Haiti: una crisi che non sembra vedere una fine

La fuga del criminale Jimmy Chérizier, avvenuta ieri a seguito di una operazione poliziesca, è simbolo di una sempre più acuta crisi del piccolo Stato caraibico di Haiti, il paese più povero del Centro America. Bisogna però rifarsi agli eventi precedenti, per capire il motivo di tale contesto critico.

Il terremoto e l’epidemia di colera del 2010

Il 12 gennaio 2010, il piccolo Paese caraibico fu colpito da un forte terremoto di magnitudo 7.0. I danni causati alle infrastrutture resero difficile stabilire delle stime precise all’inizio, anche a causa della forte povertà della popolazione. Successivamente, grazie anche all’arrivo degli aiuti umanitari, si stimò che 230.000 persone persero la vita. Risultò però che quattro milioni di abitanti erano rimasti colpiti o feriti, e che gran parte degli edifici furono rasi al suolo o danneggiati. A peggiorare le cose, pochi mesi dopo il Paese fu colpito da una forte epidemia di colera, che si scoprì essere stata causata dagli scarti provenienti da una base ONU nepalese. Il bilancio fu di circa 800.000 contagiati, con quasi 10,000 morti. Questi due eventi contribuirono a portare lo Stato in una forte crisi economica e sociale.
macerie terremoto

La crisi politica e sociale del 2021

Nel 2018 il Paese fu colpito da una serie di proteste che chiedevano le dimissioni del presidente Jovenel Moise, che aveva preso il posto del dimissionario Michel Martelly nel 2017. Nel 2021 lo stesso Moise venne assassinato, e Haiti ripiombò in una nuova crisi politica. A tale evento seguì anche un nuovo terremoto, che portò a più di 2000 morti e ad ulteriori danni al Paese. Ben presto, varie gang criminali videro il vuoto di potere come un’occasione per estendere il loro potere. La capitale haitiana Port-au-Prince diventò teatro di vere e proprie guerre tra i vari clan, che iniziarono anche a scontrarsi con lo Stato.

Nuove proteste e cambiamenti politici

Nel 2022 l’aumento dei prezzi della benzina portò a ulteriori proteste da parte della popolazione nei confronti del governo. La carica del primo ministro era stata assegnata ad Ariel Henry, ma nonostante ciò i crimini da parte delle gang criminali aumentarono. Nel 2023 la percentuale di rapimenti da parte di tali gang raggiunse il 72%, con le vittime che erano spesso membri altolocati della società, quali dottori o avvocati, conseguentemente, molta gente fu costretta a fuggire dal Paese. Nel marzo del 2024, durante una visita in Kenya da parte di Henry, le gang bloccarono il suo rientro ad Haiti, e di conseguenza lui decise di rassegnare le dimissioni. Successivamente, il 25 aprile, si viene a creare il Consiglio presidenziale di transizione, creato per cercare di gestire la difficile situazione delle bande armate.
bandiera dello Stato di Haiti

La situazione politica attuale

Il Consiglio presidenziale di transizione, salito al potere il 25 aprile, ha cercato di mettere ordine nel quadro politico haitiano. Il 3 giugno viene nominato come primo ministro Garry Conille, che aveva ricoperto già tale funzione tra il 2011 e il 2012. La situazione che deve fronteggiare è piuttosto critica: nonostante l’arrivo di una missione multinazionale, guidata dal Kenya, a supporto della polizia haitiana, le bande armate controllano più dell’80% del paese. Tra le bande armate più importanti vi è l’Alleanza del G9, guidata da Jimmy Chérizier. In risposta a questi gruppi, è in costante aumento il numero di gruppi armati autodifensivi, i Bwa Kale, che contrastano le varie bande armate presenti nel Paese.
polizia che cerca di risolvere un caso

La destituzione di Conille

Nonostante alcuni segnali di stabilità, due eventi sembrano aver riportato paura e tensioni all’interno di un Paese già martoriato dalla violenza e dall’odio. L’11 novembre, a seguito di forti tensioni tra il Consiglio presidenziale di transizione e Conille, in carica da appena cinque mesi, egli viene destituito. Il Consiglio voleva destituire vari ministri, contro la volontà del premier, che ha definito la sua destituzione “illegale”. Sempre lo stesso giorno, al suo posto il Consiglio ha scelto l’uomo d’affari Alix Didier Fils-Aimè, che ha promesso di impegnarsi nell’indire nuove elezioni, già posticipate da diversi anni.


La fuga di Chérizier e conclusione

Nonostante i buoni propositi di indire il prima possibile delle elezioni, i problemi del Paese, ossia povertà e violenza, rimangono. A peggiorare la situazione è la fuga di Jimmy Chérizier, detto Barbecue, capo dell’Alleanza del G9. Egli infatti è riuscito a fuggire nel corso di un’operazione della polizia haitiana, nella quale sono morti due capi della gang Viv Ansanm. Se non si riesce a stabilizzare questo Paese, già dilaniato da calamità naturali e malattie, il rischio è di trovarci davanti uno Stato fantasma, senza alcuna possibilità di ripresa per il suo popolo.

Samuele Di Meo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’umanità e il ciclo della guerra

L’Insegnamento del Dolore

 

Fonte: https://www.elconfidencial.com/cultura/2018-10-23/robert-capa-fotografia-segunda-guerra-mundial-frank-scherschel_1634364/

 

L’essere umano, sin dai suoi albori, ha vissuto l’atrocità della guerra come un marchio indelebile sulla propria storia. 

Le cronache antiche raccontano di battaglie sanguinose e conflitti che hanno segnato il destino di intere civiltà.
Da Omero, che nella “Iliade” descrive il dolore e la perdita di vite umane, a Tolstoj, il cui “Guerra e Pace” offre una riflessione profonda sulla condizione umana in tempo di conflitto. La letteratura ha sempre cercato di catturare l’essenza della sofferenza causata dalla guerra.

