Santa Maradona e la precarietà dei millenials

Film dalla trama un po’ piatta, ma che spicca per dialoghi pronti e perspicaci – Voto UVM: 4/5

Esattamente sul finire di ottobre di 20 anni fa, le sale italiane proiettavano Santa Maradona.

Tratto da una sceneggiatura di Marco Ponti (sua sarà pure la regia) destinata ad essere cestinata, il film, in un primo momento passato in sordina, si presenta come un esperimento ben riuscito che mette in evidenza senza troppe pretese la precarietà esistenziale dei millenials.

Trama e personaggi

Al centro di un intreccio molto scarno, vediamo il quasi trentenne Andrea Straniero (Stefano Accorsi), che vola di colloquio in colloquio alla ricerca di un impiego stabile nel settore creativo delle aziende torinesi.

Un giovane Accorsi sul set di “Santa Maradona”- Fonte: mole24.it

Andrea ha un coinquilino di nome Bart (Libero De Rienzo, scomparso a lo scorso luglio), un “critico letterario” che passa le giornate sul divano tra tv, videogames e letture. I due dividono uno squallido appartamento nel centro di Torino arredato approssimativamente con frigo anno ’60 e mobiletti e poltroncine da salotto anni ’70.

La qualità della fotografia e del montaggio non sono dei migliori; infatti la casa di produzione aveva stanziato il minimo indispensabile per produrre il film e lo stesso regista si è dovuto arrangiare.

Ma evidentemente ciò che doveva spiccare in Santa Maradona non erano di certo effetti visivi e neanche una trama articolata, ma il senso di vuoto, la totale stasi e la paura di cambiare dei due coinquilini che rappresenterebbero un po’ tutti noi nati tra inizio anni ’80 e fine anni ’90.

Da sinistra a destra Libero De Rienzo (Bart), Stefano Accorsi (Andrea), Mandala Tayde (Lucia), Anita Caprioli ( Dolores Angeli) e il regista Marco Ponti. Fonte: cinemafanpage

 

Le giornate trascorrono nel disordinato e poco illuminato bilocale torinese e a volte in qualche bar o al cinema. Andrea apparentemente prova a crescere e a migliorarsi presentando curricula fatti male nelle virtuose aziende torinesi mentre Bart dall’alto del suo divano guarda il mondo e il futuro con cinica rassegnazione.

Un’ora e trenta di pellicola che sembra scorrere piatta se non fosse che la genialità in quest’esordio di Ponti sta nei dialoghi pronti e perspicaci dei vari personaggi. Battute e ragionamenti talvolta attinenti alle varie vicende si alternano a conversazioni quasi alla Tarantino, buttate lì come fossero nonsense (ma così non è).

“Vedi, la sregolatezza pura, che non ha a che fare con il genio, m’esalta”.

Esordio di De Rienzo

Accanto ad un appena famoso Stefano Accorsi grazie a L’ultimo Bacio, proiettato nelle sale sempre nello stesso anno, si contrappone un appena esordiente Libero De Rienzo. La rivelazione è proprio lui che con la sua interpretazione magistrale riuscirà a dare un tono alla calma piatta dell’intera pellicola.

Libero De Rienzo nei panni di Bart – Fonte: Mikado Film

Non è semplice calarsi nei panni di uno come Bart e renderlo ai propri occhi anche simpatico: un soggetto tutto sarcasmo e rassegnazione che con la sua cinica genialità a volte si rende irritante.

“è brutto avere una risposta bella pronta e nessuno ti fa mai la domanda giusta”

Bart non è logorroico come Andrea ma i suoi “botta e risposta” carichi di acidità lascerebbero chiunque di stucco.

Perchè Santa Maradona è attuale anche oggi

L’ambientazione ad inizio terzo millennio non è un caso. Ponti attraverso i due coinquilini traccia un confine tra gli over 25 dei primi anni ’90 – con già un impiego e magari anche famiglia a carico – e gli over 25 post anni 2000, come Bart e Andrea che appena laureati ciondolano nell’apatia di un appartamento tra telefilm e palleggi contro il muro.

Una generazione la loro – o meglio la nostra – che “non ha sogni nel cassetto o forse non ha neanche il cassetto dove metterli”, che si divide tra colloqui di lavoro e spritz delle sei – che tanto prima o poi arriverà l’occasione che cambierà la vita – che vorrebbe cambiare il mondo, il corso degli eventi ma ha paura come Andrea o non ci prova nemmeno come Bart e nel frattempo che si fa?… Meglio chiudersi in un appartamento e finire tutta l’ultima stagione di una serie Tv su Netflix.

Come ha detto Ponti, i suoi personaggi utilizzano l’espediente di Maradona cercando di fare goal di mano. Esattamente come Bart e Andrea, anche noi tra i 20 e i 30 anni, in questo periodo storico che sicurezze non ci dà, cerchiamo di fare goal di mano nello stadio della vita.

Ilenia Rocca

 

Sam Raimi: una favola di regia

Nel corso della storia del cinema possiamo contare diversi esempi di uomini e donne capaci di imporre le proprie idee e farsi amare dal pubblico internazionale partendo da zero.

Compie oggi 62 anni Sam Raimi, regista che ha fatto la storia della settima arte imponendosi autonomamente in un settore estremamente ostico verso chi non possiede le conoscenza necessarie per poterci lavorare.

Noi di UniVersoMe vogliamo celebrarlo andando a ripercorrere le tappe più significative della sua carriera.

Le origini e la trilogia de La Casa

Alla base del successo del regista gioca un ruolo fondamentale l’amicizia con Bruce Campbell. I due si conoscono dai tempi della scuola e fin da adolescenti iniziano a girare dei cortometraggi con una cinepresa regalata a Sam dal padre.

Trascorrono gli anni e la passione per il cinema porta i due a fondare una propria società insieme a Robert Tapert (l’allora compagno di stanza d’università di Raimi): la Renaissance Pictures. Il primo film della nuova casa di produzione fu La Casa (1981).

La pellicola racconta di cinque ragazzi che si recano in uno chalet sito all’interno di un bosco per divertirsi. Qui vi trovano un libro scritto in sumero (il Necronomicon), mediante il quale involontariamente evocano un’entità maligna che li perseguiterà. Toccherà ad Ash Williams (Bruce Campbell) cercare di salvare se stesso e i suoi amici.

Una scena del film – Fonte: Renaissance Pictures

La Casa inizialmente venne accolto da pareri discordanti della critica e non ottenne particolare successo al botteghino. Nel corso degli anni però, grazie alla redistribuzione in home video, venne ampiamente rivalutato fino ad essere considerato uno dei cult movie a basso costo più amati della storia. A causa del budget bassissimo, Raimi dovette arrangiarsi parecchio durante le riprese: molti effetti speciali vennero creati con mezzi di fortuna sul set stesso.

