Paesaggi di neve: un borgo e un castello all’ombra del Gran Sasso

Et chi andarà in cima del Corno Monte gli parrà andar sopra le nuovole (Francesco De Marchi, In cima al Corno Monte)

Se cercate un luogo in Italia dove sentirvi riparati da alte cime vertiginose e attorniati da ampie praterie, se vorreste attraversare paesaggi mozzafiato e antiche contrade, rilassarvi in mezzo alla natura e praticare sport invernali sulla neve, probabilmente l’Abruzzo è ciò di cui avete bisogno. In questa tappa di Around, la nostra rubrica dedicata ai viaggi, vi porteremo nel borgo Calascio e nel suo castello, quest’ultimo inserito da National Geographic nella classifica dei quindici castelli più belli al mondo (link).

Un giro nei dintorni

Corno Grande – La cima più elevata del Gran Sasso

A un altitudine di 2912 m s.l.m il Corno Grande è la più alta cima del massiccio del Gran Sasso e dell’intero arco appenninico. Francesco De Marchi nel XVI secolo è stato il primo alpinista a compiere l’impresa della scalata. I vari sentieri che si arrampicano lungo le rocce calcaree partono a sud dall’Osservatorio di Campo Imperatore e a nord da una funivia presso i prati di Tivo. Raggiunta la cima, gli escursionisti più allenati, godranno della vista di buona parte del territorio dell’Abruzzo, e, quando il cielo è più limpido, potranno abbracciare il panorama fino a scorgere in lontananza il mare Adriatico. Tra i guinness che la montagna detiene c’è quello di ospitare il Calderone, considerato il ghiacciaio più a sud d’Europa!

Campo Imperatore – Il Tibet di Italia

Campo Imperatore è un altopiano posto a circa 1.800 m. di altitudine modellato dalla fusione di antichi ghiacciai. Anche questa distesa ha un primato: lunga 20 km e larga tra i 3 e i 7 km rappresenta la piana più grande di Italia. Il suo territorio è disseminato da laghetti, che hanno forse un’origine meteoritica, mandrie e greggi che praticano l’alpeggio in estate, impianti di sci nella stagione invernale e addirittura set cinematografici. Sì, la sconfinata superficie nel Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga ha ospitato numerosi registi attratti dal suo suggestivo paesaggio che Folco Maraini ha definito “un piccolo Tibet”: dal Deserto dei Tartari con Vittorio Gassmann e Philippe Noiret a Così è la Vita di Aldo, Giovanni e Giacomo. L’appellativo deriva dalla azione antropica e dalla elevata quota che ha reso rada la vegetazione e dal vastissimo paesaggio incuneato tra specchi d’acqua e profondi solchi.

Hotel Campo Imperatore – La prigione di Benito Mussolini

Posta sulla sommità del Campo Imperatore la struttura ricettiva, ancora in funzione, deve la sua fama a una pagina poco gloriosa della storia di Italia. Nel settembre 1945 l’operazione Quercia organizzata dalle milizie tedesche portò alla liberazione e alla fuga di Benito Mussolini, confinato sul Gran Sasso per ordine del re Vittorio Emanuele III dopo l’armistizio di Cassibile che segnò la fine ostilità verso gli alleati anglo-americani e di fatto l’inizio della resistenza. Un gruppo di paracadutisti si calò sull’albergo e qui, con una rocambolesca strategia, riuscì a prelevare Mussollini e a condurlo a Monaco dal Fuhrer.

Un borgo e un castello

Rocca Calascio – La roccaforte medioevale normanna e medicea

Con i suoi 135 abitanti, Calascio, in provincia dell’Aquila, è uno dei borghi più caratteristici dell’Abruzzo. La sua attuale circoscrizione comprende il centro di Calascio, fondato intorno all’anno 1000 dai normanni, e l’antica comunità di Rocca Calascio, passata dalla famiglia Piccolomini alla podestà dei Medici. Entrambi i centri nacquero con la funzione di controllo dell’area, ai piedi del massiccio del Gran Sasso. Un terremoto nel 1700 distrusse tuttavia la zona della Rocca, fondata probabilmente anch’essa per volontà di Ruggero D’Altavilla, che venne da allora abbandonata. Recentemente, negli ultimi decenni del’900, Rocca Calascio è tornata ad essere abitata da un piccolo nucleo di abitanti e riqualificata come meta turistica, forse anche grazie al fatto di essere stata scelta per l’ambientazione di alcuni film di successo.

Il castello di Rocca Calascio – Un set d’elezione

Uno dei castelli più elevati di Italia, costruito nel medioevo a scopo di difesa del territorio e controllo dei tratturi, i sentieri di transumanza diretti all’Adriatico, candidati patrimonio UNESCO. Da questo nucleo dovette svilupparsi in seguito il borgo sottostante. La struttura, interamente in pietra, è circondata da un muro merlato e da quattro torri ad angolo dalla forma circolare. Danneggiata dai terremoti che hanno colpito la zona, è stata più volte oggetto di restauro. Il luogo ha ospitato celebri set cinematografici, tra cui il film fantasy del 1985, Ladyhawke, scene de Il nome della rosa e di The American con George Clooney.

Michelle Pfeiffer in Ladyhawke

Chiesa di Santa Maria della Pietà – La perla a forma di ottagono

Fondata nel luogo dove, secondo la leggenda, la popolazione locale sconfisse una banda di bigranti, sul sentiero verso il Castello, la chiesa di Santa Maria della Pietà, eretta nel 1596, è un magnifico edificio a pianta ottagonale, attaccato su una parete ad una sagrestia e inserito in mezzo al verde. Probabilmente edificata su una precedente edicola rinascimentale, la struttura è oggi adibita a oratorio e meta spirituale per i pellegrini che, arrivati in cima, scorgeranno un panorama invidiabile.

Eulalia Cambria

@FOTO DI Salvatore Cambria

Film, serieTV, dischi, libri: le migliori uscite del 2018. La nostra selezione

La casa di carta, la ragazza con la leica, Freddie Mercury sul palco del live AID, Lady Gaga in veste di attrice e l’ex Beatle Paul McCartney.

12 redattori di UniVersoMe scelgono un disco, un film o un libro uscito nel 2018. La nostra selezione tra perle e grandi successi di pubblico.