Eppure, la storia sembra ripetersi.
Le attuali guerre in Ucraina e Palestina riaccendono la discussione su quanto, realmente, abbiamo imparato dal nostro passato.

Il sangue versato nel corso dei secoli potrebbe suggerire che, in effetti, l’umanità tende a ripercorrere gli stessi sentieri di violenza. L’atroce ciclo della guerra sembra non avere fine, e ci si chiede: perché l’uomo continua a imporsi con violenza?

La risposta è complessa e affonda le radici nella nostra natura.

Come scrisse Erich Fromm, “l’uomo è un animale sociale, ma è anche un animale aggressivo”.

Questa dualità ci porta a esplorare le ragioni che spingono le nazioni e i popoli a risolvere le proprie divergenze attraverso l’uso della forza. L’umanità, anziché apprendere dalla sofferenza, sembra a volte rimanere intrappolata in un ciclo di vendetta e ritorsione.

Il conflitto in Ucraina e la situazione in Palestina evidenziano il dramma di popoli oppressi e combattenti, ognuno con le proprie ragioni, le proprie sofferenze, ma anche le proprie speranze. La questione è se, davanti a tanta desolazione, si possa davvero intraprendere un percorso di dialogo e comprensione reciproca.

Gandhi, con la sua filosofia di non violenza, ci ricorda che “la vera forza non consiste nel colpire, ma nel resistere alla tentazione di farlo”.

Eppure, la tentazione è spesso irresistibile.

Il dolore e la perdita che derivano dalla guerra hanno la capacità di risvegliare in noi una compassione profonda, ma il rischio è quello di trasformare questa empatia in una reazione di difesa e aggressività.

L’insegnamento del passato, quindi, non dovrebbe essere solo un monito, ma un’opportunità di riflessione.

Come scrisse Primo Levi, “se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”, perché solo attraverso la conoscenza possiamo sperare di spezzare il ciclo della violenza.

Fonte: https://glamourdaze.com/2018/05/heroic-hardass-women-of-ww11.html
Fonte: https://glamourdaze.com/2018/05/heroic-hardass-women-of-ww11.html

Abbiamo la responsabilità di guardare alla storia non solo come un catalogo di atrocità, ma come un insieme di lezioni da apprendere. Ogni conflitto, ogni guerra, dovrebbe insegnarci a cercare alternative alla violenza, a promuovere il dialogo e la pace.

La vera sfida è quella di trasformare il dolore in comprensione, di utilizzare la sofferenza come carburante per costruire ponti anziché muri.

In questo momento critico, in cui la guerra continua a mietere vittime, è fondamentale che l’umanità si fermi a riflettere.

Dobbiamo chiederci: cosa abbiamo imparato? Possiamo costruire un futuro in cui la guerra non sia più una risposta?

La risposta è nelle nostre mani. Solo attraverso il dialogo e la comprensione reciproca possiamo sperare di superare il passato e costruire un mondo in cui il sangue versato non sia stato vano, ma diventi il seme di una nuova era di pace e coesistenza.

 

Soldato in guerra Fonte: https://cherrieswriter.com/bdf1c94a093ab348eec161f2057bfd14/
Fonte: https://glamourdaze.com/2018/05/heroic-hardass-women-of-ww11.html

Nel cuore dell’Europa, dove la storia è costellata di cicatrici profonde, la nostra società si trova oggi di fronte a una sfida cruciale: la difesa dei diritti umani.

Gli eventi che hanno segnato il Novecento ci ricordano che il sangue versato per la libertà non deve essere dimenticato. Ogni passo indietro in termini di diritti civili è un passo verso l’oscurità, un’involuzione che nessuno di noi può permettersi.

In un momento in cui il mondo sembra essere lacerato da conflitti e divisioni, l’Italia deve essere un faro di speranza.

Dobbiamo rispondere all’odio con l’amore, alla paura con la compassione. Ogni persona merita di essere ascoltata, ogni storia merita di essere raccontata. Non possiamo lasciare che la narrazione sia dominata dalla disumanizzazione e dall’indifferenza.

Riflettiamo, dunque, sulle nostre scelte e sul futuro che vogliamo costruire.

L’umanità ha pagato un prezzo altissimo per i diritti che oggi diamo per scontati. Non dimentichiamo, non voltiamo le spalle. Lottiamo insieme per un’Italia che rappresenti davvero tutti, dove il rispetto e la dignità siano i pilastri su cui costruire la nostra società. La nostra voce è potente; usiamola per promuovere la pace e i diritti di ogni individuo.

Israele colpisce le basi ONU. Crosetto: “Un crimine di guerra”

La guerra di Israele è totale e indisciplinata. E questa, tra le varie valutazioni ideologicamente orientate e viziate, non può che essere riconosciuta come verità oggettiva. L’ultimo atto dell’esercito di Netanyahu ne è la conferma.

I soldati israeliani hanno “colpito ripetutamente” alcune basi della missione UNIFIL, nel sud del Libano, ferendo due persone. Lo ha dapprima affermato l’ONU, e poi confermato Andrea Tenenti, portavoce della missione UNIFIL, aggiungendo – ai microfoni dell’ANSA – che due delle tre basi colpite sono gestite da militari italiani, mentre la terza è il quartier generale della missione.

L’ errore, marchiano, si inserisce nell’operazione militare attiva da ormai dieci giorni in detta zona, che vede confrontarsi le forze israeliane e il gruppo politico e militare libanese Hezbollah.

L’assalto incontrollato

Alcune fonti locali hanno documentato l’attacco di un drone alla base UNP 1-31, sulla collina di Labunne.

Qui, il drone, dopo aver sorvolato più volte la base, avrebbe colpito l’ingresso del bunker in cui i soldati italiani avevano avevano avuto la premura di rifugiarsi. Un assalto incontrollato, che per poco non ha avuto risvolti immediatamente fatali.