Ciò che colpisce enormemente della regia è sicuramente l’utilizzo della telecamera nei momenti in cui l’entità si muove tra i boschi: il regista ha deciso di effettuare delle riprese in soggettiva del demone mentre insegue i ragazzi. Gli inseguimenti vengono mostrati dal punto di vista dell’entità grazie a una sorta di steadicam (creata dal regista stesso), montata su un supporto mobile che garantisce un movimento fluido e veloce della cinepresa. Il risultato è un effetto tremolante senza alcuna perdita di qualità dell’immagine.

Nel 1987 il regista gira una sorta di sequel/remake, intitolato La Casa 2, con Bruce Campbell nuovamente nei panni  di Ash Williams. Grazie alla distribuzione di Dino De Laurentis e ad un budget 10 volte superiore al film precedente, Raimi riesce a riproporre ciò che aveva già realizzato ne La Casa, innalzando esponenzialmente la qualità della pellicola.

Un elemento estremamente importante della pellicola è certamente l’aspetto del protagonista: Ash ad un certo punto del film è costretto ad amputarsi una mano e poi ad autoimpiantarsi una motosega per sostituirla. Con una mano-motosega da un lato ed un fucile dall’altro, diviene a tutti gli effetti un personaggio iconico nel panorama del genere horror. Un esempio di come Raimi riesca ad aggiungere particolari significativi alla trama che restano impressi in maniera indelebile nella mente dello spettatore.

Ash ed il suo amato braccio-motosega

Nel 1992 esce il seguito diretto de La Casa 2 intitolato L’armata delle tenebre, film visceralmente diverso dai precedenti.  Non ci troviamo più di fronte ad un horror con sprazzi di comicità, ma più propriamente davanti ad un fantasy che vede sempre Ash Williams catapultato nel medioevo dove dovrà fronteggiare le forze del male.

La trilogia di Spider-Man: rinascita del cinecomic

Dopo il successo della trilogia de La casa, arriva un’occasione più unica che rara per il regista: nel 2000 la Sony gli affida il compito di dirigere Spider-Man. Un momento significativo per la carriera di Raimi: se prima il regista aveva tutta la libertà del mondo per esprimere la sua creatività da cineasta senza particolari pressioni, ora si ritrova su un livello estremamente più elevato.

Impostando la pellicola come una sorta di commedia d’azione con spruzzi di romanticismo d’alta classe (il bacio tra Peter Parker e Mary Jane meriterebbe un intero articolo a parte!) e gag esilaranti, il regista gira un film che incassa 800 milioni di dollari.

Il famoso bacio tra Peter Parker (Tobey Maguire) e Mary Jane (Kirsten Dunst) – Fonte: Columbia Pictures/ Sony Pictures

Fino ad allora i film sui supereroi erano considerati B-movies e le grandi case di produzione – a parte rarissime eccezioni- non investivano in tali progetti. Spider-Man (2002) fu un salto nel buio per la Sony, che grazie a Raimi decise poi di girarne due seguiti dal medesimo stile (in Spider-Man 3 però non sono presenti gag degne di questo nome). Da lodare anche le brillanti interpretazioni di tutto il cast (presente anche l’amico Bruce Campbell in un cameo).

La trilogia di Spider Man trascina una mole gigantesca di persone in sala ad assistere a un film di supereroi, segnando la rinascita del cinecomic e l’inizio di un periodo d’oro per il genere che arriverà fino ai giorni nostri con le pellicole del Marvel Cinematic Universe.

Sam Raimi – Fonte: horrorstab.com

Raimi è un esempio lampante non solo di come si fa cinema, ma di come si possa creare qualcosa che abbia qualità in qualsiasi condizione. Senza soldi gira una pietra miliare del genere horror, con i soldi dà linfa vitale al genere cinematografico più redditizio di sempre. Chapeau Mr Raimi.

Vincenzo Barbera

 

 

La scuola cattolica: figli di una mala educazione

Un film che porta a riflettere sull’educazione di ieri e di oggi per fare in modo che la violenza non si ripeta – Voto UVM: 4/5

 

Presentato fuori concorso alla 78esima Mostra del Cinema di Venezia, quello tratto dal romanzo Premio Strega (2016) di Edoardo Albinati e diretto da Stefano Mordini, è un film che racchiude in sé dolcezza e atrocità.

La scuola cattolica racconta infatti uno dei fatti di cronaca nera più terribili del nostro paese: il delitto del Circeo.

La vera storia del massacro

Nella notte tra il 29 e il 30 settembre 1975, dopo torture morali, fisiche e sessuali, tre giovani appartenenti all’alta borghesia romana: Gianni Guido, Andrea Ghira e Angelo Izzo, uccidono la diciassettenne Rosaria Lopez, che insieme alla sua coetanea Donatella Colasanti, li aveva seguiti nella Villa al Circeo di Ghira, convinta di andare al mare. I tre caricano le due ragazze nel bagagliaio di una Fiat 127, che parcheggiano sotto l’abitazione dello stesso Guido, per poi allontanarsi. È allora che Donatella, tramortita e ferita, con piccoli gemiti riesce a richiamare l’attenzione di un vigile notturno che la salva. Dei tre colpevoli saranno arrestati solo Guido e Izzo, mentre Ghira non sarà mai catturato.

Emanuele Di Stefano (Edoardo Albinati) in “La scuola cattolica”

Al cinema

Con una struttura complessa che si presenta quasi come un crescendo musicale, il film si dirama in più linee narrative: dall’educazione dei ragazzi ai quali vengono imposte finte punizioni, alla loro libertà incontrollata, da quelle istituzioni che si presentano come i capisaldi di una società purtroppo non più in grado di crescere quei giovani uomini, finendo per nascondere sotto il tappeto una montagna di polvere – o meglio micce pronte a prendere fuoco.

La genesi di tutto è da ricercare proprio all’interno di un liceo cattolico destinato ai figli dell’alta borghesia romana, che si presenta come il terreno ideale in cui far crescere il seme della violenza e della “mala educazione”.

Produttivamente e poeticamente sembrerebbe alludere all’ormai lontano Romanzo Criminale di Michele Placido (2005) con cui condivide gli eccessi e i difetti di un’alquanto instabile società e del suo progredire verso l’inevitabile inconsistenza di un futuro frammentato, caotico e privo di certezze. Anche se, a differenza della pellicola di Placido, Stefano Mordini, lascia ampio spazio ad atteggiamenti instabili, pericolosi ed estremi, il film non mostra quasi mai la violenza in scena ma la evoca, ad esempio, nelle suppliche sfinite di Donatella, interpretata magistralmente da Benedetta Porcaroli.

