The Beatles: il documentario ufficiale che esplora l’epoca dei tour e l’influenza sull’immaginario pop

È pronta l’edizione in DVD del documentario di Ron Howardil capello rosso Richie Cunningham di Happy Days – dopo l’uscita nelle sale nell’ultima settimana di settembre.

The Beatles – Eight days a week. The touring years è un lavoro accurato che arriva al termine di una ricerca condotta sulle riprese audiovideo dei concerti dal vivo, incluso il materiale inedito in mano ai fan, e arricchita dalle interviste ad alcuni testimoni illustri, tra cui Elvis Costello e l’attrice Whoopi Goldberg, e dai tanti filmati d’archivio ricavati dalle conferenze stampa e dai backstage di tutto il mondo, attratto dalla forza gravitazionale della beatlesmania.

Gli anni raccontati anche attraverso le registrazioni originali degli speaker delle radio, e dalle voci straziate dall’emozione dei teenager braccati dietro i cancelli dei concerti dal cordone della polizia, sono quelli della stagione dei live compresa tra il ’62 e il ’66: un’epoca straordinariamente limitata rapportata agli esiti imponenti sul costume, e ai riverberi che, negli anni a venire, hanno attinto a un serbatoio in grado di contenere molte espressioni della musica futura.16artsbeat-beatles-blog480

La storia della scalata nelle classifiche, e quella che esplora l’universo a sé della memoria collettiva nutrito dalle canzoni composte da John al piano, e Paul, mancino, davanti a lui come in uno specchio, nel lasso temporale incredibilmente breve – da fare girare la testa – che hanno impiegato a metterle su carta, è nota. E così i concerti che ne hanno segnato le tappe; dal Cavern a Liverpool, all’epopea degli esordi di Amburgo passando per Milano nel giugno ’65 e finendo sul tetto degli studi della Apple a Londra. Il docufilm si avvale però di una patente di ufficialità perché vede insieme a Howard (regista tra gli altri di A Beautiful Mind, di Apollo 13 e del recente Inferno) la collaborazione dei due beatle superstiti e degli eredi di Lennon e George Harrison.

La scelta di restringere il campo narrativo a una visuale esclusiva, che risente dell’enorme quantità di materiale esistente prodotta in quegli anni, non comporta l’esclusione di altri aspetti che girano intorno alla fenomenologia della band; l’impressione semmai è che il film tralasci, proprio a dispetto della trasversale quantità di questioni e suggestioni che ha saputo mettere a fuoco, alcuni elementi che non andavano cacciati nell’angolo; uno per tutti la presenza di Pete Best alla batteria prima di Ringo, del quale non si vede nemmeno un fotogramma. Complessivamente il campo di indagine più che essere rivolto all’aspetto evolutivo squisitamente musicale, mette al centro l’importanza di una forza aggregativa mai esistita prima di allora; quella scaturita dalle file di un movimento giovanile che (in epoca pre social!) riusciva a catturare e concentrare ovunque masse appassionate, quasi impossessate da un’entità superiore, disposte a tutto. “Ho sempre provato compassione per Elvis. Lui era solo, noi almeno siamo in quattro” ha confessato dopo un concerto George travolto dalla stretta dei fan; sconcerto e stanchezza generali a cui Help (una delle canzoni preferite da Lennon, come lui stesso ha affermato, proprio perché vera) ha fornito simbolico approdo.betales

Il docufilm ha saputo mettere insieme una grande quantità di materiale proveniente da fonti diverse con sistematicità espositiva venendo incontro a una sfida enorme; su Facebook nel 2014 la pagina fan dei Beatles aveva avviato la ricerca di qualsiasi ripresa audiovisiva inedita conservata dal pubblico dei concerti degli anni ’60: la risposta è stata così ampia che si è dovuto creare un centralino telefonico in grado di gestire la quantità di documentazione che arrivava. Se tuttavia la mole di immagini inedite, così come di interviste (famosa quella in cui John Lennon paragonò i Beatles a Gesù, scatenando le ire oltranziste dei cattolici statunitensi), per un fan sfegatato che si muove da anni nel sottobosco dei bootleg e dvd regala in realtà poche novità di rilievo, Eight days a Week ha il merito di avere alle spalle un lavoro qualificato di restauro realizzato dai tecnici del suono sfruttando alcuni espedienti innovativi. Accanto al percorso cronologico lineare, anche se con qualche elemento grafico a fare da elemento di disturbo, in mezzo allo straordinario fenomeno di isteria collettiva, c’è anche una storia di amicizia, fratellanza e di sfacciataggine e libertà espressiva a cui i giovani hanno sempre guardato con emulazione. Tra i momenti più emozionanti il coro allo Anfield Road dei tifosi del Liverpool sul testo di She loves you. Non manca poi l’impegno, quando, durante gli anni della segregazione razziale, a Jacksonville, i fab four si rifiutarono di suonare se non fosse consentito ai neri di sedere nel pubblico insieme ai bianchi.

I 30 minuti finali allo Shea Stadium di New York sono senza dubbio la parte più coinvolgente: si viene catapultati instantaneamente dentro un’epoca che nei suoi effetti dura ancora ai nostri giorni. Impossibile non cantare insieme ai ragazzi accerchiati dai musi lunghi dei genitori e dai soccorritori che reggevano chi sveniva tra gli spalti. Non si era mai vista una quantità simile di persone a un evento musicale. Era la prima volta che uno stadio veniva utilizzato per un concerto. Lì sul palco dotato di casse poco più potenti dell’impianto stereo nelle nostre case, non si sentiva niente, e loro suonavano soltanto seguendo il movimento dei bacini e dei piedi. Era il ’65, pochi anni dopo che tutto era cominciato. C’erano 55.000 persone nel pubblico, altrettante erano rimaste fuori ad aspettare. Qualche mese dopo a San Francisco, al Candlestick Park, si chiudeva la stagione dei live per la stanchezza e i retaggi di una vita folle passata in tour, costellata dagli incontri con i reali e con i giornalisti, ancora prima che Sgt. Pepper venisse dato alle stampe.

