Gabriele Casablanca ci racconta il suo “Horcynus Orca”

Nel 1975 usciva nelle librerie Horcynus Orcala fatica più importante di Stefano D’Arrigo, considerato da molti come il capolavoro del Novecento. 

Nel 2025, a cinquant’anni di distanza, tutta l’Italia celebra l’Horcynus con La Carovana dell’Orcauna serie di iniziative inaugurate lo scorso febbraio e organizzate in collaborazione con la Fondazione Mondadori, Bur Rizzoli e TaoBuk.

Messina ha già ospitato una serie di iniziative legate alla rassegna, tra cui la Giornata di Studi su Horcynus Orca dello scorso 11 aprile, organizzata dall’Università degli Studi di Messina, in particolare dal professore Giorgio Forni. Sulla stessa scia, al Parco Horcynus Orca, il 9 maggio alle 20 e il 10 maggio alle 17:30, si terrà uno spettacolo teatrale tratto dal romanzo, di e con Gabriele Casablanca. L’ingresso è libero fino ad esaurimento posti. In vista della messa in scena, abbiamo raggiunto telefonicamente Gabriele per farci svelare il dietro le quinte di questo suo ultimo lavoro.

Come nasce un attore

Gabriele ha iniziato a fare teatro da piccolissimo, ci racconta.

«Ho iniziato praticamente per caso – ci racconta – non avevo mai pensato di intraprendere qualcosa di artistico. Nel teatro ho trovato quella forma che mi permette di far emergere qualcosa di me che non conoscevo. Ed è sempre bello, perché nonostante siano passati anni, per me resta ancora la stessa cosa di quando ero bambino.»

Ci racconta anche di come la carriera da attore non sia sempre rose e fiori, soprattutto in una città come Messina, e di quanto non sia stata una scelta semplice immaginare di farla diventare un lavoro.

«Al momento ho spostato la mia vita a Milano, dove mi sono trasferito nel 2019 per frequentare l’Accademia dei Filodrammatici. Quello che cerco di fare, però, è di restare sempre con un piede a Messina, quando riesco.»

Horcynus Orca – Studi per un racconto teatrale: l’inizio di uno studio denso

E Gabriele torna a Messina proprio il 9 e il 10 maggio in occasione del suo spettacolo-studio sull’Horcynus Orca, su cui – ci racconta – ha studiato anche per il suo lavoro di tesi triennale in Lettere moderne.

«L’idea è nata perché anni fa mi sono finalmente avvicinato a un testo, l’Horcynus, di cui avevo sempre sentito parlare. La lettura è stata travagliata, ma poi me ne sono appassionato tantissimo e mi sono reso conto che dovevo restituire quell’esperienza attraverso il teatro. Arrivato al momento della tesi, ho incontrato il professore Giorgio Forni e gli ho proposto questa idea: capire come una parola così densa, un romanzo così corposo, una narrazione così straripante possano essere traslati sul piano del teatro.»

Prima di tutto Gabriele Casablanca ha fatto un lavoro di ricerca teorico, cercando quanto più possibile di rispettare il romanzo, sia nel lavoro di tesi sia nel progetto teatrale.

«Ho portato una mia idea di adattamento che, secondo i miei studi, rispetta le caratteristiche dell’opera. A questo punto mi è stato proposto dal professore Forni di rendere tutto questo concreto per i 50 anni del romanzo. In realtà non si tratta di un vero e proprio spettacolo teatrale, ma più di uno studio di ricerca su alcune parti dell’opera, anche perché pensare di lavorare su 1200 pagine insieme è un po’ complesso.»

L’appuntamento

L’appuntamento del 9 e del 10 maggio al Parco Horcynus Orca sarà quindi una sorta di lezione-spettacolo, in cui Gabriele cercherà di creare un vero e proprio dialogo con il pubblico. In cantiere c’è già una versione “estesa” del lavoro: «lo spettacolo in futuro avrà anche una regia e un apporto drammaturgico da parte di Luca D’Arrigo e di Adriana Mangano

Dopo Horcynus Orca – Studi per un racconto teatrale Gabriele ha già nuovi progetti a Messina: il 17 maggio alle 21:00 e il 18 maggio alle 18:30 debutterà infatti al Teatro dei Naviganti con Stanza 101, cosa resta di 1984Lo spettacolo è di Orazio Berenato, Leonardo Mercadante e Chiara Trimarchi e con Orazio Berenato, Gabriele Casablanca e Chiara Trimarchi.

Giulia Cavallaro

Stefano d’Arrigo, il narratore “epico” dello Stretto

Figura dal quale non si può prescindere se si parla di letterati dello Stretto, Stefano d’Arrigo è stato tra i più importanti scrittori del secondo Novecento italiano. Nato ad Alì Terme il 15 ottobre del 1919, lo ricordiamo principalmente per il suo romanzo più importante (e più grande letteralmente in termini di pagine): Horcynus Orca. Uscì dapprima a puntate per la rivista Il Menabò nel 1960, fondata a Torino nel 1959 da Elio Vittorini e Italo Calvino. Successivamente, l’opera venne raccolta nelle bozze dei cosiddetti “Fatti della fera” sottoposte ad un lavoro di revisione, durato circa quindici anni. La stesura definitiva uscì per Mondadori nel 1975. Scrisse anche “Cima delle nobildonne” il quale uscì nel 1985 e presenta uno stile decisamente diverso dal primo citato.

