Animali fantastici – I crimini di Grindelwald

Il 15 Novembre 2018 i fans di Harry Potter hanno avuto la possibilità di ritornare a sognare il mondo di magia creato da J.K. Rowling.

Animali Fantastici: I crimini di Grindelwald arriva nelle sale cinematografiche dopo il primo film Animali Fantastici e dove trovarli (link recensione). Omonimo del romanzo a cui si ispira, la saga, secondo le dichiarazioni dell’autrice, dovrebbe comprendere in totale cinque film.

David Yates è il fedele regista, mentre la sceneggiatura è curata niente meno che dalla stessa Rowling. Ritroviamo i protagonisti del precedente film: il magizoologo Newt Scamander (Eddie Redmayne) ritorna con la sua inseparabile valigia piena di animali fantastici, accompagnato dalla giovane auror Tina Goldstein (Katherine Waterston), Queenie Goldstein (Alison Sudol) e dall’unico No-Mag o babbano presente nella saga, Jacob Kowalski (Dan Folger).

I nuovi personaggi entrano all’interno della sceneggiatura non senza provocare un grande entusiasmo in tutti i potteriani: fanno la loro apparizione Albus Silente (Jude Law), che da subito occupa un ruolo centrale nella storia, Leta Lestrange (Zoe Kravitz), il cui solo cognome fa venire la pelle d’oca a coloro che hanno imparato a conoscere la famiglia purosangue che lo porta e Theseus Scamander (Callum Turner), il fratello famoso e intraprendente di Newt. Tutti i protagonisti continuano la loro battaglia contro Gellert Grindelwand (Johnny Deep), il famoso mago oscuro che segue ideali di supremazia a sfavore di coloro che non hanno poteri magici. Il precedente film aveva lasciato gli spettatori con la consapevolezza dell’apparente morte di Credence (Ezra Miller), personaggio emblematico all’interno della storia che ritorna determinato a scoprire la sua identità.

Il nuovo film, ambientato nel 1927 a Parigi, si discosta un po’ dall’atmosfera del precedente, in cui protagonisti assoluti erano gli animali fantastici, creature incomprese e accudite da Newt Scamander. L’atmosfera fantastica lascia il posto a dei toni più cupi e la storia si arricchisce di vicende personali. I temi affrontati sono più profondi e impegnativi e provocano non poco disorientamento anche ai fans più esperti. Primo fra tutti, il legame tra Gellert Grindelwald e Albus Silente: i due vengono definiti da quest’ultimo come “più che fratelli” ma è difficile comprendere cosa realmente accomuna questi grandi maghi, al di là del patto di sangue che tra loro intercorre.

La storia d’amore tra Jacob e Queenie perde invece l’alone di leggerezza che aveva nel precedente film; attraverso la loro relazione vengono riportati alla luce i temi del razzismo, della discriminazione, dell’importanza di schierarsi. Di fatto mentre Jacob, nonostante sia un No-Mag non si lascia persuadere dalle belle parole di Grindelwald, la donna, invece, attratta dalle capacità oratorie del Mago Oscuro, si schiera dalla parte di quest’ultimo. Tra i vari intrighi poco spazio rimane per lo sviluppo della storia d’amore tra Scamander e l’auror Tina.

Il tema della lotta tra bene e male affiora anche in questa saga. Gellert Grindelwald, con l’aiuto di Credence, cerca di radunare i suoi seguaci per promuovere il suo messaggio che, nonostante la vena oscura, attira molti maghi e streghe scontenti della loro condizione nel mondo. La ricerca della propria identità da parte di Credence provoca non pochi intrighi che sfociano nel più impressionante colpo di scena,  infatti Gellert rivela al ragazzo di essere il fratello di Albus Silente. Questa informazione provoca tra i potteriani emozioni decisamente contrastanti dal momento che tale informazione pare allontanarsi dalla storia raccontata dalla Rowling nei libri di Harry Potter, in cui il futuro preside risulta avere un fratello, Aberforth Silente, e una sorella, Ariana Silente, accidentalmente morta proprio tra uno scontro tra Gellert e Albus.