Nell’atto, comunque, sono stati danneggiati i sistemi di comunicazione tra la base e il comando UNIFIL a Naqura. Provocando un disagio non di poco conto nell’ambito della duratura missione di pace.

Le reazioni italiane: “Un crimine di guerra”

Le reazioni del governo italiano non sono tardate ad arrivare.

Il ministro della Difesa Crosetto ha detto che “non esiste giustificazione” per quanto è accaduto, che “le Nazioni Unite non possono prendere ordini dal governo israeliano” e tali “atti ostili e reiterati potrebbero costituire un crimine di guerra”. Adducendo poi persino al fatto che “gli atti avvenuti non hanno una motivazione militare. Aspettiamo la risposta per capire cosa abbia portato a fare ciò che è avvenuto. Non sono colpi partiti per errore”.

Dopo aver protestato con l’omologo israeliano e “a voce alta” riferendosi all’intero panorama internazionale, il ministro ha scelto di convocare l’Ambasciatore d’Israele in Italia.

Ma a dare manforte ci ha pensato anche la premier Meloni, ribadendo unità d’intenti con il suo compagno politico, e giudicando “inammissibile” l’avvenimento.

I paesi dell’UNIFIL contro Israele

In seguito all’attacco è inoltre scattato il protocollo d’intesa tra i paesi europei impegnati nell’UNIFIL – la missione già citata, che mira al raggiungimento di una pace stabile tra Israele e il Libano.

E il ministro della difesa francese, per l’appunto, ha annunciato una riunione tra i rappresentanti dell’Italia, della Francia, della Spagna e dell’Irlanda.

Non sembra esserci divergenza d’opinione nel gruppo dei quattro; anche il ministro degli Esteri spagnolo José Manuel Albares, infatti, ha espresso “ferma condanna” e ribadito che “Israele ha il dovere di proteggere le forze di mantenimento della pace delle Nazioni Unite” tramite il suo account su X.

Gabriele Nostro

Sapienza, proteste e arresti tra gli studenti. Cosa sta accadendo a Roma

L’Università come centro di dibattito scientifico, ma l’Università anche, indubbiamente, come terreno in cui si combattono guerre politiche vere e proprie, marchiate da ideologie, valori personali e personali partigianerie.

I recenti fatti verificatesi all’Università La Sapienza, a Roma, evidenziano i caratteri sempreverdi di una delle massime istituzioni del Paese; che, per carità, non sono in assoluto un male o un bene, quando rimangono ancora nell’ambito del discutibile.

Il colore politico vi si immischia pienamente, è vero, tuttavia si farebbe cattivo gioco a banalizzare. Dato che, allora che si contesta, si svolge il compito democratico. Con più o meno grazia, ora vedremo.

Approfondiamo quindi le motivazioni sottese alle ultime proteste e all’impegnato sciopero che alcuni studenti dell’ateneo capitolino hanno deciso di avviare. Inserendo gli atti nelle più lunghe sequenze di eventi recenti, che unitamente riconducono a un tema: la guerra di Gaza.

Sapienza, i collettivi contro Israele

Il sottotitolo è lampante, come la realtà. Dei collettivi studenteschi, negli scorsi giorni, hanno protestato per chiedere alla rettrice Polimeni di interrompere i rapporti di collaborazione scientifica che l’Università La Sapienza ancora mantiene con svariate università israeliane.

Il pretesto? Quello che si è già sentito in altre occasioni: per gli allievi, Israele è diventata una potenza da boicottare – soprattutto nella figura del suo Primo Ministro Benjamin Netanyahu – per via delle proprie scelte belliche nei confronti della popolazione di Gaza.

E dato che il boicottaggio verso una Nazione non passa solo per le sanzioni economiche o la mancata esportazione di armi, i manifestanti hanno creduto doveroso farsi sentire per agire nell’ambiente, probabilmente, più di loro potere e competenza: l’ambiente accademico.

Il riferimento studentesco, oltre all’interruzione delle relazioni generali, si pone particolarmente su un accordo fatto tra il ministero israeliano dell’Innovazione, Scienza e Tecnologia (MOST) e il ministero italiano degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale (MAECI), per finanziare progetti di ricerca tra i due paesi in vari ambiti scientifici.

L’iniziativa è stata molto criticata da studenti, professori e ricercatori, secondo i quali rischierebbe di finanziare tecnologie cosiddette dual use, ossia sfruttabili sia a scopo civile che militare.

Gli scontri con la polizia e i due arresti

Già da quanto scritto si può evincere il certo settarismo dei protestanti, palesemente pendenti verso una parte piuttosto che un’altra. Ma sono idee, visioni del mondo, sindacabili alla stregua dei loro contraltari.
Ciò che invece si può dire nettamente condannabile, al di là della posizione di giudizio, è l’atteggiamento di protesta. Almeno in prima fase eccessivamente aggressivo e distruttivo.
Martedì pomeriggio, infatti, al culmine del movimento studentesco si è giunti al confronto diretto con la polizia: per i tentativi di forzare la difesa posta innanzi alla struttura del Senato accademico e al commissariato.
Dallo scontro nessuno è uscito gravemente ferito. Ciononostante, due tra i molteplici partecipanti sono stati presi in riserva dagli agenti, per poi essere rilasciati – fatte le indagini del caso – dopo alcune ore.
Uno ragazzo è stato fermato dopo avere danneggiato un’auto della polizia, una ragazza avrebbe aggredito un dirigente della polizia durante il tentativo di irruzione nel commissariato.

Sapienza, ora è sciopero della fame

Che richiederà un sacrificio oneroso, una dedizione rara, che sarà meno esplicito e d’impatto, eppure – possibilmente – più ragionevole e incisivo sul lungo periodo.
I due scioperanti, Francesca e Leonardo (del collettivo Cambiare Rotta) si sono incatenati di fronte al rettorato dell’Università e ora non chiedono più di un confronto con la loro rettrice.
Adducendo alla responsabilità d’ascolto che quest’ultima dovrebbe rispettare, al fatto che le rivendicazioni non provengano dalla sola anima studentesca dell’Università e che quello di Israele sia un puro genocidio, né giustificabile né ignorabile.

