Cosa sta succedendo nello Yemen, un Paese dimenticato da tutti

Sullo sfondo del conflitto Russo-Ucraino, il concetto di guerra si è insinuato – dirompente come non accadeva da decenni – nell’immaginario comune. L’uomo realizza che la guerra è parte integrante della sua natura, deludendo ogni aspettativa sulla sua limitata localizzazione nel tempo e nello spazio.
Eppure, così come l’attuale guerra in Etiopia, in Tigray, quella yemenita è un tristissimo esempio del famoso adagio “Due pesi e due misure”: 7 lunghi anni di ostilità e scontri violenti nell’area mediorientale, territorio strategico per eccellenza incastonato tra l’Oman e l’Arabia Saudita, sono finiti nel dimenticatoio degli impotenti osservatori e volutamente ignorati dai potenti.

Lo Yemen protagonista di tre crisi nel mezzo di una guerra civile fuori controllo. Fonte: European Affairs Magazine

Dal 2015 in poi (anno ufficiale di inizio del conflitto) lo Yemen ha continuato ad essere un Paese privo di controllo, nonché teatro di un terribile scontro di interessi che vede contrapposti le milizie della minoranza sciita degli Houthi – governante il nord del paese – e l’esercito del legittimo governo in esilio.
Stiamo parlando di quella che l’ONU ha definito come la peggiore catastrofe umanitaria in corso, con oltre 380 mila vittime e 4 milioni di sfollati interni; dove oltre 20 milioni di persone (circa il 70% della popolazione) sopravvivono solamente grazie all’assistenza sanitaria di organizzazioni ed iniziative umanitarie, i cui fondi però non sono mai abbastanza. Ma la cosa più grave è che più della metà degli innocenti colpiti da tale flagello è rappresentata da bambini.

L’origine del conflitto

Lo Yemen è uno dei più antichi luoghi abitati del pianeta, una nazione dalla bellezza paesaggistica sfaccettata, con canyon, deserti, oasi, e lunghe coste incontaminate. Al posto dell’attuale origine semitica del nome odierno, gli antichi romani si riferivano alle regioni più meridionali della penisola arabica con il termine Arabia Felix (Arabia Felice), un’area ricca di spezie, incensi e snodo di scambi commerciali con Africa e India. Tuttavia, considerando quello che accade oggi in Yemen, il termine Felix è decisamente surreale e anacronistico.

Fonte: Documentazione.info

Il conflitto yemenita ha radici relativamente lontane, le quali diventano significativamente serie già a partire dai primi anni ’90, quando nella regione nord-occidentale del Paese, tra Sa’das e la capitale Sana’a, si andò formando un’organizzazione che in origine era più che altro una setta religiosa fondata dal clerico zaidita Hussein al-Houthi. In quanto zaidita sciita, Hussein era molto vicino ideologicamente e politicamente all’Iran e intesseva ottime relazioni con il leader supremo persiano, Ali Khamenei, così come anche l’altra realtà sciita in Medio Oriente, la libanese Hezbollah.

Il movimento di Hussein – inizialmente chiamato “la Gioventù Credente” – ha subito in seguito una radicalizzazione dovuta all’inasprirsi dei rapporti con il governo centrale, pertanto ora definendosi “Ansar Allah” (letteralmente i “partigiani di Dio”), altresì noti con il termine di Houthi. Nel 2014 il movimento ribelle degli Houthi prese il controllo della provincia settentrionale di Sa’ada e delle aree limitrofe, continuando ad attaccare e arrivando a prendere persino la capitale Sana’a, costringendo l’attuale presidente yemenita Hadi all’esilio.

Gruppo di Houthi ribelli. Fonte: The Defense Post

Si tratta quindi di una guerra indiretta tra i rivali regionali Arabia Saudita e Iran (che sostengono rispettivamente il governo riconosciuto e gli Houthi), ma anche la competizione nel fronte anti-houthi fra gruppi e milizie sostenute dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti (es. i secessionisti del Sud).

Chi è Hadi?

Abd Rabbih Mansour Hadi è un politico yemenita, entrato nell’esercito all’inizio degli anni ’70 e schieratosi inizialmente contro gli Houthi al fianco dello storico presidente Ali Abdallah Saleh, che per più di trent’anni era rimasto ai vertici di uno dei regimi più longevi della regione e alla guida di un Paese lacerato da guerre e carestia. Quest’ultimo ha scelto Hadi come vicepresidente dopo la guerra civile scoppiata nel 1994 a causa di un tentativo di golpe da parte di militari e politici di fede marxista, con l’obiettivo di realizzare la secessione del Sud e ricostituire un nuovo governo indipendente (come la Repubblica Democratica Popolare dello Yemen del Sud del 1967).

Il presidente Hadi. Fonte: Agenzia Nova

Quando il 27 febbraio 2011 Saleh si dimise, Hadi si insediò formalmente alla presidenza della Repubblica, tentando in extremis un accordo con gli Houthi, per una condivisione del potere, concedendo loro una riforma istituzionale che gli avrebbe fatto acquisire un maggior peso politico e modificando l’assetto del paese in sei regioni federali. Gli Houthi, però, si dichiararono insoddisfatti delle proposte e, irritati dell’annunciata decisione governativa di un taglio ai sussidi, nel mese di gennaio 2015, guidati dal generale Abdul-Hafez al-Saqqaf, attuarono un colpo di stato, invocando le dimissioni di Hadi; a questo si aggiungeva la generale crisi economica e sociale del paese – già allora il più povero del mondo arabo – afflitto da gravissimi problemi come disoccupazione e inflazione alle stelle.

Hadi è da anni in esilio in Arabia Saudita e all’età di 77 anni, non godendo di buona salute, ai primi di aprile 2022, ha lasciato i poteri al Consiglio presidenziale, nella speranza di avviare una fase di transizione, accolta con favore da sauditi ed emiratini, che hanno annunciato nuovi aiuti finanziari per la ricostruzione.

Il vero motivo del coinvolgimento di Arabia Saudita

Emirati Arabi Uniti (EAU) e Arabia Saudita hanno, senza ombra di dubbio, contribuito in maniera decisiva alla frammentazione del Sud e del Nord del Paese, cooperando con alcuni alleati nella regione invasa per mantenere la legittimità del governo del presidente Hadi, l’unico riconosciuto a livello internazionale. Ma al di là della questione ufficiale, le vere motivazioni per l’intervento saudita in Yemen erano molte: l’Arabia condivide un confine di migliaia di chilometri con una nazione sull’orlo della guerra civile; una nazione dove chi rischiava di finire al potere era un clan sciita, alleato dell’Iran. E uno Yemen in mano agli Houthi avrebbe significato per i sauditi la rovina: isolamento totale, blocco dello stretto di Bab el-Mandeb oltre a quello di Hormuz e (punti strategici di traffico navale) e addio ai miliardi di barili esportati nel mondo. Niente export, niente petrodollari; niente soldi, niente potere. Ed ecco che l’incubo in versione Yemen – ma più esteso –sarebbe potuto diventare realtà dell’Arabia Saudita.

Il presidente Hadi con il principe saudita bin Salman. Fonte: la Repubblica

L’invio di armi USA e italiane

È intuibile che una guerra che va avanti da anni non potrebbe fare altrimenti senza il coinvolgimento di grandi protagonisti della scacchiera mondiale quali USA e Italia, vergognosamente responsabili dell’invio costante di armi. Chiaramente le denunce alle principali aziende produttrici di armi non sono mancate, ma ciò non decolpevolizza il governo italiano, che secondo l’Osservatorio dei Diritti nel primo semestre 2020 avrebbe inviato armi a sauditi ed emiratini (tra pistole e fucili semiautomatici) per un valore di 5,3 milioni di euro. Senza contare poi le bombe. A gennaio 2021 l’export è stato fortunatamente bloccato dal governo italiano. E ancora, Amnesty International nel 2018, titolava, riprendendo un articolo del Washington Post:

“Gli Stati Uniti non dovrebbero prendere parte ai crimini di guerra in Yemen”.