Benedetta Porcaroli (Donatella) e Federica Torchetti (Rosaria) in una scena del film.

L’opera di Mordini si chiude ricordandoci che Rosaria e Donatella furono massacrate prima fisicamente e poi moralmente da stampa e opinione pubblica, che addossarono loro la colpa per quanto accaduto. In pratica se l’erano andata a cercare, salendo su quella Fiat 12! Rispetto ad allora le cose sembra che non siano cambiate. Basterebbe entrare su qualsiasi social network, accendere la Tv o la radio per ascoltare frasi del tipo «se la sono andata a cercare», riferita a donne colpevoli semplicemente di aver messo una gonna troppo corta o aver risposto male a un uomo.

La censura

Il nostro bel paese come sempre non perde l’occasione di dimostrarsi incoerente e contraddittorio. Il film, realizzato col sostegno del Ministero della cultura (MiC), è stato poi censurato dalla Commissione per la classificazione delle opere cinematografiche proprio dopo che lo scorso aprile, lo stesso Dario Franceschini, alla firma del decreto per l’istituzione della nuova commissione, aveva dichiarato abolita la censura cinematografica:

“Definitivamente superato quel sistema di controlli e interventi che consentiva ancora allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti.”

Il film è ad oggi vietato ai minori di 18 anni. La Commissione si è lamentata del fatto che le vittime e i carnefici vengono messi sullo stesso piano. Esplicito il riferimento alla scena di un professore che soffermandosi su un dipinto, mette sullo stesso livello la figura di Cristo e dei suoi flagellanti.

Al contrario, il messaggio che Mordini voleva trasmettere al pubblico, doveva essere inteso come uno strumento per capire la differenza tra le vittime e i loro carnefici, tra il giusto e lo sbagliato, per prendere atto del peso della responsabilità di chi sbaglia e non di chi subisce. È assurdo come venga vietato un film assolutamente necessario per gli adolescenti di oggi, donne e uomini di domani.

Ferrazza (Edoardo Carbonara), Edoardo Albinati (Emanuele Di Stefano), Carlo Arbus (Giulio Fochetti)

Da guardare: sì o no?

Senza ombra di dubbio, quella che il regista prova a raccontare, è una delle pagine criminali più allucinanti del nostro dopoguerra. Prova però a farlo in maniera intelligente, privilegiando una coralità narrativa, a discapito di un’analisi antropologica e sociologica del periodo storico. È infatti assente la vicinanza dei tre carnefici agli ambienti fascisti o il loro abuso di droghe.

Mordini, dunque, ci pone davanti un affresco del 1975 con scene prive di pathos e tensioni, ma pur sempre con una grande valenza sociale. Un film che tutti dovrebbero vedere, per fare in modo che la violenza non si ripeta.

Domenico Leonello

Che la sfida abbia inzio: “Come farsi lasciare in 10 giorni”

Talvolta quando le storie finiscono portano con sé grandi sofferenze. Ma se questa volta bastasse una fine per creare un nuovo inizio?

Come farsi lasciare in 10 giorni è un film diretto da Donald Petrie e risale al 2003. Si tratta di una commedia a tratti molto romantica che racconta la storia di Andie Anderson, brillante giornalista, e Benjamin Berry, un affascinante e affermato pubblicitario.

Dopo la fine di una storia, quasi sempre, il mondo sembra essersi inaridito ed ogni cosa assume un significato diverso. È come se tutto si fermasse o continuasse da solo mentre inerme assisti allo scorrere del tempo.  Una clessidra che continua a perdere polvere sottilissima, con estrema fluidità.E se fosse invece l’inizio di tutto? Se proprio come succede nella clessidra, quella polvere non svanisce del tutto ma si riposiziona solo su un altro ripiano e acquisisce valore dando vita ad una nuova possibilità, ad un secondo tempo?

Ricostruiamo i pezzi del nostro puzzle e scopriamo cosa succede tra Andie e Benjamin.

Dal Film “Come farsi lasciare in 10 giorni”. Fonte: Paramont Pictures

Scegliersi

Kate Hudson nelle vesti di Andie è una giovane e bella giornalista che lavora per un periodico tutto al femminile, ovvero il Composure Magazine. Durante una riunione del giornale, le viene affidato il compito di scrivere un articolo dal titolo “Come farsi lasciare in 10 giorni”. L’incarico le permetterà in seguito non solo di avere successo nel proprio campo professionale e lodi dalla direttrice generale, ma addirittura la possibilità di trattare a scelta dei temi più seri diventando più autonoma. Una proposta molto allettante per Andie che sognava da molto tempo questo incarico.

Dall’altra parte abbiamo Matthew McConaughey che interpreta il ruolo di Ben, pubblicitario specializzato in articoli sportivi con un solo interesse: occuparsi di un progetto importante che vede protagonista un famoso cliente produttore di diamanti costosi. Ad ostacolare questo futuro evento saranno due colleghe, le quali affermeranno che in quanto donne conoscono esattamente le strategie per coinvolgere il pubblico alla campagna. Ma Ben è determinato e per questo accetterà la sfida delle due, che consisterà nel dimostrare come anche lui conosce molto bene il gusto e l’interesse femminile. Per farlo? Sceglierà per caso o per destino la bellissima Andie.

I due ignari giocano la stessa partita ma con carte differenti ed obiettivi opposti; da quel momento perciò inizieranno a conoscersi e a frequentarsi per gioco.

Kate Hudson nei panni di Andie Anderson.

Che vinca il migliore

Sapete qual è la storia più vecchia del mondo? Due persone che, giocando la stessa partita, finiscono per perdere di vista il gioco e si lasciano trasportare dalle diverse emozioni, iniziando così ad esplorare il panorama dell’amore, imparando a conoscere tempi e sfumature dell’altro.

Quello che succede ad Andie e Ben non è molto chiaro dall’inizio, in quanto la storia inizierà a prendere una piega solamente dopo alcuni eventi importanti (che potrete scoprire solamente guardando il film!).

Ben: Perché dovrei volere un’altra donna? Tu hai tante di quelle personalità che mi tieni totalmente occupato!”

Il ruolo affidato ai due attori sembra fatto apposta per mostrare le potenzialità di entrambi: dolci, divertenti e a tratti romantici. Inoltre, molte scene sono state improvvisate, ad esempio la scena in cui Andie ricopre di baci Ben dopo avergli presentato il suo cane. Ben in quel momento sembra preso alla sprovvista.