 

 

BRANDI CARLILE – BY THE WAY I FORGIVE YOU

“By the way I forgive you” non è solo il titolo è il messaggio di fondo di questo album, per spiegarlo con le parole di Brandi “We chose to talk about finding a way to fundamentally forgive and accept life for being fucking hard.” . L’empatia ci rende umani ed è ciò che più serve oggi. I testi scritti dalla stessa Carlile e i gemelli Hanseroth sono caratterizzati da grazia, sensibilità e schiettezza e affrontano la dipendenza, le dinamiche familiari, la politica, l’identità ed il bullismo. La musica eleva la delicatezza dei testi, le chitarre vengono suonate con forza nei momenti necessari, accentuate dalla presenza dell’orchestra. Le canzoni si estendono fra una vasta gamma di stili e suoni, dalla grandiosità orchestrale di “The Joke” che ricorda la sua canzone più famosa “The Story”, al pop-folk di “Hold Out Your Hand” misto fra canzone popolare ed inno e la straziante ballata di piano “Party of One ” (di cui suggerisco la visione del bellissimo video). La voce della Carlile, con i suoi acuti ed imperfezioni, ti entra nel cuore ancora prima che tu possa capire cosa sta cantando. Questo disco è un trionfo. Le sei nomination ai Grammy 2019, incluso uno per l’album dell’anno, rendono Brandi Carlile la più nominata dell’anno e conferiscono (finalmente) il dovuto riconoscimento mondiale che si merita. • Arianna De Arcangelis

 

BRYAN SINGER – BOHEMIAN RHAPSODY

Sicuramente il film più atteso e apprezzato di questo 2018. Il documentario su Freddie Mercury e sui Queen. Dagli esordi al successo planetario. Rami Malek, nei panni del re del rock, fa sognare, totalmente coinvolto nel suo personaggio. Un film autobiografico sincero e potente come pochi, epico, assolutamente da non perdere! • Benedetta Sisinni

 

GREG BERLANTI – TUO, SIMON

Vincitore di numerosi premi tra i quali MTV Movie & TV Awards, Teen Choice Awards e People’s Choice Awards, “Love, Simon” (in Italiano “Tuo, Simon”) è un film di genere drammatico, commedia e sentimentale uscito nelle sale cinematografiche nel 2018 e diretto da Greg Berlanti. Il film è un adattamento cinematografico del libro ”Non so chi sei, ma sono qui” di Becky Albertalli e ha come protagonista Simon, un ragazzo omosessuale che, costretto a nascondere la sua omosessualità, inizia uno scambio di email con un altro ragazzo di nome Bram. Il film tratta argomenti molto attuali come il bullismo e la paura di non venir accettati dai familiari o dagli amici perché si è ”diversi”. Nonostante la leggerezza con cui vengono trattati questi temi faccia sembrare il film adatto più ad un pubblico di adolescenti, non ne è sicuramente sconsigliata la visione anche ad una platea più adulta. Dal film: “Non l’ho detto a nessuno. Dire al mondo chi sei è abbastanza spaventoso” • Beatrice Galati

 

 PAUL MCCARTNEY – EGYPT STATION

Le note partono nel bel mezzo di un stazione affollata e arrivano dirette a un presente che appare già quasi nostalgico. Dalla ballata che apre il disco ai ritornelli trascinanti e orecchiabili la voce increspata dagli anni non allontana dal traguardo di commuovere e divertire. Paul McCartney raccoglie 16 tappe di un viaggio immaginario: il passato e il presente, l’adesione ai tempi e la straordinaria, inalterata, abilità di songwriting. Egypt Station trova la sua dimensione nell’equilibro tra forza e fragilità. • Eulalia Cambria 

 

 HELENA JANECZEK – LA RAGAZZA CON LA LEICA

La ragazza con la Leica, libro di Helena Janeczek, scrittrice tedesca naturalizzata italiana che vive proprio in Italia dal 1983, le ha garantito la vittoria del Premio Strega e del Premio Bagutta. La protagonista, Gerda Taro, è la prima fotoreporter a morire in un teatro di guerra (con precisione, durante la seconda guerra mondiale). La sua storia, narrata in questa biografia, si intreccia con quella di due uomini e una donna. Nel corso del romanzo, i loro ricordi delineano la figura di Gerda ma sono anche lo strumento grazie al quale Helena Janeczek descrive la rovina di una generazione che si è vista troncare la giovinezza a causa della Seconda Guerra Mondiale, delle persecuzioni razziali, dei genocidi su base etnica. Nell’ultimo capitolo scrive: “per ritrovare qualsiasi cosa è necessario affidarsi alla memoria, che non è altro che una forma di immaginazione”, parole che spiegano perfettamente ciò che l’autrice ha voluto trasmettere. • Susanna Galati

 

MOTTA – VIVERE O MORIRE 

Vincitore come miglior disco dell’anno dell’ambita Targa Tenco, Francesco Motta riesce a conquistare critica e pubblico tra cantautorato italiano e indie rock. Nonostante l’indie sia un genere molto apprezzato in questi anni, Motta se ne discosta dimostrando originalità e competenza tecnica. Il suono si presenta minimale, con ritmi semplici a tratti tribali, la musica avvolgente con una voce che ci fa vivere e rivivere emozioni facendo emergere immagini e sensazioni rinchiuse in ognuno di noi. • Marina Fulco

 

LA CASA DI CARTA

Una delle serie più viste quest’ anno, tutti ne hanno parlato (o ne hanno sentito parlare). Avvincente, chiacchierata, interessante, su alcuni punti criticabile, ma indubbiamente affascinante. Soprattutto per la trama intrigante e l’idea di fondo: rapinare la zecca di Stato Spagnola. Si, ma con stile! Inevitabile appassionarsi alle vicende di questa banda dove il carisma non manca, partendo dal Professore, e chiedersi chi sono davvero i buoni e chi i cattivi. Voi da che parte state? • Serena Saveria Foti 

 

ANIMALI FANTASTICI – I CRIMINI DI GRINDELWALD

L’attesissimo sequel di Animali fantastici e dove trovarli è arrivato al cinema permettendo agli appassionati di Harry Potter, e non solo, di tornare a sognare tra magia e sorprendenti colpi di scena. Tra personaggi che piacevolmente riappaiono sullo schermo e nuove comparse, la storia diventa più complessa e il finale lascia gli spettatori a bocca aperta. Non rimane che aspettare il prossimo capolavoro firmato J.K. Rowling • Federica Cannavò

 

PAOLO GIORDANO – DIVORARE IL CIELO

Dover scegliere un libro, tra i tanti che leggo, è sempre doloroso. Eppure stavolta un po’ meno. Il fulcro di questa storia sono Teresa e Bern, la loro storia e i mille modi che trova l’amore di riconoscere e lasciarsi attrarre dal proprio magnete. Allo stesso modo il lettore dovrà lasciarsi trascinare dalle parole e parole, pagine su pagine, che solo Paolo Giordano riesce a riempire, ammaliandoti. “Il corpo è il veicolo fragile e forte della loro violenta aspirazione al cielo.” • Serena Votano

 

