Rachel Corrie. Morire di Palestina

Da quasi diciannove mesi, in tutti i media occidentali, ascoltiamo ripetere a tamburo battente un mantra. I civili inermi, a Gaza, muoiono sotto le bombe israeliane, ‘‘per colpa di Hamas”. Inoltre, affermano gli stessi media in loop, Israele bombarderebbe scuole, case e ospedali perché sotto ci sarebbero i tunnel di Hamas.

La narrazione di questi media è priva di critica nei confronti di Israele.

Inquietante, però, non è solo la mancanza di obiettività e razionalità: ancor più grave è che, nel riportare le notizie, si giustifichi implicitamente la strage quotidiana di centinaia di Palestinesi.

Si afferma che, nell’esplosione della bomba che ha fatto la strage  di donne e bambini nella tendopoli di turno a Gaza, tra le cento vittime “ci sarebbe uno dei responsabili dell’assalto del 7 ottobre”.

Questa narrativa ripetuta morbosamente sta macchiando tutto l’Occidente d’infamia, e la storia verrà a chiederci il conto.

È forse questo il tanto osannato Occidente dell‘Illuminismo, della democrazia e i suoi valori? o siamo forse assuefatti dalla banalità del male e non ce ne rendiamo conto?

L’evento di cui scrivo non riguarda i morti a Gaza dopo il 7 ottobre 2023, almeno non direttamente. La storia in questione racchiude una verità inconfutabile: a Gaza si è sempre morti di Palestina e per la Palestina, per mano israeliana.

 

Questo articolo è dedicato a una studentessa americana, di ventitré anni. Una giovane attivista per i diritti umani, un’idealista mossa da un grande senso di empatia per gli oppressi.  Scossa per le ingiustizie del mondo, si recò a Gaza nel 2003. Il suo scopo era vedere con i suoi occhi e documentare cosa l’occupazione israeliana significasse. Provò allo stesso tempo a opporsi al neocolonialismo incarnato da Israele. Era al suo ultimo anno di college e faceva parte dell’International Solidarity Movement.

Il suo nome era Rachel Corrie.

Rachel Corrie
Rachel Corrie
Fonte : https://www.theguardian.com/world/2015/feb/12/rachel-corrie-family-appeal-israel-court

Chi era Rachel Corrie?

Rachel Corrie era nata il 10 aprile 1979 negli Stati Uniti, nella città di Olympia dello Stato di Washington. Al college, studiava arte e relazioni internazionali.

Fin da bambina era sempre stata molto sensibile alle ingiustizie che flaggellano il mondo. Era diventata, infatti, un’attivista per la pace, e credeva fermamente nella non violenza.

Rachel Corrie, come membro dell’International Solidarity Movement nel 2003, durante il suo ultimo anno di università, decise di recarsi in Palestina, precisamente a Rafah, nella striscia di Gaza. Il suo obiettivo era quello di dare il suo contributo alla causa palestinese.

Andò a Gaza per documentare con i suoi occhi e le sue parole la realtà quotidiana dei palestinesi, oltre a esser decisa a prender parte ad azioni non violente per contrastare l’esercito di occupazione israeliano.

Per capire veramente chi era Rachel Corrie, nulla è meglio di leggere le sue stesse parole.

Riporto qui una parte di una sua e-mail, che scrisse per i suoi genitori durante il suo soggiorno. E-mail che la famiglia ha autorizzato alla diffusione nei media dopo la sua morte.

“Sono in Palestina da due settimane ed un giorno ed ho ancora poche parole per descrivere ciò che vedo. E’ più difficile per me pensare a ciò che sta succedendo qui quando mi siedo a scrivere negli Stati Uniti che sono qualcosa come il portale virtuale del lusso. Io non so se molti dei bambini qui abbiano mai vissuto senza i buchi di carri armati alle pareti e senza le torri di un esercito di occupazione che li sorveglia costantemente da un orizzonte vicino. Io penso, sebbene non sia del tutto sicura, che anche il più piccolo di questi bambini capisce che la vita non sia così ovunque. Un bambino di otto anni è stato ucciso da un carro armato israeliano due giorni prima del mio arrivo e molti bambini mi sussurrano il suo nome, Alì — oppure mi indicano i suoi posters sui muri. Ai bambini piace farmi usare il poco arabo che conosco chiedendomi “Kaif Sharon?”, “Kaif Bush?” e ridono quando io dico “Bush Majnoon” “Sharon Majnoon” rispondendo nel mio arabo limitato. (Come sta Sharon? Come sta Bush? Bush è pazzo, Sharon è pazzo). Naturalmente questo non è proprio ciò che credo, e qualche adulto che conosce l’inglese mi corregge: Bush mish Majnoon… Bush è un uomo d’affari. Oggi ho cercato di imparare a dire “Bush è un oggetto”, ma non credo sia stato tradotto giusto. Ad ogni modo ci sono qui più bambini di otto anni consapevoli della struttura del potere globale, di quanto lo fossi io qualche anno fa–almeno riguardo ad Israele.”