Ben e Andie

Ad ogni modo, questo celebre film risulta, agli occhi attenti dello spettatore, una pellicola ben fatta con molti colpi di scena e momenti magici, accompagnati da scene sempre differenti e alcune volte da una spiccata comicità, come quel momento in cui:

Andie: Oh, la nostra felce dell’amore: è morta!
Ben: No tesoro, sta dormendo.”

Non finisce qui

Ben: Sai una cosa? Il lavoro lo hai portato a termine.
Andie: Sì, infatti.
Ben: Volevi farti lasciare in 10 giorni? Complimenti, ci sei riuscita adesso… mi hai perso.
Andie: Non ti ho perso, Ben… non si può perdere una cosa che non si è mai avuta.”

Dopo la tempesta ritorna sempre il sole e per fortuna ci sarà qualcosa che farà scattare la scintilla tra i due.
Alcuni rapporti all’inizio sembrano molto difficili da gestire, sembrano dei viaggi in macchina interminabili lungo strade dissestate e senza connessione internet, poi succede qualcosa che segnerà o un nuovo inizio o una banale rottura e finalmente tutto avrà un senso. Ogni tassello ritornerà magicamente al proprio posto.

Annina Monteleone

 

 

Respect: omaggio alla Regina del Soul

        Un tuffo da non perdere nella vita dell’icona soul degli anni ’60 – Voto UVM: 4/5

Diretto da Liesl Tommy, regista americana di origini sudafricane, Respect è un film biografico che narra le vicende di Aretha Franklin. La pellicola ripercorre la vita dell’artista, dall’infanzia passata nel coro della chiesa del padre, il predicatore Clarence LaVaughn Franklin, fino al debutto sul palcoscenico, in età adulta.

Le riprese del film iniziano a settembre del 2019 ed è la stessa Aretha Franklin che, prima della sua morte nel 2018, approva la scelta dell’attrice Jennifer Hudson per interpretarla. Il film viene distribuito nei cinema statunitensi dal 13 agosto 2021, mentre in Italia viene trasmesso dal 30 settembre.

La pellicola vede come protagonisti, oltre alla Hudson, anche Marlon Wayans (Ted White), Audra McDonal (Barbara Franklin), Skye Dakota Turner (la piccola Aretha), Forest Whitaker (C. L. Franklin), Tituss Burgess (James Cleveland), Marc Maron (Jerry Wexler), Albert Jones (Ken Cunnighigham), Gilbert Glenn Brown (Martin Luther King Jr.).

Un viaggio nella vita della Regina del soul: dall’infanzia alla celebrità mondiale

Nei primi minuti del film viene mostrata un’Aretha bambina, interpretata da Skye Dakota Turner. Durante una festa, organizzata a casa del padre, Aretha è invitata a cantare per gli amici e i parenti presenti. Dalle prime note del brano cantato dalla protagonista tutti capiscono di essere di fronte a un prodigio.

A seguito dell’improvvisa morte della madre, Barbara Siggers Franklin, Aretha subisce un forte trauma, che manifesterà attraverso il mutismo. Lei e la madre erano molto legate, entrambe avevano una voce unica e si divertivano cantando insieme. Sarà proprio grazie alla musica infatti che Aretha ritornerà a parlare.

Nella vita della cantante sono presenti due figure maschili che, consapevoli del dono della donna, cercheranno in tutti i modi di controllarla: uno è il padre e uno è il futuro marito, Ted White.

Nel 1961, Aretha sposa Ted White, uomo non ben visto dalla sua famiglia e che diventerà il suo manager. Nel 1969 i due divorzieranno, proprio a causa del comportamento violento e da manipolatore di Ted.  E sarà da questo momento che Aretha prenderà in mano le redini della sua carriera. Tra le sue hit ricordiamo: Respect, finita di recente al primo posto tra le 500 migliori canzoni della storia secondo Rolling Stone, e (You make me feel like) A Natural Woman.

Aretha Franklin e Martin Luther King Jr.: l’attivismo e la lotta per i diritti civili

All’interno del film viene rappresentato anche lo splendido rapporto tra la Franklin e Martin Luther King Jr. La cantante agisce attivamente nella lotta per i diritti civili degli afroamericani. Il brano Respect diventa, negli anni Sessanta, l’inno del movimento. Nella pellicola viene ricordato anche il giorno dell’assassinio di King Jr. e vengono riportati anche materiali originali, tra cui il video del suo funerale. Proprio in onore dell’amicizia che legava la cantautrice all’attivista, Franklin gli renderà omaggio con un’esibizione.

Il travagliato rapporto di Aretha con il padre e il marito

Uno degli aspetti fondamentali sul quale si sofferma il film è il rapporto che Aretha svilupperà con il padre, prima, e con il marito Ted, dopo.

Questi due personaggi, interpretati rispettivamente da Forest Whitaker e Marlon Wayans, sono allo stesso tempo simili e diversi. L’aspetto che li accomuna è sicuramente la volontà di controllare la cantautrice, dalla scelta delle canzoni alle decisioni sui componenti della band, le interviste, i tour.

La solida differenza sta nel sentimento che i due uomini provano verso Aretha: il sentimento che spinge il padre a comportarsi in maniera autoritaria è d’affetto, di protezione, mentre il comportamento del marito Ted è volutamente manipolatorio e violento. È a conoscenza di uno dei demoni che tormentano la moglie: la violenza sessuale (durante l’infanzia, la protagonista resta incinta a seguito di un abuso). Questo trauma, insieme a quello molto forte dovuto alla morte della madre, permetteranno a Ted di controllarla e allo stesso tempo, anche dopo il divorzio, porteranno Aretha a fare abuso di alcol.

Aretha (Jennifer Hudson)  e Ted  (Marlon Wayans). Fonte: Metro-Goldwyn-Mayer Inc.

Dalla parabola negativa al ritorno al gospel: Amazing Grace

Quando la vita della cantante sembra totalmente in discesa, arriva la svolta: in una delle scene (la più commovente) che ci introducono alla parte finale del film (che non verrà citata qui), Aretha capisce di dover cambiare, capisce che c’è solo un’unica cosa che può fare: tornare da Dio, tornare al gospel che aveva abbandonato quando aveva deciso di ribellarsi al padre.

La figlia del reverendo Franklin decide di ritornare nella chiesa in cui cantava da bambina, grazie all’aiuto del suo insegnante di pianoforte e amico, il reverendo James Cleveland. In chiesa Aretha canterà una serie di canzoni gospel, che faranno parte dell’album di maggior successo della cantautrice, da lei stessa prodotto: Amazing Grace.