RUPERT EVERETT- THE HAPPY PRINCE

Il soggiorno di Wilde con il compagno Douglas nel 1807, il viaggio che fece scandalo nella società del tempo. Film che prende il nome da una raccolta di racconti dello scrittore irlandese e che propone la storia vera del protagonista-autore, il giovane scrittore Oscar Wilde appunto, che oltre ad essere conosciuto per i suoi romanzi fu anche oggetto di uno scandalo a causa del suo orientamento sessuale. Egli si nascose dietro un matrimonio con una giovane donna del suo tempo ma questa grande “recita” non ottenne grandi risultati. Fu perseguitato tanto da allontanarsi dalla famiglia e finire là dove tutto per lui era buio, nelle carceri tanto odiate. Il film ha incassato in Italia al Box Office 425 mila euro e ha ottenuto una candidatura agli European Film Awards. • Dalila De Benedetto

 

 BRADLEY COOPER – A STAR IS BORN

A distanza di quarantatre anni torna nelle sale il remake di ‘A Star is Born’ con protagonisti Bradley Cooper (Jackson Maine) e Lady Gaga (Ally). Il musicista di successo Jackson Maine scopre e si innamora di Ally, una ragazza acqua e sapone con un enorme talento. Il film ha ottenuto 4 candidature ai Golden Globes e tantissime altre nomination, mentre in Italia al Box Office ha incassato nelle prime nove settimane di programmazione 6,8 milioni di euro e 228 mila euro nel primo weekend • Andrea Sangrigoli

 

NICOLÒ GOVONI – BIANCO COME DIO

Bianco come Dio è un viaggio inaspettato, non soltanto attraverso i luoghi e i tempi della narrazione, ma rappresenta la possibilità inaspettata di un viaggio fuori e dentro noi stessi. Fuori e dentro il torpore delle convenzioni sociali alle quali sono rilegate le nostre anime. Nicolò racconta, in prima persona, del viaggio che ha rivoluzionato la sua vita e quella di decine di bambini in un orfanotrofio dell’India più rurale, dove inizialmente era giunto da volonturista, ma ben presto capisce che quel viaggio che sarebbe dovuto durare pochi mesi, in realtà era la sua meta, e il sorriso di quei bambini la sua missione. Bianco come Dio non è una comune storia di volontariato, ma ti spoglia di tutte le sovrastrutture mentali, disarma dagli alibi di impotenza e ti colpisce con la più oscura e disarmante verità. Quella che non passa attraverso i media, quella che non viene rappresentata, ma quella che Nicolò, poco più che ventenne, ha deciso di vivere e raccontare. Il romanzo, partito con autopubblicazione verso il viaggio della speranza, approda in Rizzoli e diventa un caso editoriale, riuscendo così a fare da fondo per la costruzione di una biblioteca per i bambini dell’orfanotrofio. • Giusi Villa

GRAFICA DI Giulia Greco

Animali fantastici – I crimini di Grindelwald

Il 15 Novembre 2018 i fans di Harry Potter hanno avuto la possibilità di ritornare a sognare il mondo di magia creato da J.K. Rowling.

Animali Fantastici: I crimini di Grindelwald arriva nelle sale cinematografiche dopo il primo film Animali Fantastici e dove trovarli (link recensione). Omonimo del romanzo a cui si ispira, la saga, secondo le dichiarazioni dell’autrice, dovrebbe comprendere in totale cinque film.

David Yates è il fedele regista, mentre la sceneggiatura è curata niente meno che dalla stessa Rowling. Ritroviamo i protagonisti del precedente film: il magizoologo Newt Scamander (Eddie Redmayne) ritorna con la sua inseparabile valigia piena di animali fantastici, accompagnato dalla giovane auror Tina Goldstein (Katherine Waterston), Queenie Goldstein (Alison Sudol) e dall’unico No-Mag o babbano presente nella saga, Jacob Kowalski (Dan Folger).

I nuovi personaggi entrano all’interno della sceneggiatura non senza provocare un grande entusiasmo in tutti i potteriani: fanno la loro apparizione Albus Silente (Jude Law), che da subito occupa un ruolo centrale nella storia, Leta Lestrange (Zoe Kravitz), il cui solo cognome fa venire la pelle d’oca a coloro che hanno imparato a conoscere la famiglia purosangue che lo porta e Theseus Scamander (Callum Turner), il fratello famoso e intraprendente di Newt. Tutti i protagonisti continuano la loro battaglia contro Gellert Grindelwand (Johnny Deep), il famoso mago oscuro che segue ideali di supremazia a sfavore di coloro che non hanno poteri magici. Il precedente film aveva lasciato gli spettatori con la consapevolezza dell’apparente morte di Credence (Ezra Miller), personaggio emblematico all’interno della storia che ritorna determinato a scoprire la sua identità.

Il nuovo film, ambientato nel 1927 a Parigi, si discosta un po’ dall’atmosfera del precedente, in cui protagonisti assoluti erano gli animali fantastici, creature incomprese e accudite da Newt Scamander. L’atmosfera fantastica lascia il posto a dei toni più cupi e la storia si arricchisce di vicende personali. I temi affrontati sono più profondi e impegnativi e provocano non poco disorientamento anche ai fans più esperti. Primo fra tutti, il legame tra Gellert Grindelwald e Albus Silente: i due vengono definiti da quest’ultimo come “più che fratelli” ma è difficile comprendere cosa realmente accomuna questi grandi maghi, al di là del patto di sangue che tra loro intercorre.

La storia d’amore tra Jacob e Queenie perde invece l’alone di leggerezza che aveva nel precedente film; attraverso la loro relazione vengono riportati alla luce i temi del razzismo, della discriminazione, dell’importanza di schierarsi. Di fatto mentre Jacob, nonostante sia un No-Mag non si lascia persuadere dalle belle parole di Grindelwald, la donna, invece, attratta dalle capacità oratorie del Mago Oscuro, si schiera dalla parte di quest’ultimo. Tra i vari intrighi poco spazio rimane per lo sviluppo della storia d’amore tra Scamander e l’auror Tina.

Il tema della lotta tra bene e male affiora anche in questa saga. Gellert Grindelwald, con l’aiuto di Credence, cerca di radunare i suoi seguaci per promuovere il suo messaggio che, nonostante la vena oscura, attira molti maghi e streghe scontenti della loro condizione nel mondo. La ricerca della propria identità da parte di Credence provoca non pochi intrighi che sfociano nel più impressionante colpo di scena,  infatti Gellert rivela al ragazzo di essere il fratello di Albus Silente. Questa informazione provoca tra i potteriani emozioni decisamente contrastanti dal momento che tale informazione pare allontanarsi dalla storia raccontata dalla Rowling nei libri di Harry Potter, in cui il futuro preside risulta avere un fratello, Aberforth Silente, e una sorella, Ariana Silente, accidentalmente morta proprio tra uno scontro tra Gellert e Albus.