Eulalia Cambria

Cafè Society: leggerezza e ironia amara nel nuovo film di Woody Allen

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Se l’autunno che avanza diffonde sulle nostre vite una ventata malinconica in grado di allontanare i ricordi briosi e dolci dell’estate, l’avvio della nuova annata di cinema offre un efficace antidoto capace di risollevarci, o almeno di incanalare nel giusto cantuccio le emozioni che erano rimaste a lungo assopite sotto l’ombrellone. Il ritorno di Woody Allen, regolare come quello delle stagioni, rischiara i sentimenti con tocco soave, riconducendoli al proprio ordine naturale. Appaiono vivaci i riferimenti consueti del cineasta in un’opera che racconta l’amore non senza sganciarsi dagli aspetti beffardi dell’esistenza. E che ancora attraversa con nostalgia le lancette del tempo.

 

Siamo nei colorati anni ’30 dello star system di Hollywood. Bobby Dorfman (Jesse Eisenberg) è un giovane ebreo di New York figlio di un orefice per nulla attratto dalla prospettiva desolante e noiosa che la permanenza in città e il lavoro del padre paiono offrirgli. Con l’ambizione di inserirsi nell’industria del cinema si rivolge allo zio Phil (Steve Carell) manager di attori famosi, presenza attiva alle feste eleganti a bordo piscina. Il rapporto coi divi e la società frivola di Los Angeles si impadroniscono della sua nuova vita e sarà così, alla fine, l’incontro con la disinvolta e magnetica Vonnie (Kristen Stewart), segretaria di Phil, a stravolgere ogni suo progetto. Il triangolo amoroso che coinvolge i tre protagonisti scaverà con intensità il dubbio della scelta dell’amata. La delusione al ritorno nella città natale farà crescere Bobby senza inibizioni e lo spingerà a fondare un locale notturno frequentato da alcune teste coronate d’Europa, da signori mondani e altolocati della società dell’epoca, nonché da esponenti della malavita italo-americana.

 

In Cafè Society, frutto delle 80 candeline spente dal regista lo scorso dicembre, i temi dei film di Woody Allen ricorrono senza esclusione di colpi: l’umorismo corale dei personaggi brulicanti e caratterizzati di Radio Days, il fascino fiabesco verso altre epoche, i due poli in antitesi di New York e Los Angeles alla maniera di Annie Hall, il sempre eterno ritorno alle proprie origini newyorkesi e quel senso di attesa e di oscuro presagio rappresentato dal futuro che incombe. Non sono nuovi gli argomenti cari al regista, affrontati senza dubbio con ben diverso spessore e profondità che in altre storiche pellicole precedenti. Eppure l’apparente giocosità e mancanza di pesantezza di questa nuova brillante amara commedia romantica lascia posto a espedienti tecnici e a una rinnovata cura del dettaglio, specialmente visivo, realmente sorprendenti.

cafesocietIl peso di Vittorio Storaro alla fotografia (premio oscar per Apocalypse Now) si palesa su una storia semplice, priva di novità clamorose, nel solco di una rappresentazione tipica e prevedibile, ma accompagnata da immagini e sensazioni che lasciano il segno. A catturare lo schermo è l’eccezionale bellezza di Kristen Stewart, vera nuova musa di Woody. Ma è anche l’ironia, cifra del suo cinema, che non subisce increspature, incrinature, segni del tempo. L’esito finale è quello di un regista che dopo ben 47 film mantiene ancora in piedi la sua freschezza. Cafè Society è un film imperfetto, così come lo sono talvolta le opere che arrivano a sedimentarsi nel nostro immaginario per arricchirlo e costruirci intorno altre storie. E questo proprio perché, come uno dei personaggi afferma in una scena, la vita è una commedia scritta da un sadico che fa il commediografo. Il film scorre veloce e a tratti con passaggi frettolosi, ma non perde di vista la sua efficace unità espressiva fortemente inquieta e drammatica dietro la patina di leggerezza.

 

Messo da parte il tono sarcastico delle origini, la verve comica cerebrale e nevrotica dei primi film, Cafè Society è un’opera della piena maturità, formalmente riuscita, in buona misura riassuntiva e emblematica (immancabile la colonna sonora jazz nei titoli di coda e la magia che l’avvolge). Un film che vale la pena andare a vedere nelle sale, e che, alla fine della proiezione, accantonate le incertezze e le riserve sulla sceneggiatura, rimane come puro esempio di cinema.

Eulalia Cambria

“Snowpiercer” di Bong Joon-ho

SnowpiercerProssima fermata: nessuna.

2014. La maggior parte delle nazioni mondiali si dimostra favorevole all’attuazione di un progetto che avrebbe posto una soluzione all’ormai affermato riscaldamento globale. O almeno questo è quello che si credeva.