Gaza prima del 7 ottobre e prima di Hamas

Giornalisti italiani di grande fama, ma anche di grande disonestà intellettuale, nel corso di questi ultimi diciannove mesi, hanno affermato sui giornali e nei talk show televisivi che Gaza prima del 7 ottobre 2023 fosse libera. Anzi, a parer loro, è occupata da Hamas: fondamentalmente, Israele sta “liberando” i civili palestinesi proprio da essa. Tutto bellissimo, se non fosse che li libera uccidendoli.

Eppure, se usciamo dalla logica schizzofrenica dell’eterno presente, costantemente pompato dalle notizie dell’ultima ora, e se andiamo a studiare la storia dei luoghi di cui parliamo, scopriremo che la Gaza in cui si è recata Rachel Corrie nel 2003 era occupata da Israele.

L’occupazione israeliana era in essere dal 1967 e durò fino al 2005. Dopo, si era apparentemente ritirata. Israele continuò, però, a mantenere il controllo dello spazio aereo e marittimo, e sigillò anche i confini, con la costruzione di muri fortificati. Rese, così, Gaza la prigione a cielo aperto più grande del mondo.

Come si può definire una prigione a cielo aperto un luogo libero?

La retorica dei tunnel

Macerie e bulldozer, bulldozer e macerie. Sono queste le immagini tra le più comuni che vediamo su Gaza, ma non solo a Gaza. Sono un’immagine standard anche quando arrivano le riprese fatte in Cisgiordania.

Quando si denuncia l’abbattimento indiscriminato di case di civili palestinesi o delle stesse strade, l’IDF (Forze di difesa israeliane) sostiene che questa demolizione sistematica sia dovuta alla presenza di ordigni esplosivi o tunnel di Hamas.

Nel 2003, però, Hamas non controllava Gaza, e le truppe israeliane erano saldamente dentro la Striscia. Erano presenti anche diversi insediamenti di coloni israeliani, che andavano espandendosi, come hanno fatto e continuano a fare indisturbati, in Cisgiordania. Una delle pratiche principali che permette l’espansione territoriale di Israele sta proprio in questa strategia. Demolire i villaggi palestinesi per costruirci sopra nuovi insediamenti israeliani.

Rachel Corrie lo sapeva bene. Era consapevole anche che Israele è nato proprio cosi. Il fulcro della Nakba del 1948 è consistito proprio nella distruzione metodica e indiscriminata di 523 villaggi palestinesi, che espulse e uccise a suon di bombe i loro abitanti. Villaggi che sono stati rimpiazzati con nuovi insediamenti sionisti.

A Gaza non si distrugge per cercare i tunnel di Hamas da dopo il 7 ottobre 2023. A Gaza ciò è sempre accaduto, così che Israele applicasse il proprio dominio coloniale sulla terra di Palestina. Distruggere tutto per rendere invivibile l’area, forzare i civili a scappare se non per paura di morire, per l’impossibilità materiale di vivere una vita dignitosa.

Rachel Corrie a Rafah mentre protesta contro l'abattimento di case di civili palestinesi.
Rachel Corrie a Rafah, mentre protesta contro l’abbattimento di case di civili palestinesi
Fonte: fonte: https://ilmanifesto.it/rachel-corrie-icona-della-lotta-per-i-diritti-dei-palestinesi

Morire a 23 anni di e per la Palestina

La filosofia e la strategia delle azioni non violente che ispiravano i membri  dell’International Solidarity Movement consisteva nel piazzarsi davanti i bulldozer. L’idea era di contrapporsi tra le case e i mostri d’acciaio. Ragazze e ragazzi, armati solo di megafoni e dalla forza del loro coraggio, per urlare e dissuadere gli uomini all’interno dei bulldozer dall’andare avanti nella loro opera di distruzione.