Spiegare l’importanza dello scrittore e del suo romanzo a tratti epico, a tratti post-moderno, è interessante sia perché nasce in un clima fortemente sperimentale per la narrativa italiana dell’epoca e perché, chiaramente, è una storia ambientata sullo Stretto. Dunque, riaffiora tra le 1257 pagine il profilo identitario di questo luogo/nonluogo, districandosi tra rivisitazione del mito e un richiamo parodico (ma non troppo) all’Odissea di Omero, affermandosi a tutti gli effetti nel genere post-moderno.

Horcynus Orca

 

Copertina di Horcynus Orca (fonte: ibs.it)

 

Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatre, il marinaio nocchiero semplice della fu regia Maria ‘Ndrja Cambrìa arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scill’ e cariddi

 

Muovendosi sulla falsa riga del poema epico, strutturato in prosa a differenza dell’Odissea, Horcynus Orca è “un’opera sinfonica, l’omaggio a una civiltà scomparsa, la comunità pagana dei cariddoti dello Stretto di Messina «straviati» dalla guerra che ha spazzato via e stravolto ogni segno del loro universo regolato dalle leggi senza tempo del mito”[1]. L’autore affronta diversi temi, tra cui “il rapporto tra l’uomo e il mare, i traumi della age of anxiety che si traducono nel flusso di coscienza e il nostos, il ritorno in patria di un eroe dalla guerra”[2].

 

La lingua “darrighiana”

La lingua di Horcynus Orca, definita “composita e polifonica” da Marco Trainito, determina il destino dei personaggi e il potere rigeneratore delle parole contro il silenzio, costituisce il discrimine che separa chi dopo la guerra torna alla vita e chi rimane tra le macerie.

Questa strategia, secondo Virginia Fattori “rappresenta il modo trovato dall’autore per insegnare la sua lingua ibrida ai futuri lettori”. Le particolarità linguistiche, così come le tematiche, “vengono introdotte in modo tale che la deviazione dalla norma turbi in maniera controllata e controllabile la percezione e la comprensione del testo dimodoché a lungo andare queste parole diventino per il lettore comuni”[3]. Da qui si comprende che dalla lingua, probabilmente, si ritrova l’origine dell’immaginario, poiché si afferma come atto di ribellione contro un mondo impoverito e dilaniato dalla guerra, e anche per comprendere le radici culturali di un luogo. Prendiamo come esempio il seguente passaggio:

 

Voi sapete la differenza che passa fra il sentitodire e il vistocogliocchi? È la stessa che passa, figuratevi, tra la notte e il giorno. E la notte, non so se lo sapete, è femmina e fa chiacchiere, mentre il giorno è maschio, piscia al muro e porta il fatto

 

A cosa e a chi si riferisce D’Arrigo? Il vistocogliocchi rappresenta la sicurezza dell’osservare diurno, presuppone dunque la verità assoluta. Il sentitodire, al contrario, rappresenta il classico curtigghio di queste parti, dove però la verità non si presenta in forma assoluta. Se è vero che la letteratura è racconto dell’invisibile che non esiste, ma che si materializza, in Horcynus Orca tutto si incastra alla perfezione, nonostante l’evidente mescolanza di generi e l’alternanza del registro linguistico tra basso e alto, neologismi (“nuovolare”, che unisce “nuotare” e “volare”, “orcaferone” da “orca” e “fera” con il suffisso accrescitivo “-one”). Ciò non è da interpretare “tanto come una volontà straniante nei confronti del lettore” secondo Gina Bellomo, bensì come “una spinta verso la normalizzazione dei nuovi termini introdotti in modo da permettere al lettore di entrare più in fretta in sintonia con essi.”

Nonostante D’Arrigo ponga il livello della narrazione in una dimensione illusoria e mitica, tutto ciò è funzionale per comprendere la storia di Messina stimolandone la memoria. Si può trovare conforto cercando, nei versi che raccontano il mare e la città rifugio e oblio, esotismo e mistero, aspetti che probabilmente inducono al paradosso. Eppure, senza di essi non esisterebbe la letteratura, né quel fascino verso l’ignoto da scoprire, specialmente se la storia è ambientata a casa nostra.

Federico Ferrara

 

Le fonti citate sono contenute nel lavoro di tesi triennale del redattore, il cui titolo è “L’immaginario dello Stretto. Un’indagine letteraria”.

[1] Ambra Carta, In una lingua che non so più dire, in «Biblioteca di Via Senato», anno XI, n.5 (maggio 2019)

[2] Gina Bellomo, Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo come epopea della parola sperimentale, 24 gennaio 2020

[3] Virginia Fattori, Un’indagine sull’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, 14 settembre 2020