L’arduo compito della Rowling è testimoniato dalle differenti opinioni che il pubblico ha avuto sul film. L’autrice si è assunta la complicata responsabilità di creare una storia di cui, già in parte, grazie alla saga di Harry Potter, si conosce il finale. Misurandosi con il fandom questi nuovi colpi di scena posso avere effetti decisamente diversi: da un lato ci sono coloro che, entusiasti di tornare ad Hogwarts, accolgono in modo favorevole la presenza di Silente, nonchè la possibilità di comprendere maggiormente questo personaggio emblematico e che sono emozionati all’idea di dare finalmente un volto all’alchimista Nicolas Flamell (Brontis Jodorowsky); dall’altro lato ci sono coloro che con occhio critico non comprendono, per esempio, la presenza della professoressa di Trasfigurazione nel 1927 (dal momento che dovrebbe essere nata nel 1935) e rifiutano l’esistenza di un altro fratello di Albus Silente, che non appare nella saga del mago Grifondoro.

Animali fantastici – I crimini di Grindelwald appare chiaramente come un film di passaggio: la storia, nei prossimi tre film subirà sicuramente numerosi colpi di scena. Bisogna quindi aspettare, dal momento che non vi sono libri su cui basarsi. Nonostante le opinioni differenti emerse da parte degli spettatori cinematografici, la Rowling ha dato la possibilità a un numero infinito di potterheads di tornare a provare delle emozioni che ormai sembravano essere esaurite insieme all’ultimo film di Harry Potter, permettendo ai suoi sostenitori di ricordare la magia, di rimanere stupiti di fronte a incantesimi e scenari fantastici.

Federica Cannavò

 

The propaganda game: chi sono le vittime del gioco?

The propaganda game è un documentario del 2015 prodotto da Álvaro Longoria. Il tema, abbastanza scottante, è lo svolgimento della vita nella società nordocoreana; la sua economia, la sua gente e le sue istituzioni. Per comprendere però appieno il senso di questo approfondimento è necessario contestualizzare la nazione in questione: attualmente si tratta di uno stato totalitario socialista guidato dal leader Kim Jong-Un. Il paese si trova in continua tensione con l’occidente e in particolar modo con gli Stati Uniti e il motivo di questo difficile rapporto è dovuto al conflitto verificatosi tra il 1950 e il 1953, in piena Guerra fredda.

La Corea del Nord, comunista, aveva infatti provato ad invadere quella del Sud, alleato degli Stati Uniti. Questo giugno è però stato compiuto un grande passo in termini di relazioni internazionali. A dimostrarlo è infatti il summit, seguito da accordo, dei leader di entrambe le nazioni. Se confrontata con la realtà descritta nel documentario questa è un’importante svolta storica.

Nella pellicola viene dimostrato come la società nordcoreana costruisca se stessa in antitesi con quella americana-occidentale. Ma non si tratta solo di questo. Entrambi i “blocchi” giocano una strategica partita in cui la pedina migliore è costituita dall’immagine mediatica. Ed è nell’uso di questa che si scende in un altrettanto gioco d’astuzia e retorica.

Come viene delineato nel lavoro di Longoria, la Corea del Nord si presenta agli occhi del documentarista (e dell’occidente di conseguenza) in un determinato modo, con testimonianze e discorsi mirati ad affondare la strategia dell’altro. Dall’altro lato l’occidente e i suoi messaggi mediatici tendono a dipingere una società che conoscono poco (perchè chiusa ai rapporti con l’estero) secondo l’interpretazione che i “buoni” della storia si trovino da questa parte. Entrambe le fazioni si attaccano a vicenda su aspetti che potrebbero essere davvero negativi o sbagliati, ma senza aver verificato che le cose stiano realmente così. È evidente quindi che le fila di questa battaglia siano tirate da prospettive etnocentriste e nazionaliste. A guidarci nella scoperta di questa nazione sconosciuta troviamo l’unico straniero presente sul luogo: Alejandro Cao de Benós, spagnolo naturalizzato nordcoreano. Questi, insieme alle più disparate figure e personalità, risponderà a tutti i quesiti posti da Longoria argomentando e motivando ogni risposta al fine di proporre un’immagine diversa da quella che ogni giorno i nostri media ci danno. Ogni aspetto preso in considerazione è infatti analizzato fin nei minimi dettagli, seppur in ordine non lineare nel montaggio delle scene.