Il reale risultato di questo progetto porterà l’intero globo a subire una nuova “era glaciale” e a sterminare la maggior parte degli esseri viventi che prima la abitavano, umani compresi. Nel 2031, a 17 anni dall’accaduto, dei sopravvissuti vivono su un treno rompighiaccio, lo “Snowpiercer”, con un’alimentazione infinita ed in grado di viaggiare per tutto il pianeta.

Questo è stato ideato da un uomo chiamato Wilford (Ed Harris), al quale non è possibile associare un volto poiché non si rivolge mai ai suoi “passeggeri” in prima persona, ma attraverso i suoi sottoposti. Egli è venerato quasi come un dio, dovuto al fatto che la sua macchina è stata la fonte di salvezza per i pochi sopravvissuti, ma non è tutto rose e fiori.

Infatti lo Snowpiercer presenta una improvvisata classe sociale che si struttura in base alla lontananza dal vagone in cui ci si trova dalla cabina di comando, dunque, più ci si allontana dalla testa del treno, più si è poveri (e viceversa). Ed è proprio nel vagone più distante che troviamo Curtis (Chris Evans) e il suo braccio destro Edgar (Jamie Bell), giovani stanchi della loro situazione di estrema povertà, malessere, scarsa igiene, fame e mancata libertà. Così, vogliosi di cambiamento e con estremo coraggio, sono decisi a prendere possesso del treno così da poter cambiare la situazione e portare a termine il progetto del loro capo, Gilliam (John Hurt), non portato a termine, passando di vagone in vagone. A qualsiasi costo.

Snowpiercer è un progetto ambizioso, nato dal regista sudcoreano Bong Joon-ho, siglando il suo primo film in lingua straniera (inglese).  La produzione coreana più costosa di sempre prende spunto dalla serie a fumetti francese intitolata “Le Transperceneige”, vantando anche un cast definibile quasi come stellare, con attori del calibro di Chris Evans (Captain America/ I Fantastici 4), Jonh Hurt (Fuga di mezzanotte/ Alien), Ed Harris (The Truman Show), Octavia Spencer (The Help), Tilda Swinton (Michael Clayton/Il curioso caso di Benjamin Button/ Grand Budapest Hotel) e tanti altri.

Pur essendo un più che ottimo esempio di cinema di fantascienza, ma soprattutto di genere post-apocalittico, Snowpiercer rimane un film anonimo e fin troppo poco conosciuto. La probabile mancanza di una adeguata pubblicità della pellicola e la distanza “di interesse” con quelli che possono essere gli interessi occidentali ha sicuramente penalizzato questo lavoro, gettando quasi nel dimenticatoio un incredibile lavoro di cinema indipendente che riesce non solo a tenere testa a molte grosse opere di stampo americano, ma addirittura a farle tremare. Certo, il film in sé non può essere definito come un’opera perfetta o “uno dei migliori film degli ultimi anni”, ma lo spirito, la forza e le idee che esso porta superano indubbiamente il lavoro oggettivo e quantitativo del prodotto finale. Ed è proprio questo quello che si deve evidenziare in Snowpiercer, non solo il buon film che risulta essere, ma tutto ciò che vi è dietro e l’obiettivo indiretto che esso si prefigge. Infatti quest’ultimo deve cercare di essere un trampolino di lancio per il cinema indipendente e per i registi che hanno molta voglia di fare e liberare il talento che c’è in loro.