(Link all’intervista: “L’intervista video agli studenti in sciopero della fame dell’Università La Sapienza di Roma“. Fonte: La Ragione).

Gabriele Nostro

Israele: Attacco Iran con droni e missili

Nella notte fra sabato e domenica l’Iran ha lanciato un attacco contro Israele. Sono stati impiegati più di 300 armi fra droni e missili. Nelle scorse ore infatti sono stati pubblicati in rete diversi video che riprendono il passaggio delle armi iraniane nei cieli dell’Iraq. Già nei giorni scorsi Israele aveva innalzato lo stato di allerta al livello massimo, a causa di diversi avvertimenti interni e internazionali su un possibile attacco.

Israele ha confermato la neutralizzazione del 99% di droni e missili attraverso il suo scudo – l’Iron Dome – e l’impiego dell’aviazione. Anche Stati Uniti e Regno Unito hanno partecipato alla difesa di Israele. Nel corso dei bombardamenti undici persone sono rimaste ferite. I danni più importanti sono quelli riportati nella base aeronautica di Navatim, nel centro del Paese.

(Reuters)

 

Vendetta contro Israele

L’operazione rappresenta una rappresaglia nei confronti dello stato ebraico per il bombardamento all’ambasciata iraniana a Damasco. Nel corso di questa offensiva Israele ha ucciso Mohammad Reza Zahedi, importante capo delle guardie rivoluzionarie iraniane (o pasdaran). Altri sette diplomatici sono morti, mentre l’ambasciatore iraniano in Siria è rimasto illeso poiché non si trovava in sede.

Non si tratta del primo attacco iraniano contro Israele. Tuttavia, un’offensiva di questa portata rimane senza precedenti in tempi recenti. L’offensiva rientra in un più ampio quadro di ostilità fra le due potenze nel Medio Oriente, nonché all’interno dell’attuale conflitto fra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza. L’Iran infatti sostiene economicamente e militarmente diverse milizie nella regione fra cui Hamas in Palestina, Hezbollah in Libano, i ribelli Houthi in Yemen e altre unità in Iraq e Siria. Nel corso del conflitto nella Striscia, Israele ha ucciso importanti esponenti di Hamas fra cui i tre figli adulti del capo politico della milizia Ismail Haniyeh.

Droni e missili non sono partiti solo da Iran, ma anche da altri paesi dell’area dove risiedono milizie filoiraniane. Fra queste spiccano Hezbollah in Libano e gli Houthi in Yemen, ampiamente finanziate e supportate dal regime iraniano. In particolar modo Hezbollah rappresenta una sempre più preoccupante minaccia per Israele, a causa della forte espansione del gruppo. L’apertura di un fronte a nord dello stato ebraico potrebbe impegnare diverse forze militari israeliane distogliendole dalla Striscia di Gaza.

(Al Jazeera)

Le armi usate dall’Iran

L’attacco ha preoccupato la comunità internazionale per una possibile escalation regionale dell’attuale conflitto fra Israele e Palestina. L’Iran è infatti uno dei paesi più militarizzati della regione mediorientale. A partire dagli anni novanta la guida suprema Khamenei ha investito molto nell’esercito e in un’industria bellica nazionale e autonoma, che ha fornito al paese un grosso arsenale. La maggior parte delle risorse sono conservate in depositi sotterranei difficilmente attaccabili da attacchi esterni. L’Iran inoltre porta avanti da anni un piano di sviluppo di un potente arsenale nucleare.

Nel corso dell’attacco sferzato contro Israele, sono stati impiegati 170 droni, 120 missili balistici e trenta da crociera. I droni, del tipo Shahed 136 (che l’Iran vende tra l’altro alla Russia), sono detti “kamikaze” poiché volano autonomamente attraverso coordinate GPS e si schiantano contro diversi target, distruggendosi e facendo detonare l’esplosivo trasportato: possono impiegare diverse ore in volo prima di colpire, per cui il loro passaggio è visibile in cielo (come accaduto in Iraq e Israele la scorsa notte). I missili balistici, di cui l’Iran ne ha usati circa 30, vengono sparati a grosse altitudini oltre atmosfera per poi ricadere su diversi obiettivi: non richiedono motore e sono molto veloci, richiedendo solo una decina di minuti prima di colpire. I missili da crociera hanno invece una velocità intermedia e seguono una traiettoria orizzontale ad altitudine molto inferiore, poiché volano alimentati da un motore: anch’essi sono visibili insieme ai droni.

Shahed 136 (Wikimedia)

La reazione internazionale

Dopo che l’Iran ha lanciato il suo attacco contro Israele, diversi paesi hanno espresso la loro condanna e preoccupazione per gli attacchi iraniani contro Israele. Quest’ultimo peraltro non ha rassicurato i suoi alleati in Occidente, promettendo una contro-rappresaglia «quando il tempo sarà dalla sua parte». Di contro, la missione iraniana presso le Nazioni Unite ha affermato che gli attacchi sono stati condotti unicamente come vendetta contro Israele ma che potranno seguirne altri se questo risponderà. Il presidente Joe Biden ha dichiarato che non garantisce l’appoggio a Israele in un eventuale contro-attacco e starebbe inoltre dissuadendo il governo Netanyahu a rispondere.

(Reuters)

Francesco D’Anna

Sei mesi di guerra nella Striscia di Gaza

Sono trascorsi circa sei mesi dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, quando diversi miliziani presero di mira diversi kibbutz nel sud di Israele. Questa serie di attentati, noti come operazione diluvio Al-Aqsa, ha portato alla morte di 1200 persone fra civili e militari israeliani. Contestualmente circa 250 ostaggi sono stati trasportati nei tunnel sotterranei della Striscia, usati come centro operativo da Hamas.

