, si denudò, gettando i propri vestiti a terra. Vi urinò sopra, girandovi intorno, e si trasformò in un lupo. Poi fuggì nel bosco e sparì.

Nicerote, impaurito, si avvicinò ai vestiti e si incupì, ancor di più vedendoli ormai tramutati in pietra. Lo sgomento lo rapì e decise di tornare in fretta e furia alla tenuta di Melissa.

Questa gli aprì la porta e lo informò del recente attacco al gregge della sua tenuta da parte di un lupo. Che fosse il soldato di prima?

La donna, orgogliosa, aggiunse che il lupo avesse sì ucciso tutte le bestie, ma senza passarla liscia. Un servo gli aveva, infatti, trapassato il collo con la lancia.

Nicerote, dubbioso, tornò al cimitero e vide i vestiti, prima impietriti, adesso scomparsi. C’era solo tanto sangue.

Così tornò a casa e vide il medico che stava curando un uomo ferito su un lettino. Era il suo amico soldato, ferito alla gola dalla lancia del servo di Melissa. Nicerote capì allora che il suo amico fosse un lupo mannaro e, sbigottito, promise di non averci più a che fare.

Versipellis. Colui che muta la propria pelle. È questo il termine con cui il nostro Nicerote definì il soldato e con cui i Romani chiamano i lupi mannari. Difatti, è diffusa la credenza che il manto lupino sia nascosto sotto la pelle umana e tirato fuori all’occorrenza.

Non è una trasformazione della pelle, che subisce una crescita repentina di peluria e artigli affilati. È un semplice cambio di vestiti. Un “voltapelle”, dunque.

Credo sia un lupo mannaro

Il racconto di Nicerote costituisce la prima testimonianza letteraria di un caso di licantropia, sebbene essa compaia ben prima del nostro Gaio Petronio.

Effettivamente, di mutaforma si parla nel famoso mito di Licaone, il sovrano empio trasformato in lupo da Zeus, inorridito dalle nefandezze del re di Arcadia. Le feste in onore di Zeus quivi celebrate erano infatti chiamate Licee, dal nome λύκος (lupo), una delle molteplici forme assunte dal Cronide.

In Grecia pare che la figura del lupo fosse radicata all’interno dei culti locali. Non molto lontano, in Acarnania, il nonno di Odisseo, il famoso Autolico (da αὐτός «stesso» e λύκος «lupo»), era un famoso ladro di bestiame, reso  infallibile da suo padre Ermes.

In diverse situazioni Autolico ruba il bestiame altrui, appropriandosi di quell’istinto predatore tipico dei lupi che attaccano un gregge. Egli preda gli animali proprio come farebbe un lupo, quindi egli stesso è un lupo. Forse è proprio quello che avranno pensato i suoi contemporanei.

Altri elementi di teriantropia, termine indicante l’assunzione di caratteristiche animali da parte di esseri umani, di cui branca è la licantropia, possono essere rintracciati in Aita, o Eita, il dio etrusco dell’oltretomba, che si veste di pelle di lupo, assumendone le forme.

 

La trasformazione di Licaone, di Hendrick Goltzius Un caso di licantropia dei miti classici
La trasformazione di Licaone, di Hendrick Goltzius. Un caso di licantropia nei miti classici

Il lupo della porta accanto

A lungo si è ritenuto che il licantropo fosse un prodotto della fobia cristiana verso i guerrieri pagani, che i barbari coperti di pelli di lupo (gli úlfheðnar sopra citati ne sono un esempio) incutessero così tanto terrore ai monaci cattolici a tal punto da ritenerli un tutt’uno con l’animale totemico.

Eppure, come abbiamo visto, la concezione del mutaforma è già insita nella cultura europea antica, perciò quella descritta dai monaci cristiani ne è soltanto l’evoluzione. Un’evoluzione che, in seguito, ha contribuito alla cristallizzazione della figura del licantropo attribuendogli alcune caratteristiche che conosciamo tutti oggigiorno: legame profondo con la luna, ferocità, insaziabile voglia di carne umana, vulnerabilità all’argento, presenza o assenza, a seconda dei casi, della facoltà di intendere e di percepire il mondo come un normale essere umano.

Si badi bene, però, dal giudicare il licantropo una figura folkloristica che appartiene al passato. Nel Medioevo erano scoppiate vere e proprie “epidemie” di licantropia e sebbene questa isteria collettiva sia stata debellata con l’avvento illuminista, questo non significa che sia un lontanissimo ricordo.

Provate a chiedere ai vostri genitori, o ai vostri nonni, se conoscono qualche caso di licantropia. Vi racconteranno, probabilmente, di quando erano piccoli e sentivano un uomo solitario del paese ululare alla luna.

Questo perché la tradizione folkloristica ha consolidato la figura del lupo mannaro a tal punto da essere presente in ogni regione dell’Italia, seppur con nomi diversi. Lupunaru a Palermo, lunaru nel Salento, lupi minari a Forlì.

Questa notte tutte le forze del male vagheranno libere per il mondo e anche i lupi mannari andranno a caccia. Perciò rispolverate quel vecchio set di posate d’argento che vostra nonna, o vostra madre, tiene conservato con tanta cura.

Sia mai che sentiate tanfo di lupo dietro la vostra porta.

 

Bibliografia:

CVLT: l’album di Salmo e Noyz Narcos è “a prova di morte”

 

CVLT
Costruire immagini con parole e musica non è per nulla semplice ma con CVLT i due rapper ci riescono benissimo. – Voto UVM: 4/5

 

Tarantino li invidierebbe e i Club Dogo non riuscirebbero a fare niente di meglio. È davvero questa la presentazione che merita il nuovo lavoro di Salmo e Noyz Narcos?

CVLT è un disco nudo e crudo, ricco di citazioni cinematografiche e produzioni ricercate. Un joint album con un immaginario a cavallo tra l’horror dei b-movie e il pulp-splatter alla Tarantino.

Il fil rouge del disco? Una scia di sangue dall’inizio alla fine!