Considerazioni

Respect non ha come obiettivo quello di ripercorrere in maniera dettagliata la carriera musicale di Aretha Franklin. Tende, invece, a soffermarsi sull’aspetto psicologico e sul suo vissuto personale. Nonostante questo, la pellicola permette di apprezzare il talento e la bravura della cantante – anche grazie all’interpretazione della Hudson. Insomma, un film imperdibile per gli amanti della Regina del soul.

Beatrice Galati

Marvel: Croce e Delizia

Il mese di luglio è stato il punto di svolta di questa nuova fase del MCU (Marvel Cinematic Universe) grazie alla conclusione della serie su Loki e del tanto atteso film sulla Vedova Nera.

Loki

La terza serie su Disney+ risulta essere inaspettatamente la più impattante sul nuovo corso narrativo della Fase 4, ma anche quella che vanta una qualità di scrittura maggiore.

Locandina della serie. Fonte: LaPresse

Gli eventi della serie partono dalla fuga di Loki durante Avengers Endgame (2019) avvenuta grazie ad una Gemma dell’Infinito – che portano il protagonista (interpretato da un Tom Hiddleston in grande spolvero) ad arrivare in un pianeta sperduto nel quale verrà arrestato dalla TVA (Time Variance Authority) e condotto nel loro quartier generale.

Qui arrivato, Loki scopre di essere una “variante”, ossia una versione di sé stesso che non è andata incontro alla sorte che il destino gli aveva serbato.

La serie si rivela dunque il fulcro dal quale si dirameranno i futuri di tutti i personaggi dell’universo cinematografico della Casa delle Idee, che delinea e prospetta un imminente multiverso.

Le parti migliori risultano essere i dialoghi, scritti in maniera impeccabile e mai stucchevole o noiosa e che fanno capire in maniera chiara allo spettatore i background di ogni singolo personaggio.

Brillano anche i costumi e tutte le citazioni ai lettori delle varie controparti cartacee.

In conclusione, Loki è una serie fresca e scorrevole, ma di impatto, quella che più di tutte le altre dà l’impressione allo spettatore di leggere un fumetto: sembra proprio che la Disney non abbia intenzione di sbagliarne una!

Black Widow

Totalmente all’opposto qualitativamente parlando è il film incentrato su Natasha Romanoff.

Locandina del film. Fonte: Comics Universe

La pellicola narra gli eventi vissuti dalla Vedova Nera (Scarlett Johansson) nel periodo che intercorre tra Civil War e Avengers Infinity War.

Una Natasha in fuga (in quanto ha violato i trattati di Sokovia essendosi schierata dalla parte di Capitan America) riceve una lettera dalla propria sorella adottiva (anch’essa vedova nera), la quale, una volta incontrata, le chiede aiuto per liberare tutte le altre vedove nere ancora prigioniere della Stanza Rossa.

Il film vuole essere uno spy-movie dai toni un pò più canzonatori e leggeri rispetto ad un Capitan America: The Winter Soldier (2014), riuscendo ad esserne solo una brutta copia in tutti gli aspetti. Cerca di spremere tutto ciò che è rimasto da spremere, da un personaggio che non aveva più niente da dire già in Avengers Endgame.

Dialoghi vuoti e privi di mordente, coreografie dei combattimenti deboli e non spettacolarizzate quanto dovrebbero – tranne in rarissimi casi – e una trama scialba che non aggiunge letteralmente nulla alla visione di insieme del MCU se non per la scena post credit.

Tirando le somme, Balck Widow non è un film pretenzioso ma riesce a far male anche quelle cose in cui dovrebbe brillare un po’ di più, un tributo finale assai amaro ad un personaggio che ha accompagnato i fan dell’universo cinematografico Marvel sin dagli inizi.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               Giuseppe Catanzaro

A Classic Horror Story: tra horror e realismo

Un classico horror non banale che va a scovare gli orrori della società – Voto UVM: 5/5

Come ormai sapete, noi di UVM, abbiamo partecipato al 67esimo Taormina Film Fest, un onore per tutti noi, un’esperienza che ha dato maggiore prestigio alla nostra redazione.

Tra i tanti film presentati durante la rassegna, vi è stato A Classic Horror Story, primo film horror prodotto da Netflix proiettato al quarto festival più antico al mondo. Insomma, un privilegio: è sempre bello essere tra i primi, ma soprattutto essere ricordati per aver assisitito alla premiere di un film non banale – anzi- pieno di colpi di scena e di suspence, che l’hanno reso ancora più memorabile.

I tre redattori di UVM assieme alla protagonista Matilda Lutz.

Ma di cosa parla il film? Chi fa parte del cast? Chi sono i registi? Non preoccupatevi, tra un po’ le vostre domande avranno una risposta.

A Classic Horror Story (2021)

Il 14 Luglio, uscirà sulla piattaforma streaming Netflix “A Classic Horror Story”, pellicola di genere horror – come si deduce dal titolo. 

Cari lettori, parto dicendo che l’horror è il mio genere preferito e da un paio di anni non è stato prodotto un horror (fatta qualche eccezione) che mi abbia soddisfatto appieno, ma questa perla firmata Netflix, ha sodisfatto appieno le mie aspettative. Dietro la cinepresa troviamo ben due cineasti, i loro nomi sono Roberto De Feo e Paolo Strippoli, due giovani registi che con la loro arte e simpatia sono arrivati a raggiungere un traguardo che in pochi possono vantare-difatti l’ultima notte del festival di Taormina, i due sono stati premiati per la miglior regiaportandosi a casa l’ambito Toro d’Oro.

Roberto De Feo e Paolo Strippoli, alla prima di ” A Classic Horror Story” . © Alessia Orsa

Il cast, è già noto al pubblico: Matilda Anna Ingrid Lutz, Francesco Russo, Peppino Mazzotta, Will Merrick (II), Yuliia Sobol.

La bellissima Matilda, protagonista della fortunata pellicola, interpreta la giovane e sfortunata Elisa che è in viaggio con un gruppo formato da un medico, una giovane coppia e l’organizzatore della spedizione.

Il film è ambientato in Calabria (terra dell’antica Magna Grecia), ma girato interamente in Puglia. Tornando alla trama, lo sfortunato gruppo, durante la guida, per non colpire la carcassa di un animale morto, perde il controllo del mezzo e si schianta contro un albero; da lì in poi il film si farà più cupo e il telespettatore percepisce ansia e paura per il gruppo.