Il motivo per cui è facile considerare quest’opera come prondamente innovativa è per la sua totale imparzialità: la regia non esprime un’opinione personale e non suggerisce per chi dovremmo essere simpatizzanti, al contrario fa un’analisi oggettiva di tutti i meccanismi e gli interessi in gioco. Come prodotto mediatico fa proprio il contrario di ciò che normalmente i media fanno in situazioni del genere, anzi la sua natura denuncia implicitamente queste pratiche.

Il caso Corea del Nord-Usa è soltanto un esempio dell’ormai dilagante fenomeno della “post-verità”, atteggiamento in cui è considerata come parte più rilevante di una notizia quella che suscita emozioni, non i fatti oggettivi. Questo è solo un tassello della guerra postmoderna, caratterizzata da una frenetica caccia all’informazione e da attacchi mediatici; per quanto riguarda il caso qui analizzato potremmo dire che la guerra armata con gli Stati Uniti si è fermata al 38°parallelo della penisola coreana per continuare sulla via della nuova guerra mediatica.

Qual è dunque la soluzione per non diventare vittime di questo gioco?

Leggere la realtà con il coraggio di andare oltre le apparenze, anche se scomodo, è un buon inizio. Lo è anche informarsi consapevolmente, calandosi nei panni di entrambe le parti. Ma risolutiva è sicuramente la sempre attuale e mai banale massima socratica “conosci te stesso”, la quale ci insegna a prenderci cura di noi e a imparare “l’arte di non essere eccessivamente governati”.

                                                                                                                            Angela Cucinotta

WALL•E: dieci anni di modernità

Ci sono momenti nella vita in cui si ha voglia di tornare bambini e non solo nel periodo natalizio. Questa mia “voglia di ringiovanire” è stata agevolata dal servizio di streaming più famoso in Italia (quello che inizia per N, per intenderci), che ha inserito nel suo vasto catalogo una piccola perla della Pixar e della Disney: WALL•E.

Ammetto che non lo avevo ancora visto, ma volevo assolutamente farlo, ed ho colto l’occasione. La mia recensione, quindi, non sarà un’analisi tecnica su un film che ha ormai 10 anni, del quale hanno parlato tantissime testate e critici ai tempi; ma l’opinione di una ragazza di 30 anni (mi piace definirmi ragazza ancora, perché no) che lo ha visto per la prima volta, con un bagaglio di esperienze sicuramente diverso rispetto a una “me” più giovincella.

La regia e la fotografia, oltre che l’animazione, sono veramente ben studiate e costruite; le ho apprezzate davvero tanto, ma il mio commento sarà “più di pancia”.

Il futuro distopico che il film ci sbatte letteralmente in faccia è qualcosa di devastante, catastrofico. Cumuli di spazzatura e città fantasma. Eppure i primi 10 minuti di film sono un concentrato di tenerezza e simpatia. Ci viene presentato questo robottino-compattatore, unico superstite del pianeta Terra, insieme a un piccolo insetto. Un robot particolare WALL•E, curioso, indagatore, che prova anche paura, sensibile, che discerne tra le cose che possono essere ancora utili o gli piacciono. Come una videocassetta con il musical Hello Dolly, che lui ama molto ed allo stesso tempo lo mette di fronte la realtà della sua solitudine concreta.

Questa condizione, però, cambia quando sbarca sul pianeta EVE.

Lei è molto più “moderna” di lui, ma il nostro simpatico e dolce robot cercherà in tutti i modi comunicare con lei e farà di tutto per aiutarla. E’ molto carina questa contrapposizione tra ipertecnologia e oggetti in disuso. Lo stesso WALL•E, per quanto automa, è un “oggetto” vecchio, ma è unico e ricco di personalità.

Questo amore tra “macchine” che, diversamente dal solito, non sono affatto antropomorfe, è di una delicatezza disarmante. Tutto quello che succede nel film dimostra quanto le macchine siano più umane degli uomini stessi. Gli umani, quelli che il pianeta lo hanno distrutto e abbandonato e, peggio ancora, rintronati dalla tecnologia, hanno rovinato loro stessi.