Il flow crepuscolare di Salmo e Noyz Narcos: uno specchio generazionale

Non mancano di certo gli “esercizi di stile” by lebonwski, che per questo disco indossa anche i panni di producer. Con Luciennn dà vita a CRINGE, seconda traccia dell’album, e a MIRACOLO, di sicuro il pezzo più intimista di CVLT.

“Indosso l’universo, ma mi sta stretto”. (Salmo in MIRACOLO)

Il testo incoraggia ad abbracciare la vulnerabilità e a valorizzare ogni giorno come se fosse l’ultimo, riconoscendo anche le sfide che possono ostacolare il proprio cammino.

E mentre Salmo riflette sulla sua esistenza e sui suoi errori, incoraggiando gli altri a non aver paura di cadere, Noyz Narcos ci ricorda quanto faccia male vivere nel passato e nella bellezza dei ricordi, arrivando addirittura a smettere di pensare al presente.

“Per me sbagliare è un lusso, altroché / Se cado, non rialzarmi, sdraiati fianco a me”. (Salmo in MIRACOLO)

L’amore atipico di CVLT

Sono pochi i featuring dell’album ma di certo tutti meritano almeno un ascolto. A cominciare da quello con Coez e Frah Quintale per MY LOVE SONG 2, sequel di uno dei brani più famosi della discografia di Noyz Narcos. Una ballata cruda che racconta dello stesso amore di cui ci parlava Salmo in Black Widow e Noyz Narcos in My Love Song.

Altro featuring che racconta di un amore atipico è quello con Kid Yugi per la title track. CVLT (prodotto da Sine e Salmo) è un viaggio in macchina tra trombe e atmosfere desertiche messicane, grappa invece che caffè, diamanti rubati, e tanto tanto “gangster love”. A metà tra Gangster Story (Bonnie and Clyde) diretto da Arthur Penn e Dal tramonto all’alba, film di Robert Rodriguez.

“Si, prendi tutti i soldi e scappa via da qui, lontano dai guai / Avere tutto non mi basta, io con lei, come Bonnie e Clyde”. (Salmo in CVLT)

Visivo e cinematografico

Costruire immagini con parole e musica non è per nulla semplice, ma Salmo e Noyz Narcos, con la loro ultima fatica, ci riescono benissimo. Sono tanti gli elementi narrativi che rendono l’album così interessante.

A cominciare dal chiaro omaggio al regista Quentin Tarantino e al suo film, Grindhouse – A prova di morte con il brano GRINDHOUSE che si apre proprio con un dialogo presente all’interno dell’omonimo film:

“Cazzo, fa veramente paura”
“Sì, volevo qualcosa di impressionante. La paura tende a impressionare”
“Ed è sicura?”
“No, è più che sicura, è a prova di morte”

Sono, invece, i Blues Brothers ad aprire NIGHTCRAWLERS, penultima traccia di CVLT, prodotta da Luciennn:

“Abbiamo il serbatoio pieno, mezzo pacchetto di sigarette, è buio, e portiamo tutt’e due gli occhiali da sole”

Visivo e cinematografico anche perché CVLT non è un semplice album. Quello di Salmo e Noyz Narcos è un esperimento che mette insieme due universi: musica e cinema. E non solo per tutti i riferimenti che è possibile trovare all’ascolto, ma perché l’album è anche un cortometraggio!

Scritto e diretto da Dario Argento…

Il corto inizia con un dialogo tra Noyz e Salmo, che si confrontano su come si debba preparare una buona carbonara. Tutto ciò rimanda al cinema di Tarantino (aridaje!), con i suoi ritmi incalzanti e lo stile ricco di dialoghi, a volte anche piuttosto surreali.

Giunti alla villa “psyco” del regista, i protagonisti vengono accolti da un maggiordomo che li conduce in una sala cinematografica. Ed è qui che Noyz Narcos e Salmo vengono brutalmente uccisi, a colpi di David di Donatello e coltellate, su ordine del maestro del cinema horror.

L’atmosfera che avvolge la scena è quella tipica dei film di Dario Argento. Tra giochi di luce e musica inquietante, il cortometraggio ci offre un’esperienza visiva coinvolgente, in cui la realtà sembra essere distorta e alterata: proprio come nel cinema perturbante.

CVLT – A prova di morte

Anche se il disco sembra essere stato scritto (nel senso positivo del termine) sotto effetto di sostanze che nemmeno Johnny Depp e Benicio del Toro in Paura e delirio a Las Vegas, dobbiamo prenderlo per quel che è: un continuo omaggio alla cultura cinematografica e ai film di genere con cui sono cresciuti i due rapper.

Volevano fare qualcosa di impressionante, per citare nuovamente Grindhouse di Tarantino, e ci sono riusciti.

 

Domenico Leonello

Occasioni

Pensò: “Nella vita si presentano occasioni che è bene cogliere per poter usufruire a pieno dei vantaggi che ne derivano.” Glielo aveva insegnato suo nonno.
Poggiò a terra la valigia che presentava un motivo moresco e fece una rassegna visiva della gente che camminava con la testa un poco bassa e i cappotti scuri. Nessuno si spostava con particolare entusiasmo, eccetto i confusi clan di bambini che inveivano un “dolcetto o scherzetto” contro ogni portone aperto. Una volta raccolte le forze, prese su la valigia e fece ansiosa slalom tra i passanti per poter finalmente trasferirsi nella sua nuova stanza in affitto. Era un’occasione. L’appartamento era un gioiellino deprezzato in centro città e, in cambio dell’offerta, avrebbe soltanto dovuto ascoltare alcune storie del proprietario ogni sera. Avanzò con passo nervoso sino alla sua destinazione, poi più lentamente esitò di fronte la vetrina di una profumeria per specchiarsi. Fece infine un salto deciso sulla scalinata accanto e suonò al citofono il Dott. Severino, quarto piano. Attese. Si voltò a destra perché si sentiva osservata, ma poi pensò bene fosse soltanto un po’ di paranoia causata dalla città nuova. Il suono gracchiante del citofono fu seguito dal suo ingresso nell’androne austero. Era poco illuminato, pieno di specchi e ogni suo passo mutava in eco.