Rachel Corrie era consapevole del privilegio dell’essere bianchi e occidentali. Forse pensava, insieme agli altri attivisti, anche loro occidentali, che il loro passaporto li avrebbe difesi dalle macchine d’acciaio. Solitamente, nel resto del mondo, quanto gli attivisti interpongono i loro corpi per fermare un’ingiustizia, questa equazione risulta vera. Ma in Palestina no. In Palestina, gli israeliani hanno licenza di uccidere chiunque si frapponga davanti il progetto di dominio coloniale sionista.

Quel 16 marzo, Rachel Corrie era proprio lì, in prima linea, nel tentativo di difendere la casa di una famiglia palestinese. Era salita sopra un cumulo di terra e fronteggiava l’operatore del bulldozer. Al suo livello, poteva guardarlo dritto negli occhi, mentre gli gridava al megafono di fermarsi. Ma Rachel Corrie cadde. Non fece in tempo a rialzarsi, o forse non ci riuscì. L’operatore israeliano del bulldozer le passò di sopra, schiacciandola e uccidendola.

Le grida degli altri attivisti non servirono

In quel luogo, oltre Rachel Corrie, erano presenti altri sei attivisti, tre britannici e tre statunitensi. Quando Rachel cadde, tutti iniziarono a correre verso il mezzo, gridando all’operatore di fermarsi. Ma questi non si fermò.

Successivamente alla sua morte, si tenne in Israele un processo ”farsa” nei confronti dell’operatore che guidava il bulldozer. Questi sostenne che, quel 16 marzo, non vide più la ragazza, quindi pensò che si fosse fatta da parte.

Nessuno fu incriminato dell’assassinio di Rachel Corrie, se non lei stessa. Il tribunale israeliano sostenne che lei era lì per difendere i ”terroristi”. Affermarono che si fosse volontariamente messa in una condizione di pericolo.

La causa del decesso era, dunque, da imputare a lei stessa e alla sua condotta imprudente.

Alla famiglia di Rachel Corrie fu negato qualsiasi tipo di risarcimento e riconoscimento. 

Fonte: https://thejerusalemfund.org/2023/03/rachel-corries-legacy-striving-for-justice-and-accountability-in-the-face-of-oppression/

Rachel Corrie una delle centinaia di migliaia di vittime innocenti del sionismo

Rachel Corrie era innocente. Rachel Corrie non è stata la prima e neanche l’ultima vittima di Israele e del sionismo.

Oggi come ieri, in Palestina, si continua a morire. Dal fiume Giordano al mare Mediterraneo.

Solo nella striscia di Gaza, da dopo il 7 ottobre 2023, il conto sommario ufficiale dei morti supera le cinquantamila vittime. Vari report internazionali, però, calcolano che, sommando i dispersi e le morti indirette, dovute alle malattie, alle ferite causate dai bombardamenti, alla fame e alla sete, oltre che alla mancanza di ospedali rimasti attivi, nella Striscia di Gaza il numero delle persone morte sia di centocinquantamila, se non duecentomila persone.

I numeri purtroppo sono destinati a crescere, e non si avrà una stima certa fino a quando non ci sarà un cessate il fuoco, e non si scaverà sotto le macerie.

Cosa è questo, se non il genocidio del popolo palestinese?

L’assassinio di Rachel Corrie, avvenuto venti anni prima del 7 ottobre 2023,  mostra che la volontà granitica del sionismo, di uccidere e distruggere chiunque prenda le difese della Palestina, non sia una conseguenza del 7 ottobre 2023, ma, piuttosto, lo standard con il quale si è fondato ed eretto lo Stato coloniale di Israele.

Chi si oppone al progetto sionista paga con la vita. Poco importa se ci si oppone con la violenza o senza: il sionismo non guarda in faccia nessuno, e risponde a tutte e tutti nello stesso modo. Ovvero, con la foga omicida.

Restiamo umani.