Il riferimento non era soltanto alla vendita di armi, ma anche all’invio di mercenari attraverso la compagnia militare privata Academi, un tempo nota come Blackwater.

Una pace più che necessaria

Di fronte a tali fatti, diviene quasi superfluo sottolineare l’esasperazione di una popolazione yemenita segnata da anni di sofferenze e privazioni: niente elettricità o acqua potabile, e quindi epidemia di colera; niente carburante per le auto e prezzi del cibo irraggiungibili per il cittadino comune, alcuni dei quali sono arrivati al punto – stando a quanto riportato da Al Jazeera da vendere letteralmente un rene al prezzo di 5-10,000$. Organi che poi sono rivenduti a clienti benestanti degli altri paesi del golfo a prezzi esorbitanti (anche 100,000$):

“La gente che ha un po’ di soldi tira avanti, ma gli altri non hanno nulla, quelli come me non riescono ad avere nemmeno il pane”, ha detto uno dei milioni yemeniti in stato di miseria.

I bambini, in Yemen, non possono andare a scuola. Fonte: Piccole Note

Pacificare l’area è dunque di fondamentale importanza. Anzitutto ristorerebbe parzialmente la sicurezza dei traffici nel mar Rosso: si pensi solo al rischio del formarsi di nuovi Foreign Fighters di matrice integralista, che approfittino del conflitto per dare vita a nuove cellule terroristiche. Inoltre, una possibile ragione a favore della pace – se mai ci fosse bisogno di sottolinearlo – potrebbe discendere dal raffreddamento delle relazioni tra gli stati del Golfo (sauditi e emiratini) dovuta alle guerre ucraina e siriana: le due monarchie assolute, infatti, non hanno voluto assolutamente aderire alle sanzioni contro la Russia e di aumentare la propria produzione di greggio per compensare le mancate forniture di Mosca. Ma forse il beneficio più grande, che la fine di questa guerra avrebbe, è uno in particolare: la fine di una catastrofe senza pari, dopo sette anni di una guerra che però viene raramente menzionata dai media nostrani.
Paolo Pezzati, policy advisor per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia, commentando il conflitto in Yemen, ha parlato di “Una vergogna internazionale” aggiungendo che:

“Quello che continua a succedere in Yemen, nel silenzio dei grandi decisori internazionali, è una vergogna che intacca il senso di umanità”.

Gaia Cautela

Guerra Russia-Ucraina: il punto sulla situazione

Il conflitto tra Russia e Ucraina, iniziato il 24 Febbraio, non accenna a placarsi. Dopo il periodo di apparente stasi, durante le stagioni estive, la tensione è di nuovo altissima a causa degli ultimi avvenimenti. Nel mese di settembre, infatti, le milizie ucraine hanno quasi totalmente ribaltato la situazione, sfondando il muro delle truppe sovietiche in alcune zone precedentemente occupate. Questo ha spinto i vertici del Cremlino a minacciare l’uso di armi nucleari tattiche.

 

L’attacco al ponte tra la Russia e la Crimea

Nel mese di ottobre, seppur appena cominciato, la situazione non fa altro che aggravarsi. Lo scorso 8 ottobre, a seguito di una violentissima esplosione, è crollata una parte del ponte che collega la Russia alla Crimea. Ad oggi vi sono ancora molti dubbi riguardanti le cause e i mandanti dell’attentato. L’autorità antiterrorismo russa ha comunicato che il crollo sarebbe stato conseguente all’esplosione di un camion che trasportava carburante.

Più che cercare di capire chi sia il possibile mandante o interrogarsi sulle difficoltà logistiche dovute al crollo dell’unica strada che collega Russia e Crimea – difficoltà quasi inesistenti dato che è stata completamente riparata in un giorno – occorre comprendere fino in fondo la gravità di un attacco di questo tipo.

Il ponte di Kerč, dopo la sua costruzione nel 2014, è divenuto di fatto il simbolo dell’annessione della Crimea. Particolarmente emblematica fu l’inaugurazione del segmento del trasporto su gomma compiuta da Putin alla guida di un camion nel maggio del 2018.

L’Ucraina non ha rivendicato l’attacco anche se il presidente Volodymyr Zelensky si è mostrato “non troppo dispiaciuto” dell’accaduto. Queste le sue dichiarazioni:

«Oggi è stata una bella giornata, per lo più soleggiata sul nostro territorio. In Crimea era nuvoloso, ma faceva caldo»

Il Ponte subito dopo l’esplosione. Fonte: adnkronos.com

La risposta della Russia: missili su Kiev

Come pronosticabile la replica da parte delle autorità sovietiche è stata repentina ed è stata sia verbale che, purtroppo, militare.

«Questo è un atto terroristico e un sabotaggio commesso dal regime criminale di Kiev. Non ci sono dubbi e non c’erano. Tutti i rapporti e le conclusioni sono chiari. La risposta della Russia a questo crimine può essere solo la distruzione diretta dei terroristi. Questo è ciò che i cittadini russi stanno aspettando»

Sono state queste le parole del vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, Dmitry Medvedev. Un’uscita che ha lasciato poco spazio ai fraintendimenti e che si è rivelata in seguito tutt’altro che una semplice e innocua minaccia. Dopo circa un giorno dall’esplosione del ponte, infatti, la Russia ha effettuato un attacco missilistico su tutto il territorio ucraino. L’offensiva ha causato diversi morti e altrettanti feriti e che ha destabilizzato notevolmente i cittadini, soprattutto a Kiev. La capitale infatti, dopo mesi di stabilità, è stata la città più colpita.

Si è dimostrato particolarmente scosso dall’attacco anche Zelensky che nelle ore successive ha diffuso un messaggio, carico di frustrazione e ira, tramite Telegram. Questo il testo:

«Vogliono spazzarci via dalla faccia della terra. distruggi la nostra gente che dorme a casa a Zaporizhzhia. Uccidi le persone che vanno a lavorare a Dnipro e Kiev. L’allarme aereo sta continuando a suonare in tutta l’Ucraina. Ci sono missili che colpiscono. Purtroppo ci sono morti e feriti.»

Immagine di un missile caduto su Kiev. Fonte: lastampa.it

Le reazioni degli altri Paesi: convocato un G7 straordinario

Non solo il presidente ucraino, anche gli altri capi di Stato delle forze occidentali sembrano essere preoccupati per i possibili sviluppi legati al conflitto. In particolare, il presidente Joe Biden nei giorni scorsi si era esposto abbastanza duramente riguardo alla possibilità di un’escalation nucleare, da lui definita “un’apocalisse“. Al fine di smorzare la situazione è intervenuto il segretario di stato degli Usa, Antony Blinken, che si è mostrato aperto ad una possibile soluzione diplomatica chiarendo, però, che:

«Mosca sta andando nella direzione opposta. Quando la Russia dimostrerà seriamente di essere disposta a intraprendere la strada del dialogo noi ci saremo.»

Intanto nella giornata di ieri si è tenuto, in modo virtuale, un vertice speciale del G7, in cui le nazioni partecipanti hanno ribadito la volontà di dare appoggio all’Ucraina e di colpire la Russia tramite l’imposizione di ulteriori sanzioni economiche. Collegato anche Zelensky che prima dell’incontro ha dialogato privatamente con Mario Draghi.