Una volta su, non rimase stupita nel vedere che il padrone di casa fosse un vecchio uomo sulla settantina.

“La prego, entri.”

Iris si guardò intorno. “Grazie.” Venne chiuso il portone alle sue spalle e rimase fulminata dalla bellezza del salotto art déco ed era sorpresa dal fatto che le foto dell’annuncio non gli rendessero certo giustizia. Tanti dettagli attirarono la sua attenzione: un giradischi d’epoca, un’immensa libreria di legno e un pianoforte posto di fronte la finestra del salotto che, come un quadro, rifletteva la luna calante.

“Che casa meravigliosa…” Sospirò avanzando per il corridoio. Il vecchio la superò con una curiosa agilità, mentre gli occhi di lei si soffermavano sulla carta da pareti blu e verde, ricca di rombi e altre geometrie bizzarre. Aveva qualcosa di misterioso quella casa, a tratti lugubre, ma riusciva comunque ad essere accogliente. Il Dott. Severino si fermò di fronte una porta chiusa e la aprì con la grossa mano rugosa.

“Questa è la sua stanza.”

Ammirò lungamente il letto di legno nero e la poltrona classicheggiante rossa posta di fronte e volse poi lo sguardo sulle rotondità del lampadario moderno.

“Questa era la stanza di mio figlio.” La informò l’uomo e si sedette sulla poltrona senza smettere di osservarla con gli occhi stanchi e azzurri. “Iniziamo?”

Trovò la situazione strana, ma poi pensandoci meglio capì si trattasse di imbarazzo, quindi abbandonò la valigia a fianco del letto e si sedette.

“Si metta comoda. Tolga le scarpe. Avrà fatto un lungo viaggio.” La voce graffiata le suscitò grande tenerezza, perché le ricordava il nonno, ed eseguì. L’uomo iniziò a parlare della sua infanzia, famiglia, finanze ed ex moglie per ore. Poi pianse, confidandole fosse solo al mondo.

“Credevo avesse un figlio, caro signore, non pianga.” Si dispiacque la giovane e gli strinse la mano.

“È morto.” Il pianto non si fermava e provò una certa inquietudine. Indagò qua e là e notò la foto di un bambino sul comodino.

“Forse dovrebbe cambiare casa, è piena di ricordi.”

Ci fu silenzio per un attimo. “Buonanotte cara.”

Le baciò la fronte e un sonno pesante la trascinò con sé immediatamente. Si svegliò dopo un po’ frastornata, ma sentendosi piena di forze, e si mise in piedi per accendere la luce per affrontare il nuovo giorno. Non c’era corrente. Tentò di aprire le serrande con l’interruttore, ma invano e a tentoni riuscì a raggiungere l’abat-jour che non dava segni di vita.

“Signore!” Gridò. “Non c’è luce!”

Una luce lenta fece il suo ingresso e intravide il volto spettrale del Dott. Severino illuminato da una candela.

“Non si preoccupi, capita. Siamo al sicuro. Si sieda.”

Obbedì.

“Signorina Citati, vuole da bere?” Il volto in penombra era senza dolore alcuno, come se il male della sera prima fosse caduto nel totale oblio.

Pensò, disse di no inizialmente, poi annuì.

“Tè? Whiskey? Rum?”

“Tè, grazie.”

Il vecchio si allontanò e Iris si sentiva diversa, perché non riusciva a controllare il suo respiro che era sempre meno ritmico. Allo stesso tempo era come se fosse all’interno di una bolla, le orecchie avevano dei lievi acufeni oppure erano completamente chiuse. L’abat-jour si accese sola e così comprese fosse ritornata la corrente, ma sentì all’istante una puzza di bruciato nauseante che la spinse a chiedere a voce alta se andasse tutto bene, infine però razionalizzò la sua suggestione.

L’uomo fece ritorno con le bevande.

“Tè per te, rum per me.” Rise e lei lo ringraziò quando le venne porta la tazza. Il dottore si sedette nuovamente sulla poltrona porpora che appariva ora più alta e splendida. Iris per un momento ebbe l’impressione di vederlo seduto su un enorme palco e che le luci fossero puntate su di lui. Sorseggiò il tiepido tè, percependo il suo respiro più leggero che mai.

“Io ero un chirurgo, di quelli bravi. Ero un cardiochirurgo. Ho visto tanti miei amici morire. Un incubo. A vedere i tuoi pazienti morire ci fai l’abitudine, a vedere chi ami mai.”

Ecco che tornò la puzza di bruciato. “Scusi se la interrompo…”

“Prego.”

“Lei è sicuro di aver chiuso i fornelli? Sento uno strano odore.” Quando lo disse fu come se la puzza decise di nascondersi per non essere scoperta. Andò via. Si sforzò per risentirla, ma nulla.

“Non la sento.” Non avrebbe potuto dargli torto. Ci furono pochi secondi di silenzio mentre l’anziano ingeriva tutto in un sorso il bicchierino di rum. In quella assenza totale di suono, poteva sentire il percorso che il liquido tracciava all’interno della gola e poi dell’esofago. “Mio figlio si è dato fuoco. Aveva tanti debiti e un usuraio lo ha spinto alla rovina.”

Provò terrore e volle aprire la pesanti finestre per prendere aria.

“Ferma!” Il grido addolorato le fece raggelare il sangue, mentre la puzza di bruciato continuava con il suo vai e vieni. Il vecchio pianse e anche lei. “Ha mai perso qualcuno di caro?”

“Mio nonno. Recentemente.”

“Era malato?”

“No.”

“Com’è morto?”

“Di infarto.”

“L’Onorevole Citati… Oh Sergio… Il tuo amore per il denaro è stato tanto grande da farti scoppiare il cuore.”