 

Fonti:

https://it.palestinechronicle.com/nel-pieno-del-genocidio-a-gaza-leredita-di-rachel-corrie-continua-a-vivere/

https://ilmanifesto.it/rachel-corrie-icona-della-lotta-per-i-diritti-dei-palestinesi

https://www.peacelink.it/palestina/a/277.html

https://www.caritasroma.it/wp-content/uploads/2019/03/Rachel_Corrie.pdf

https://www.theguardian.com/world/2012/aug/27/rachel-corrie-death-israel-verdict

 

Israele: Attacco Iran con droni e missili

Nella notte fra sabato e domenica l’Iran ha lanciato un attacco contro Israele. Sono stati impiegati più di 300 armi fra droni e missili. Nelle scorse ore infatti sono stati pubblicati in rete diversi video che riprendono il passaggio delle armi iraniane nei cieli dell’Iraq. Già nei giorni scorsi Israele aveva innalzato lo stato di allerta al livello massimo, a causa di diversi avvertimenti interni e internazionali su un possibile attacco.

Israele ha confermato la neutralizzazione del 99% di droni e missili attraverso il suo scudo – l’Iron Dome – e l’impiego dell’aviazione. Anche Stati Uniti e Regno Unito hanno partecipato alla difesa di Israele. Nel corso dei bombardamenti undici persone sono rimaste ferite. I danni più importanti sono quelli riportati nella base aeronautica di Navatim, nel centro del Paese.

(Reuters)

 

Vendetta contro Israele

L’operazione rappresenta una rappresaglia nei confronti dello stato ebraico per il bombardamento all’ambasciata iraniana a Damasco. Nel corso di questa offensiva Israele ha ucciso Mohammad Reza Zahedi, importante capo delle guardie rivoluzionarie iraniane (o pasdaran). Altri sette diplomatici sono morti, mentre l’ambasciatore iraniano in Siria è rimasto illeso poiché non si trovava in sede.

Non si tratta del primo attacco iraniano contro Israele. Tuttavia, un’offensiva di questa portata rimane senza precedenti in tempi recenti. L’offensiva rientra in un più ampio quadro di ostilità fra le due potenze nel Medio Oriente, nonché all’interno dell’attuale conflitto fra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza. L’Iran infatti sostiene economicamente e militarmente diverse milizie nella regione fra cui Hamas in Palestina, Hezbollah in Libano, i ribelli Houthi in Yemen e altre unità in Iraq e Siria. Nel corso del conflitto nella Striscia, Israele ha ucciso importanti esponenti di Hamas fra cui i tre figli adulti del capo politico della milizia Ismail Haniyeh.

Droni e missili non sono partiti solo da Iran, ma anche da altri paesi dell’area dove risiedono milizie filoiraniane. Fra queste spiccano Hezbollah in Libano e gli Houthi in Yemen, ampiamente finanziate e supportate dal regime iraniano. In particolar modo Hezbollah rappresenta una sempre più preoccupante minaccia per Israele, a causa della forte espansione del gruppo. L’apertura di un fronte a nord dello stato ebraico potrebbe impegnare diverse forze militari israeliane distogliendole dalla Striscia di Gaza.

(Al Jazeera)

Le armi usate dall’Iran

L’attacco ha preoccupato la comunità internazionale per una possibile escalation regionale dell’attuale conflitto fra Israele e Palestina. L’Iran è infatti uno dei paesi più militarizzati della regione mediorientale. A partire dagli anni novanta la guida suprema Khamenei ha investito molto nell’esercito e in un’industria bellica nazionale e autonoma, che ha fornito al paese un grosso arsenale. La maggior parte delle risorse sono conservate in depositi sotterranei difficilmente attaccabili da attacchi esterni. L’Iran inoltre porta avanti da anni un piano di sviluppo di un potente arsenale nucleare.

Nel corso dell’attacco sferzato contro Israele, sono stati impiegati 170 droni, 120 missili balistici e trenta da crociera. I droni, del tipo Shahed 136 (che l’Iran vende tra l’altro alla Russia), sono detti “kamikaze” poiché volano autonomamente attraverso coordinate GPS e si schiantano contro diversi target, distruggendosi e facendo detonare l’esplosivo trasportato: possono impiegare diverse ore in volo prima di colpire, per cui il loro passaggio è visibile in cielo (come accaduto in Iraq e Israele la scorsa notte). I missili balistici, di cui l’Iran ne ha usati circa 30, vengono sparati a grosse altitudini oltre atmosfera per poi ricadere su diversi obiettivi: non richiedono motore e sono molto veloci, richiedendo solo una decina di minuti prima di colpire. I missili da crociera hanno invece una velocità intermedia e seguono una traiettoria orizzontale ad altitudine molto inferiore, poiché volano alimentati da un motore: anch’essi sono visibili insieme ai droni.