L’arduo compito della Rowling è testimoniato dalle differenti opinioni che il pubblico ha avuto sul film. L’autrice si è assunta la complicata responsabilità di creare una storia di cui, già in parte, grazie alla saga di Harry Potter, si conosce il finale. Misurandosi con il fandom questi nuovi colpi di scena posso avere effetti decisamente diversi: da un lato ci sono coloro che, entusiasti di tornare ad Hogwarts, accolgono in modo favorevole la presenza di Silente, nonchè la possibilità di comprendere maggiormente questo personaggio emblematico e che sono emozionati all’idea di dare finalmente un volto all’alchimista Nicolas Flamell (Brontis Jodorowsky); dall’altro lato ci sono coloro che con occhio critico non comprendono, per esempio, la presenza della professoressa di Trasfigurazione nel 1927 (dal momento che dovrebbe essere nata nel 1935) e rifiutano l’esistenza di un altro fratello di Albus Silente, che non appare nella saga del mago Grifondoro.

Animali fantastici – I crimini di Grindelwald appare chiaramente come un film di passaggio: la storia, nei prossimi tre film subirà sicuramente numerosi colpi di scena. Bisogna quindi aspettare, dal momento che non vi sono libri su cui basarsi. Nonostante le opinioni differenti emerse da parte degli spettatori cinematografici, la Rowling ha dato la possibilità a un numero infinito di potterheads di tornare a provare delle emozioni che ormai sembravano essere esaurite insieme all’ultimo film di Harry Potter, permettendo ai suoi sostenitori di ricordare la magia, di rimanere stupiti di fronte a incantesimi e scenari fantastici.

Federica Cannavò

 

The propaganda game: chi sono le vittime del gioco?

The propaganda game è un documentario del 2015 prodotto da Álvaro Longoria. Il tema, abbastanza scottante, è lo svolgimento della vita nella società nordocoreana; la sua economia, la sua gente e le sue istituzioni. Per comprendere però appieno il senso di questo approfondimento è necessario contestualizzare la nazione in questione: attualmente si tratta di uno stato totalitario socialista guidato dal leader Kim Jong-Un. Il paese si trova in continua tensione con l’occidente e in particolar modo con gli Stati Uniti e il motivo di questo difficile rapporto è dovuto al conflitto verificatosi tra il 1950 e il 1953, in piena Guerra fredda.

La Corea del Nord, comunista, aveva infatti provato ad invadere quella del Sud, alleato degli Stati Uniti. Questo giugno è però stato compiuto un grande passo in termini di relazioni internazionali. A dimostrarlo è infatti il summit, seguito da accordo, dei leader di entrambe le nazioni. Se confrontata con la realtà descritta nel documentario questa è un’importante svolta storica.

Nella pellicola viene dimostrato come la società nordcoreana costruisca se stessa in antitesi con quella americana-occidentale. Ma non si tratta solo di questo. Entrambi i “blocchi” giocano una strategica partita in cui la pedina migliore è costituita dall’immagine mediatica. Ed è nell’uso di questa che si scende in un altrettanto gioco d’astuzia e retorica.

Come viene delineato nel lavoro di Longoria, la Corea del Nord si presenta agli occhi del documentarista (e dell’occidente di conseguenza) in un determinato modo, con testimonianze e discorsi mirati ad affondare la strategia dell’altro. Dall’altro lato l’occidente e i suoi messaggi mediatici tendono a dipingere una società che conoscono poco (perchè chiusa ai rapporti con l’estero) secondo l’interpretazione che i “buoni” della storia si trovino da questa parte. Entrambe le fazioni si attaccano a vicenda su aspetti che potrebbero essere davvero negativi o sbagliati, ma senza aver verificato che le cose stiano realmente così. È evidente quindi che le fila di questa battaglia siano tirate da prospettive etnocentriste e nazionaliste. A guidarci nella scoperta di questa nazione sconosciuta troviamo l’unico straniero presente sul luogo: Alejandro Cao de Benós, spagnolo naturalizzato nordcoreano. Questi, insieme alle più disparate figure e personalità, risponderà a tutti i quesiti posti da Longoria argomentando e motivando ogni risposta al fine di proporre un’immagine diversa da quella che ogni giorno i nostri media ci danno. Ogni aspetto preso in considerazione è infatti analizzato fin nei minimi dettagli, seppur in ordine non lineare nel montaggio delle scene.

Il motivo per cui è facile considerare quest’opera come prondamente innovativa è per la sua totale imparzialità: la regia non esprime un’opinione personale e non suggerisce per chi dovremmo essere simpatizzanti, al contrario fa un’analisi oggettiva di tutti i meccanismi e gli interessi in gioco. Come prodotto mediatico fa proprio il contrario di ciò che normalmente i media fanno in situazioni del genere, anzi la sua natura denuncia implicitamente queste pratiche.

Il caso Corea del Nord-Usa è soltanto un esempio dell’ormai dilagante fenomeno della “post-verità”, atteggiamento in cui è considerata come parte più rilevante di una notizia quella che suscita emozioni, non i fatti oggettivi. Questo è solo un tassello della guerra postmoderna, caratterizzata da una frenetica caccia all’informazione e da attacchi mediatici; per quanto riguarda il caso qui analizzato potremmo dire che la guerra armata con gli Stati Uniti si è fermata al 38°parallelo della penisola coreana per continuare sulla via della nuova guerra mediatica.

Qual è dunque la soluzione per non diventare vittime di questo gioco?

Leggere la realtà con il coraggio di andare oltre le apparenze, anche se scomodo, è un buon inizio. Lo è anche informarsi consapevolmente, calandosi nei panni di entrambe le parti. Ma risolutiva è sicuramente la sempre attuale e mai banale massima socratica “conosci te stesso”, la quale ci insegna a prenderci cura di noi e a imparare “l’arte di non essere eccessivamente governati”.

                                                                                                                            Angela Cucinotta

WALL•E: dieci anni di modernità

Ci sono momenti nella vita in cui si ha voglia di tornare bambini e non solo nel periodo natalizio. Questa mia “voglia di ringiovanire” è stata agevolata dal servizio di streaming più famoso in Italia (quello che inizia per N, per intenderci), che ha inserito nel suo vasto catalogo una piccola perla della Pixar e della Disney: WALL•E.

Ammetto che non lo avevo ancora visto, ma volevo assolutamente farlo, ed ho colto l’occasione. La mia recensione, quindi, non sarà un’analisi tecnica su un film che ha ormai 10 anni, del quale hanno parlato tantissime testate e critici ai tempi; ma l’opinione di una ragazza di 30 anni (mi piace definirmi ragazza ancora, perché no) che lo ha visto per la prima volta, con un bagaglio di esperienze sicuramente diverso rispetto a una “me” più giovincella.

La regia e la fotografia, oltre che l’animazione, sono veramente ben studiate e costruite; le ho apprezzate davvero tanto, ma il mio commento sarà “più di pancia”.