Iris raggelò. Conosceva alcuni misfatti del nonno, ma non tutte le conseguenze insorte.
Il nome sul citofono era falso. L’uomo, in realtà, era il Dott. Romano, padre di un ex imprenditore di nome Vincenzo, la cui vita terminò tragicamente quindici anni prima, dopo una lunga depressione causata dalla bancarotta indotta dall’On. Sergio Citati, dandosi fuoco proprio nel balcone di quella casa. La sua anima stanca danzava nella notte con la fiamma del figlio e, delusa dalla giustizia, cercava vendetta. Non era un caso che proprio lei fosse lì.
Iris tutta questa storia non la conosceva, nonostante ciò decise fosse arrivato il momento di togliere il disturbo. Sentiva che probabilmente il nonno defunto avesse a che fare con la morte del figlio del proprietario di casa e il fatto che lei si fosse ritrovata ad affittare l’appartamento lo trovava assolutamente uno scherzo del destino e, soprattutto, di cattivo gusto. Si alzò e iniziò a piegare le coperte.

“Vuoi andare via?” Domandò piano.

“Sì!” Gridò senza rendersene conto, terrorizzata. Tirò da sotto il letto la valigia e le lacrime le bagnavano le guance. Pensò a suo nonno e a quanto male avesse fatto in giro per avere le sue occasioni e i suoi vantaggi. Un po’ le dispiaceva, ma aveva fatto tanto bene alla sua famiglia. Percepì un brivido, ma di amarlo comunque più che mai. Era un amore triste, tenero e proibito. “Ogni suo errore lo ha fatto per amore– pensò – Il mondo è degli egoisti. Sopravvive il più forte.”

“Avrei voluto solamente che qualcuno mi ascoltasse fino alla mia morte. Ti prometto che dopo quest’ultima storia, ti lascio andare.”

Si mise nuovamente a sedere, quasi controvoglia, perché fu il suo corpo a ritenere fosse corretto, in onore dell’ospitalità, prestare orecchie un’ultima volta. Nel giro di pochi istanti i nervi erano di nuovo inspiegabilmente saldi.

“In ospedale danno delle fascette identificative di colori diversi. Lo sapevi?Quando nasci, ad esempio: blu se sei maschio e rosa se sei femmina. Ne danno altri anche in occasioni differenti. Grigio se fai un day ospital. Giallo se devi fare un intervento importante.”

Non comprese perché le stesse facendo questa rassegna, ma si sentiva di nuovo tranquilla. Voleva rimanere. In fondo perché se ne sarebbe dovuta andare? Si trattava di un compromesso così vantaggioso. Occasioni.

“Mio figlio quando è morto non ne ha avuto nessuno.”

“Ne danno uno anche a chi muore?”

“Sì. Tuo nonno lo ha avuto. Non rammenti?”

Si sforzò per ricordare. “Rosso, sì.”

Nel momento in cui lo disse, sentì di nuovo puzza di bruciato e il vecchio parve giovane, bello e affascinante. Gli occhi rimanevano azzurri e pietrificati.

“Come questo?” Scoprì il braccio destro stretto in una fascetta rossa. Iris si sentì morire ed emise un urlo di dolore, indietreggiando verso la testata del letto. Dovette respirare più profondamente quando l’uomo impassibile si alzò e puntò l’indice verso il suo braccio.
Disperata abbassò gli occhi, tenendoli chiusi e, pur non essendo credente, iniziò a pregare chissà quale Dio.

”Apri gli occhi, bambina mia, guarda il tuo amato nonno dove ti ha portato. Questa sì che è un’occasione!” La voce, la voce era familiare. Era la sua.

Piangeva ininterrottamente quando si fece forza per riaprire gli occhi e, con l’orrore più agghiacciante, constatò che anche il suo scarno polso era stretto con una fascetta rossa.

Isabel Pancaldo

*Immagine in evidenza: illustrazione di Isabel Pancaldo

Del Toro’s Cabinet of curiosities: un’occasione sprecata

“Cabinet of curiosities” raccoglie parecchi talenti mal gestiti dalla produzione. Il prodotto finale risulta essere alquanto scadente. Voto UVM: 1/5

 

La serie antologica di Del Toro uscita su Netflix il 25 Ottobre offre allo spettatore un Horror, che cerca di svecchiare storie classiche, tra le quali si trovano molti adattamenti da famosi racconti di fantascienza. Non riesce però a nostro avviso a soddisfare nemmeno parzialmente le aspettative, create nel pubblico dal nome di Del Toro già regista di ”Il labirinto del fauno”, ”La forma dell’acqua” e del recente ”Nightmare Alley” (da noi già recensito).

Si tratta a nostro avviso di un prodotto molto raffazzonato, vittima, come molte altre produzioni, della sindrome di Netflix: produrre produrre produrre a scapito della rifinitura… ma andiamo nel dettaglio!

Tentacoli e membra

Il contenuto chiave della serie è quello horrorifico: creature tentacolari, demoniache e bestiali, alcune riuscite meglio di altre, altre che invece ci hanno sorpreso solo per la loro povera messa in scena.

L’effettistica è sicuramente il tratto distintivo della produzione e sebbene l’impegno nel portare sullo schermo qualcosa che sorprenda lo spettatore ci sia stato, il risultato finale è alla meglio banale se non a tratti ridicolo: mettere i pantaloni di carne ai mostri o usare dei pupazzoni inermi non ci è sembrata una buona mossa insomma.

Dal trailer di “Cabinet of curiosities”. Fonte: Netflix

Ci sentiamo di dire che nonostante i creatori dell’effettistica avessero buone idee, forse queste non si sono davvero realizzate. Crediamo che parte di ciò sia dovuto alla cattiva gestione del budget da parte della produzione. È evidente (e lo continueremo a dire!) che la produzione di questa serie sia mal gestita e non mostri coesione tra sceneggiatura, regia, prove attoriali e grandi nomi presenti nel cast.

Sceneggiatori intelligenti che non si applicano: dov’è del Toro?

Trattandosi di un’antologia, le storie sono collegate tra loro dalla tematica “horror”, ma anche dall’insensatezza della trama e del comportamento della maggior parte dei personaggi. Plot twist casuali e situazioni al limite (se non oltre) del ridicolo ci hanno fatto – quasi – perdere la voglia di continuare la visione.