Shahed 136 (Wikimedia)

La reazione internazionale

Dopo che l’Iran ha lanciato il suo attacco contro Israele, diversi paesi hanno espresso la loro condanna e preoccupazione per gli attacchi iraniani contro Israele. Quest’ultimo peraltro non ha rassicurato i suoi alleati in Occidente, promettendo una contro-rappresaglia «quando il tempo sarà dalla sua parte». Di contro, la missione iraniana presso le Nazioni Unite ha affermato che gli attacchi sono stati condotti unicamente come vendetta contro Israele ma che potranno seguirne altri se questo risponderà. Il presidente Joe Biden ha dichiarato che non garantisce l’appoggio a Israele in un eventuale contro-attacco e starebbe inoltre dissuadendo il governo Netanyahu a rispondere.

(Reuters)

Francesco D’Anna

Sei mesi di guerra nella Striscia di Gaza

Sono trascorsi circa sei mesi dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, quando diversi miliziani presero di mira diversi kibbutz nel sud di Israele. Questa serie di attentati, noti come operazione diluvio Al-Aqsa, ha portato alla morte di 1200 persone fra civili e militari israeliani. Contestualmente circa 250 ostaggi sono stati trasportati nei tunnel sotterranei della Striscia, usati come centro operativo da Hamas.

La reazione di Israele non si è lasciata attendere: il giorno seguente ha dichiarato lo stato di guerra con la Striscia di Gaza, una delle zone più densamente popolate al mondo. Qui vi abitano più di 2 milioni di persone, soprattutto palestinesi, in un’area geografica di 365 km2 (pari circa alla metà di quella di Madrid). Lo stato ebraico ha mobilitato migliaia di riservisti per organizzare una cospicua operazione di terra nella Striscia, preceduta da intensi bombardamenti su bersagli civili e militari. Le perdite umane complessive fra gli abitanti della striscia sono più di 30.000, un terzo dei quali rappresentati da bambini.

(Flickr)

La catastrofe umanitaria nella Striscia

L’operazione israeliana nella Striscia, organizzata per recuperare gli ostaggi ed eradicare Hamas dal territorio, non ha finora sortito gli effetti desiderati dal governo Netanyahu. Inoltre ha causato una catastrofe umanitaria nella Striscia: milioni di persone sono sfollate, vivono in condizioni igienico-sanitarie molto precarie ed è in corso una gravissima carestia. Nonostante le pressioni internazionali, Israele non ha facilitato l’arrivo o la distribuzione di aiuti umanitari. Ha inoltre chiuso la maggior parte dei valichi con la Striscia e non ha garantito percorsi sicuri per i convogli.

Recentemente ha fatto molto clamore la notizia dell’uccisione di sette operatori umanitari della ONG World Central Kitchen. Israele ha colpito tre auto dell’organizzazione poiché sospettate di trasportare un miliziano di Hamas. Questa ipotesi si è poi rivelata incorretta, inducendo Israele ad aprire un’inchiesta interna su chi abbia ordinato l’esecuzione. L’opinione pubblica internazionale tuttavia ha definito questo atto come: farebbe parte della strategia israeliana di affamare la popolazione palestinese come arma da guerra. L’attacco ha portato all’interruzione degli aiuti nella striscia da parte di WCK e di altre ONG, aggravando ancor di più le condizioni umanitarie.

Questi fatti si aggiungono a quelli dei mesi precedenti che hanno spinto il Sudafrica a fare causa ad Israele alla Corte internazione di giustizia dell’Aia. Quest’ultimo, secondo i sudafricani, non starebbe rispettando la Convenzione sul genocidio. L’opinione pubblica ha largamente lodato l’iniziativa giudiziaria, sebbene questa richieda tempi relativamente lunghi prima di ricevere un esito definitivo.