Cari lettori mi fermo qui, non voglio dilungarmi troppo: dovrete attendere il 14 e toccherà a voi giudicare il film o semplicemente gustarvi la pellicola.

Musica

Un punto fondamentale di questo horror, è la musica: in fondo quest’ultima dà un tocco in più alle opere cinematografiche.

Il film si apre e si chiude con la voce di Gino Paoli  nella canzone Il cielo in una stanza, una delle canzoni più belle del panorama musicale italiano. Durante tutta la durata della pellicola, la musica si fa inquietante creando tensione e ansia nel telespettatore: i due registi hanno giocato bene le loro carte anche musicalmente.

Tematiche

Il film oltre ad incarnare il classico horror, è riuscito a ritrarre bene anche la nostra società attuale. I due temi principali sono quello della mafia e della pornografia del dolore. Il primo è un morbo che soffoca la nostra terra, in cui l’omertà è legge; il film è riuscito in modo ironico a “schiaffeggiare” questo morbo, mostrandoci come essa sia il vero horror.

I due registi durante la conferenza stampa hanno dichiarato che loro stessi hanno voluto trattare il tema della mafia e non Netflix. Il film si pone quasi come una presa in giro verso la ndrangheta e gli stessi De Feo e Strippoli hanno ammesso di essere stati costretti  nominare la Calabria per ragioni «folkloristiche», ma in fondo l’Italia in generale viene associata all’estero con la mafia. Insomma, i soliti cliché, che, anzichè sconfiggere la mafia, ne fanno una «glorificazione» che la rende ancora più grande.

“A Classic Horror Story”: locandina. Fonte: Netflix

Altro tema centrale è la pornografia del dolore, che è andata a fortificarsi con l’avvento dei social. I due registi sono riusciti in modo sublime e con sarcasmo a descrivere questa tematica che oramai attanaglia tutti noi. Per chi non lo sapesse, la pornografia del dolore è quella tendenza di trarre godimento dal dolore altrui e rimanere inermi, ma pronti a documentare il tutto con il proprio cellulare, pronti a condividerlo nelle proprie storie e bacheche.

Forse i due registi hanno voluto dire che ormai è la nostra società ad essere diventata “un classico horror” e non solo le opere cinematografiche e letterarie di questo genere. Un horror che va a rompere la patina di un mondo che vive di immagine, rappresentazione e in cui l’empatia pian piano viene dimenticata.

 

                                                                                                                  Alessia Orsa

L’intarsio tra cinema e Sicilia al Taormina Film Fest

Lo scorso sabato è calato il sipario sulla 67esima edizione del Taormina Film Fest con la cerimonia di premiazione. Il Cariddi d’Oro (premio al miglior film) è stato assegnato al film Next Door di e con Daniel Brühl, che ha conquistato inoltre la Maschera di Polifemo come migliore attore. La Maschera di Polifemo per la categoria femminile è stata assegnata a Matilda De Angelis, per la sua impeccabile interpretazione nel film Atlas di Niccolò Castelli. Il Cariddi d’Argento è andato a Roberto De Feo e Paolo Strippoli, giovani registi di A classic horror story. Inoltre sono stati assegnati tre Taormina Arte Arwards, rispettivamente a Francesca Michielin, Anna Ferzetti e Ferzan Ozpetek.

Matilda De Angelis, vincitrice della Maschera di Polifemo come miglior attrice – Fonte: ciakmagazine.it

Oltre ai film in concorso, il grande protagonista del Festival è stato senza dubbio l’intarsio tra il cinema e la Sicilia; numerosi, infatti, sono stati gli appuntamenti e le proiezioni che hanno messo al centro questo profondo legame. Ripercorriamo insieme le tappe principali del viaggio attraverso questo prezioso intreccio.

Space Beyond

Apre la serie di proiezioni di “Cinema e Sicilia” -in collaborazione con Sicilia Film Commission e Fondazione Taormina Arte– il film-documentario Space Beyond (2020), dedicato all’astronauta siciliano Luca Parmitano. Diretto da Francesco Cannavà, Space Beyond è il racconto biografico della missione “Beyond” dell’ESA (European Space Agency), effettuata da Parmitano nelle vesti di colonnello pilota sperimentatore dell’Aeronautica militare e primo comandante italiano della Stazione Spaziale Internazionale.

Sei mesi di missione sulla ISS racchiusi in 82 minuti di film, con immagini inedite ed esclusive degli esperimenti scientifici svolti e delle attività extraveicolari effettuati durante la permanenza a bordo. “Il limite lo scegli tu, lo scegliamo noi come umanità come scienziati ed esploratori. Nel momento in cui lo scegliamo abbiamo un obiettivo da superare, poi sta a noi metterci tutti i mezzi necessari per poterlo superare. Per me Beyond, il termine “oltre”, è un contenitore e in un certo senso ci mettiamo dentro sia il limite sia il mezzo per superare questo limite” ha dichiarato Luca Parmitano.

Luca Parmitano – Fonte: ciakmagazine.it

Sulle tracce di Goethe in Sicilia

L’appuntamento successivo si è incentrato sul documentario Sulle tracce di Goethe in Sicilia (2020), del regista tedesco Peter Stein, che ha ripercorso le tappe del poeta connazionale attraverso l’occhio della telecamera. Il tema principale che merge dal diario di viaggio di Goethe è soprattutto la contraddizione tra la bellezza dell’Isola e le condizioni di vita della popolazione. Stein ha preso ispirazione proprio della bellezza dei paesaggi siciliani immortalati su un libro di fotografie; ha sottolineato inoltre di aver un profondo legame con la nostra terra, che lo ha premiato varie volte.

Peter Stein (a destra) durante le riprese – Fonte: ciakmagazine.it

Salviamo gli elefanti

Tre “corti cinematografici” -che affrontano il tema dell’integrazione- sono stati posti al centro di uno degli appuntamenti: stiamo parlando di La bellezza imperfetta (2019) di Davide Vigore, Scharifa di Fabrizio Sergi e Salviamo gli elefanti (2021) di Giovanna Bragna Sonnino. Quest’ultimo in particolare è stato proiettato in anteprima al festival e acclamato con una moltitudine di applausi da parte del suo primo pubblico.