Francesco Pullella

Guerra in Ucraina: Nato intransigente sulle annessioni della Russia e le minacce nucleari di Putin

Il conflitto Russia-Ucraina iniziato 7 mesi fa con l’invasione russa del territorio ucraino non intravede al momento una fine, bensì una coltre densa di minacce nucleari e incessanti attacchi incombono sul Paese che continua la sua controffensiva nel nord-est, cercando di riprendersi altri territori occupati dalla Russia. Quest’ultima venerdì scorso ha annunciato l’annessione tramite referendum di quattro regioni ucraine, gesto che la comunità internazionale non ha esitato nel definire illegittimo e assurdo.

Ciononostante, nelle ultime 48 ore le forze ucraine hanno guadagnato terreno significativo nel nord-est dell’Ucraina, intorno a Lyman, e nella regione di Kherson, a sud. Questo significa che la Russia non ha più il pieno controllo di nessuna delle quattro regioni dell’Ucraina che affermava di aver annesso la scorsa settimana.

Referendum annessione. Fonte: Euronews

La condanna dei “referendum farsa”

Lunedì 3 ottobre il Parlamento russo, la Duma, ha ratificato l’annessione delle quattro regioni dell’Ucraina nelle quali si sono svolti quelli che la comunità internazionale ha definito ”referendum farsa”. Lo ha annunciato il presidente della camera bassa del Parlamento russo Vyacheslav Volodin. Le regioni in questione sono Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia, che insieme rappresentano circa il 18 per cento del totale del territorio ucraino.

Di fronte ad un simile risvolto, i capi di Stato di nove Paesi europei membri della Nato (Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Macedonia del Nord, Montenegro, Polonia, Romania e Slovacchia) hanno fermamente sostenuto che non riconosceranno l’assorbimento delle quattro regioni da parte della Russia. Nella stessa dichiarazione congiunta sostengono poi il percorso verso l’adesione dell’Ucraina all’Alleanza Atlantica e invitano tutti i 30 Paesi membri a intensificare gli aiuti militari a Kiev, esprimendo così piena solidarietà all’Ucraina:

“Ribadiamo il nostro sostegno alla sovranità e all’integrità territoriale dell’Ucraina e non riconosciamo e non riconosceremo mai i tentativi della Russia di annettere il territorio ucraino”, si legge nella nota congiunta.

Il segretario generale NATO, Stoltenberg. Fonte: Agenzia Nova

A chiarire ulteriormente le posizioni intransigenti della Nato le parole del segretario generale, Jens Stoltenberg, durante una conferenza a Bruxelles:

“Le regioni di Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia sono ucraine, così come lo è la Crimea”, ha detto.

“Putin è il principale responsabile di questa guerra e il principale attore che deve fermare il conflitto. Se la Russia fermerà il conflitto, ci sarà la pace, se l’Ucraina si arrenderà, smetterà di esistere come una nazione indipendente”, sottolineando che “la Nato non è in guerra con la Russia, il nostro obiettivo adesso è continuare a sostenere l’Ucraina in ogni modo, per metterla in condizione di difendersi dall’aggressione della Russia”.

Putin minaccia sul nucleare

“Il popolo ha fatto una scelta netta. Ora i loro abitanti diventano nostri cittadini per sempre”, ha esordito Putin al termine dei referendum. Il non riconoscimento del risultato dei referendum, e delle conseguenti annessione, da parte della comunità internazionale potrebbe aumentare il rischio di utilizzo di armi nucleari: quella del presidente Putin è infatti una retorica tanto ripetitiva quanto pericolosa e imprudente. Un qualsiasi uso di armi nucleari avrebbe conseguenze gravi per la Russia e cambierebbe la natura del conflitto, come fatto esplicitamente sapere dal segretario generale della Nato Stoltenberg, nel corso di un’intervista al programma “Meet the press” su Nbc.

Il messaggio che la Nato e gli Alleati della Nato mandano alla Russia è atto a far capire che, nonostante l’organizzazione non faccia parte del conflitto, una guerra nucleare non può essere vinta e mai deve essere combattuta; anche perché l’Ucraina – in quanto nazione indipendente e sovrana in Europa – ha pienamente diritto di difendersi da un’aggressione di guerra. Pertanto, sarebbe impensabile assecondare le minacce di Vladimir Putin sull’impiego di testate atomiche tattiche per proteggere i nuovi confini autoproclamati per mezzo di annessioni stabilite a tavolino.

Numeri da paura nei bilanci di vittime

Dopo aver riconquistato nel fine settimana Lyman, città chiave dell’Ucraina orientale, le forze ucraine hanno continuato la loro controffensiva spingendosi fino alla regione di Luhansk.
Divisioni russe nella regione settentrionale di Kherson e sul fronte di Lyman erano in gran parte composti da unità che erano state considerate tra le principali forze di combattimento convenzionali della Russia prima della guerra, come riportato in precedenza dall’Istituto per lo studio della guerra. Dunque, il fatto che l’esercito russo abbia riconosciuto che le forze di Kiev hanno sfondato le linee di difesa nella regione di Kherson rappresenta la loro più grande svolta nella regione dall’inizio della guerra. Una mappa del Financial Times evidenzia i progressi delle truppe ucraine.

Ma qualche recente successo delle truppe ucraine non basta per chiudere un occhio su un bilancio di vittime, feriti e sfollati che continua a crescere di settimana in settimana: dal 24 febbraio si contavano già ad agosto almeno 5 mila civili uccisi, di cui più di 300 minori e circa 6,6 milioni di rifugiati.

Strage di civili. Fonte: Il Mattino

Sarà un inverno difficile per l’Europa

Lunedì, una settimana dopo le esplosioni e la rottura del gasdotto Nord Stream nel Mar Baltico (causate da almeno due esplosioni con centinaia di chili di esplosivo, secondo i governi di Danimarca e Svezia), la guardia costiera svedese ha dichiarato che la fuoriuscita di gas dal Nord Stream 1 si è interrotta, mentre il gas continua a fuoriuscire in parte dal Nord Stream 2, con il metano che sale in superficie. La multinazionale russa Gazprom ha tuttavia affermato che i flussi di gas potrebbero essere presto ripresi nel filone B del gasdotto Nord Stream 2.

Sabotaggio gasdotto NordStream. Fonte: TGCom24

Ma non basta chiudere una voragine per risolverne un’altra altrettanto seria: secondo David Petraeus, ex direttore della CIA, l’Europa avrà un inverno difficile perché ci saranno pochissimi flussi di gas naturale. Ma ciononostante lo supererà, anche perché il generale statunitense non crede che sulle questioni del sostegno all’Ucraina si creerà una divisione tale da causare scontri interni: la coesione europea è cruciale più che mai.
Intanto Zelensky ha affermato che eventuali negoziati ci saranno solamente in una fase finale, mentre un imminente risultato diplomatico è alquanto improbabile, dal momento che lo stesso presidente ha comunicato venerdì che l’Ucraina avrebbe accettato colloqui di pace solo “con un altro presidente della Russia“. E per ora Putin, nonostante le recenti proteste contro la mobilitazione, risulta essere ben saldo al potere.

Verso la cronicizzazione del conflitto

Il conflitto in Ucraina è solo la punta dell’iceberg in un mare più ampio in cui Stati Uniti e Russia si confrontano per ragioni strategiche vitali: per Washington si tratta di mantenere l’Europa nella sua sfera di influenza a tutti i costi, usando la crisi per recidere quanti più legami economici possibili tra i paesi dell’UE e il suo rivale russo; nel caso di Mosca, i combattimenti alle sue porte si stanno estendendo sempre più verso est da quando, da oltre vent’anni, la NATO minaccia in un modo o nell’altro di inghiottire l’Ucraina.