La reazione di Israele non si è lasciata attendere: il giorno seguente ha dichiarato lo stato di guerra con la Striscia di Gaza, una delle zone più densamente popolate al mondo. Qui vi abitano più di 2 milioni di persone, soprattutto palestinesi, in un’area geografica di 365 km2 (pari circa alla metà di quella di Madrid). Lo stato ebraico ha mobilitato migliaia di riservisti per organizzare una cospicua operazione di terra nella Striscia, preceduta da intensi bombardamenti su bersagli civili e militari. Le perdite umane complessive fra gli abitanti della striscia sono più di 30.000, un terzo dei quali rappresentati da bambini.

(Flickr)

La catastrofe umanitaria nella Striscia

L’operazione israeliana nella Striscia, organizzata per recuperare gli ostaggi ed eradicare Hamas dal territorio, non ha finora sortito gli effetti desiderati dal governo Netanyahu. Inoltre ha causato una catastrofe umanitaria nella Striscia: milioni di persone sono sfollate, vivono in condizioni igienico-sanitarie molto precarie ed è in corso una gravissima carestia. Nonostante le pressioni internazionali, Israele non ha facilitato l’arrivo o la distribuzione di aiuti umanitari. Ha inoltre chiuso la maggior parte dei valichi con la Striscia e non ha garantito percorsi sicuri per i convogli.

Recentemente ha fatto molto clamore la notizia dell’uccisione di sette operatori umanitari della ONG World Central Kitchen. Israele ha colpito tre auto dell’organizzazione poiché sospettate di trasportare un miliziano di Hamas. Questa ipotesi si è poi rivelata incorretta, inducendo Israele ad aprire un’inchiesta interna su chi abbia ordinato l’esecuzione. L’opinione pubblica internazionale tuttavia ha definito questo atto come: farebbe parte della strategia israeliana di affamare la popolazione palestinese come arma da guerra. L’attacco ha portato all’interruzione degli aiuti nella striscia da parte di WCK e di altre ONG, aggravando ancor di più le condizioni umanitarie.

Questi fatti si aggiungono a quelli dei mesi precedenti che hanno spinto il Sudafrica a fare causa ad Israele alla Corte internazione di giustizia dell’Aia. Quest’ultimo, secondo i sudafricani, non starebbe rispettando la Convenzione sul genocidio. L’opinione pubblica ha largamente lodato l’iniziativa giudiziaria, sebbene questa richieda tempi relativamente lunghi prima di ricevere un esito definitivo.

Flickr

Le reazioni della comunità internazionale

La comunità internazionale ha condannato la reazione israeliana, ritenuta spropositata e ingiusta. Tuttavia l’opinione pubblica ritiene insufficienti le misure prese contro la guerra: molti chiedono l’imposizione di un cessate il fuoco permanente e l’interruzione della vendita di armi a Israele. Inoltre diversi attivisti e politici denunciano il ritardo nelle azioni prese dall’ONU. I veti incrociati di Stati Uniti, Russia e Cina hanno infatti più volte bloccato l’operato delle Nazioni Unite.

Le Nazioni Unite hanno approvato due risoluzioni relative alla situazione nella Striscia solo nell’ultimo mese. La prima è quella del 25 marzo che chiede un immediato cessate il fuoco, approvato grazie all’astensione degli Stati Uniti: è teoricamente vincolante per Israele, che però non risulta al momento intenzionato a farlo. L’UNHRC, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, ha invece approvato la seconda, chiedendo l’interruzione della vendita di armi a Israele.

InternationalAffairs.org

Il ritiro da Khan Yunis

Negli ultimi giorni, le truppe di terra israeliane hanno abbandonato le loro postazioni a Khan Yunis, una delle ultime città a sud della Striscia. Il motivo fornito da Israele è quello di permettere al suo esercito di riposarsi e organizzarsi per le successive operazioni a Rafah. Qui si concentrano le sacche resistenza residue di Hamas ma anche nonché la maggior parte degli sfollati, spinti progressivamente dall’avanzata militare israeliana.

Ad oggi non si conosce con precisione la ragione per cui i membri della 98esima divisione stiano ritornando alle loro postazioni dall’altro lato del confine. Secondo esperti e analisti però è da escludere una fine del conflitto. Molto probabilmente Israele non rinuncerà all’invasione di Rafah, così come ricordato dal ministro della difesa israeliano Yoav Gallant e dal presidente Benjamin Netanyahu. Alcuni esponenti interni al governo israeliano non sono però così sicuri: paventando una presunta indecisione da parte dell’esecutivo, il ministro della Sicurezza nazionale Itaman Ben-Gvir ha dichiarato che Netanyahu «non potrà servire da Primo ministro se decidesse di non invadere Rafah».

Nel frattempo molti sfollati stanno facendo il loro ritorno a Khan Yunis, dove hanno trovato mucchi di macerie e corpi.

Wikimedia

Francesco D’Anna

Immagina

Immagina di essere solo, nascosto sotto un muro retto da una trave arrugginita, con la polvere addosso che ti sgorga dagli occhi insieme alle lacrime, che serpeggia tra le tue dita, che si mischia al sangue delle ginocchia sbucciate.

Immagina di essere uomo, donna, vecchio o bambino. Di respirare, bere e mangiare come ogni essere umano, ma sentendo dentro di te un vuoto, qualcosa che ti manca, che fa di te qualcosa di dimezzato.

Immagina di ascoltare la radio in un lurido scantinato, ascoltando il grande uomo bianco, il padrone dei padroni, affermare che è dovere aiutare chi viene aggredito, chi è vittima del bullo, chi è soggetto a persecuzione.

Immagina un cielo oscuro illuminato da fiori in fiamme, tempeste di pollini, rombi di api, e poi il silenzio. Mortale silenzio, per un attimo o due, e poi urla levarsi nella notte.