                                                                                                                                                              Giuseppe Maimone  

Cinefilia per idioti: i film Horror

Credo che questo sia l’anno dell’horror.  Non so se dipenda dal fatto che Facebook abbia deciso di propormi (durante lo scorrimento bacheca serale) solo trailer di film horror che usciranno , o dal fatto che effettivamente questo genere di film stia facendo il boom ultimamente, ma credo di poter ingenuamente affermare che sia l’anno dell’horror.
Non mi ritengo un’appassionata di questo genere di film, né un esperta. Dopo un’attenta osservazione, dovuta ad anni di film horror insieme a mia cugina, ( il suo archivio film, a quanto pare, non contemplava altri generi) sono arrivata a due conclusioni che mi hanno spinta a scrivere quanto segue.
1. Non esistono più i film horror di una volta. Sanno tutti di ” Déjà vu”, trame noiose, banali e ripetitive. Il mio ultimo errore più grande fu quello di andare a vedere “The Green Inferno”: a confronto un film horror degli anni ’80 mette va più paura ed aveva anche più effetti speciali.
2. Come qualsiasi altro genere, l’horror presenta degli elementi frequenti che lo caratterizzano. Vi chiederete quale possa essere la novità nella mia osservazione. Beh, io non mi riferisco agli elementi che categorizzano un genere e lo distinguono da un ‘altro, mi riferisco invece a quei “must” che un film horror ha da sempre, quel tipo di must che permettono a film parodie ( vedi Scary Movie) di esistere. Prima di cominciare è bene individuare due macro categorie dell’horror (ho assolto io questo arduo compito): triller/splatter e paranormale.
Ecco cosa potremo trovare nei Triller/Splatter.
Si parte sempre da un gruppo di amici: in questo genere di film non si è mai soli, a farti compagnia per la tua morte imminente ci sono gli amici di sempre. O anche no. In situazioni drammatiche, chiunque diventa tuo amico, anche il tizio sfigato con gli occhiali, conosciuto il primo giorno di campeggio. Il consiglio che mi sento di dare? Non affezionatevi troppo.
Tra l’altro, il range d’età scelto è sempre lo stesso: ci sono sempre i soliti. Si sa che, le prede preferite dai serial killer incompresi, sono gli adolescenti. In particolare una cheerleader , un giocatore di football, l’amico di colore saggio e simpatico a tutti , il bad boy e il/la nuovo/a arrivato/a con peculiare personalità e con un misterioso passato. Il nostro bel gruppetto di stereotipi, capirai, in sella a veicoli non funzionanti: prima di partire per un lungo viaggio, oltre a portare con te la voglia di non tornare più, bisognerebbe anche controllare la batteria, olio e freni. Cosa che i nostri cari protagonisti, a quanto pare, non fanno mai. Qualunque sia la loro meta ad un certo punto del film, la macchina smetterà di funzionare. Qualunque sia la loro meta , quando cercheranno di scappare in preda all’ansia ( vedremo mazzi di chiavi cadere almeno 5 volte a terra), la macchina, proprio in quel momento, deciderà di non funzionare.
Quando la macchina si fermerà per un guasto ( perché si fermerà) non lo farà mai in una cittadina piena di abitanti gioiosi e puliti ma in posti terribilmente isolati: i veicoli, nei film horror, puntano il posto più brutto e isolato del mondo. Posto in cui gli unici abitanti sono proprio dei serial killer. Killer, con evidenti problemi di sviluppo pisco-socio-emotivo : ovviamente un uomo ( perché è quasi sempre un uomo, il cui accessorio preferito sono una maschera e un arma a scelta tra una motosega e un machete) che decide di torturare a morte un gruppo di adolescenti o chiunque gli capiti sottomano, solo perché non ha avuto un infanzia felice. Madri severe, genitori anaffettivi, compagni di classe della scuola elementare che non ti facevano giocare a nascondino con loro, sembrano d’un tratto buoni motivi per decidere che, da grande, vuoi fare il killer. Così persino io , con un’evidente disturbo psico-emotivo , mi accorgo di aver avuto un infanzia migliore della loro che quasi provo tenerezza.
Ma poi arriva il colpo di scena. Un genio a caso esclama “dividiamoci”: suggerimento tipico che tutti daremmo in situazioni del genere. Perché è lapalissiano; ciò che bisogna fare ,quando un uomo con un grembiule imbrattato di sangue rincorre te e i tuoi amici, è dividersi. Solitamente il primo che consiglia e chiede la votazione per questa idea geniale, è il primo a morire.
Dulcis in fundo non scordiamoci di loro due, essenziali, sono la coppia appartata: definiti anche ” bersaglio facile”. Storie d’amore finite brutalmente per imprudenza e mancanza di autocontrollo, o semplice menefreghismo. Fanno la fine peggiore di tutti.
A chi questa categoria di horror non dovesse piacere, e fosse incuriosito da spiriti, possessioni,  il genere del Paranormale credo sia fatto a posta per voi.
Regola numero 1: durante il giorno mai. Mi sembra abbastanza evidente che le cose più inquietanti non possano succedere la mattina, quando la luce accecante del sole è alta nel cielo. Il buio è il nostro peggior nemico, ma il miglior amico degli spiriti. Spiriti che spesso prendono le sembianze di bambini inquietanti: la loro presenza (quasi sempre accompagnata da risatine e canzoncine di cori inquietanti) turba così tanto da portarti a guardare tuo cugino di quattro anni in modo sospetto e un po’ intimorito. Dagli adulti certe cose te le aspetti, da un bambino no. 
“Hai sentito quel rumore per caso? “
“Stai tranquillo, non lo sai che gli spettri hanno tendenze feng shui?” A quanto pare, se uno spirito vuole infastidirti prima di impossessarsi di te o uccidere tutta la tua famiglia, decide di riarredarti casa spostando mobili durante la notte. Senza contare le luci che si spengono: gli spiriti amano accendere e spegnere le luci a loro piacimento, come se fossero in discoteca, accompagnando tutto a suon di rumori e versi strani in lingue sconosciute.
Si cerca sempre di risolvere la situazione chiamando il prete di turno, assolutamente inutili. Non ci si spiega bene il perché, ma ogni volta che un prete viene chiamato per esorcizzare una persona o una casa, muore. Forse più inutile del prete, esiste solo quell’illuminato dell’esploratore: il tipico personaggio che, sentendo qualche rumore o verso in una stanza buia infondo al corridoio, decide sia il caso di andare a controllare, di dare un’occhiata. Non può esistere nella realtà.
Che li troviamo divertenti o meno, una cosa è certa: finito il film tenderemo sempre a guardare dietro di noi, a cercare di scrutare qualcosa nel buio, cercando di ricordarci di tenere sempre la luce accesa. Perché? Non si sa mai .
Elisia Lo Schiavo

 

Film Cult: la cruda verità delle nostre trame preferite

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La rubrica delle recensioni si occupa di recensire (oh, quale SORPRESA) cose belle e farle conoscere allo studente medio. MA, la rubrica delle recensioni non PUO’, in coscienza, occuparsi solo di questo. Da buoni CRITICI, ma sì diamoci cariche a caso senza motivo alcuno, abbiamo deciso che è nostro compito aprirvi gli occhi su fatti sconvolgenti: ebbene, ci sono certi film, certi CULT, che vogliono prenderci tutti in giro con un mix di banalità e fatti senza senso che essi narrano.

Siamo stanche, stanche di chi non apre gli occhi così, dentro una cabina telefonica, abbiamo indossato la nostra tuta da super eroine per aprirveli noi e mostrarvi, a muso duro, la realtà.

In queste trame si susseguono una serie di fatti volti a dimostrare che l’AMORE VINCE SEMPRE. No, non è così. Che tu abbia 18, 30 o 40 anni, alla fine rimarrai sempre con il tuo ‘’MAI NA GIOIA’’ in tasca.