Il futuro distopico che il film ci sbatte letteralmente in faccia è qualcosa di devastante, catastrofico. Cumuli di spazzatura e città fantasma. Eppure i primi 10 minuti di film sono un concentrato di tenerezza e simpatia. Ci viene presentato questo robottino-compattatore, unico superstite del pianeta Terra, insieme a un piccolo insetto. Un robot particolare WALL•E, curioso, indagatore, che prova anche paura, sensibile, che discerne tra le cose che possono essere ancora utili o gli piacciono. Come una videocassetta con il musical Hello Dolly, che lui ama molto ed allo stesso tempo lo mette di fronte la realtà della sua solitudine concreta.

Questa condizione, però, cambia quando sbarca sul pianeta EVE.

Lei è molto più “moderna” di lui, ma il nostro simpatico e dolce robot cercherà in tutti i modi comunicare con lei e farà di tutto per aiutarla. E’ molto carina questa contrapposizione tra ipertecnologia e oggetti in disuso. Lo stesso WALL•E, per quanto automa, è un “oggetto” vecchio, ma è unico e ricco di personalità.

Questo amore tra “macchine” che, diversamente dal solito, non sono affatto antropomorfe, è di una delicatezza disarmante. Tutto quello che succede nel film dimostra quanto le macchine siano più umane degli uomini stessi. Gli umani, quelli che il pianeta lo hanno distrutto e abbandonato e, peggio ancora, rintronati dalla tecnologia, hanno rovinato loro stessi.

Dieci anni e i temi sono sempre attuali: la natura e il pianeta annientato dalla scelleratezza dell’essere umano, una compagnia multimilionaria che decide sulle sorti dell’intera popolazione, i soldi e il potere. Forse questa cosa dovrebbe farci un po’ riflettere.

Quello che deve farci ancora di più riflettere sono i sentimenti e le azioni positive nel lungometraggio: il coraggio, non solo dei robot, l’amicizia, l’altruismo, insomma tutte quelle cose di cui i film Disney sono colmi solitamente.

Non mi sento, però, di classificare WALL•E come un classico d’animazione qualunque, sarebbe un peccato. Mi ha colpito, mi ha toccato il cuore sin dai primi minuti, anche se per i primi 30 minuti non c’è nemmeno una parola; ma i gesti valgono più di mille parole, si dice. E sono contentissima di averlo visto da “adulta”, perché si colgono molte cose. Consiglio, quindi, a chi non lo ha visto di farlo e a chi lo ha visto, dieci anni fa, di rifarlo, perché lo scoprirete più moderno e attuale di quanto potreste immaginare.

 

https://www.youtube.com/watch?v=Z0D5UQr08Co

Saveria Serena Foti

Bohemian Rhapsody: inno a Freddie Mercury, il più grande cantante di tutti i tempi

Bohemian Rhapsody è un film di genere biografico, drammatico, musicale del 2018, diretto da Dexter Fletcher, Bryan Singer, con Rami Malek e Mike Myersv. La pellicola segue i primi quindici anni del celebre gruppo rock dei Queen, dalla nascita della formazione nel 1970 fino al concerto Live Aid del 1985. Il film mostra quindi l’ascesa al successo della band e soprattutto l’evoluzione, la crescita e i momenti salienti della vita del suo frontman, Freddie Mercury.

Le parole “Un nome, una garanzia” rendono davvero giustizia al grandissimo cantante considerato da molti inarrivabile, insostituibile, UNICO.  Tutto ciò è ampiamento confermato dal film: una personalità eccentrica e sopra le righe come quella di Freddie che forma  insieme agli amici Brian May, Roger Taylor e John Deacon, quella che sarebbe poi diventata una delle più importanti rock band del secolo scorso.

Fin dalle prime scene emerge il rapporto conflittuale che il giovane Freddie ha con la propria famiglia, con le proprie origini, con ciò che il padre vorrebbe lui diventasse. La famiglia, originaria di Zanzibar, scappa dal paese d’origine nel 1964 a causa della rivoluzione e si reca in Inghilterra per garantirsi un futuro migliore. Molto spesso, nella prima parte del film, Freddie viene chiamato, con disprezzo dai londinesi “Paki”, dato il suo colore di pelle e i suoi lineamenti marcati. E’ durante la prima esibizione della band nel 1970, in un pub, che il cantante conquista tutti con la sua voce, con la sua estensione vocale pazzesca. Alla prima esibizione ne seguirà una seconda, una terza e poi altre svariate e incredibili.

John Reid (Aidan Gillen): Su, ditemi, cos’hanno i Queen di diverso da tutte le altre aspiranti rockstar che incontro?
Freddie Mercury: Glielo dico io cos’abbiamo… siamo quattro emarginati, male assortiti, che suonano per altri emarginati…i reietti in fondo alla stanza che sono piuttosto certi di non potersi integrare, noi apparteniamo a loro.

I primi album della band vennero ben accolti dalla critica, con un rapido incremento della popolarità dei Queen; la volontà di Mercury era comunque quella di innovare il più possibile il loro stile musicale, attingendo ai più diversi generi musicali. Nel 1975 venne pubblicato A Night at the Opera, che consacrò definitivamente il quartetto. Il singolo Bohemian Rhapsody  divenne il simbolo della creatività del gruppo e soprattutto del suo cantante, che ne era l’autore; per la registrazione di questa sola canzone furono necessarie tre settimane, di cui una dedicata esclusivamente alla parte vocale centrale. Nei successivi anni, Mercury scrisse alcune tra le più importanti canzoni dei Queen, come Somebody to Love (A Day at the Races. 1976)We Are the Champions (News of the World, 1977), Don’t Stop Me Now (Jazz, 1978), Crazy Little Thing Called Love (The Game, 1980).

Un ruolo importante è dato al rapporto di Freddie con Mary Austin, sua storica fidanzata. Il loro incontro avviene prima della formazione stessa della rinomata band. Negli anni Settanta, i due si sono fidanzati, arrivando quasi al matrimonio ma nel 1976, il cantante fa chiarezza sul proprio orientamento sessuale e i due quindi si separano. Mary resterà sempre accanto a Freddie e sarà proprio lei a farlo rinsavire dopo l’abbandono della band per aver firmato un contratto da solista.

“Love of my life – you’ve hurt me 
You’ve broken my heart and now you leave me 
Love of my life can’t you see 
Bring it back, bring it back 
Don’t take it away from me, because you don’t know 
What it means to me.”