A volte si scade nel più becero politically correct, giustificando le azioni di protagonisti squilibrati, instabili e dannosi verso il prossimo. Spesso i protagonisti stessi ci vengono presentati come soggetti dalla mente instabile, ma il fatto che ogni personaggio riesca ad avere le stesse visioni di bestie e demoni, non rende davvero l’aspetto ansiogeno tipico dell’horror.

Insomma non riesce nemmeno a mirare minimamente gli obiettivi per i quali Del Toro ha assunto questo incarico e per il quale era diventato famoso. La sua presenza infatti non è pervenuta!

Performance caotiche e attori sbandati

Le performance attoriali e la regia vengono, anche queste come detto, minate da una produzione sconclusionata: le idee non sono state ben delineate dai vari registi e questo ha comportato delle prove attoriali caricaturali e “fumettistiche”. Smorfie e monoespressività si ripresentano in tutti gli episodi in maniera omogenea.  Sembra che tutto sia ricaduto addosso ad attori e registi dall’alto, tramite direttive che hanno imposto, grossolanamente, storie che, nonostante le idee, ripropongono una visione vuota e ritrita del genere.

Molte inquadrature rimangono ad un livello amatoriale e spesso molte scene presentano incongruenze grafiche molto pesanti che distolgono l’attenzione e suscitano ilarità – dove si dovrebbe invece provare inquietudine.

Dal trailer di “Cabinet of curiosities”. Fonte: Netflix

Raccogliamo i pezzi

Concludiamo allora dicendo che: la qualità complessiva è mediocre e spesso scende anche al di sotto della stessa mediocrità.

Non ci sentiamo di dare che pochi elogi a questa antologia e tra questi elenchiamo il design dei mostri e l’incipit di ogni puntata che mostra un’ispirazione assente nello sviluppo della storia. Di episodi dignitosi ce ne sono davvero pochi e anche quelli rimangono impressi per pochi dettagli scenici. Il salvabile non giustifica la visione e non ci sentiamo di consigliarla al pubblico verso cui è stata indirizzata. Quel pubblico era stato infatti chiamato alla visione per due motivi: da un lato il nome di Del Toro, non pervenuto all’interno degli episodi, e dall’altro quello di Lovecraft.

Usare il suo nome per farsi campagna pubblicitaria ingannevole mettendo solo i titoli dei suoi racconti senza adattare una virgola dei suoi testi non ci è sembrata una tattica onesta. Anzi proprio per le attese che questo nome ci suggeriva, siamo stati molto più annoiati e delusi dalla visione.

Salvatore Donato, Matteo Mangano

Sam Raimi: una favola di regia

Nel corso della storia del cinema possiamo contare diversi esempi di uomini e donne capaci di imporre le proprie idee e farsi amare dal pubblico internazionale partendo da zero.

Compie oggi 62 anni Sam Raimi, regista che ha fatto la storia della settima arte imponendosi autonomamente in un settore estremamente ostico verso chi non possiede le conoscenza necessarie per poterci lavorare.

Noi di UniVersoMe vogliamo celebrarlo andando a ripercorrere le tappe più significative della sua carriera.

Le origini e la trilogia de La Casa

Alla base del successo del regista gioca un ruolo fondamentale l’amicizia con Bruce Campbell. I due si conoscono dai tempi della scuola e fin da adolescenti iniziano a girare dei cortometraggi con una cinepresa regalata a Sam dal padre.

Trascorrono gli anni e la passione per il cinema porta i due a fondare una propria società insieme a Robert Tapert (l’allora compagno di stanza d’università di Raimi): la Renaissance Pictures. Il primo film della nuova casa di produzione fu La Casa (1981).

La pellicola racconta di cinque ragazzi che si recano in uno chalet sito all’interno di un bosco per divertirsi. Qui vi trovano un libro scritto in sumero (il Necronomicon), mediante il quale involontariamente evocano un’entità maligna che li perseguiterà. Toccherà ad Ash Williams (Bruce Campbell) cercare di salvare se stesso e i suoi amici.

Una scena del film – Fonte: Renaissance Pictures

La Casa inizialmente venne accolto da pareri discordanti della critica e non ottenne particolare successo al botteghino. Nel corso degli anni però, grazie alla redistribuzione in home video, venne ampiamente rivalutato fino ad essere considerato uno dei cult movie a basso costo più amati della storia. A causa del budget bassissimo, Raimi dovette arrangiarsi parecchio durante le riprese: molti effetti speciali vennero creati con mezzi di fortuna sul set stesso.

Ciò che colpisce enormemente della regia è sicuramente l’utilizzo della telecamera nei momenti in cui l’entità si muove tra i boschi: il regista ha deciso di effettuare delle riprese in soggettiva del demone mentre insegue i ragazzi. Gli inseguimenti vengono mostrati dal punto di vista dell’entità grazie a una sorta di steadicam (creata dal regista stesso), montata su un supporto mobile che garantisce un movimento fluido e veloce della cinepresa. Il risultato è un effetto tremolante senza alcuna perdita di qualità dell’immagine.

Nel 1987 il regista gira una sorta di sequel/remake, intitolato La Casa 2, con Bruce Campbell nuovamente nei panni  di Ash Williams. Grazie alla distribuzione di Dino De Laurentis e ad un budget 10 volte superiore al film precedente, Raimi riesce a riproporre ciò che aveva già realizzato ne La Casa, innalzando esponenzialmente la qualità della pellicola.

Un elemento estremamente importante della pellicola è certamente l’aspetto del protagonista: Ash ad un certo punto del film è costretto ad amputarsi una mano e poi ad autoimpiantarsi una motosega per sostituirla. Con una mano-motosega da un lato ed un fucile dall’altro, diviene a tutti gli effetti un personaggio iconico nel panorama del genere horror. Un esempio di come Raimi riesca ad aggiungere particolari significativi alla trama che restano impressi in maniera indelebile nella mente dello spettatore.

Ash ed il suo amato braccio-motosega

Nel 1992 esce il seguito diretto de La Casa 2 intitolato L’armata delle tenebre, film visceralmente diverso dai precedenti.  Non ci troviamo più di fronte ad un horror con sprazzi di comicità, ma più propriamente davanti ad un fantasy che vede sempre Ash Williams catapultato nel medioevo dove dovrà fronteggiare le forze del male.