Flickr

Le reazioni della comunità internazionale

La comunità internazionale ha condannato la reazione israeliana, ritenuta spropositata e ingiusta. Tuttavia l’opinione pubblica ritiene insufficienti le misure prese contro la guerra: molti chiedono l’imposizione di un cessate il fuoco permanente e l’interruzione della vendita di armi a Israele. Inoltre diversi attivisti e politici denunciano il ritardo nelle azioni prese dall’ONU. I veti incrociati di Stati Uniti, Russia e Cina hanno infatti più volte bloccato l’operato delle Nazioni Unite.

Le Nazioni Unite hanno approvato due risoluzioni relative alla situazione nella Striscia solo nell’ultimo mese. La prima è quella del 25 marzo che chiede un immediato cessate il fuoco, approvato grazie all’astensione degli Stati Uniti: è teoricamente vincolante per Israele, che però non risulta al momento intenzionato a farlo. L’UNHRC, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, ha invece approvato la seconda, chiedendo l’interruzione della vendita di armi a Israele.

InternationalAffairs.org

Il ritiro da Khan Yunis

Negli ultimi giorni, le truppe di terra israeliane hanno abbandonato le loro postazioni a Khan Yunis, una delle ultime città a sud della Striscia. Il motivo fornito da Israele è quello di permettere al suo esercito di riposarsi e organizzarsi per le successive operazioni a Rafah. Qui si concentrano le sacche resistenza residue di Hamas ma anche nonché la maggior parte degli sfollati, spinti progressivamente dall’avanzata militare israeliana.

Ad oggi non si conosce con precisione la ragione per cui i membri della 98esima divisione stiano ritornando alle loro postazioni dall’altro lato del confine. Secondo esperti e analisti però è da escludere una fine del conflitto. Molto probabilmente Israele non rinuncerà all’invasione di Rafah, così come ricordato dal ministro della difesa israeliano Yoav Gallant e dal presidente Benjamin Netanyahu. Alcuni esponenti interni al governo israeliano non sono però così sicuri: paventando una presunta indecisione da parte dell’esecutivo, il ministro della Sicurezza nazionale Itaman Ben-Gvir ha dichiarato che Netanyahu «non potrà servire da Primo ministro se decidesse di non invadere Rafah».

Nel frattempo molti sfollati stanno facendo il loro ritorno a Khan Yunis, dove hanno trovato mucchi di macerie e corpi.

Wikimedia

Francesco D’Anna

Israele e Hamas, raggiunto l’accordo per il cessate il fuoco. Il conteggio dei danni nella Striscia di Gaza

(fonte: ilpost.it)

Da giovedì sera Israele ha cessato il combattimento contro Hamas, l’organizzazione paramilitare a favore della Resistenza palestinese. La notizia è giunta al culmine degli 11 giorni di raid aerei e bombardamenti che hanno interessato la zona della Striscia di Gaza. Il ceasefire è stato raggiunto in seguito a giorni di trattative e dibattiti condotti principalmente dall’Egitto, Giordania e Francia. Il Ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry, ha confermato l’impegno dell’Egitto nell’ottenimento di una tregua.

Stiamo lavorando diligentemente per ottenere un cessate il fuoco. Ritengo che le conseguenze dell’escalation di violenza, delle perdite e della distruzione necessitino di tutto l’impegno necessario.

Nell’intervista della CNN, il Ministro ha anche rivelato di essere in contatto con diversi ministri dell’Unione Europea ed anche col Ministro degli Affari Esteri israeliano Gabi Ashkenazi. Il ceasefire è entrato in vigore a partire dalla notte tra giovedì e venerdì, l’1 ora italiana. Hamas ha deciso di accettare l’accordo, ma tramite un suo esponente, Ezzat El-Reshiq, ha anche espresso le proprie richieste.

È vero che la battaglia finirà oggi, ma Netanyahu ed il mondo intero devono sapere che le nostre mani rimangono sul grilletto e che accresceremo le capacità di questa Resistenza.