Tutto ciò indica non la fine imminente del conflitto, bensì una sua cronicizzazione, probabilmente ben oltre il prossimo inverno del 2022-2023. E anche se la mediazione della Turchia potesse portare ad un ormai improbabile cessate il fuoco, si concretizzerebbe piuttosto, nella migliore delle ipotesi, in una fragile tregua, vale a dire senza la firma di una pace veramente duratura.

Gaia Cautela

 

Il Donbass dipende da Severodonesk: la città si divide a metà tra i combattimenti

La guerra in Ucraina ha ormai superato i cento giorni: soprattutto durante gli ultimi si sono verificati diversi eventi chiave per le sorti del conflitto, da cui lo Stato aggredito non sembra poterne uscire facilmente illeso. Infatti, durante gli ultimi giorni di maggio, l’esercito russo si è impegnato a completare la propria avanzata sulla regione del Donbass, entrando a Severodonetsk, città ucraina che oggi è rimasta l’ultimo grosso centro nella regione orientale di Luhansk.

Il Donbass al centro della seconda fase del conflitto

La conquista di Severodonetsk comporterebbe un importante vantaggio militare per la Russia, che potrebbe chiudere la cosiddetta “seconda fase” del conflitto per concentrare le proprie forze sulla conquista di altre regioni orientali dell’Ucraina, come Kramatorsk e Slovyansk. Inoltre, sarebbe già una prima vittoria da presentare al pubblico russo, in attesa di risultati da più di cento giorni. Secondo la rivista online Formiche, quanto ottenuto dall’esercito russo sarebbe dovuto ad una diversa gestione dello strumento militare russo, grazie alla quale «in queste ultime settimane il centro di gravità delle operazioni nel Donbass è rappresentato non solo dalla conquista della regione in senso stretto, quanto piuttosto dalla cattura, eliminazione o accerchiamento del dispositivo militare ucraino impiegato nella regione».

Mil.ru, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons – Il generale russo Aleksandr Dvornikov

Sempre secondo la rivista, l’eliminazione delle forze ucraine dispiegate nel Donbass lascerebbe Kyiv senza le proprie unità migliori ed avrebbe delle ripercussioni sul morale dell’esercito ucraino.

Severodonesk resiste

In sostanza – continua Formiche –  la difesa di Severodonesk e Lysychansk risulta cruciale per l’Ucraina. Ed infatti, la città del Luhansk si trova adesso divisa a metà, con una controffensiva ucraina che è riuscita, dapprima, a recuperare il 70% della città, per poi ritrarsi fino al 50%. Secondo il governatore della regione, Serhiy Gaidai, nei prossimi cinque giorni ci potrebbero essere nuovi e più potenti attacchi russi e la situazione potrebbe cambiare ancora.

Grande preoccupazione per i civilicirca 15mila – rimasti bloccati nella città e impossibili da evacuare per via dei continui bombardamenti. Si teme, in particolare, che un assedio prolungato come quello verificatosi a Mariupol possa comportare una strage per quanti rimasti bloccati nella città.

Anche in caso di conquista, però, il destino dei civili rimasti non è positivo: secondo quanto riportato da Il Post, la russificazione delle città ucraine conquistate (come Kherson) si sta svolgendo all’insegna delle violenzeintimidazioni e degli stupri di guerra.

Il Presidente ucraino Zelensky ha affermato di essersi recato a Lysychansk e Soledar, in una visita estremamente vicina al fronte su cui si sta svolgendo una delle battaglie più intense del conflitto e, soprattutto, un caso raro in cui il Presidente varca i confini di Kyiv.

Ukrainian Presidential Press Service/ Reuters

Nuovi bombardamenti su Kyiv

Intanto, domenica mattina, Kyiv si è svegliata con dei nuovi bombardamenti (provenienti presumibilmente da sud) da parte di Mosca. Secondo il sindaco di Vitali Klitschko non ci sono feriti gravi, ma una persona è stata ricoverata in ospedale. Secondo ANSA, i missili avrebbero colpito una fabbrica nella zona orientale della capitale ucraina.

Immagini del fumo nero scaturito dal bombardamento sono girate sul web, con alcune testimonianze di civili che si trovavano nei paraggi.

https://twitter.com/TpyxaNews/status/1533333902273691648?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed%7Ctwterm%5E1533333902273691648%7Ctwgr%5E%7Ctwcon%5Es1_c10&ref_url=https%3A%2F%2Fwww.ilpost.it%2F2022%2F06%2F05%2Fbombardamento-kiev-giugno%2F

Intanto il Regno Unito si prepara ad inviare lanciarazzi a gittata di 80 km a Kyiv. La notizia è stata criticata dal Presidente russo Putin, che ha affermato che la consegna di nuove armi avrebbe il solo obiettivo di «estendere il conflitto».

Resta incerto il destino dei negoziati, dopo la notizia di alcuni incontri segretissimi tra vertici Ue, Usa e Uk per cercare un punto di svolta e, possibilmente, la fine del conflitto. Tra le questioni discusse negli incontri, anche il piano in quattro punti proposto dall’Italia, il cui contenuto era stato reso noto il mese scorso dal Ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Resta ferma, secondo quanto sostenuto dal Ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, «l’insindacabilità della liberazione del Donbass».

Valeria Bonaccorso

 

Finisce la resistenza di Azovstal, Mariupol è presa. Adesso si pensa ai prigionieri

Venerdì sera la Russia ha dichiarato che «Mariupol e l’acciaieria Azovstal sono state liberate dalle Forze Alleate di Russia, Repubblica Popolare del Donetsk (DPR) e Repubblica Popolare del Luhansk (LPR)».

Nel comunicato si leggerebbe di più di 2400 militanti neonazisti arresi e divenuti prigionieri. Le immagini diffuse dall’account Twitter del Ministero degli Esteri russo mostrano le perquisizioni eseguite sui soldati arresi. Tuttavia, il Comitato internazionale della Croce Rossa ha parlato invece di «centinaia» di persone. (Il Post)

La fine della resistenza: Mariupol è presa

La resa dei combattenti rinchiusi dentro l’acciaieria Azovstal per mesi senza aiuti umanitari, bloccati dalle forze russe che avevano circondato l’area. Ma ad essere bloccati nel complesso di Azovstal vi erano anche numerosi civili, tra donne, bambini ed anziani. Le trattative condotte assieme all’ONU ed alla Croce Rossa avevano permesso di liberarli poche settimane fa.

Alcune ore prima, un messaggio del Presidente ucraino Volodymyr Zelensky alla tv nazionale ha dato anche il via libera per l’evacuazione degli ultimi difensori:

Oggi i ragazzi hanno ricevuto dal comando militare il chiaro segnale che sono liberi di uscire e salvarsi la vita.

Dopo mesi di combattimenti finisce la resistenza di Mariupol, una delle città fulcro del conflitto, ormai completamente rasa al suolo. Mariupol rappresenta una città portuale di fondamentale importanza strategica: il Ministro degli Affari Esteri ucraino Dmytro Kuleba ha infatti twittato che «la Russia bloccando i nostri porti mette milioni di persone a rischio di fare la fame. Assieme agli alleati, l’Ucraina ha previsto due rotte di terra alternative per consegnare le esportazioni di cibo e salvare l’Africa ed altre regioni dalla fame. La Russia deve porre fine al suo blocco per permettere la piena e libera esportazione».

Il destino dei prigionieri

All’interno del sito industriale si trovava il Battaglione Azov, una milizia incorporata nell’esercito ucraino che ha posizioni esplicitamente neonaziste. Il timore per la loro prigionia è alto: nonostante il Presidente della Federazione russa Vladimir Putin abbia dichiarato che la detenzione si svolgerà «secondo gli standard delle leggi internazionali pertinenti», molti talk-show russi hanno chiesto la loro condanna a morte, in quanto «criminali nazisti». 