La trilogia di Spider-Man: rinascita del cinecomic

Dopo il successo della trilogia de La casa, arriva un’occasione più unica che rara per il regista: nel 2000 la Sony gli affida il compito di dirigere Spider-Man. Un momento significativo per la carriera di Raimi: se prima il regista aveva tutta la libertà del mondo per esprimere la sua creatività da cineasta senza particolari pressioni, ora si ritrova su un livello estremamente più elevato.

Impostando la pellicola come una sorta di commedia d’azione con spruzzi di romanticismo d’alta classe (il bacio tra Peter Parker e Mary Jane meriterebbe un intero articolo a parte!) e gag esilaranti, il regista gira un film che incassa 800 milioni di dollari.

Il famoso bacio tra Peter Parker (Tobey Maguire) e Mary Jane (Kirsten Dunst) – Fonte: Columbia Pictures/ Sony Pictures

Fino ad allora i film sui supereroi erano considerati B-movies e le grandi case di produzione – a parte rarissime eccezioni- non investivano in tali progetti. Spider-Man (2002) fu un salto nel buio per la Sony, che grazie a Raimi decise poi di girarne due seguiti dal medesimo stile (in Spider-Man 3 però non sono presenti gag degne di questo nome). Da lodare anche le brillanti interpretazioni di tutto il cast (presente anche l’amico Bruce Campbell in un cameo).

La trilogia di Spider Man trascina una mole gigantesca di persone in sala ad assistere a un film di supereroi, segnando la rinascita del cinecomic e l’inizio di un periodo d’oro per il genere che arriverà fino ai giorni nostri con le pellicole del Marvel Cinematic Universe.

Sam Raimi – Fonte: horrorstab.com

Raimi è un esempio lampante non solo di come si fa cinema, ma di come si possa creare qualcosa che abbia qualità in qualsiasi condizione. Senza soldi gira una pietra miliare del genere horror, con i soldi dà linfa vitale al genere cinematografico più redditizio di sempre. Chapeau Mr Raimi.

Vincenzo Barbera

 

 

A Classic Horror Story: tra horror e realismo

Un classico horror non banale che va a scovare gli orrori della società – Voto UVM: 5/5

Come ormai sapete, noi di UVM, abbiamo partecipato al 67esimo Taormina Film Fest, un onore per tutti noi, un’esperienza che ha dato maggiore prestigio alla nostra redazione.

Tra i tanti film presentati durante la rassegna, vi è stato A Classic Horror Story, primo film horror prodotto da Netflix proiettato al quarto festival più antico al mondo. Insomma, un privilegio: è sempre bello essere tra i primi, ma soprattutto essere ricordati per aver assisitito alla premiere di un film non banale – anzi- pieno di colpi di scena e di suspence, che l’hanno reso ancora più memorabile.

I tre redattori di UVM assieme alla protagonista Matilda Lutz.

Ma di cosa parla il film? Chi fa parte del cast? Chi sono i registi? Non preoccupatevi, tra un po’ le vostre domande avranno una risposta.

A Classic Horror Story (2021)

Il 14 Luglio, uscirà sulla piattaforma streaming Netflix “A Classic Horror Story”, pellicola di genere horror – come si deduce dal titolo. 

Cari lettori, parto dicendo che l’horror è il mio genere preferito e da un paio di anni non è stato prodotto un horror (fatta qualche eccezione) che mi abbia soddisfatto appieno, ma questa perla firmata Netflix, ha sodisfatto appieno le mie aspettative. Dietro la cinepresa troviamo ben due cineasti, i loro nomi sono Roberto De Feo e Paolo Strippoli, due giovani registi che con la loro arte e simpatia sono arrivati a raggiungere un traguardo che in pochi possono vantare-difatti l’ultima notte del festival di Taormina, i due sono stati premiati per la miglior regiaportandosi a casa l’ambito Toro d’Oro.

Roberto De Feo e Paolo Strippoli, alla prima di ” A Classic Horror Story” . © Alessia Orsa

Il cast, è già noto al pubblico: Matilda Anna Ingrid Lutz, Francesco Russo, Peppino Mazzotta, Will Merrick (II), Yuliia Sobol.

La bellissima Matilda, protagonista della fortunata pellicola, interpreta la giovane e sfortunata Elisa che è in viaggio con un gruppo formato da un medico, una giovane coppia e l’organizzatore della spedizione.

Il film è ambientato in Calabria (terra dell’antica Magna Grecia), ma girato interamente in Puglia. Tornando alla trama, lo sfortunato gruppo, durante la guida, per non colpire la carcassa di un animale morto, perde il controllo del mezzo e si schianta contro un albero; da lì in poi il film si farà più cupo e il telespettatore percepisce ansia e paura per il gruppo.

Cari lettori mi fermo qui, non voglio dilungarmi troppo: dovrete attendere il 14 e toccherà a voi giudicare il film o semplicemente gustarvi la pellicola.

Musica

Un punto fondamentale di questo horror, è la musica: in fondo quest’ultima dà un tocco in più alle opere cinematografiche.

Il film si apre e si chiude con la voce di Gino Paoli  nella canzone Il cielo in una stanza, una delle canzoni più belle del panorama musicale italiano. Durante tutta la durata della pellicola, la musica si fa inquietante creando tensione e ansia nel telespettatore: i due registi hanno giocato bene le loro carte anche musicalmente.

Tematiche

Il film oltre ad incarnare il classico horror, è riuscito a ritrarre bene anche la nostra società attuale. I due temi principali sono quello della mafia e della pornografia del dolore. Il primo è un morbo che soffoca la nostra terra, in cui l’omertà è legge; il film è riuscito in modo ironico a “schiaffeggiare” questo morbo, mostrandoci come essa sia il vero horror.