Si sa che nel dolore ci si sente tutti più vicini, accomunati. Sarà per questo motivo che, almeno ogni anno, un qualche regista a caso (ma anche sempre lo stesso) decida di sfornare un film tratto da un libro su malati terminali. Storie d’amore tra adolescenti con problemi inimmaginabili, con la personalità e la maturità di un quarantenne. A quale film di incassi ci stiamo riferendo? COLPA DELLE STELLE, pubblico di UniVersoMe, che non ha solo vinto svariati premi per il film ma anche, appunto, per il romanzo. E sapete dove sono le stelle? Nello champagne che i due gustano prima di andare a fare all’ammore. Perchè, è ovvio, quale medico non consiglia una bella dose di alcol in questi casi. 97469

Ovviamente sarà la malattia ma anche il loro carattere unico che li farà innamorare con un solo sguardo perché, si sa, gli occhi sono lo specchio dell’anima. Ovviamente questi ragazzi si vedranno quando vorranno, a qualsiasi ora del giorno e in posti improbabili, perchè i loro genitori sono sempre libertini e permissivi, mica come i nostri che ci mandano un messaggio alle 23.00 dicendoci di tornare a casa in quanto si è fatto tardi.

Alla fine? Uno dei due muore e all’altro, fondamentalmente, gliene sbatte poco, mentre guarda le stelle ridendo (strafatto di farmaci).

Uno dei film che tutti adorate, se lo analizzaste bene sapreste davvero di cosa parla. Il protagonista, il solito poveraccio di turno, bello, con un gran cuore (praticamente inesistente nella realtà), in cerca di un sogno, che ci prova in modo molesto con la ricca di turno, che sta con il cattivo di turno, che fa anche nascere spontaneamente una domanda in ognuno di noi: ” ma se è sempre stato così stronzo, ma perchè ci stava insieme?”. Avete capito, no? TITANIC. Titanic-sinking

Ovviamente parliamo sempre di amori al primo sguardo: “sarà sicuramente una donna meravigliosa, anche se si comporta da stronza viziata, perchè guarda l’orizzonte in modo enigmatico“.  Dopo essere inevitabilmente nato, questo piccolo grande amore (cit.), il tempo di bere un bicchiere d’acqua ed aver consumato in posti improbabili il loro amore, il tempo di alzare una serranda, capita una catastrofe che sommata a drammi vari, crea panico e speranza.

Alla fine? Uno dei due muore e all’altro, fondamentalmente, gliene sbatte poco, mentre butta a mare un medaglione da 3944039 $.

E se avessi 40 anni, la mia età fertile stesse volgendo al termine e non fossi Carrie Bradshaw? Potrei conoscere un gran figo in un bar che mi offre un caffè e mi fa innamorare follemente mentre mastica pancake con la bocca aperta. Mi ricordo del mio fidanzato stronzo solo sulla soglia del locale e, mentre le nostre strade si dividono, non mi volto nemmeno indietro. Meglio, perché la Morte quella mattina si è svegliata ed ha deciso di farsi un giro di shopping sulla terra, ha scelto il figaccione come corpo e lo fa finire crudelmente sotto un camion che lo sbatte all’aria più e più volte (spoiler: alla fine del film il tizio resuscita e poi mi dovete spiegare come lo spiega alla sua famiglia, ma va bene). E’ lui, è proprio lui: Vi Presento Joe Black. vi_presento_joe_black

A parte che già è assurdo di per sé che la Morte venga a farci una visita, ma che essa sia anche “vestita” da Brad Pitt, diventi nostra amica e si stabilisca come un barbone abusivo a casa nostra è molto BOH (per usare termini eruditi). Successivamente scopriamo anche che ha dei sentimenti e che le piace il BURRO DI ARACHIDI, particolare che per il regista, non se ne capisce il motivo, sembra di VITALE importanza.

Quindi si innamora della figlia del tizio che dovrà morire ma che sta risparmiando solo perché gli serve una guida turistica sulla terra e, ullallà, ci prova con l’espressione e la personalità di un acciuga in scatola. Ovviamente lei, che è solo bella, ci casca e poi gli insegna anche a fare all’ammmore. La Morte che fa l’amore ma non lo sa fare e viene sverginata. OK.

Alla fine? La Morte muore.

 

E, adesso, buona visione.

Elena Anna Andronico

Elisia Lo Schiavo

La mia Taormina, il mio festival, il mio cinema

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Se nella vita hai una passione allora hai il dovere verso te stesso di coltivarla al meglio. La mia grande passione è il cinema. Quest’anno, grazie ad UniVersoMe, ho avuto l’occasione, insieme ad alcuni colleghi del giornale, di poter vivere una straordinaria esperienza andando al Taormina Film Fest. Si tratta, per chi non lo sapesse, di uno dei più importanti festival cinematografici d’Italia e d’Europa. Vanta ogni anno migliaia di curiosi e tantissime celebrità del mondo del cinema e non che provengono da tutte le parti del mondo. Non poteva non farmi gola un esperienza del genere.

Personalmente ho avuto l’opportunità di andarci per due giorni (il festival dura una settimana) e di poter assistere ad alcune proiezioni interessanti e di incontrare dal vivo alcune delle personalità più influenti del cinema. Ma l’esperienza non finisce qui. L’aria di cinema che si respira non è l’unico aspetto degno di nota. Il contesto è straordinario. Taormina è uno scenario mozzafiato (in tutti i sensi visto che abbiamo fatto la salita che porta dalla stazione al centro di Taormina a piedi). La vista, il borgo, gli odori, tutto ti fa immergere in un contesto fatto di cultura e arte.