Sembra che le pressioni internazionali, in particolare dell’ONU, abbiano avuto la loro parte nel raggiungimento dell’accordo. Ma, ancor di più, si ritiene che Israele abbia raggiunto il proprio obiettivo principale: ridurre sensibilmente l’arsenale di Hamas e distruggere taluni dei tunnel sotterranei alla Striscia di Gaza dai quali vengono importati materiali bellici da Siria ed Iran, ossia i rifornimenti per la costruzione di missili da parte di Hamas – anche se molto rudimentali nella tecnologia. Dall’altra parte, Al Mayadeen, stazione televisiva libanese, ha affermato che Hamas abbia ricevuto «garanzie che le aggressioni israeliane alla moschea di al Aqsa e a Sheikh Jarrah sarebbero state fermate». Gli eventi appena citati sarebbero, infatti, le cause dell’insorgere del più recente conflitto.

(fonte: ilpost.it)

Un conteggio dei danni nella Striscia di Gaza

Negli 11 giorni di battaglia, le perdite subite dalla Palestina sono state di 232 contro i 12 dell’Israele; più di 1200 i feriti. La differenza nei dati non sorprende, viste e considerate la disparità di organizzazione ma, soprattutto, di equipaggiamento bellico tra i due Stati. L’ONU ha poi rivelato, tramite il proprio Coordinatore per i Processi di Pace nel Medio Oriente, Tor Wenneslandl’ammontare dei danni civili subiti dalla Striscia.

Il Coordinatore ha inizialmente sottolineato la situazione disagevole del sistema sanitario di Gaza, colpito da una carenza di provviste ed equipaggiamento necessari ad affrontare la crisi da COVID-19. Successivamente, il conteggio degli sfollati della Striscia è salito a 34,000, con la conversione di 40 scuole in rifugi. Altre 40 scuole, sette fabbriche ed almeno quattro ospedali hanno subito danni parziali o permanenti.

Haaretz, quotidiano israeliano, ha poi affermato che, secondo le autorità palestinesi, almeno 20 famiglie sarebbero state quasi totalmente spazzate via dai bombardamenti. Più di 4000 i missili lanciati nelle ultime settimane.

(A sinistra, i razzi Iron Dome d’Israele; a destra, quelli lanciati da Hamas. Fonte).

Il caso dei portuali di Livorno e le parole del Presidente USA

Sin dai primi giorni di conflitto, molte voci e proteste hanno animato il dibattito. Un accento particolare è stato posto sulla circostanza di soccombenza della popolazione palestinese in contrasto con l’imponenza israeliana. Per questo molti utenti, ma anche giornali, hanno ritenuto di non poterlo considerare un conflitto alla pari.

Intanto, anche in Italia alcuni portuali di Livorno hanno bloccato un carico di armi destinate all’Israele, dimostrando il proprio sostegno nei confronti della popolazione palestinese. La notizia ha subito fatto il giro del mondo ed è stata riportata anche dal quotidiano britannico online The Independent.

Oggi, il Presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden, in un discorso, ha affermato l’importanza di garantire ad entrambi gli Stati la pace.

Palestinesi ed Israeliani meritano entrambi di vivere in modo sicuro e protetto e di godere di eguali misure di libertà, prosperità e democrazia.

In attesa di successivi sviluppi, il sito Haaretz, che offre continui aggiornamenti sulla vicenda, ha riportato che poche ore fa Israele ha consentito l’entrata degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Gli aiuti sarebbero dovuti arrivare martedì, ma erano stati bloccati con fuoco di mortaio al valico di passaggio di Kerem Shalom, che connette la Striscia all’Israele.

Valeria Bonaccorso

 

La Francia propone la risoluzione del conflitto in Palestina. Preoccupa l’esitazione USA

Il conflitto israeolo-palestinese non accenna a placarsi. Dopo nove giorni di scontri tra l’esercito israeliano e Hamas, il fervore con cui le notizie provenienti dal medioriente sono state recepite dall’opinione pubblica non ha mancato di stimolare le potenze occidentali. Ultima misura, in ordine di tempo, a emergere è stata quella presentata al tavolo delle Nazioni Unite dalla Francia e concordata con Egitto e Giordania. La proposta è arrivata al Consiglio di Sicurezza dell’ONU e punta a un cessate il fuoco in Palestina.

La risoluzione

Emmanuel Macron, insieme ad Egitto e Giordania, si appella all’Onu per cessare le violenze in Medioriente. Fonte: Huffingpost.