I due registi durante la conferenza stampa hanno dichiarato che loro stessi hanno voluto trattare il tema della mafia e non Netflix. Il film si pone quasi come una presa in giro verso la ndrangheta e gli stessi De Feo e Strippoli hanno ammesso di essere stati costretti  nominare la Calabria per ragioni «folkloristiche», ma in fondo l’Italia in generale viene associata all’estero con la mafia. Insomma, i soliti cliché, che, anzichè sconfiggere la mafia, ne fanno una «glorificazione» che la rende ancora più grande.

“A Classic Horror Story”: locandina. Fonte: Netflix

Altro tema centrale è la pornografia del dolore, che è andata a fortificarsi con l’avvento dei social. I due registi sono riusciti in modo sublime e con sarcasmo a descrivere questa tematica che oramai attanaglia tutti noi. Per chi non lo sapesse, la pornografia del dolore è quella tendenza di trarre godimento dal dolore altrui e rimanere inermi, ma pronti a documentare il tutto con il proprio cellulare, pronti a condividerlo nelle proprie storie e bacheche.

Forse i due registi hanno voluto dire che ormai è la nostra società ad essere diventata “un classico horror” e non solo le opere cinematografiche e letterarie di questo genere. Un horror che va a rompere la patina di un mondo che vive di immagine, rappresentazione e in cui l’empatia pian piano viene dimenticata.

 

                                                                                                                  Alessia Orsa

Il Buco, la metafora dell’ingordigia e del consumismo

“La panna cotta è il messaggio”

Una delle citazioni che meglio comunicano il senso narrativo de Il Buco, uno tra gli ultimissimi contenuti originali prodotti e promossi dal colosso Netflix.

Film horror di matrice spagnola (esordio alla regia di Galder Gaztelu-Urritia) che ha stuzzicato la sensibilità anche dei meno appassionati del genere.

Questa pellicola noir, pregna di sfumature drammatiche e connotata da una forte denuncia sociale, trova tempo e spazio (con originalità) nella narrazione per parlare di cibo.

Il cibo diventa simbolo dell’opulenza e delle contraddizioni della contemporaneità, della lotta per la dignità e per la sopravvivenza.

Il Buco si dispiega nella logica di un futuro distopico, nel quale gli esseri umani vengono rinchiusi in una prigione speciale.

Strutturata come una torre altissima e costruita sotto terra, la fossa – com’è chiamata dai detenuti – accoglie un numero indefinito di prigionieri.

Fonte: Skycinema.it

Ogni piano ha una cella in cui vivono due detenuti, nella parte centrale c’è un buco all’interno del quale ogni giorno una sola volta rotea una piattaforma imbandita da delizie culinarie preparate da chef di alta cucina.
Dal primo piano della torre la piattaforma rotante, un piano alla volta, e si ferma solo 120 secondi.
La piattaforma rotante diviene espediente narrativo che svela un meccanismo semplice: i detenuti dei piani alti hanno la possibilità di sfamarsi, chi si trova ai livelli inferiori finirà invece con l’avere da mangiare solamente gli scarti.

Il nuovo film spagnolo esplica ancora di più la sua potenza emotiva in questi momenti fatti di incertezza e paura.

Il cibo viene rappresentato come dicotomia tra paradiso e inferno: una bidimensionalità che separa l’impeccabile cucina, ed i detenuti sudici che si avventano come avvoltoi sul cibo strappandolo, divorandolo con ferocia animalesca.

Fonte: Cinematography.it

Tutte le pietanze succulente sulla piattaforma corrispondono alle scelte fatte dai detenuti nel momento di compilazione del questionario sottopostogli prima di accedere alla prigione.

Questo horror, mediante la sua simbologia originale rimanda molto alla nostra collettività e alla divisione in classi sociali.

Valori fondanti quali unione, solidarietà, compassione e carità risultano sempre più arenati verso l’individualismo più sfrenato.

Ne Il Buco il binomio grottesco cibo/sopravvivenza viene estremizzato.

Fonte: Movieplayer.it

Goreng, il protagonista, è costretto a cibarsi del suo compagno di cella per sopravvivere; il cibo come metafora del “mangiare noi stessi”, dell’impoverimento dei valori della moderna società verticale.

Persino il suicidio, nello specifico di una donna morta affinché venisse compiuta la rivoluzione, si intreccia con inedita originalità al concetto di cibo come sacrificio, ribellione e condivisione di valori.

Il Buco rivela, esasperandole, le dinamiche della società neocapitalista nella quale l’equità è un’utopia che si configura nel fururo distopico in cui domina la pochezza umana. Temi centrali sono  appunto l’incoscienza umana, l’egoismo e l’indifferenza nei confronti del più debole.

Questa pellicola può essere vista con leggerezza ed al contempo riflessione, entrambe sotto la propulsione registica incalzante e ritmata.

Uno di quei film – come si suol dire – fatto con due lire ma che sprigiona tutta la sua forza nel senso metaforico del suo racconto.
Preciso e che sa esattamente come colpire lo spettatore creando degli inaspettati colpi di scena, ma anche attraverso crescendo di tensione che parte dal primo minuto e arriva ad esplodere nel finale della pellicola.

Il Buco è mosso da una  critica feroce ed esplicita agli sprechi scellerati del consumismo, protagonista assoluto del nostro quotidiano.

Un’ invettiva sulla disuguaglianza e l’egoismo umano, un ammonimento artistico travestito da thriller sci-fi del quale, probabilmente, avevamo bisogno.