Certamente un processo svolto dal Paese di prigionia andrebbe contro i principi internazionali e le stesse leggi invocate da Putin, ma non manca l’ipotesi che la designazione di criminali nazisti o di organizzazione terroristica possa permettere alla Federazione di girare l’ostacolo e condannare effettivamente i suoi prigionieri.

(fonte: reuters.com / Alexander Ermochenko)

Adesso le autorità ucraine hanno iniziato ad invocare uno scambio di prigionieri, ma la Russia non ha espresso commenti in merito. Il Battaglione Azov e quanti rimasti dentro Azovstal sono però diventati un simbolo della resistenza ucraina, ottenendo un effetto che – certo – Putin “sperava” di scongiurare: che i – da lui designati – neonazisti venissero elevati ad eroi.

Il consigliere del Ministro dell’Interno ucraino Anton Gerashchenko ha infatti affermato che la difesa dell’acciaieria verrà insegnata nelle scuole militari per gli anni a venire. «Riuscite a capire cosa significhi amputare un arto senza anestesia? Ciò che vedete nei film horror di Hollywood non è niente in confronto a ciò che i difensori di Azovstal hanno dovuto vedere e sopportare».

Le parole di Zelensky

La guerra in Ucraina può terminare solo con mezzi “diplomatici”

Ha dichiarato il Presidente ucraino alla tv nazionale; intanto i negoziati tra Mosca e Kiev non progrediscono. «La guerra sarà sanguinosa, si combatterà, ma si concluderà definitivamente con la diplomazia», afferma Zelensky.

 

Valeria Bonaccorso

Incontro a Washington tra Joe Biden e Mario Draghi: Italia e USA più vicine di fronte alle nuove sfide

Un dialogo durato circa un’ora e quaranta minuti quello tra Mario Draghi e Joe Biden in cui viene ribadita la vicinanza tra Italia e USA soprattutto riguardo gli argomenti più caldi di questo periodo storico. Nella conferenza stampa che si è svolta a Washington, in occasione della prima visita ufficiale del Presidente del consiglio italiano alla Casa Bianca, i due leader hanno comunicato la volontà di continuare ad aiutare l’Ucraina al fine di raggiungere la tanto desiderata pace.

“Non c’è più un golia” Draghi propone il percorso per arrivare alla pace

«La guerra ha cambiato fisionomia: inizialmente si pensava ci fosse un Golia e un Davide, era un’impresa disperata che sembrava non riuscire. Oggi il panorama si è completamente capovolto. Non c’è più un Golia. La parte che sembrava invincibile non lo è più.»

Queste le parole di Mario Draghi nella conferenza di Washington. A distanza ormai di mesi dall’inizio del conflitto secondo il presidente del Consiglio lo scenario è totalmente diverso. Riferimento alla grande tenacia che l’Ucraina ha dimostrato nel difendere il proprio territorio, anche grazie alle armi inviate dall’occidente. l’Ucraina a questo punto sembra aver guadagnato una posizione negoziale sufficiente – secondo Mario Draghi – per arrivare alla pace seguendo la via diplomatica. Risolvere il conflitto però non è semplice ed è necessario uno sforzo:

«Tutte la parti, e in particolare Russia e Stati Uniti, devono fare lo sforzo di sedersi a un tavolo

La possibile risoluzione delle ostilità dipende anche dalla volontà delle due superpotenze. Tuttavia sia Draghi sia successivamente Biden hanno ribadito:

«Deve essere una pace che vuole l’Ucraina, non una pace imposta da altri né tantomeno dagli alleati. Kiev deve essere l’attore principale, altrimenti sarà un disastro.»

Quindi per quanto gli Stati Uniti e le altre nazioni alleate possano svolgere un ruolo rilevante la pace deve essere ottenuta principalmente dall’Ucraina.

Incontro Draghi-Biden. Fonte: tg24.sky.it

“Evitare una crisi alimentare” il primo passo per il riavvicinamento delle parti in conflitto

«Come possiamo mettere fine a queste atrocità? Come possiamo arrivare a un cessate il fuoco? Come possiamo promuovere dei negoziati credibili per costruire una pace duratura? Al momento è difficile avere risposte, ma dobbiamo interrogarci seriamente su queste domande.»

Per Mario Draghi la diplomazia è la via prediletta per il raggiungimento della pace ma egli riconosce anche che è una via ancora difficilmente percorribile. Una delle soluzioni potrebbe essere spingere le parti in conflitto ad avvicinarsi, a piccoli passi. Raggiungere degli accordi su alcuni temi di uno spessore molto ampio, come ad esempio il permettere l’esportazione di grano dall’Ucraina ai paesi più poveri del mondo. Queste le dichiarazioni del presidente del Consiglio:

«Lo sblocco dei porti dell’Ucraina da parte delle forze russe per lasciar partire le navi cariche di grano verso i Paesi più poveri del mondo, scongiurando così una crisi umanitaria causata dalla scarsità alimentare può essere un primo esempio di dialogo che si costruisce tra le due parti in conflitto per salvare decine di milioni di persone.»

La questione energetica, possibile tetto al prezzo del petrolio e del gas

Tra i temi più importanti del dialogo tra Biden e Draghi c’è sicuramente la questione energetica.

«Il tetto al prezzo del gas ridurrebbe in parte i finanziamenti che l’Europa dà a Putin per la guerra. Stesso discorso per il petrolio a livello mondiale, si potrebbe creare un cartello dei compratori. Oppure, più preferibile per il petrolio, persuadere l’Opec e i grandi produttori ad aumentare la produzione, su entrambe le strade bisogna lavorare molto.»

Stando alle parole del presidente del Consiglio in conferenza stampa il presidente degli Stati Uniti avrebbe “accolto con favore” l’ipotesi di un tetto al prezzo del gas. Anche se gli USA sembrerebbero indirizzati più verso il tetto al prezzo del petrolio.

Per Draghi inoltre il problema energetico esiste indipendentemente dalla guerra in corso. In particolare la questione

«si è venuta ad aggravare un anno e mezzo prima della guerra. L’attuale funzionamento dei mercati non va, perché i prezzi non hanno alcuna relazione con la domanda e l’offerta. E’ una situazione che va affrontata insieme, l’Italia è molto attiva nel diminuire la dipendenza da gas.»

Italia e Stati Uniti, una vicinanza solida e necessaria

Riguardo l’incontro con il presidente USA, Draghi ha dichiarato:

«L’incontro è andato molto bene. Biden ha ringraziato l’Italia come partner forte, alleato affidabile, interlocutore, credibile e io l’ho ringraziato per il ruolo di leadership in questa crisi e la grande collaborazione che c’è stata con tutti gli alleati.»

Le parole, i gesti, gli atteggiamenti da parte dei due leader fanno emergere un’importante realtà: l’alleanza tra Italia e Stati Uniti è salda come mai lo è stata negli ultimi anni. Alcuni però tendono a criticare questo atteggiamento da parte del governo, accusandolo di essere troppo omologato, soprattutto per le scelte riguardo la guerra, agli USA. Non vi è però alcun dubbio che riguardi l’importanza di incontri come quello appena accaduto. Il dialogo, soprattutto se svolto in termini pacifici e non conflittuali, porta ad un confronto di idee e di conseguenza ad una crescita.