Andiamo ora al festival in sé. Come detto prima gli ospiti sono di altissimo livello. Ho avuto l’immenso piacere di incontrare Harvey Keitel dal vivo che ci ha raccontato Hollywood, un posto lontano per noi, con gli occhi di chi Hollywood l’ha fatta e vissuta. Possiamo ricordare la carriera di Harvey Keitel per essere stato l’attore che ha lanciato la carriera di grandissimi registi come Martin Scorsese e Quentin Tarantino. Su questi due signori ha anche raccontato qualche aneddoto piuttosto interessante. Presente anche il regista Oliver Stone che ha parlato del suo ruolo da produttore nel film documentario Ukraine on Fire. Tra gli ospiti anche grandi personaggi italiani come il divertentissimo Enrico Brignano, la simpaticissima Noemi e Claudio Santamaria che ha parlato del suo ultimo grande successo di critica e di pubblico Lo Chiamavano Jeeg Robot.

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Oltre gli ospiti, il festival offre ai suoi visitatori proiezioni eccellenti. Nella serata di apertura è stato proiettato nel teatro antico l’ultimo film della Pixar Alla ricerca di Dory in anteprima nazionale. Ma non solo le grandi produzioni di Hollywood. Ci sono anche tantissime proiezioni di produzioni minori e nostrane che in questo festival trovano modo di farsi conoscere. Oltre il sopracitato Ukraine on Fire ho avuto anche il piacere di vedere il documentario di Fabio Lovino WeWorld presenta: Mothers.

Quello che voglio trasmettere a te che stai leggendo questo pezzo è un invito. Taormina è un gioiello di città che ospita uno dei festival cinematografici più importanti al mondo. Noi studenti messinesi abbiamo la possibilità di vivere questa magnifica esperienza da protagonisti. Che siate appassionati di cinema o semplici curiosi il mio invito è quello di prendere parte attivamente alla prossima edizione. Abbandonate per qualche giorno gli esami della sessione estiva e perdetevi nella bellezza di Taormina e nella bellezza del cinema.

Nicola Ripepi

Susan Sarandon alla 62° Edizione del Taormina Film Fest

Si apre una porta laterale e una tempesta di flash non permettono di vedere la figura che calca il palco fino a quando non arriva al centro e saluta tutti con le mani in aria e un sorriso splendente : Susan Sarandon è qui davanti a noi, vestita di nero e con un’aria affabile e distesa.

Subito una battuta : afferma di aver scelto di interpretare questo ruolo perché è difficile per donne della sua età trovare una sceneggiatura in cui il personaggio propostole non muore o capita qualche altra disgrazia.
Il film in questione è “The Meddler” che la vede protagonista insieme a Rose Byrne di cui interpreta una mamma vedova che si trasferisce da New York a Los Angeles per seguire la figlia , una mamma che in molti potrebbero definire impicciona (come dice il titolo) ma in realtà è una donna da una gentilezza incondizionata, che ritiene di avere avuto abbastanza nella sua vita quindi non può far altro che pensare agli altri.
Il soggetto è realmente ispirato alla madre della regista Lorene Scafaria che la Sarandon ha conosciuto e ci riferisce essere una donna adorabile e afferma essere un peccato per noi non poter sentire l’accento del New Jersey nel film di questa donna che è un pesce completamente fuori dall’acqua nella glamour LA.
Nel cast troviamo anche J.K. Simmons del quale la Sarandon loda la bravura e molti stand up comedians.
Un film girato con un budget basso (per gli standard americani) e in tempi stretti : 23 giorni.
I problemi di budget non sono nuovi nel cinema americano , secondo la Sarandon perché i finanziatori ragionano come banchieri e non per l’utilità dell’arte.

E da qui passa alla mancanza di diversità nel cinema americano, l’inutilità delle etichette “cinema al femminile” è l’empatia fra le persone che conta , è l’arma più potente e il cinema ne è il tramite proprio qui sprigiona il suo animo da donna interessata alla polis affermando che “Se continuiamo a mostrare che tutto si risolve con le armi, creiamo un clima sbagliato. Nemmeno Internet aiuta, perché ha lasciato spazio a persone cariche di aggressività. Esiste certamente la libertà di parola e non va violata, ma anche la violenza verbale è gravissima”.
Loda il nostro cinema quello degli anni 50’ nel quale l’uomo metteva al centro la donna ed è qui che Monica Guerritore presidente della giuria del festival le suggerisce la visone de “La pazza gioia” di Virzì.

Sull’onda politica uno spettatore le fa una prevedibile domanda su Hillary e lei con una schiettezza quasi impressionante taglia corto dicendo che non si sente rappresentata dalla signora Clinton.

Arriva il momento dell’ultima domanda dal pubblico e fortunatamente non è stata sprecata , tenetevi forte tutti voi appassionati di serie tv e del suo re Ryan Murphy : come era stato preannunciato a maggio nel 2017 vedremo Jessica Lange e Susan Sarandon vestire i panni rispettivamente di Joan Crawford e Bette Davis in “Feud”.
La Sarandon ci racconta che il progetto era nato come film anni addietro e l’aveva rifiutato perché non ne trovava un senso, il genio di Murphy allora ha deciso di renderlo una serie tv incentrata sì sulla faida fra le due iconiche attrici ma il focus sarà anche sui meccanismi degli Studios su come e se Hollywood è veramente cambiata.
Saranno 8 episodi , la metà delle registe saranno donne e vediamo le stesse Lange e Sarandon fra le produttrici.
Inoltre, dice la Sarandon, l’idea di Murphy è quella di creare un ciclo incentrato su queste faide storiche per far luce su queste dinamiche.
Insomma si prospetta un prodotto nuovo, con due grandi interpreti e in tipico stile Murphy pronto a scardinare i meccanismi ed abbattere i muri che ancora affliggono uno dei mezzi di comunicazione di massa più influenti : la tv.