Love of My Life ha rappresentato uno dei capisaldi del gruppo nei concerti con ampia partecipazione del pubblico. Molti attribuiscono la dedica di questi versi da parte di Freddie Mercury a Mary Austin, per molti l’unico e vero “amore della vita” del leader dei Queen, un vero e proprio punto di riferimento per lui, tanto da confidare per prima a lei la propria malattia e da assegnarle la gestione delle proprie ceneri con collocazione in un luogo segreto al pubblico. A portarlo sulla cattiva strada è Paul Prenter, il manager della band: egli si approfitta della personalità fragile e malinconica di Freddie, della sua paura di restare solo. L’abbandono della band è sentito come un vero e proprio tradimento verso gli altri membri, verso la sua famiglia. Prenter impedisce a Freddie ogni contatto con la band e con Mary, tenendo nascosto il concerto di beneficenza, il Live Aid, che si sarebbe tenuto il 13 luglio 1985 nello stadio di Wembley. Mary si reca a casa di Freddie e lo trova in condizioni pessime, rovinato dall’alcol, dalle droghe e dall’AIDS. Nel film è riportata anche la drammatica diagnosi della malattia di cui Freddie parlerà al mondo intero solo nel 1991, un giorno prima di morire. Venuto a conoscenza del Live Aid, Freddie licenzia Prenter e torna nella band alla quale rivela di essersi ammalato.  Durante il famoso concerto, i Queen fanno di nuovo sfoggio della loro immensa bravura riuscendo a tenere in pugno 72.000 spettatori: Il frontman si riconferma il più grande performer della storia.

Il film dell’anno per i fans della band, atteso con impazienza, da vedere assolutamente. Rami Malek, attore americano di padre egiziano e madre greca, interpreta il ruolo di Freddie Mercury. La prova non era affatto facile ma l’attore è riuscito a calarsi completamente nel personaggio: stesse movenze, stesse espressioni, frutto di mesi e mesi di sforzi. Il risultato è magnifico e fa sperare al premio Oscar per l’attore. Una recitazione che coinvolge, che commuove e fa sospirare chiunque guardi il film. Durante la visione sembra di essere in mezzo al pubblico che canta e che piange e ogni canzone non può che essere cantata a squarciagola, con gli occhi lucidi. La trama è certamente romanzata e certi fatti non corrispondono precisamente al vero ma ciò è funzionale per la sceneggiatura e per un’ottimale trasposizione degli eventi. Anche il resto del cast ha svolto un ottimo lavoro nonostante rappresenti solo una cornice, dentro la quale è la vita di Freddie ad avere il ruolo principale. Un Freddie Mercury che non si può che rimpiangere e ricordare con nostalgia, strappatoci via all’età di 45 anni. Un uomo fragile ma forte allo stesso tempo, che ha lottato fino alla fine in nome della musica, dell’arte, della passione. Un grandissimo messaggio alla fine del film: The show must go on, a ricordarci che nonostante tutto ci spinga a lasciarci andare, non dobbiamo mai abbandonare il nostro ruolo nello spettacolo dell’esistenza.

Susanna Galati

“Sono tornato”: quando l’incubo del passato ci insegna qualcosa

“Sono tornato” è un film del 2018 prodotto dalla regia di Luca Miniero. La pellicola è una trasposizione all’italiana del film tedesco “Er ist wieder da” (che avevamo recensito qui: Lui è tornato). Entrambe raccontano di un ipotetico ritorno ai giorni nostri, rispettivamente, di Mussolini ed Hitler.

Nei panni del Duce troviamo Massimo Popolizio, il quale ha ricevuto, per la magistrale interpretazione del personaggio, il premio Flaiano per le sceneggiatura. Ad aver a che fare con il dittatore vi è invece Frank Matano, nei panni del giovane regista di nome Canaletti da poco licenziato per l’emittente per cui lavorava. Il giovane, scambiandolo per un originalissimo attore, non si lascia sfuggire l’occasione: i due iniziano un viaggio lungo il bel paese per girare un docufilm sulla figura del dittatore e, a detta di quest’ultimo, per “ricostruire l’impero”.

Mussolini ha così modo di confrontarsi con l’Italia di oggi, i suoi problemi e le lamentele del suo popolo e da abile comunicatore qual era riuscirà a godere della simpatia di molti. Tra gag esilaranti e critiche provocatorie lo spettatore potrà divertirsi e riflettere allo stesso tempo, guardando quella che potrebbe definirsi una commedia pedagogica. Si tratta di una vera opera cinematografica e soprattutto documentaristica, infatti la pellicola non ha il solo fine di seguire una trama ma svolge anche un’attenta analisi della realtà. Emblematica, a tal proposito, è una frase dello stesso Mussolini:

Eravate un popolo di analfabeti, ritorno dopo ottant’anni e vi ritrovo ancora un popolo di analfabeti

Il film, come invece si potrebbe pensare, non vuole essere solo una mera ammonizione a ciò che non funziona nel nostro paese ma anche e maggiormente al popolo italiano. Quest’ultimo infatti si rivela, agli occhi del dittatore, ancora incapace e/o negligente riguardo la gestione della cosa pubblica. Inoltre, come si può notare da scene girate in “incognito”, molti connazionali, alla vista del capo fascista, reagiscono scherzosamente con il tipico saluto senza rendersi conto del peso storico di determinati fatti. Ecco allora che l’incubo del nostro passato può insegnarci qualcosa: dobbiamo sempre autovalutarci, come singoli e come popolo, con spirito critico. Tutto questo al fine di riconoscere le nostre lacune come cittadini e colmarle per il nostro bene sociale e per quello democratico del nostro paese.

Angela Cucinotta

Sulla nostra pelle: a Messina il film-evento su Stefano Cucchi

È agghiacciante pensare a quanto male immotivato venga giornalmente perpetuato dagli esseri umani a danno di altri esseri umani, ma è ancor più tremendo riflettere sulle modalità con cui questa inflizione di dolore venga concepita dalla collettività circostante. In un’atmosfera di apatia generale, il danneggiamento fisico e morale viene spesso meccanicamente inglobato in quella spirale di noncuranza e indifferenza a cui ormai l’intera società sembra essersi assuefatta. E proprio per combattere questo mostro crudele che è l’indifferenza, l’Università di Messina ha deciso di prendere parte all’iniziativa che ormai da qualche mese anima le città italiane: la proiezione del film Netflix di Alessio Cremonini “Sulla mia pelle, gli ultimi sette giorni di Stefano Cucchi”. L’evento, a cura delle docenti Paola di Mauro e Domenica Bruni, presentato dal Cospecs e dall’Associazione Stefano Cucchi Onlus, si è svolto martedì 20 novembre 2018 presso l’Aula Magna del Dipartimento di Scienze Cognitive Psicologiche Pedagogiche e degli Studi culturali dell’Università di Messina. Moltissimi sono stati gli studenti universitari coinvolti, tra i circa 200 spettatori presenti. L’iniziativa infatti, come precisa il Direttore del Cospecs Pietro Perconti, si pone innanzitutto come occasione educativa per discutere non esclusivamente di un fatto di attualità, ma di un intero sistema evidentemente imperfetto. Si sono confrontati con il pubblico i relatori Stefania Mazzone, insegnante di Storia delle Dottrine politiche presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali di Catania, Pierpaolo Montalto, avvocato penalista e Pietro Saitta, docente di Sociologia del Cospecs.