Antonio Mulone

Cinefilia per idioti: i film Horror

Credo che questo sia l’anno dell’horror.  Non so se dipenda dal fatto che Facebook abbia deciso di propormi (durante lo scorrimento bacheca serale) solo trailer di film horror che usciranno , o dal fatto che effettivamente questo genere di film stia facendo il boom ultimamente, ma credo di poter ingenuamente affermare che sia l’anno dell’horror.
Non mi ritengo un’appassionata di questo genere di film, né un esperta. Dopo un’attenta osservazione, dovuta ad anni di film horror insieme a mia cugina, ( il suo archivio film, a quanto pare, non contemplava altri generi) sono arrivata a due conclusioni che mi hanno spinta a scrivere quanto segue.
1. Non esistono più i film horror di una volta. Sanno tutti di ” Déjà vu”, trame noiose, banali e ripetitive. Il mio ultimo errore più grande fu quello di andare a vedere “The Green Inferno”: a confronto un film horror degli anni ’80 mette va più paura ed aveva anche più effetti speciali.
2. Come qualsiasi altro genere, l’horror presenta degli elementi frequenti che lo caratterizzano. Vi chiederete quale possa essere la novità nella mia osservazione. Beh, io non mi riferisco agli elementi che categorizzano un genere e lo distinguono da un ‘altro, mi riferisco invece a quei “must” che un film horror ha da sempre, quel tipo di must che permettono a film parodie ( vedi Scary Movie) di esistere. Prima di cominciare è bene individuare due macro categorie dell’horror (ho assolto io questo arduo compito): triller/splatter e paranormale.
Ecco cosa potremo trovare nei Triller/Splatter.
Si parte sempre da un gruppo di amici: in questo genere di film non si è mai soli, a farti compagnia per la tua morte imminente ci sono gli amici di sempre. O anche no. In situazioni drammatiche, chiunque diventa tuo amico, anche il tizio sfigato con gli occhiali, conosciuto il primo giorno di campeggio. Il consiglio che mi sento di dare? Non affezionatevi troppo.
Tra l’altro, il range d’età scelto è sempre lo stesso: ci sono sempre i soliti. Si sa che, le prede preferite dai serial killer incompresi, sono gli adolescenti. In particolare una cheerleader , un giocatore di football, l’amico di colore saggio e simpatico a tutti , il bad boy e il/la nuovo/a arrivato/a con peculiare personalità e con un misterioso passato. Il nostro bel gruppetto di stereotipi, capirai, in sella a veicoli non funzionanti: prima di partire per un lungo viaggio, oltre a portare con te la voglia di non tornare più, bisognerebbe anche controllare la batteria, olio e freni. Cosa che i nostri cari protagonisti, a quanto pare, non fanno mai. Qualunque sia la loro meta ad un certo punto del film, la macchina smetterà di funzionare. Qualunque sia la loro meta , quando cercheranno di scappare in preda all’ansia ( vedremo mazzi di chiavi cadere almeno 5 volte a terra), la macchina, proprio in quel momento, deciderà di non funzionare.
Quando la macchina si fermerà per un guasto ( perché si fermerà) non lo farà mai in una cittadina piena di abitanti gioiosi e puliti ma in posti terribilmente isolati: i veicoli, nei film horror, puntano il posto più brutto e isolato del mondo. Posto in cui gli unici abitanti sono proprio dei serial killer. Killer, con evidenti problemi di sviluppo pisco-socio-emotivo : ovviamente un uomo ( perché è quasi sempre un uomo, il cui accessorio preferito sono una maschera e un arma a scelta tra una motosega e un machete) che decide di torturare a morte un gruppo di adolescenti o chiunque gli capiti sottomano, solo perché non ha avuto un infanzia felice. Madri severe, genitori anaffettivi, compagni di classe della scuola elementare che non ti facevano giocare a nascondino con loro, sembrano d’un tratto buoni motivi per decidere che, da grande, vuoi fare il killer. Così persino io , con un’evidente disturbo psico-emotivo , mi accorgo di aver avuto un infanzia migliore della loro che quasi provo tenerezza.
Ma poi arriva il colpo di scena. Un genio a caso esclama “dividiamoci”: suggerimento tipico che tutti daremmo in situazioni del genere. Perché è lapalissiano; ciò che bisogna fare ,quando un uomo con un grembiule imbrattato di sangue rincorre te e i tuoi amici, è dividersi. Solitamente il primo che consiglia e chiede la votazione per questa idea geniale, è il primo a morire.
Dulcis in fundo non scordiamoci di loro due, essenziali, sono la coppia appartata: definiti anche ” bersaglio facile”. Storie d’amore finite brutalmente per imprudenza e mancanza di autocontrollo, o semplice menefreghismo. Fanno la fine peggiore di tutti.
A chi questa categoria di horror non dovesse piacere, e fosse incuriosito da spiriti, possessioni,  il genere del Paranormale credo sia fatto a posta per voi.
Regola numero 1: durante il giorno mai. Mi sembra abbastanza evidente che le cose più inquietanti non possano succedere la mattina, quando la luce accecante del sole è alta nel cielo. Il buio è il nostro peggior nemico, ma il miglior amico degli spiriti. Spiriti che spesso prendono le sembianze di bambini inquietanti: la loro presenza (quasi sempre accompagnata da risatine e canzoncine di cori inquietanti) turba così tanto da portarti a guardare tuo cugino di quattro anni in modo sospetto e un po’ intimorito. Dagli adulti certe cose te le aspetti, da un bambino no. 
“Hai sentito quel rumore per caso? “
“Stai tranquillo, non lo sai che gli spettri hanno tendenze feng shui?” A quanto pare, se uno spirito vuole infastidirti prima di impossessarsi di te o uccidere tutta la tua famiglia, decide di riarredarti casa spostando mobili durante la notte. Senza contare le luci che si spengono: gli spiriti amano accendere e spegnere le luci a loro piacimento, come se fossero in discoteca, accompagnando tutto a suon di rumori e versi strani in lingue sconosciute.
Si cerca sempre di risolvere la situazione chiamando il prete di turno, assolutamente inutili. Non ci si spiega bene il perché, ma ogni volta che un prete viene chiamato per esorcizzare una persona o una casa, muore. Forse più inutile del prete, esiste solo quell’illuminato dell’esploratore: il tipico personaggio che, sentendo qualche rumore o verso in una stanza buia infondo al corridoio, decide sia il caso di andare a controllare, di dare un’occhiata. Non può esistere nella realtà.
Che li troviamo divertenti o meno, una cosa è certa: finito il film tenderemo sempre a guardare dietro di noi, a cercare di scrutare qualcosa nel buio, cercando di ricordarci di tenere sempre la luce accesa. Perché? Non si sa mai .
Elisia Lo Schiavo