Il corto, nonostante la breve durata, è denso di significato e rappresenta aspetti significativi della società siciliana. I due protagonisti sono Agata, donna ignorante e con una mentalità molto chiusa, e Orlando, bambino di origini italiane nato a Nairobi. Orlando è in vacanza con la sua famiglia e nella confusione del mercato del pesce si perde. Sarà Agata a proteggerlo e a portarlo con sé; i due sono molto diversi e questo porta a una impossibilità di incomprensione tanto verbale quanto culturale. Orlando ama gli animali, è un bambino molto intelligente, vive in una famiglia normale. Agata vive in un substrato sociale completamente diverso: parla prevalentemente in dialetto, non riuscendo a parlare bene l’italiano, è molto diffidente nei confronti degli animali; lavora come donna delle pulizie. Nonostante i contrasti iniziali, alla fine i due riusciranno ad imparare l’uno dall’altro.

Salviamo gli elefanti porta una certa innovazione nel mondo dei cortometraggi: racconta le vicende di una Catania povera, di una donna che, come molte altre, è invisibile nella società. Qui il tema delle differenze socio-culturali porta all’integrazione, alla comprensione del diverso: l’essere umano è sempre portato a temere il diverso, ma è proprio da esso che si andrà ad imparare e ad ampliare le proprie vedute.

Locandina di “Salviamo gli elefanti” – Fonte: ciakmagazine.it

Lo schermo a tre punte

Conclude il ciclo di incontri di “Cinema e Sicilia” l’opera Lo schermo a tre punte, del regista bagherese Giuseppe Tornatore, che ha dialogato con uno degli organizzatori del Festival -tramite la piattaforma online “Zoom”- prima della proiezione del film. Con lo stesso metodo della scena conclusiva del suo masterpiece Nuovo Cinema Paradiso, il Maestro ha unito diversi frame, tratti da oltre un centinaio di film legati alla cultura siciliana.

Attraverso la suddivisone in capitoli, Tornatore si è focalizzato sugli elementi comuni più presenti nei numerosi film visionati; vi è, così, un capitolo dedicato ai gesti, ai codici e al linguaggio tipici della sicilianità, uno dedicato alla Storia, uno alle carte geografiche dell’Isola, uno alle donne siciliane, e così via.

L’opera, dunque, non è altro che un’enciclopedia della cultura cinematografica siciliana, in continua evoluzione; proprio a causa di questa espansione, il regista considera il suo lavoro incompleto e ha ammesso che se dovesse aggiungere un nuovo capitolo lo dedicherebbe alle nuove generazioni.

Nonostante il lungometraggio sia datato risulta ancora funzionale ed irripetibile, un’intuizione geniale che esalta una cultura peculiare, bastarda, ricca e affascinante come quella siciliana.

Giuseppe Tornatore al Taormina Film Fest – Fonte: ciakmagazine.it

 

Sofia Ruello, Mario Antonio Spiritosanto

 

Fonti:

https://www.ciakmagazine.it/ciak-taormina/

Immagine in evidenza:

Acquerello ispirato al viaggio di Goethe in Sicilia – Fonte: ciakmagazie.it

 

Ma vissero davvero felici e contenti? Ecco Honeymood, candidato al 67esimo Festival del Cinema di Taormina

Il film non è ambizioso e non mira a raggiungere vette, ma rimane piuttosto godibile pur nella sua semplicità – Voto UVM: 3/5

Le fiabe ci hanno insegnato sin da bambini a credere nel lieto fine, quel momento in cui i problemi dei protagonisti innamorati si risolvono quasi per magia e possono finalmente convolare a nozze lasciandosi dietro il tormentato passato. Ma è proprio così? E se dopo il lieto fine ci fossero altri problemi?

Honeymood (2020), commedia romantica targata Spiro Films e diretta dall’israeliana Talya Lavie, si chiede proprio questo. La pellicola – che, tra l’altro, è in concorso al 67esimo Taormina Film Festival – racconta l’odissea vissuta da due neosposi: Eleanor (Avigail Harari) e Noam (Ran Danker). Ma nel loro piccolo universo, che si apre in una stanza d’albergo, si staglieranno molto presto numerose altre figure pronte a metterli alla prova. Ed allora la prima notte di nozze si trasformerà in una missione: riconsegnare un anello alla misteriosa ex dello sposo. Lo sfondo è quello della città di Gerusalemme, di notte, e delle strade in penombra che contribuiscono a realizzare l’intento della regista di presentare una Gerusalemme romantica, prima ancora che città sacra.

L’occhio fedele della telecamera ci renderà partecipi delle loro peripezie senza lasciarli nemmeno per un secondo, anzi, per giunta seguendoli stando loro alcuni passi dietro. Effettivamente, la sensazione che lascia questo film è proprio quello di non riuscire a stare dietro all’imponente climax di eventi presentati dalla trama: non appena si pensa di aver sfiorato il ridicolo, ecco che si sprofonda ancor di più.

Ciò si deve all’impronta umoristica che la Lavie ha voluto dare, assieme ad un tocco di nonsense che in una commedia non fa mai troppo male. Un’opera che se la gioca ben bene dal punto di vista della regia (la regista ha studiato cinematografia a Gerusalemme negli anni della giovinezza), ma che lascia un po’ a desiderare circa la scrittura – specialmente quella dei personaggi. La stessa ha ammesso, durante una conferenza stampa tenuta a Taormina, che il film non intende essere prettamente realistico.

I protagonisti Eleanor (Havigail Harari) e Noam (Ran Danker) – Fonte: asianmoviepulse.com

I personaggi

Il vero cuore della pellicola non è caratterizzato né dalla trama né dalla regia: sono i personaggi. È proprio per questo che una maggiore cura dei loro profili psicologici avrebbe, magari, reso il film ancor più godibile. Ma andiamo per ordine.

Eleanor (Avigail Harari) è la protagonista in assoluto. Frenetica, eccessivamente attiva, un’anima drammatica con molti difetti (non pecca di capacità manipolative) ma che, per qualche motivo, piace a tutti quelli che incontra. Soprattutto alle guardie di Netanyahu. La prima impressione che se ne potrebbe avere è quella di una Jess di New Girl. Il suo tratto distintivo è l’essere tremendamente capricciosa, cosa che fa infuriare il marito ma che, allo stesso tempo, la rende adorabile agli occhi di lui. Oltre ad essere infantile, Eleanor si dimostra anche molto ingenua nei confronti degli altri, tendendo a non distinguere le buone intenzioni da quelle cattive.

Noam (Ran Danker) è il classico tipo privo di energia la cui anima gemella è – quasi per caso – una persona con fin troppa energia. Anche lui è un personaggio che presenta moltissimi difetti: dall’essere irascibile al dipendere ancora dai genitori pur essendo in età adulta; dall’incapacità di opporsi alle prevaricazioni della gente all’inettitudine nei confronti della moglie. Anche quando sembra che il personaggio ottenga finalmente un’evoluzione, si finisce per tornare nei medesimi schemi: ne viene fuori che la sua era solo una ribellione verso i genitori.