Immagina di essere un puntino nella folla oceanica, in processione dietro una bara bianca. Con le ambulanze che scorrazzano qua e là, e due schiere di cavalieri di carta con scudi di plastica a spingerti ora da una parte, ora dall’altra.

Immagina di essere un padre, una madre, un nonno o un figlio, e di riuscire a contare nella tua vita più funerali che feste di compleanno. Di avere almeno un lutto in casa, un martire laico da ricordare o vendicare.

Immagina di essere figlio di nessuno, padre di niente, cittadino del nulla. Essere vivente solo perché ancora in grado di respirare, ma privato d’ogni cosa che rende l’uomo un uomo.

Immagina di esserti fidato dell’uomo bianco. Delle sue promesse mancate, delle sue prese di posizione, dei suoi finti moti di sdegno.

Immagina di essere tu l’aggredito. Tu la vittima del bullo. Tu la persona da sostenere. E immagina il tuo volto nel vedere che no, il grande uomo bianco sostiene l’aggressore, sostiene il bullo.

Immagina di essere un Gazawi. Padre, figlio e fratello di uomini senza diritti né patria. Senza una bandiera intorno a cui raccogliersi, una terra da difendere e tramandare, un governo da sostenere o contestare.

Avresti potuto immaginarlo.
Ma ieri casa tua è stata colpita da un missile.
Sei morto tu, tua moglie, tua figlia di sei anni e tuo figlio di tre.

Diranno che eri un terrorista. O che nascondevi un terrorista o che in ogni caso, in quanto palestinese, eri un potenziale terrorista.

Non è poi così difficile prendere un uomo, spogliarlo di ciò che è, vestirlo di ciò che non è, ucciderlo per ciò che lo si è fatto diventare.

Ora che hai finito di soffrire, libero dalle catene bianche e azzurre, lontano dai cavalieri dagli elmi stellati, scommetto che puoi vedere noi, uomini bianchi, riempirci la bocca di buone intenzioni e le mani di banconote insanguinate.

“Hai visto?” ti immagino dire a tuo figlio “Quanto sono poveri quegli uomini bianchi, che pur essendosi arricchiti d’ogni cosa hanno perso il bene più importante: la coscienza”.


Giuseppe Libro Muscarà

*immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Conflitto Israele-Palestina: dialogo con la Prof. Francesca Perrini

Lo scorso 7 ottobre nei kibbutz di Be’eri e di Kfar Azza, situati nel territorio di Israele in prossimità della Striscia di Gaza, le milizie di Hamas (il partito radicale di matrice religiosa che controlla la Striscia dal 2006) hanno commesso una strage di centinaia di civili israeliani, dando inizio ad una nuova fase del conflitto che intercorre tra Israele e Palestina da quasi un secolo. 

Palestina
Grafico mostra l’attacco di Hamas durante i primi giorni. Fonte: ISPI

Le parole della Prof. Perrini

Per riflettere sul tragico scenario degli eventi che stanno causando nuovi spargimenti di sangue abbiamo rivolto alcune domande a Francesca Perrini, Professoressa associata di Diritto Internazionale del nostro Ateneo.

  1. Le immagini di nuovi orrori, a più di un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, inondano i social media ed i notiziari. In questa occasione, l’attacco lanciato dal movimento militante Hamas, uno dei due principali partiti politici dei territori palestinesi, nei confronti di Israele ha attirato l’attenzione globale. Quali sono le origini storiche dell’ormai decennale conflitto?

È nel 1948, all’indomani della nascita dello Stato di Israele, che ha inizio il conflitto arabo-israeliano In questo lungo periodo alcune crisi sono state particolarmente gravi, come quella del 1967, la c.d. “guerra dei sei giorni”, che ha visto l’occupazione israeliana di una parte dei territori palestinesi, tra cui proprio la striscia di Gaza.

  1. Di quale status giuridico godono (o meno) gli attori sino ad ora nominati? Hamas può essere qualificato come un movimento insurrezionale, dunque come soggetto di diritto internazionale? 

Per il diritto internazionale lo Stato acquisisce la soggettività internazionale in maniera automatica se è in possesso di due requisiti fondamentali, vale a dire l’effettività e l’indipendenza. Uno Stato che effettivamente esercita un potere di governo su una comunità territoriale ed ha un proprio ordinamento giuridico è di fatto un soggetto di diritto internazionale.

In questo senso, non vi è alcun dubbio sulla soggettività internazionale dello Stato di Israele, mentre, come è noto, con riferimento alla Palestina la questione è più controversa, sebbene negli ultimi anni si siano fatti importanti passi avanti. Uno di questi è la risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la quale è stato riconosciuto alla Palestina lo status di non-member-observer-State. Ma anche l’ammissione della Palestina all’UNESCO e la sua adesione allo Statuto della Corte penale internazionale.

Quanto ad Hamas, la sua attività è limitata ad una parte di territorio ben delimitata e non può certo dirsi che rappresenti l’intero popolo palestinese.

  1. Dunque, la reazione israeliana ai fatti del 7 ottobre non può essere giustificata in virtù dell’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, che riconosce il “diritto naturale” alla legittima difesa dello Stato aggredito dall’aggressione perpetrata da un altro ente di diritto internazionale

Ciò non toglie che lo Stato aggredito ha diritto di difendersi. In questo caso la legittima difesa di Israele non si fonda tanto sull’art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, quanto sul più ampio concetto di autotutela, che, però, deve rispettare il requisito della proporzionalità. E, soprattutto, ciò che occorre sottolineare è l’obbligo che incombe alle parti in conflitto di rispettare il diritto internazionale umanitario, salvaguardando la popolazione civile. Purtroppo, queste sono le violazioni più atroci a cui assistiamo da giorni e – occorre ribadirlo – sono violazioni commesse sia da Israele che da Hamas.