La proposta di tregua giunge in seguito all’ incontro fra il presidente francese Emmanuel Macron, l’egiziano Abdel Fatah Al-Sisi e, collegato in videoconferenza, il re Abdallah II di Giordania. Durante il meeting è emerso che

“i tre Paesi concordano su tre elementi: i lanci di razzi devono cessare, è giunto il momento di un cessate il fuoco e il Consiglio di sicurezza Onu deve prendere in mano la questione“.

L’Eliseo ha inoltre reso noti i motivi dell’accordo con i due paesi arabi: “Sono protagonisti influenti nei luoghi santi per la Giordania e su Gaza per gli egiziani”.

L’Egitto ha proposto “attraverso canali privati” un cessate il fuoco tra Israele e Hamas a partire dalle 6 di mattina (ora locale) di giovedì prossimo. Hamas avrebbe risposto favorevolmente mentre Israele, al contrario, non avrebbe manifestato alcun segno di resa.
La notizia, riportata dalla tv israeliana di Canale 12, è stata tuttavia prontamente smentita sul Times of Israel dal membro della leadership di Hamas, Izzat al-Rishq, che ha dichiarato:

“Non è vero ciò che alcuni media nemici hanno riferito, ovvero che Hamas abbia concordato ad un cessate il fuoco per giovedì. Nessun accordo o uno specifico calendario per questo è stato raggiunto” continua poi “Pur sottolineando che gli sforzi e i contatti dei mediatori sono seri e continui, le richieste della nostra gente sono chiare e ben note”.

L’ambiguità della posizione statunitense

La Cina fa sapere che sostiene senz’altro la proposta. Gli Stati Uniti hanno bloccato per otto giorni una dichiarazione sul conflitto e hanno giustificato il loro silenzio attraverso l’ambasciatrice americana Linda Thomas Greenfield: Non siamo stati in silenzio. Il nostro obiettivo è stato e continuerà ad essere quello di un intenso impegno diplomatico per porre fine a questa violenza”. Il presidente Joe Biden “ha espresso il sostegno per un cessate il fuoco”.

L’ambasciatrice americana ribadisce l’impegno nella risoluzione del conflitto ma gli Usa finora hanno bloccato dichiarazioni che secondo Washington potrebbero ostacolare o nuocere alla sua “diplomazia intensa ma discreta”. Fonte: ABC News.

Il sostegno di Biden, tuttavia, giunge dopo ben quattro telefonate al premier israeliano Benjamin Netanyahu nel corso delle quali ha ribadito più volte che Israele abbia il pieno diritto di difendersi contro “gli indiscriminati attacchi di razzi” di Hamas.

Una mossa, quella di Biden, che ha confuso la comunità internazionale e non ha mancato di apparire come un’attività diplomatica molto blanda. Dallo stesso Partito Democratico aumentano gli appelli rivolti al presidente per una presa di posizione più forte e netta per fermare Israele. Malgrado la gravità della situazione pare per il momento che la questione non rientri tra le priorità dell’agenda presidenziale .

La guerra continua

Nonostante gli appelli, aumentano le vittime in rapporto a nuovi attacchi perpetrati questa notte. Secondo quanto riferito dal portavoce dell’esercito israeliano Hidai Zilberman, i caccia dello Stato ebraico hanno sganciato 122 bombe in 25 minuti su circa 40 obiettivi sotterranei. L’attacco ha comportato la distruzione di oltre 12 chilometri di tunnel e numerosi depositi di armi e un centro di comando. Zilberman ha poi dichiarato: “Almeno 10 membri dei gruppi terroristici di Hamas e della Jihad islamica palestinese sono stati uccisi“. Ad essere preso di mira il quartiere Rimal, sobborgo residenziale di Gaza City, dove vivono “molti leader di Hamas”.

Razzi nello scontro tra Gaza e Israele. Fonte: AGI.

Le vittime complessive a Gaza, dall’inizio delle ostilità, sono ora 213, tra cui 61 bambini e 36 donne.
Questa mattina, invece, il lancio di razzi diretti verso un capannone agricolo israeliano, vicino alla linea di demarcazione, ha ucciso due operai thailandesi e ferito altre due persone. Ora il totale delle vittime in Israele è di 12 persone: 10 (tra cui 2 bambini) sotto i razzi e altre 2 per motivi collegati ai lanci.

Alessia Vaccarella