La proiezione del film è stata preceduta dalla visione di un breve video, inviato dall’attore Alessandro Borghi, che nel film interpreta Stefano in una maniera giudicata impeccabile dagli stessi famigliari. Borghi non nasconde la grande soddisfazione provata nel lavorare per questo film, afferma emozionato: “Dico grazie alla famiglia Cucchi per essersi fidata di me, per avermi permesso di interpretare Stefano.” Famiglia che ha tratto dal film, uscito lo scorso 12 settembre 2018 e presentato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, la forza di continuare strenuamente quella lotta iniziata ben nove anni fa e volta a restituire  verità e dignità all’uomo Stefano Cucchi, vittima di quella che la prof.ssa Mazzone ha definito “società carcerata”, dominata dal proibizionismo e dall’assoluto monopolio della violenza da parte dei più forti a danno dei più deboli. Da un tale contesto, che si riflette in misura ristretta nel meccanismo carcerario, nessuno di noi può dirsi escluso, né come vittima, né come carnefice. In questa dimensione di sopraffazione emerge chiaramente la volontà, insita in ogni uomo, di abusare ingiustamente del proprio potere, simboleggiato da una divisa che perde inevitabilmente di valore se di essa si abusa. È quanto testimonia il caso Cucchi che purtroppo, come ricorda l’avvocato Montalto, non rappresenta un’eccezione nell’odierno panorama giudiziario, ma una “drammatica regola”.

da sin. Di Mauro, Mazzone, Montalto, Saitta

Tutto ha inizio il 15 ottobre 2009, quando il ragioniere romano Stefano Cucchi, dopo essere stato fermato dai carabinieri, viene perquisito e trovato in possesso di 12 confezioni di hashish, 3 confezioni di cocaina e una pasticca di un medicinale per l’epilessia di cui soffriva. Dopo sette giorni di custodia cautelare, trascorsi tra il carcere Regina Coeli di Roma e il reparto di Medicina protetta dell’Ospedale Sandro Pertini, il 22 ottobre 2009 Stefano Cucchi muore. Già dalla mattina dell’udienza immediatamente successiva all’arresto Stefano presenta evidenti segni di percosse sul viso, mostra di avere difficoltà a camminare, ha un respiro affannato, presenta malessere e dolori evidenti dovuti alla rottura in due punti della colonna vertebrale. Nei successivi sei giorni di agonia Stefano entra in contatto con 150 pubblici ufficiali, ma tutti sembrano preoccuparsi più di se stessi che delle condizioni del ragazzo. Come sottolinea il prof. Saitta, la storia di Cucchi diviene in tal senso “storia di consegna”, in cui ognuno sembra curarsi esclusivamente dell’atto immediatamente precedente a quello in cui Stefano viene posto sotto nuova custodia. Tuttavia, nessuno sembra andare oltre quel gretto sostrato di pregiudizi che impedisce di vedere l’uomo Stefano, debole, spaventato e bisognoso di aiuto che urla silenziosamente nel tentativo, purtroppo fallimentare, di sovrastare il Cucchi carcerato. Tutto questo è il risultato di un “processo di disumanizzazione della relazione”, dettato dal dominio incontrastato della “violenza strutturale” operata da parte dell’intera società a danno della vittima Stefano. Essa, come spiega il prof. Saitta, è quel tipo di violenza che viene esercitata in modo indiretto, che non ha bisogno di un attore per essere eseguita perché prodotta dall’organizzazione sociale stessa. Tale definizione non giustifica tuttavia l’assenza di carnefici, quasi come se si volesse attribuire ogni responsabilità all’astratto paradigma sociale vigente. Al contrario, come chiarisce l’avvocato Montalto, “il responsabile della morte di Stefano è lo Stato”, rivelatosi incapace di custodire un cittadino nel momento in cui questo viene posto sotto la sua tutela. Ma la verità, così evidente agli occhi di tutti e contestualmente tanto celata, è stata confessata solo lo scorso 11 ottobre, dopo nove anni  di estenuante lotta condotta dalla famiglia Cucchi, a cui non sono state risparmiate pesanti critiche, insulti, diffamazioni. È stato il carabiniere Francesco Tedesco a confessare quanto accaduto la notte del 15 ottobre nella caserma di Roma Casilina, dove Stefano era stato condotto immediatamente dopo l’arresto. Il pestaggio è avvenuto ad opera dei carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, imputati insieme a Tedesco per omicidio preterintenzionale. Il contenuto della deposizione, spaventosamente agghiacciante nella sua veridicità, è stato letto dalla docente Paola Di Mauro:

«Allora D’Alessandro diede un forte calcio a Cucchi con la punta del piede all’altezza dell’ano. Cucchi prima iniziò a perdere l’equilibrio per il calcio di D’Alessandro, poi ci fu una spinta di Di Bernardo in senso contrario, che lo fece cadere violentemente sul bacino. […] Io spinsi via Di Bernardo, ma prima che potessi intervenire D’Alessandro colpì Cucchi con un calcio in faccia (o in testa) mentre era sdraiato in terra».

La sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, che non sarebbe eccessivo definire l’Antigone dei tempi moderni, ha definito questa testimonianza il tassello mancante in grado di sgretolare quel muro di indifferenza costruito fino a quel momento dagli assassini di Stefano. Il film di Alessio Cremonini sembra conferire ancor più vigore a quel vento distruttivo che sta irruentemente intaccando questa fortificazione di omertà. Tale possibilità è offerta dalla spiazzante ma veritiera brutalità che caratterizza la pellicola definita da un esponente dell’Associazione Stefano Cucchi Onlus “vera, basata interamente sugli atti processuali”, ma soprattutto in grado di far emergere “la solitudine e la paura provate da Stefano e, dall’altro lato, l’indifferenza altrui”.

Questo film turba lo spettatore, lo destabilizza totalmente, lo colpisce con la stessa violenza usata contro Stefano. Durante la visione è impossibile non avvertire su di sé la crudeltà delle botte, l’impassibilità degli sguardi, la pressoché costante assenza di cura nei confronti di un essere umano privato della propria dignità. È impossibile, cioè, non avvertire sulla propria pelle ciò che Stefano ha provato e subito in ben sei giorni di agonia, condensati negli intensissimi 200 minuti che Alessio Cremonini e Alessandro Borghi ci regalano. Ma la sensazione di ossa rotte, la rabbia mista ad impotenza e il senso di colpa non devono sparire immediatamente dopo la visione del film, come si disperdessero nuovamente in quell’usuale noncuranza quotidiana. È necessario ricordare che, purtroppo, questo film è la trasposizione cinematografica di una triste realtà. È necessario assumere su di sé la consapevolezza che la pelle di Stefano è anche la nostra pelle, che la sua morte è la morte di ognuno di noi, che il lutto della famiglia Cucchi è un nostro lutto. Ogni singolo spettatore non può fare altro che provare la dovuta indignazione nel constatare che Stefano, ancor prima che dalle botte, è stato ucciso dall’omertà, da quel devastante silenzio avente in sé la carica distruttiva di un esplosione. È evidente allora che questo tragico epilogo non è stato conseguenza di eventi casuali o di giustificabile superficialità, bensì della volontà di rimanere sordi e mostrarsi cechi dinnanzi all’animalesco esercizio della violenza. Perché anche di essere indifferenti si è sempre pienamente responsabili.