  1. Quali, a Suo avviso, sono le prospettive future? La nascita e l’accettazione, da parte israeliana, di uno stato palestinese potrebbe permettere di alleviare i conflitti nell’area?

Non è facile fare previsioni, perché molto dipende da quanto gli sforzi diplomatici riusciranno a realizzare. Certamente l’auspicio non può che essere una pacifica convivenza tra due Stati sovrani nel pieno rispetto dei diritti del popolo israeliano e del popolo palestinese.

Aurelia Puliafito

Wnba, Brittney Griner tornerà in campo dopo 10 mesi di prigionia

La cestista americana Brittney Griner tornerà a vestire la maglia dei Phoenix Mercury (squadra della WNBA, ovvero la più importante lega professionistica statunitense di basket femminile) già nel 2023, come annunciato dalla franchigia lo scorso martedì. Lo afferma la stessa Griner nel suo primo post Instagram dopo dieci mesi di prigionia in Russia, sottolineando la volontà di tornare il prima possibile in campo con la sua squadra. Desiderio esaudito: il 21 Maggio farà parte dei Phoenix Mercury nella prima partita della stagione contro i Chicago Sky.

Credo che nessuno di noi dimenticherà dove eravamo l’8 dicembre quando abbiamo sentito che BG stava tornando a casa o il 15 dicembre quando ha annunciato che intendeva non solo giocare a basket nel 2023, ma che sarebbe stato per il Mercury. E so che nessuno di noi dimenticherà mai come ci si sente a darle il bentornato sul pavimento di casa il 21 maggio.

Ha affermato il presidente delle Mercury Vince Kozar.

È un grande giorno per tutti noi annunciare che Brittney Griner ha ufficialmente firmato per suonare per i Mercury nel 2023. Ci mancava BG ogni giorno che se n’era andata e, mentre il basket non era la nostra preoccupazione principale, la sua presenza sul pavimento, nel nostro spogliatoio, intorno alla nostra organizzazione e all’interno della nostra comunità ci mancava molto.

Queste, invece, le parole del direttore generale Jim Pitman.

Chi è Brittney Griner

Brittney Griner ha 32 anni e si è affermata come una delle più forti giocatrici di basket di tutti i tempi. Prima scelta al draft (il sistema tramite il quale gli atleti dello sport americano approdano nello sport professionistico) del 2013, partecipa otto volte all’All-star game (la partita tra le stelle della Wnba che si svolge ogni anno); per due volte è stata la migliore realizzatrice della Wnba e per altrettante ottiene il premio come migliore difenditrice dell’anno.

È stata, inoltre, campionessa olimpica per due volte con la nazionale femminile di pallacanestro, nel 2016 a Rio de Janeiro e nel 2020 a Tokyo.

Griner ha raggiunto per due volte le finals Wnba con la sua squadra, vincendo il titolo nel 2014. La sua ultima apparizione sul più importante palcoscenico Wnba coincide con la sua ultima presenza sportiva prima della prigionia, nel 2021.

Brittney Griner in un tribunale di Mosca. Fonte: Il Post. Fotografo: Alexander Zemlianichenko

La carriera in Russia e l’arresto

La vicenda giudiziaria ha inizio nel febbraio del 2022, quando una volta atterrata all’aeroporto di Mosca-Šeremet’evo, dei cani antidroga annusano la presenza di narcotici nel bagaglio dell’atleta. La polizia rinviene nello zaino cartucce per un vaporizzatore che contenevano olio di hashish, sostanze illegali in Russia.

La cestista si trovava in Russia perché atleta dal 2015 dell’Ekaterinburg, squadra rappresentatrice della omonima città degli urali. Sono molte le giocatrici professioniste di basket americano che nei mesi invernali (quando non sono impegnate con la Wnba) decidono di legarsi professionalmente oltreoceano, attirate dagli stipendi che possono raggiungere il milione di euro (di gran lunga superiori agli standard Wnba).

Una vicenda dai sospetti fini politici

Secondo molti esperti statunitensi, l’arresto della Griner ha forti connotati politici ed è legato alle tensioni tra Russia ed i paesi occidentali dovute alla guerra in Ucraina.  Infatti, l’arresto è avvenuto una settimana prima dell’invasione russa del 24 febbraio scorso.

Da quel momento, la cestista è stata tenuta prigioniera per detenzione preventiva fino ad agosto, quando è stata condannata a 9 anni per contrabbando di droga. Nel novembre del 2022 è stata trasferita in una colonia penale russa, dove era costretta ai lavori forzati, fino alla sua liberazione avvenuta il 9 dicembre.

Sin dall’inizio, lo scambio di prigionieri rappresentava l’unica soluzione palese per porre fine alla detenzione. Dopo mesi di trattative, lo scambio avviene ad Abu Dhabi, con gli Stati Uniti che liberano Victor Bout, il trafficante di armi internazionali tristemente noto con lo pseudonimo di “Mercante della morte”. Ad annunciare l’operazione, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden.

Un lieto fine che è stato raggiunto anche per mezzo della grande attenzione mediatica creata dalla sua squadra, da sua moglie e dai giocatori Nba. Un esempio ne sono i giocatori dei Boston Celtics che hanno indossato una maglietta con su scritto “I AM BG” il 4 giugno 2022.

Giuseppe Calì

Metal Gear: i 3 momenti migliori che vorremmo nel film

La saga di Metal Gear è una di quelle saghe videoludiche talmente longeve e conosciute che chiunque nel mondo dei videogames ci ha avuto a che fare. Il primo capitolo risale al 1987 sviluppato per la macchina MSX ed il NES e si “conclude” nel 2015 con Metal Gear Solid V: The Phantom Pain.

Qui, però, si analizzerà un altro aspetto: riporteremo le scene che reputiamo essenziali per una eventuale trasposizione cinematografica della famosissima saga ideata dal game designer Hideo Kojima. Del film si è molto parlato negli ultimi decenni, ma fino ad ora solo 2 notizie sono trapelate: il regista sarà Jordan Vogt Roberts (già alla regia per The Kings of Summer e Kong: Skull island) e ad interpretare Solid Snake avremo il talentuoso Oscar Isaac (Dune, Moon Knight).