Dieci anni e i temi sono sempre attuali: la natura e il pianeta annientato dalla scelleratezza dell’essere umano, una compagnia multimilionaria che decide sulle sorti dell’intera popolazione, i soldi e il potere. Forse questa cosa dovrebbe farci un po’ riflettere.

Quello che deve farci ancora di più riflettere sono i sentimenti e le azioni positive nel lungometraggio: il coraggio, non solo dei robot, l’amicizia, l’altruismo, insomma tutte quelle cose di cui i film Disney sono colmi solitamente.

Non mi sento, però, di classificare WALL•E come un classico d’animazione qualunque, sarebbe un peccato. Mi ha colpito, mi ha toccato il cuore sin dai primi minuti, anche se per i primi 30 minuti non c’è nemmeno una parola; ma i gesti valgono più di mille parole, si dice. E sono contentissima di averlo visto da “adulta”, perché si colgono molte cose. Consiglio, quindi, a chi non lo ha visto di farlo e a chi lo ha visto, dieci anni fa, di rifarlo, perché lo scoprirete più moderno e attuale di quanto potreste immaginare.

 

https://www.youtube.com/watch?v=Z0D5UQr08Co

Saveria Serena Foti

Bohemian Rhapsody: inno a Freddie Mercury, il più grande cantante di tutti i tempi

Bohemian Rhapsody è un film di genere biografico, drammatico, musicale del 2018, diretto da Dexter Fletcher, Bryan Singer, con Rami Malek e Mike Myersv. La pellicola segue i primi quindici anni del celebre gruppo rock dei Queen, dalla nascita della formazione nel 1970 fino al concerto Live Aid del 1985. Il film mostra quindi l’ascesa al successo della band e soprattutto l’evoluzione, la crescita e i momenti salienti della vita del suo frontman, Freddie Mercury.

Le parole “Un nome, una garanzia” rendono davvero giustizia al grandissimo cantante considerato da molti inarrivabile, insostituibile, UNICO.  Tutto ciò è ampiamento confermato dal film: una personalità eccentrica e sopra le righe come quella di Freddie che forma  insieme agli amici Brian May, Roger Taylor e John Deacon, quella che sarebbe poi diventata una delle più importanti rock band del secolo scorso.

Fin dalle prime scene emerge il rapporto conflittuale che il giovane Freddie ha con la propria famiglia, con le proprie origini, con ciò che il padre vorrebbe lui diventasse. La famiglia, originaria di Zanzibar, scappa dal paese d’origine nel 1964 a causa della rivoluzione e si reca in Inghilterra per garantirsi un futuro migliore. Molto spesso, nella prima parte del film, Freddie viene chiamato, con disprezzo dai londinesi “Paki”, dato il suo colore di pelle e i suoi lineamenti marcati. E’ durante la prima esibizione della band nel 1970, in un pub, che il cantante conquista tutti con la sua voce, con la sua estensione vocale pazzesca. Alla prima esibizione ne seguirà una seconda, una terza e poi altre svariate e incredibili.

John Reid (Aidan Gillen): Su, ditemi, cos’hanno i Queen di diverso da tutte le altre aspiranti rockstar che incontro?
Freddie Mercury: Glielo dico io cos’abbiamo… siamo quattro emarginati, male assortiti, che suonano per altri emarginati…i reietti in fondo alla stanza che sono piuttosto certi di non potersi integrare, noi apparteniamo a loro.

I primi album della band vennero ben accolti dalla critica, con un rapido incremento della popolarità dei Queen; la volontà di Mercury era comunque quella di innovare il più possibile il loro stile musicale, attingendo ai più diversi generi musicali. Nel 1975 venne pubblicato A Night at the Opera, che consacrò definitivamente il quartetto. Il singolo Bohemian Rhapsody  divenne il simbolo della creatività del gruppo e soprattutto del suo cantante, che ne era l’autore; per la registrazione di questa sola canzone furono necessarie tre settimane, di cui una dedicata esclusivamente alla parte vocale centrale. Nei successivi anni, Mercury scrisse alcune tra le più importanti canzoni dei Queen, come Somebody to Love (A Day at the Races. 1976)We Are the Champions (News of the World, 1977), Don’t Stop Me Now (Jazz, 1978), Crazy Little Thing Called Love (The Game, 1980).