Francesco Pullella

Aiuti, Accise e Iva: il Governo Draghi stanzia 14 miliardi per contenere i costi del conflitto in Ucraina

Il premier Mario Draghi vuole provare a fare miracoli per l’Italia e per farlo nella giornata di ieri il Consiglio dei ministri ha approvato un pacchetto di misure dal valore di ben 14 miliardi. Lo scopo è quello di contenere il rincaro prezzi causato dal conflitto in Ucraina il quale, sommato ai due anni di pandemia e alla crisi generale, sta mettendo da tempo in ginocchio l’economia nel nostro Paese.

Il premier Draghi durante la cabina di regia di ieri ha dichiarato che il governo è pronto a tutto per aiutare l’Italia (fonte: zazoom.it)

Tentare di sostenere famiglie e imprese

Come detto, l’azione del governo è volta a sostenere le famiglie e le imprese nel far fronte al caro energia e carburante. Parallelamente, per non dovere nuovamente ricorrere a misure temporanee, l’esecutivo sta studiando dei metodi per ridurre la dipendenza italiana nei confronti del gas russo, unico vero fattore di ricatto per l’Europa da parte di Putin.

Solo poche settimane fa gli italiani si accalcavano in folte folte code presso le stazioni di rifornimento, per accaparrarsi carburante prima dell’annunciato rincaro del costo del petrolio. Poi, l’arrivo di bollette dell’energia dalle cifre duplicate, a parità di consumo con i mesi precedenti. Scenari questi che non hanno fatto altro che rincarare difficoltà già sussistenti dal periodo della pandemia.

«Nel clima di grandissima incertezza che c’è il governo cerca di far il possibile per poter dare un senso di direzione, di vicinanza a tutti gli italiani» ha dichiarato Draghi per spiegare le ragioni dei provvedimenti varati.

Secondo i dati, non si tratterebbe ancora di recessione dell’economia, ma di una fase di rallentamento pari a -0,2% nel trimestre. In ogni caso, c’è stato bisogno di un intervento del governo, il quale sarebbe pronto anche ad altro, a qualsiasi misura necessaria, in caso di peggioramento.

 

Due i decreti approvati

Due sono stati i decreti approvati per dare l’ok a tutto il pacchetto di misure da 14 miliardi, senza scostamento di bilancio. Inizialmente, era stata preventivata una cifra di 6-7 miliardi attraverso l’aumento della tassazione degli extraprofitti guadagnati dall’aziende dell’energia. Gli altri 8 miliardi sono stati “trovati” solo dopo, grazie a ulteriori manovre.

Nella tarda mattinata di ieri, dopo un confronto con i sindacati, il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto “Accise e Iva” per la proroga dello sconto sul carburante fino all’8 luglio, che altrimenti nella stessa giornata sarebbe scaduto.

Nel pomeriggio, poi, la riunione con i capidelegazione di maggioranza e il via libera al secondo, il decreto “Aiuti”, riguardante aiuti alle famiglie e all’economia, gli interventi pubblici a sostegno alle imprese e anche l’emergenza profughi per la guerra.

 

Il Decreto legge “Accise e Iva”: contegno dei prezzi e il pericolo della speculazione

Dopo una brevissima tregua, sono tornati a crescere i prezzi dei carburanti in tutta Italia. I dati rilevano una media nazionale del prezzo della benzina in modalità self sale a 1,798 euro/litro, mentre ancora più alta per il diesel a 1,815 euro/litro. Ovviamente i costi del servito sono più consistenti mentre il Gpl resta elevatissimo.

Con il decreto “Accise e Iva”, che conta un solo articolo e vale due miliardi, viene prorogato, come suddetto, il taglio delle accise e dell’Iva sui carburanti. Inoltre, sarà previsto un monitoraggio anti-speculazione, condotto dal Garante per la sorveglianza dei prezzi con l’aiuto della Guardia di Finanza. Saranno sottoposti a controllo anche i prezzi relativi alla vendita al pubblico.

Per Federconsumatori i costi sono ancora troppo alti e soprattutto privi di alcuna giustificazione. I provvedimenti potrebbero non servire a molto e a ciò si aggiunge l’ombra della speculazione.

Il Codacons spiega che, nonostante i tagli, ma anche il calo delle quotazioni in borsa del petrolio, gli italiani continuino a pagare i rifornimenti il 20% in più rispetto allo scorso anno e che per questo servirebbero interventi sui listini.

 

Il Dl “Aiuti”

Ben più numerosi (cinquanta) gli articoli del decreto “Aiuti”. Il principale intervento è quello ancora sul caro bollette. Verrà sfruttata l’estensione del credito d’imposta per le imprese energivore e il bonus Energia” (gas e luce) diventa retroattivo, venendo applicato dall’1 gennaio: l’eventuale pagamento di somme eccedenti sarà automaticamente compensato in bolletta una volta presentata l’Isee, la quale dovrà essere sotto i 12mila euro per poter ottenere il bonus.

Sta per essere messo a punto un fondo di 200 milioni che finanzia contributi a fondo perduto alle imprese più colpite dalle ripercussioni della guerra, le quali, per questo, hanno subito perdite di fatturato dovute alla flessione della domanda, dall’interruzione di contratti, progetti e dalla carenza di materie prime.

Verrà finanziato nuovamente il fondo di sostegno per gli affitti per il 2022, con 100 milioni. Per il Servizio sanitario, in arrivo 200 milioni per compensare i maggiori costi per l’aumento dell’energia. Infine, le garanzie sui prestiti bancari saranno estese fino al 31 dicembre.

 

Gli altri “Aiuti” approvati e il braccio di ferro sul termovalorizzatore della Capitale

Oltre a ciò, verrà anche corrisposto un contributo di 200 euro a lavoratori e pensionati con reddito medio-basso per contrastare l’inflazione. I rincari delle materie prime, invece, hanno spinto il Cdm a stanziare 3 miliardi nel 2022, 2,5 nel 2023 e 1,5 per 2024 e 2026, per contrastare il caro appalti, il quale mette a rischio anche il Pnrr.

Prorogato, inoltre, al 30 settembre il termine per poter accedere al Superbonus 110% da destinare alle villette unifamiliari.

Aiuti previsti anche per l’emergenza profughi. I Comuni che accolgono i minori non accompagnati in fuga dall’Ucraina verranno rimborsati dei costi sostenuti fino a un massimo di 100 euro al giorno pro capite.

Infine, per ridurre la dipendenza dalle importazioni di gas russo – uno dei temi più attenzionati – si guarda ancor di più alle fonti di energia rinnovabile. Verranno nominati uno o più commissari di governo per i rigassificatori galleggianti. Il mondo delle energie rinnovabili, però, fatica a causa dei lunghi iter per le autorizzazioni: ben undici i passaggi che gli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili devono fare per avere il consenso per i progetti. A questo proposito, intanto, si partirà dalla definizione di criteri uniformi per la valutazione dei progetti degli impianti.

Sul tema ambiente, peraltro, si è discusso ampiamente in cabina di regia, a causa di una norma sul termovalorizzatore per Roma, approvata nonostante il rifiuto del Movimento 5 Stelle.

 

Rita Bonaccurso

Conflitto in Ucraina: la Transnistria rischia di essere coinvolta dai piani di Putin

Lunedì 25 aprile a Tiraspol, città più importante della Transnistria – regione moldava filorussa autoproclamatasi indipendente – si sono verificate due esplosioni di granate in prossimità dell’edificio del Ministero della sicurezza. Il giorno seguente un’altra esplosione ha colpito un’emittente radiofonica russa.