Null’altro è dato sapere, la Sony sta tenendo tutto per sé. Anche Konami sta facendo lo stesso con i suoi giochi dato che, grazie ai meme e alla perseverante passione dei fan, sembra che ci siano in programma dei remake dei primi 3 capitoli.

Metal Gear
Lo scontro tra The Boss e Snake in un concept art per il film; fonte: https://twitter.com/VogtRoberts/status/

Metal Gear Solid 3: Snake Eater – La morte di The Boss

Il finale del terzo capitolo della saga è tra le scene più iconiche, sia da un punto di vista di trama sia per la giocabilità in sé. Il combattimento più sofferente per Snake poiché affronta quella che è stata la sua mentore e adesso la sua nemesi: The Boss.

Conosciuta anche come The Joy o Voyevoda, The Boss è un personaggio molto interessante e fondamentale nella saga . Nel gioco sfida e combatte Snake, finché, in un luogo colmo di fiori candidi detto Rokovoj Bereg, muore sotto i suoi colpi. Nella scena, rivela a Snake la causa scatenante della Guerra Fredda, e l’elemento fulcro che ha portato l’intera trama al suo sviluppo. 

Dunque, si scopre che  le scelte di The Boss derivano dalla missione segreta assegnatale dalla CIA e dal Presidente: fingersi una spia russa e morire per mano del suo discepolo come traditrice della patria. La morte di The Boss provoca un forte impatto emotivo a Snake poiché realizza qual è la verità dietro la missione della sua mentore. La verità, dunque, è che fu una vera patriota, una vera eroina che sacrificò la sua vita e il suo onore, e che passerà alla storia, ufficialmente, come una criminale di guerra. Snake diventa Big Boss per aver portato l’Eredità indietro e aver sconfitto il suo mentore,  ma il suo rapporto da soldato con gli Stati Uniti viene per sempre compromesso. 

Metal Gear Solid: Peace Walker – La nascita di un villain

“Con il tempo, tutti gli eserciti devono essere completamente aboliti.”

Immanuel Kant, “Per la pace perpetua” cap.1

Nel primo finale del capitolo MGS: Peace Walker il nostro Snake si troverà davanti al Peace Walker, un carro armato movente con al suo interno l’intelligenza artificiale della sua mentore The Boss. Dopo averla uccisa, si troverà ad affrontare nuovamente il suo ricordo, per salvare il mondo da una catastrofe nucleare.

 E’ bene sottolineare quanto Snake fosse interessato al Peace Walker. Cosciente di trovarsi davanti ad una IA basata sulla mente di The Boss, cerca prove del motivo del tradimento della sua mentore. Dalle cassette audio  Snake capisce che in realtà lui è stato usato dalla sua mentore. The Boss non voleva altro che trovare quella pace che il mondo non riusciva più a darle, stanca della guerra ormai voleva solo sparire, piuttosto che continuare a combattere. Snake cambia obiettivo e decide di non voler rinnegare sé stesso come soldato, a differenza della sua maestra, e da quel momento in poi abbraccerà il nome in codice che la stessa Casa Bianca gli aveva affibbiato, Big Boss. E’ qui che nasce il vero villain che conosceremo nel primo Metal Gear: un guerrafondaio pragmatico che vede come unica ragione della sua esistenza e quella del mondo fondamentalmente nella guerra. 

Metal Gear
Il peace Walker in uno dei trailer di Metal Gear Solid Peace Walker; fonte: https://www.instagram.com/spdrmnkyxxiii/

Metal Gear Solid 2: le conseguenze dell’informazione digitale

Metal Gear Solid 2 può essere considerato un capolavoro per un particolare motivo: riesce a sovvertire completamente le aspettative del videogiocatore trasmettendo un importante messaggio di denuncia. Uscito nel 2001 affrontava il tema dell’informazione digitale in una maniera ottima se consideriamo soprattutto il fatto che internet era appena diventato una tecnologia di massa.

Il protagonista della storia risulta da subito inetto ed un emulo dell’ eroe del primo capitolo della saga.  Siamo costretti nei suoi panni durante tutta la trama e manovrati dalle mani di più burattinai, fino a renderci conto assieme al protagonista della realtà.

È proprio il finale di questa storia che noi consideriamo importante. Speriamo davvero che non venga tralasciato il messaggio che veniva trasmesso ai tempi, anzi, speriamo che venga ancora più ribadito.  Il ruolo del protagonista, marionetta nelle mani di una intelligenza artificiale, è  fondamentale; crediamo che ancora oggi rimanga una figura d’impatto.

L’intera trama del secondo capitolo è un pretesto per parlare al giocatore ed affrontare certi temi come l’accettazione del proprio io e della necessità di relazionarsi con gli altri. Già nel 2001 molti si sono lanciati contro Metal Gear Solid 2, criticandolo per l’aver disatteso le aspettative di chi voleva una storia puramente action, salvo essersi ricreduti nel tempo.

Metal Gear
Raiden, protagonista del secondo capitolo: fonte https://www.youtube.com/watch?v=E5zFtlGeqhg

Non solo fatti, ma interpretazioni

E’ vero che la saga di Metal Gear Solid si caratterizza di simbolismi e stratagemmi anticonvenzionali non trasponibili in un film diretto a un pubblico di massa. Ciononostante, queste scene sono per noi tra quelle immancabili per un film sulla storia delle Les enfaints terribles. Speriamo che il regista e Oscar Isaac ci mettano passione in questo progetto fantasma, distinguendosi da altre trasposizioni poco dignitose a cui siamo stati abituati noi videogiocatori.

Salvatore Donato,

Federico Ferrara,

Matteo Mangano