 

Arianna De Arcangelis

 

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Death note: uno sguardo al mondo degli Anime!

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Insoddisfazione, noia, disgusto, verso un mondo distrutto dalla criminalità e dalle ingiustizie: sono questi i sentimenti che dominano l’animo di Light Yagami. Bello, desiderato da tutte le ragazze e il miglior studente della scuola, eppure per nulla contento della sua vita, tanto perfetta quanto vuota. Ben presto, la svolta: un quaderno nero con la scritta “Death Note”. Uno scherzo? Una trovata geniale?  Chissà, nel dubbio Light lo raccoglie ed è così che fa la conoscenza di Ryuk, uno shinigami (dio della morte) che, animato dalla stessa noia del protagonista, ha deciso di far cadere il suo quaderno sulla terra per divertirsi. Un po’ per curiosità, un po’ per mettersi alla prova, Light quindi decide di usare il quaderno della morte per scrivere i nomi dei più grandi criminali del Giappone; di cui deve necessariamente conoscere il nome ed il volto.

Pian piano imparerà a usare sempre meglio questo strumento, sperimenterà nuove regole riguardo le condizioni e le modalità dei suoi omicidi. Quella che inizialmente doveva essere una piccola missione, ovvero ripulire il mondo dai criminali, diventa per Light una vera e propria impresa. Solo lui può eliminare il male dal mondo, solo lui può essere giudice delle ingiustizie, tanto da arrivare a credersi una sorta di divinità.

Tuttavia, il suo lavoro è ostacolato prima dall’intervento della polizia Giapponese, poi dall’istituzione di una squadra speciale incaricata di indicare su Kira (“assassino”, soprannome assunto da Light), di cui fa parte anche il suo stesso padre, Soichiro Yagami, sovrintendente della polizia giapponese ed Elle, giovane detective dalle strabilianti capacità. Proprio Elle si rivela essere l’immagine speculare di Light. Entrambi eccessivamente intelligenti, sicuri di sé, ciascuno con un proprio senso della giustizia ma con un obiettivo comune: battere l’altro per portare avanti il proprio ideale. Light per divenire il giustiziere di questo mondo malato, Elle per combattere proprio ciò che lui giudica il sommo male.

Sarà una lotta assolutamente pari, con colpi bassi, acute rivelazioni e sorprese da parte di entrambi. “Death note” è una serie interessante, complessa oserei dire, perché sdogana il classico concetto di bene e male, di giusto e sbagliato. Riesce a tenere con il fiato sospeso a ogni puntata, nonostante le scene d’azione siano quasi inesistenti, in quanto sono proprio le elucubrazioni, le macchinazioni e l’introspezione psicologica dei protagonisti che tengono le fila della trama e che ci portano a capire ed a immedesimarci nei loro pensieri, fino a giustificare o addirittura a supportare le loro decisioni, non sempre edificabili.

E voi, da che parte state?

Edvige Attivissimo

Misstress America: quando si ha paura di diventare grandi

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Tracy (Lola Kirke) si è appena trasferita a New York per frequentare il college, la vita dello studente nella grande mela non è quello che immaginava, soprattutto nel relazionarsi con i compagni di corso. Sua madre si sta per risposare e le propone di chiamare la figlia del suo futuro marito , la quale abita a New York da tempo. Così ha inizio questa simbiosi fra Tracy e Brooke (Greta Gerwig) , questa donna che incarna l’anima newyorkese : dinamica, entusiasta e fortemente logorroica ai limiti dell’egocentrismo.

Tracy si fa rapire dallo stile di vita di Brooke, che vive la vita “come ogni giovane donna che vuole impiegare bene la propria giovinezza dovrebbe”  ed inoltre la ispira per il racconto che deve scrivere per entrare a far parte di un circolo letterario estremamente esclusivo del college.

Brooke sta per aprire un ristorante, ma il sogno si spezza quando il fidanzato greco la lascia e deve trovare nuovi investitori. Dietro suggerimento di Tracy parte verso Greenwich, Connetticut “dove vivono i ricchi” accompagnata dal compagno di classe di Tracy Tony (Matthew Shear) e dalla sua fidanzata possessiva e paranoica, per andare a chiedere un prestito all’ex migliore amica e al marito.

 

Mistress America potrebbe venire definita una screwball comedy  ma in realtà non evoca il piacere leggero di quel genere, ricorda più il Woody Allen di “Harry a pezzi” ma le cui battute taglienti non sostengono tutto il film.

Brooke è ben incarnata da Greta Gerwig, il personaggio è fuori dai modelli odierni e ricorda alcune delle donne alleniane , il fascino e la bravura della Gerwig è tale che rende Brooke amabile anche quando si comporta volontariamente da naif.

 

La sceneggiatura è scritta a quattro mani da Noah Baumbach e la sua compagna Greta Gerwig, ci sono reminiscenze dei loro precedenti lavori “Frances Ha”  e “Giovani si diventa”, è una commedia piacevole sulle differenze di età e le conseguenti dissonanze ed assonanze, sul desiderio di seguire i propri desideri, quasi a pretenderli, ferendo chi ci sta vicino.