Un ruolo importante è dato al rapporto di Freddie con Mary Austin, sua storica fidanzata. Il loro incontro avviene prima della formazione stessa della rinomata band. Negli anni Settanta, i due si sono fidanzati, arrivando quasi al matrimonio ma nel 1976, il cantante fa chiarezza sul proprio orientamento sessuale e i due quindi si separano. Mary resterà sempre accanto a Freddie e sarà proprio lei a farlo rinsavire dopo l’abbandono della band per aver firmato un contratto da solista.

“Love of my life – you’ve hurt me 
You’ve broken my heart and now you leave me 
Love of my life can’t you see 
Bring it back, bring it back 
Don’t take it away from me, because you don’t know 
What it means to me.”

Love of My Life ha rappresentato uno dei capisaldi del gruppo nei concerti con ampia partecipazione del pubblico. Molti attribuiscono la dedica di questi versi da parte di Freddie Mercury a Mary Austin, per molti l’unico e vero “amore della vita” del leader dei Queen, un vero e proprio punto di riferimento per lui, tanto da confidare per prima a lei la propria malattia e da assegnarle la gestione delle proprie ceneri con collocazione in un luogo segreto al pubblico. A portarlo sulla cattiva strada è Paul Prenter, il manager della band: egli si approfitta della personalità fragile e malinconica di Freddie, della sua paura di restare solo. L’abbandono della band è sentito come un vero e proprio tradimento verso gli altri membri, verso la sua famiglia. Prenter impedisce a Freddie ogni contatto con la band e con Mary, tenendo nascosto il concerto di beneficenza, il Live Aid, che si sarebbe tenuto il 13 luglio 1985 nello stadio di Wembley. Mary si reca a casa di Freddie e lo trova in condizioni pessime, rovinato dall’alcol, dalle droghe e dall’AIDS. Nel film è riportata anche la drammatica diagnosi della malattia di cui Freddie parlerà al mondo intero solo nel 1991, un giorno prima di morire. Venuto a conoscenza del Live Aid, Freddie licenzia Prenter e torna nella band alla quale rivela di essersi ammalato.  Durante il famoso concerto, i Queen fanno di nuovo sfoggio della loro immensa bravura riuscendo a tenere in pugno 72.000 spettatori: Il frontman si riconferma il più grande performer della storia.

Il film dell’anno per i fans della band, atteso con impazienza, da vedere assolutamente. Rami Malek, attore americano di padre egiziano e madre greca, interpreta il ruolo di Freddie Mercury. La prova non era affatto facile ma l’attore è riuscito a calarsi completamente nel personaggio: stesse movenze, stesse espressioni, frutto di mesi e mesi di sforzi. Il risultato è magnifico e fa sperare al premio Oscar per l’attore. Una recitazione che coinvolge, che commuove e fa sospirare chiunque guardi il film. Durante la visione sembra di essere in mezzo al pubblico che canta e che piange e ogni canzone non può che essere cantata a squarciagola, con gli occhi lucidi. La trama è certamente romanzata e certi fatti non corrispondono precisamente al vero ma ciò è funzionale per la sceneggiatura e per un’ottimale trasposizione degli eventi. Anche il resto del cast ha svolto un ottimo lavoro nonostante rappresenti solo una cornice, dentro la quale è la vita di Freddie ad avere il ruolo principale. Un Freddie Mercury che non si può che rimpiangere e ricordare con nostalgia, strappatoci via all’età di 45 anni. Un uomo fragile ma forte allo stesso tempo, che ha lottato fino alla fine in nome della musica, dell’arte, della passione. Un grandissimo messaggio alla fine del film: The show must go on, a ricordarci che nonostante tutto ci spinga a lasciarci andare, non dobbiamo mai abbandonare il nostro ruolo nello spettacolo dell’esistenza.