Vi sono poi un ex ragazzo, un’ex ragazza, varie guardie dell’esercito, un gruppetto di ragazzetti ingrati, un’infermiera, i genitori dello sposo e tutta una galassia costruita attorno alle due stelle polari. La regista ha rivelato di essersi immedesimata in entrambi al momento della costruzione della storia: prima nella sposa, poi una nuova riscrittura dal punto di vista dello sposo. Un tratto che accomuna i due – si può dire – è quello di essere l’una l’opposto dell’altro e ciò ne scatena un’incredibile chimica, resa anche grazie al talento degli interpreti.

Eleanor e Noam in una scena del film – Fonte: flipscreened.com

Il cinema israeliano al TAO Film Fest

Il cinema israeliano è ancora un astro in ascesa che inizia a dare i suoi frutti, ma che si prospetta senza dubbio promettente. L’opera in questione è un prodotto italo-israeliano, difatti l’italiana Marika Stocchi è stata scelta come coproduttrice ed il contributo italiano si è avuto anche in postproduzione, colore e mixing (realizzati nei laboratori di Roma prima della pandemia).

Al festival di Taormina la regista ed Elisha Banai (Michael, ex ragazzo di Eleanor) si sono presentati con profilo basso e grande ottimismo, ritenendosi onorati di aver avuto l’occasione di proiettare la propria pellicola. All’attore è stata poi posta una domanda riguardante il tema del matrimonio a cui ha risposto – in pieno stile Honeymood – con un secco: «Non saprei, al momento sto divorziando».

Valeria Bonaccorso

Paolo Sorrentino: la grande bellezza del cinema italiano

Buon compleanno, Paolo Sorrentino!  Regista, sceneggiatore, scrittore o semplicemente grande artista del cinema contemporaneo italiano, il cineasta compie oggi 51 anni. Per festeggiarlo ripercorriamo un po’ la sua brillante carriera cinematografica e soprattutto presentiamo la sua pellicola più nota e vincitrice di molti premi, tra cui un Oscar: La Grande Bellezza.

Paolo Sorrentino: grande artista orgoglio italiano

fonte: cinema.fanpage.it, il regista con il suo premio Oscar

Il regista nasce a Napoli il 31 maggio del 1970; a soli 17 anni perde entrambi i genitori in un incidente stradale. Inizia a coltivare la sua passione per il cinema solo dopo aver lasciato l’Università.

Nell’Agosto 2001, esce nelle sale il suo primo lungometraggio, L’uomo in più, con il quale il regista inizia una lunga collaborazione artistica con l’attore Toni Servillo, autentico interprete di molti dei personaggi scritti e ideati da Sorrentino. Il film ottiene diverse nomination al Festival del cinema di Venezia e per i Nastro d’Argento a Taormina.

La coppia Sorrentino-Servillo trionfa nuovamente nel 2004 con la pellicola Le conseguenze dell’amore, la quale vince ben 5 David di Donatello e 4 nastri D’argento.

Nel 2011 il regista si dedica al suo primo film in lingua inglese: stiamo parlando di This must be the place, con protagonista Sean Penn e la ormai nota Frances McDrmand.

Il 2014 è l’anno in cui il regista tocca l’apice della sua carriera artistica con il suo capolavoro: La Grande Bellezza. La pellicola vince anche il premio Oscar per il miglior film straniero (è stato l’ultimo film italiano ad essere candidato ed a vincere in questa categoria dal 2014 ad oggi).

La Grande Bellezza

Fonte: infooggi.it- Locandina del film

Finisce tutto così, con la morte. Prima però c’era la vita, nascosta dal bla bla bla..

Il vuoto e la vanità di una vita mondana, fatta di soli vizi e sfrenatezza: questo il punto focale, il vero messaggio di questo capolavoro cinematografico. La trama è effettivamente molto semplice e priva di importanti azioni o colpi di scena. Il film narra le vicende della classe ricca e mondana  di Roma, in particolare del giornalista e mancato scrittore Jep Gambardella, interpretato da Toni Servillo. Racconta sogni infranti, come quelli di Romano, amico di Jep , venuto a Roma in gioventù per diventare uno scrittore teatrale; vite devastate, come quella di Stefania (Galatea Ranzi), che cerca di distaccarsi dagli altri credendosi migliore, ma alla fine deve confrontarsi con i suoi fallimenti, come scrittrice, come madre e come donna.

 

Il cast comprende, oltre all’attore protagonista per eccellenza dei film di Sorrentino, molti interpreti italiani, tra cui Carlo Verdone, Sabrina Ferilli e Carlo Buccirosso, per una produzione pienamente made in Italy.

La Grande Bellezza, oltre all’Oscar come miglior film straniero, viene premiato in molti tra i più importanti Festival del cinema, quali i Golden Globe, gli European Film Awards e i David di Donatello.

Jep Gambardella: il re dei mondani

fonte: ciakclub.it, il protagonista Jep Gambardella

A questa domanda, da ragazzi, i miei amici davano sempre la stessa risposta: “La fessa”. Io, invece, rispondevo: “L’odore delle case dei vecchi”. La domanda era: “Che cosa ti piace di più veramente nella vita?” Ero destinato alla sensibilità. Ero destinato a diventare uno scrittore. Ero destinato a diventare Jep Gambardella.

Jep Gambardella è l’emblema della mondanità: con il suo garbo e il suo fascino, vive di feste e pura superficialità per evitare di confrontarsi con la realtà della sua vita vuota. Egli però, a differenza di tutti gli altri, è un osservatore, vede le verità di chi lo circonda e, con un umorismo che lascia una certa amarezza, riesce a portarle alla luce.

In gioventù ha pubblicato un solo libro, per poi abbadnonare la scrittura: per scrivere e ritrovare “la grande bellezza” dve prima trovare il senso della sua esistenza.

Diversa si rivelerà la sua relazione con Ramona, spogliarellista figlia di un suo vecchio amico; grazie a lei, Jep inizierà a riflettere e a voler cambiare la sua realtà.

Un film che lascia un messaggio

La grande bellezza, oltre ad essere una grande pellicola riconosciuta anche a livello internazionale, lascia al pubblico una speciale consapevolezza sulla propria esistenza. In fin dei conti, non sono i soldi e gli eventi chic a fare la felicità, ma le esperienze che facciamo e le relazioni autentiche che abbiamo con i nostri cari a rendere la vita veramente degna di essere vissuta.

                                                                                                                                                                  Ilaria Denaro