La difficoltà di accettare di essere adulti, le proprie responsabilità e la necessità di avere un posto nel mondo confluiscono nella frase detta da Brooke ,riferendosi a Tracy, al chiaroveggente “Non è così più giovane di me, 10-12 anni, siamo praticamente coetanee!”.

Se la sceneggiatura non è delle più intriganti , vale la pena vederlo per l’interpretazione di Greta Gerwig la quale si pone fra le migliori attrici della sua generazione soprattutto per la naturale indole comica.

Arianna De Arcangelis

Veloce Come Il Vento: Adrenalina e Sensibilità nell’ultimo film di Matteo Rovere

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«Disperati veri si è rimasti in pochi», dice Loris, nell’ultimo film di Matteo Rovere Veloce come il vento, viaggio a tavoletta nel mondo del campionato italiano GT e delle corse clandestine, in sala dal 7 aprile.

E se la disperazione predomina da anni in Italia, tra registi e spettatori, Veloce come il vento, insieme ad altri titoli come Lo chiamavano Jeeg Robot, Suburra o Non essere cattivo, sembra illuminare il fondo di quel vaso di Pandora rimasto aperto dagli anni ’80, in un 2016 insolitamente felice. Sì perché negli anni ’80 inizia forse un gap tra il cinema italiano e quello internazionale, in cui gli Stati Uniti la facevano e la fanno tutt’ora da padrone, grazie all’arrivo della computer grafica e degli effetti speciali ad alto budget.

 

Rovere centra in pieno il problema e affonda le mani, con determinazione e (metaforica) disperazione, nelle risorse, rimaste neglette ma non per questo prive di forza ed impatto visivo(un po’ come la vecchia auto da corsa di Loris), e che appartenevano al nostro cinema di genere, nello specifico quello dei “film di macchine”. Se l’espressione – alquanto infelice, invero – vi fa pensare solo all’ennesimo Fast and Furious o, andando a ritroso nel tempo, a Driver – l’imprendibile, allora dovreste dare un’occhiata a Le Mans – Scorciatoia per l’inferno, Speed Driver e Velocità massima (solo per citarne alcuni), tutti film italiani e tutti, tra i più e meno riusciti, appartenenti al filone in cui Rovere ha deciso, per dichiarata passione personale, di lanciarsi.

 

La trama, vagamente ispirata alla vera storia del pilota Carlo Capone, vede la giovane pilota Giulia (un’esordiente e promettente Matilda de Angelis), gareggiare nel campionato GT per mantenere la casa di famiglia, dopo l’abbandono da parte della madre e la morte del padre. La situazione, già precaria, è complicata dal ritorno del fratello maggiore di Giulia, Loris (Stefano Accorsi), ex pilota tossicodipendente abbandonato a se stesso, che decide di aiutarla.

 

Rovere è qui alle prese con un film completamente diverso dai suoi precedenti, basato su un soggetto verso cui nutre un interesse innegabile, sensibile al fascino del soggetto macchina nelle sue forme, rumori, colori, movimenti. Il rumore e l’immagine diventano di fatti vitali, in un film sulle corse automobilistiche: il montaggio sonoro è eseguito in maniera impeccabile, mentre l’occhio cinematografico del regista mostra un apprezzamento quasi voyeuristico per il rallenty, in svariate inquadrature, che però non mirano alla spettacolarità volgare viziosa americana di una sequenza, quanto piuttosto alla poesia del particolare, al piacere puro di contemplare la ghiaia smossa dagli pneumatici, evitando perciò la morbosità. L’uso dell’effetto digitale rimane marginale, tirato fuori alla sola occorrenza.

Piccole cose, insomma. Nugae di stile, che pure sono parte di una ricetta fatta di ingredienti che funzionano, come le musiche di Andrea Farri (già collaboratore di Rovere), tappeto elettronico sotto impalcatura indie rock, che accompagnano una sceneggiatura atta a fondere (parole del regista) la sensibilità di un dramma familiare ed il rombo dei motori, riuscendovi con perfetta armonia.

Il personaggio di Accorsi è decisamente il punto forte della sceneggiatura, raffigurando un’idea di tossicodipendente lontana dallo stereotipo, una combinazione di realismo sporco e stoner comedy che il pubblico italiano ha potuto vedere raramente, finora. L’attore bolognese si è calato perfettamente nella parte, libero di arricchire il personaggio con regionalismi emiliani spinti e, diete drasticamente hollywoodiane a parte, ha espresso al meglio momenti già promettenti sulla carta, come quelli che lo vedono in cortile con la sorella o in vasca da bagno con la fidanzata – anch’essa tossicodipendente – intento a sciogliere o complicare i nodi della sgangherata matassa familiare; momenti che rendono proprio quella vasca da bagno e quel cortile riconducibili, in qualche modo, da una parte a Paura e delirio a Las Vegas, in cui un lisergico Benicio del Toro delirava con Johnny Depp nel bagno di una camera d’hotel, dall’altra ai letti fassbinderiani, luoghi di riflessione e confronto intimo.

 

Veloce come il vento risulta dunque l’opera più riuscita di Matteo Rovere, presentando una formula che non ha solo gli ottani come carta vincente e che è già pronta per essere esportata nelle sale straniere. Un piccolo successo, squisitamente italiano, in grado di farsi apprezzare anche dai non amanti dei motori (come, del resto, chi scrive).

 

 

Andrea Donato