Susanna Galati

“Sono tornato”: quando l’incubo del passato ci insegna qualcosa

“Sono tornato” è un film del 2018 prodotto dalla regia di Luca Miniero. La pellicola è una trasposizione all’italiana del film tedesco “Er ist wieder da” (che avevamo recensito qui: Lui è tornato). Entrambe raccontano di un ipotetico ritorno ai giorni nostri, rispettivamente, di Mussolini ed Hitler.

Nei panni del Duce troviamo Massimo Popolizio, il quale ha ricevuto, per la magistrale interpretazione del personaggio, il premio Flaiano per le sceneggiatura. Ad aver a che fare con il dittatore vi è invece Frank Matano, nei panni del giovane regista di nome Canaletti da poco licenziato per l’emittente per cui lavorava. Il giovane, scambiandolo per un originalissimo attore, non si lascia sfuggire l’occasione: i due iniziano un viaggio lungo il bel paese per girare un docufilm sulla figura del dittatore e, a detta di quest’ultimo, per “ricostruire l’impero”.

Mussolini ha così modo di confrontarsi con l’Italia di oggi, i suoi problemi e le lamentele del suo popolo e da abile comunicatore qual era riuscirà a godere della simpatia di molti. Tra gag esilaranti e critiche provocatorie lo spettatore potrà divertirsi e riflettere allo stesso tempo, guardando quella che potrebbe definirsi una commedia pedagogica. Si tratta di una vera opera cinematografica e soprattutto documentaristica, infatti la pellicola non ha il solo fine di seguire una trama ma svolge anche un’attenta analisi della realtà. Emblematica, a tal proposito, è una frase dello stesso Mussolini:

Eravate un popolo di analfabeti, ritorno dopo ottant’anni e vi ritrovo ancora un popolo di analfabeti

Il film, come invece si potrebbe pensare, non vuole essere solo una mera ammonizione a ciò che non funziona nel nostro paese ma anche e maggiormente al popolo italiano. Quest’ultimo infatti si rivela, agli occhi del dittatore, ancora incapace e/o negligente riguardo la gestione della cosa pubblica. Inoltre, come si può notare da scene girate in “incognito”, molti connazionali, alla vista del capo fascista, reagiscono scherzosamente con il tipico saluto senza rendersi conto del peso storico di determinati fatti. Ecco allora che l’incubo del nostro passato può insegnarci qualcosa: dobbiamo sempre autovalutarci, come singoli e come popolo, con spirito critico. Tutto questo al fine di riconoscere le nostre lacune come cittadini e colmarle per il nostro bene sociale e per quello democratico del nostro paese.

Angela Cucinotta

Sulla nostra pelle: a Messina il film-evento su Stefano Cucchi

È agghiacciante pensare a quanto male immotivato venga giornalmente perpetuato dagli esseri umani a danno di altri esseri umani, ma è ancor più tremendo riflettere sulle modalità con cui questa inflizione di dolore venga concepita dalla collettività circostante. In un’atmosfera di apatia generale, il danneggiamento fisico e morale viene spesso meccanicamente inglobato in quella spirale di noncuranza e indifferenza a cui ormai l’intera società sembra essersi assuefatta. E proprio per combattere questo mostro crudele che è l’indifferenza, l’Università di Messina ha deciso di prendere parte all’iniziativa che ormai da qualche mese anima le città italiane: la proiezione del film Netflix di Alessio Cremonini “Sulla mia pelle, gli ultimi sette giorni di Stefano Cucchi”. L’evento, a cura delle docenti Paola di Mauro e Domenica Bruni, presentato dal Cospecs e dall’Associazione Stefano Cucchi Onlus, si è svolto martedì 20 novembre 2018 presso l’Aula Magna del Dipartimento di Scienze Cognitive Psicologiche Pedagogiche e degli Studi culturali dell’Università di Messina. Moltissimi sono stati gli studenti universitari coinvolti, tra i circa 200 spettatori presenti. L’iniziativa infatti, come precisa il Direttore del Cospecs Pietro Perconti, si pone innanzitutto come occasione educativa per discutere non esclusivamente di un fatto di attualità, ma di un intero sistema evidentemente imperfetto. Si sono confrontati con il pubblico i relatori Stefania Mazzone, insegnante di Storia delle Dottrine politiche presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali di Catania, Pierpaolo Montalto, avvocato penalista e Pietro Saitta, docente di Sociologia del Cospecs.