La Transnistria: la storia

La Repubblica indipendente della Transnistria forse è la nazione che più si avvicina per ideologia alla Russia di Putin. In origine faceva parte dell’URSS ma nel 1990 dichiarò la propria indipendenza e scelse come nome “Repubblica moldava di Pridnestrovie“, appellativo che continua a mantenere anche adesso. Nel 1991, dopo la caduta dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, nacque la Moldavia, il cui territorio comprende la Transnistria. Tra le due nazioni scoppiò un conflitto durato circa un anno che tuttavia non si rivelò utile per definire i confini politici e territoriali. Ad oggi la Repubblica moldava di Pridnestrovie continua a non essere riconosciuta né della Moldavia né dall’ONU.

Cartina che illustra la posizione della Transnistria.
Fonte: ansa.it

Un territorio estremamente delicato

Basterebbe osservare la posizione geografica della Transnistria per capire l’importanza strategica del territorio. Confinante con Odessa – da sempre riconosciuto come un obbiettivo importante di Putin – una sua eventuale conquista rappresenterebbe un canale di accesso facilitato verso l’Ucraina. Come se non bastasse la Repubblica moldava di Pridnestrovie risente molto dell’antica influenza sovietica, basti pensare al fatto che è l’unica nazione a conservare nella bandiera il simbolo della falce e martello (rimando alla tradizione comunista). Di fronte al parlamento regionale figura una statua di Lenin, e alcuni tratti della politica rimandano in maniera chiara al marxismo-leninismo. Inoltre la nazionalità degli abitanti  della Repubblica di Pridnestrovie è ad oggi ripartita in percentuali simili tra moldavi, russi e ucraini (moldavi 31,9%,  russi 30,3%, ucraini 28,8%)

I rapporti con il Cremlino sono sempre stati complicati dalla posizione geografica del territorio, tuttavia dopo la conquista della Crimea da parte di Putin le alte cariche della Transnistria hanno a più riprese manifestato la volontà di un’annessione alla Russia, mai concretizzatasi.

Bandiera della Repubblica moldava di Pridnestrovie. Fonte: it.wikipedia.org

La preoccupazione della Moldavia

Le esplosioni avvenute a Tiraspol secondo le autorità locali sarebbero da ricondurre a uomini ucraini. Se questa possibilità si verificasse essere vera potrebbe rappresentare per Putin il giusto pretesto per annettere alla Russia il territorio della Transnistria. Questa idea risulta essere poco gradita dalle alte cariche della Moldavia, in particolare alla presidentessa Maia Sandu che, davanti alla possibilità di un conflitto che coinvolga anche la sua nazione, ha deciso di convocare un consiglio di sicurezza nazionale.

La Repubblica moldava di Pridnestrovie accetterebbe di buon grado l’annessione alla Russia con quest’ultima che potrebbe considerare di assediare Odessa oppure di allargare ulteriormente il conflitto puntando ad altri territori che in origine appartenevano all’URSS.

L’intervento del segretario della difesa USA a Kiev

Mentre la dimensione della guerra tende sempre di più a crescere, il conflitto primario non accenna a placarsi. Il segretario della difesa degli Stati Uniti , Austin, si è recato a Kiev e dopo un incontro con i vertici dell’Ucraina ha rilasciato le seguenti dichiarazioni:

«Vogliamo vedere l’Ucraina rimanere un paese sovrano, un paese democratico in grado di proteggere il suo territorio sovrano, e vogliamo vedere la Russia indebolita al punto in cui non potrà fare cose come invadere l’Ucraina»

Anche il segretario di stato USA, Antony Blinken, si è nuovamente espresso riguardo il conflitto dichiarando:

«Mosca sta fallendo i suoi obiettivi»

Parole che lasciano trasparire tutta la sicurezza e convinzione da parte del governo statunitense.

Intanto però il ministro degli affari esteri russo, Sergej Lavrov, minaccia lo scoppio di un conflitto su scala globale.

L’incontro tra Putin e il segretario delle Nazioni Unite a Mosca

Continuano gli scambi diplomatici nella capitale della Russia. Questa volta i protagonisti sono stati Vladimir Putin e Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite. L’obbiettivo principale del discorso era garantire aiuti umanitari alle vittime della guerra in Ucraina. Il presidente russo sembrerebbe aver acconsentito ad un intervento delle Nazioni Unite per favorire l’evacuazione dei rifugiati di Mariupol. Putin si è infine espresso su uno degli argomenti più discussi nell’ultimo periodo:

«Sappiamo chi ha messo in scena questa provocazione a Bucha. L’esercito russo non ha nulla a che fare con quello che è avvenuto».

Dopo 63 giorni esatti dall’inizio del conflitto non si discute nemmeno su un’eventuale fine di esso bensì si preannuncia la “creazione” di nuovi fronti di guerra. La possibilità di una risoluzione diplomatica risulta essere sempre più remota e la sensazione è che le parti più che tentare di avvicinarsi si stiano allontanando sempre di più.

Francesco Pullella

50 giorni dall’invasione in Ucraina: le parole di Zelensky. Si stringe la morsa russa su Mariupol

Il 14 aprile ha segnato il cinquantesimo giorno di conflitto dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina, lo scorso 20 febbraio. Il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha commentato la ricorrenza affermando che nessuno pensava che il popolo ucraino avrebbe resistito così a lungo, «ma non sapevano quanto sono coraggiosi gli ucraini, quanto amano la libertà». Zelensky si è poi soffermato sull’eroismo del suo popolo:

«Siete diventati tutti eroi. Tutti, uomini e donne ucraini che hanno resistito e non si arrendono. E che vinceranno, che riporteranno la pace in Ucraina. Ne sono sicuro».

Intanto, il conflitto continua tra tentativi di de-escalation dell’Unione Europea, che pensa anche ad un embargo graduale sul petrolio russo (da discutere, però, al termine delle Presidenziali francesi), e tra una Finlandia che preme sempre più per l’adesione alla NATO. Il ministro finlandese per gli Affari europei Tytti Tuppurainen ha affermato, infatti, che il rapporto con la Russia sarebbe cambiato in seguito alle ultime azioni della Federazione, che – continua – sarebbero un «campanello d’allarme per tutti noi».

Mariupol sempre più in difficoltà

Peggiora la situazione a Mariupol, ormai rasa al suolo e accerchiata dalle truppe russe, che hanno preso il controllo della parte centrale della città, dividendo le forze ucraine al porto da quelle che si trovano nel quartiere industriale a est. I combattimenti si stanno concentrando soprattutto intorno all’acciaieria Azovstal, nel porto. Un vice comandante separatista russo avrebbe descritto alla TV di Stato russa l’acciaieria come: «la fortezza dentro la città».

Dentro l’acciaieria si nasconderebbe il cosiddetto Battaglione Azov, che rappresenta uno dei principali obiettivi di Putin.

Inoltre, il consiglio comunale della città di Mariupol afferma che gli occupanti russi hanno iniziato a riesumare i cadaveri sepolti nei cortili dei blocchi residenziali. Lo scrivono i funzionari su Telegram, citati dalla Bbc. A Mariupol ci sarebbero, secondo Kiev, 13 forni crematori mobili e le autorità cittadine sospettano che i russi stiano cercando di coprire i crimini di guerra. (ANSA)

(fonte: dailynews.ansneed.com)

Il caso dell’incrociatore russo affondato

Giovedì sera l’incrociatore russo “Moskva” è affondato mentre veniva rimorchiato, dopo aver perso stabilità a causa dei danni subiti dallo scafo durante un incendio avvenuto a bordo ore prima. Questa la versione ufficiale del Ministero della Difesa russo, che imputerebbe l’incidente, appunto, ad un incendio. Tuttavia, la controparte ucraina afferma di aver affondato l’incrociatore con due missili “Neptune” antinave.