©GIULIAGRECO per UniVersoMe – 2018

Giusy Mantarro

I 12 anni di Blood Diamond, mai stato così attuale

Si è discusso tanto delle grandi interpretazioni dell’attore di fama internazionale Leonardo Di Caprio ma, tra le tante, questa in Blood Diamond è sicuramente nella classifica delle più meritevoli, accompagnato dalla fantastica messa in scena del beninese Djimon Hounsou.

Blood Diamond, diretto da Edward Zwick, non può non colpire, specie rivedendo i fatti più recenti di cronaca che riguardano tanto il nostro continente tanto quello africano.

Incentrato sull’intreccio delle vite del trafficante di diamanti Danny Archer, di un cittadino della Sierra Leone chiamato Solomon Vandy  e della giornalista Maddy Bowen, il film non fa altro che  sbattere in faccia la nuda e cruda realtà di tematiche dell’Africa del ventunesimo secolo.

Un susseguirsi di tragedie, contraddistinte dalla distruzione del villaggio del nostro co-protagonista e con esso il distaccamento dalla sua terra natia, richiamano quel sapore amaro di verità che il regista cerca di farci provare: non mancano atti di mutilazione, uccisioni e forse l’atto più sgradevole, la separazione dei bambini per mano di ribelli. Questi ultimi non faranno altro che, al soldo di multinazionali, alimentare la guerra, estrarre diamanti e obbligare alle armi migliaia di bambini.

Dall’incontro tra i due in avanti il rapporto non farà altro che migliorare, portandoli anche quasi forzatamente a instaurare una vera e propria amicizia.

Il regista sicuramente ci pone di fronte temi importanti che oggi sembra molti abbiano addirittura dimenticato. I motivi delle grandi migrazioni africane verso il vecchio continente, la sofferenza di interi popoli costretti alla miseria, la corsa allo sfruttamento delle risorse.

L’opera (perché solo cosi può essere definita)  in chiusura ci propone un tratto quasi stupefacente del rapporto di due uomini che nella difficoltà mettono da parte i colori della pelle e le origini per salvare ciò a cui tengono di più e il tutto si racchiude proprio nel momento nel quale Vandy porta sulle spalle Archer, nonostante sia lui una tra le tante cause della distruzione della propria terra.

E’ questo infatti che cerca di trasmetterci il regista: una grossa metafora, dalla quale prendere spunto, che forse è la spiegazione ai problemi della nostra distorta società.

Omar Bonavita

Klimt e Schiele: il film evento su scandali, sogni, ossessioni nella Vienna dell’epoca d’oro

Messina. Il 22-23-24 ottobre in occasione del centenario della morte di Gustav Klimt, presso il cinema Multisala Apollo, è stato possibile assistere al film evento nel quale Klimt e Schiele ci portano dritti nel loro mondo. Un mondo in cui regna la solitudine, l’erotismo, l’inquietudine ed il disordine. Negli stessi anni in cui il medico viennese Sigmud Freud comincia a studiare le leggi della psiche, Klimt e altri giovani artisti rompono con la tradizione, rinnegando l’arte ufficiale di cui non condividono gli ideali e lo stile.

Accademici, universitari e politici si schierano contro le opere di Klimt, ritenute intollerabili e oscene. Era un tipo strano Gustav Klimt, solitario e al tempo stesso magnetico. Copiava oggetti, stili pose, aiutandosi con le fotografie. I volti e le mani dei suoi personaggi sono vivi e reali, mentre lo sfondo e i vestiti appaiono decorati dal colore oro. È l’oro che nel 1901 avvolge Giuditta, sensuale e crudele. La protagonista di Klimt è una donna contemporanea, guarda in basso verso l’osservatore: le labbra semiaperte e la sua nudità l’hanno presto fatta diventare oggetto di uno scandalo. Tutti sappiamo che gli uomini possono essere aggressivi, ma di solito non si ritiene che anche le donne lo siano. È questo il motivo per cui Giuditta appariva sconvolgente all’epoca, ma ciò che la rendeva ancora più sconvolgente era il fatto che provasse piacere nel tenere la testa mozzata di Oloferne tra le mani. Desideri e pulsioni sono dentro di noi, anche se talvolta fatichiamo ad ammetterli e ogni tanto salgono alla superficie sotto forma di sogni, lapsus e nevrosi. L’inconscio parla una lingua che soltanto Sigmund Freud è in grado di decifrare. Alla fine del 1899 viene pubblicata L’interpretazione dei Sogni, ma il frontespizio porta una data simbolica: Vienna, 1990. E’ una guida per il tempo nuovo, perché con Freud l’uomo moderno scopre la propria irrazionalità. La stessa irrazionalità che viene rappresentata da Schiele, il quale per decenni è stato considerato il pittore del brutto, della sconcezza, dell’immoralità.

Si dice che nessuna arte si sia occupata tanto dei sentimenti, delle paure, dei lati d’ombra della vita. Ad esempio l’abbraccio è stato dipinto in tutte le sue forme, ma lo stesso bisogno di abbracciarsi, la fragilità, la paura che questi gesti non siano sinceri, si trova dentro i disegni di Schiele. Negli occhi delle figure ritratte ci sono seduzione, sfida, ma anche angoscia, solitudine e soprattutto provocazione. Gli artisti sono sempre stati consapevoli che chi guarda un quadro vi sovrapponga il proprio stato emotivo, cognitivo, oltre alle proprie intuizioni. Ciò che gli artisti moderni hanno compreso è che chi guarda risponde con pulsioni e dunque l’arte suscita o provoca curiosità da parte dell’osservatore. Per questo motivo, esagerando le posture del corpo, i gesti delle mani e soprattutto l’espressione dei volti, Klimt e Schiele accendono l’empatia dello spettatore facendo sì che da questi particolari arriviamo a interpretare le emozioni che poi il nostro cervello, di riflesso, ci fa provare. Con Klimt e Schiele nell’arte a Vienna si vive un grande momento di incertezza, un momento in cui tutto viene messo in discussione.

Elena Emanuele