Ad ogni modo, per ora nessuna delle due versioni sembra essere stata verificata. L’incrociatore “Moskva” era una delle navi più importanti di tutta la flotta russa, e l’affondamento è considerato da molti un duro colpo per l’esercito russo, sia dal punto di vista militare che simbolico.

Il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ha detto che cinque navi da guerra russe che si trovano nel Mar Nero settentrionale si sarebbero spostate verso sud, lontano dalle coste ucraine, poche ore dopo l’affondamento dell’incrociatore. Secondo diversi esperti militari potrebbe essere una conferma della versione ucraina: allontanandosi dalle coste ucraine le navi russe potrebbero voler prevenire un altro possibile attacco.

Tra l’altro, questa mattina a Kyiv sono stati confermati i bombardamenti di una fabbrica di sistemi missilistici antiaerei a lungo e medio raggio e di missili antinave.

(L’incrociatore Moskva. Fonte: analisidifesa.it)

Mosca blocca un giornale indipendente. Nell’ambasciata russa a Washington una lotta tra proiettori

Venerdì l’agenzia russa delle comunicazioni ha bloccato l’accesso nel paese al sito in lingua russa del Moscow Times, giornale online indipendente, per un articolo pubblicato dal sito il 4 aprile in cui si raccontava che alcuni agenti delle forze speciali russe si sarebbero rifiutati di combattere in Ucraina. L’agenzia ha giudicato la notizia falsa, procedendo a bloccare l’accesso al sito.

Intanto, è diventato virale un video pubblicato su Twitter che ritrae la bandiera ucraina proiettata sulle mura dell’ambasciata russa di Washington, opera di un piccolo gruppo di attivisti, a cui sembra che i funzionari dell’ambasciata abbiano provato a “porre rimedio” inseguendola con un altro proiettore. La didascalia del tweet recita: «Il gatto e il topo».

https://twitter.com/benjaminwittes/status/1514422654152982529?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed%7Ctwterm%5E1514422654152982529%7Ctwgr%5E%7Ctwcon%5Es1_c10&ref_url=https%3A%2F%2Fwww.ilpost.it%2Fflashes%2Fambasciata-russa-bandiera-ucraina-washington%2F

Biden contro Mosca: «è un genocidio»

Negli ultimi giorni il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha accusato la Vladimir Putin di essersi macchiato di genocidio nei confronti della popolazione civile ucraina, in seguito all’ennesimo blocco dei corridoi umanitari in varie parti del paese mercoledì scorso. Inoltre, Kyiv ha affermato di star raccogliendo prove per dimostrare l’utilizzo di armi chimiche da parte dell’esercito russo.

Il Presidente Biden ha anche affermato – riporta il Daily Mail – di essere pronto per una visita ufficiale a Kyiv. Sembrerebbe che nelle ultime ore si stia decidendo su una visita da parte di un membro dell’Alta amministrazione americana. L’impegno del Presidente nei confronti della situazione ucraina sembra auspicare anche ad una rimonta nei sondaggi, che vedono a favore di Biden solo un 33%.

Valeria Bonaccorso

Italia, Eni e il gas algerino: tutti i dettagli del nuovo accordo per aumentare l’indipendenza dalla Russia

Il Governo italiano ha formalizzato un nuovo accordo sul gas con l’Algeria. Si mira a trovare fornitori alternativi per rimpiazzare la dipendenza dal gas russo.

Accordo Italia-Algeria -Fonte:ilsussidiario.net

L’Esecutivo in tal senso si è messo al lavoro per “difendere i cittadini e le imprese dalle conseguenze del conflitto”. L’incontro tenutosi lunedì 11 aprile nella capitale algerina, Algeri, presso il Palazzo presidenziale “El Mouradia” ha visto le firme del Presidente del Consiglio Mario Draghi e del Presidente della Repubblica algerina democratica e popolare, Abdelmadjid Tebboune. Lo scopo di tale missione ruota attorno all’incremento della fornitura di gas, in quanto l’Algeria risulta esserne tra i principali fornitori. Essa presenta infatti un import totale superiore del 30% rispetto all’Italia, ma si dovrà però attendere il 2024.

Il contenuto dell’accordo

Alla firma sulla cooperazione bilaterale nel settore dell’energia, si aggiunge l’accordo tra Eni e Sonatrach, l’azienda di stato algerina, che prevede un aumento per le esportazioni di gas in Italia. Ad esservi presenti vi erano anche i ministri degli Esteri Luigi Di Maio, della Transizione ecologica Roberto Cingolani, il capo di gabinetto Antonio Funiciello, l’amministratore delegato Eni Claudio Descalzi e l’ambasciatore italiano ad Algeri Giovanni Pugliese.

Gasdotto Transmed -Fonte:geopop.it

Sebbene il piano inziale prevedesse un aumento delle forniture già da quest’anno, per poi entrare a regime nel 2023, l’accordo ha trovato approvazione in tempi più dilatati. Si è così previsto che entro il 2024 l’Italia riceverà dall’Algeria circa 9 miliardi m3 di gas in più all’anno ed incrementando così i 22,6 miliardi di m3 importati già nel 2021.

Quest’anno saranno erogati 3 miliardi m3 in più incidendo notevolmente sulla dipendenza dall’esportazioni di gas russo che, riducendosi di circa un terzo, favorirà la riorganizzazione dei consumi, nonché la ricerca di nuove fonti al fine di reciderne il legame. Non si tratta infatti di un mero trattato estemporaneo bensì, come affermato dal ministro Cingolani “un flusso costante o una rampa che tenderà a crescere”.

Lo scopo dell’accordo

Lo scopo dell’accordo mira a fornire una risposta significativa a Mosca ed avvia le procedure per porre con celerità degli accordi che ledano l’economia Russa. A seguito dell’invasione dell’Ucraina, da parte di Vladimir Putin, l’Italia si è così mossa per creare obiettivi strategici.

Dipendenza dell’Italia dal gas russo -Fonte:ilcorriere.it

Tra le missioni per “accaparrarsi il gas” l’Esecutivo ha previsto la stipula di altri accordi al fine di tutelare la sicurezza energetica del Paese. Dopo le festività pasquali è pertanto prevista la visita in Congo, Angola e Mozambico del Presidente del Consiglio Draghi. Si cercherà di ottenere forniture extra nel medio-lungo periodo. Ciò non consentirà nel breve termine di sostituire i 29 miliardi m3 di gas russo, ma permetterà al Paese di lavorare per redigere nuove trattative per le forniture, livellando e ottimizzando i consumi riguardanti il fabbisogno anno di cittadini e dell’industrie, che toccano livelli compresi tra 75-80 miliardi m3 .

Le proposte dal Governo

Sono state previste dall’Esecutivo nazionale delle opzioni per favorire la riduzione dei consumi. Sul tavolo la possibilità di predisporre dei periodi dell’anno in cui le aziende lavoreranno a regime ridotto concentrando così la produzione in brevi e specifici mesi e riducendo i picchi, pronosticando consumi uniformi.

Imprese energivore -Fonte:lumi4innovation.it

Altra possibilità avanzata dal ministro Cingolani è la riduzione dei consumi di energia elettrica non solo attraverso il calo dell’illuminazione urbana e dei monumenti, ma anche attraverso una diversificazione delle fonti. L’obiettivo mira ad incrementare l’uso di energia da fonti rinnovabili che però necessiterà di investimenti e tempi lunghi per funzionare a pieno regime.

Fonti rinnovabili -Fonte:eticasgr.com

Si comprende come l’intesa accordata non sia risolutiva, ma di certo inciderà positivamente sulla sicurezza delle forniture. Oltre a porre fine al finanziamento diretto di Mosca si eviteranno ipotesi di razionamenti energetici, sempre più concreti il prossimo inverno.

Giovanna Sgarlata