La proiezione del film è stata preceduta dalla visione di un breve video, inviato dall’attore Alessandro Borghi, che nel film interpreta Stefano in una maniera giudicata impeccabile dagli stessi famigliari. Borghi non nasconde la grande soddisfazione provata nel lavorare per questo film, afferma emozionato: “Dico grazie alla famiglia Cucchi per essersi fidata di me, per avermi permesso di interpretare Stefano.” Famiglia che ha tratto dal film, uscito lo scorso 12 settembre 2018 e presentato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, la forza di continuare strenuamente quella lotta iniziata ben nove anni fa e volta a restituire  verità e dignità all’uomo Stefano Cucchi, vittima di quella che la prof.ssa Mazzone ha definito “società carcerata”, dominata dal proibizionismo e dall’assoluto monopolio della violenza da parte dei più forti a danno dei più deboli. Da un tale contesto, che si riflette in misura ristretta nel meccanismo carcerario, nessuno di noi può dirsi escluso, né come vittima, né come carnefice. In questa dimensione di sopraffazione emerge chiaramente la volontà, insita in ogni uomo, di abusare ingiustamente del proprio potere, simboleggiato da una divisa che perde inevitabilmente di valore se di essa si abusa. È quanto testimonia il caso Cucchi che purtroppo, come ricorda l’avvocato Montalto, non rappresenta un’eccezione nell’odierno panorama giudiziario, ma una “drammatica regola”.

da sin. Di Mauro, Mazzone, Montalto, Saitta

Tutto ha inizio il 15 ottobre 2009, quando il ragioniere romano Stefano Cucchi, dopo essere stato fermato dai carabinieri, viene perquisito e trovato in possesso di 12 confezioni di hashish, 3 confezioni di cocaina e una pasticca di un medicinale per l’epilessia di cui soffriva. Dopo sette giorni di custodia cautelare, trascorsi tra il carcere Regina Coeli di Roma e il reparto di Medicina protetta dell’Ospedale Sandro Pertini, il 22 ottobre 2009 Stefano Cucchi muore. Già dalla mattina dell’udienza immediatamente successiva all’arresto Stefano presenta evidenti segni di percosse sul viso, mostra di avere difficoltà a camminare, ha un respiro affannato, presenta malessere e dolori evidenti dovuti alla rottura in due punti della colonna vertebrale. Nei successivi sei giorni di agonia Stefano entra in contatto con 150 pubblici ufficiali, ma tutti sembrano preoccuparsi più di se stessi che delle condizioni del ragazzo. Come sottolinea il prof. Saitta, la storia di Cucchi diviene in tal senso “storia di consegna”, in cui ognuno sembra curarsi esclusivamente dell’atto immediatamente precedente a quello in cui Stefano viene posto sotto nuova custodia. Tuttavia, nessuno sembra andare oltre quel gretto sostrato di pregiudizi che impedisce di vedere l’uomo Stefano, debole, spaventato e bisognoso di aiuto che urla silenziosamente nel tentativo, purtroppo fallimentare, di sovrastare il Cucchi carcerato. Tutto questo è il risultato di un “processo di disumanizzazione della relazione”, dettato dal dominio incontrastato della “violenza strutturale” operata da parte dell’intera società a danno della vittima Stefano. Essa, come spiega il prof. Saitta, è quel tipo di violenza che viene esercitata in modo indiretto, che non ha bisogno di un attore per essere eseguita perché prodotta dall’organizzazione sociale stessa. Tale definizione non giustifica tuttavia l’assenza di carnefici, quasi come se si volesse attribuire ogni responsabilità all’astratto paradigma sociale vigente. Al contrario, come chiarisce l’avvocato Montalto, “il responsabile della morte di Stefano è lo Stato”, rivelatosi incapace di custodire un cittadino nel momento in cui questo viene posto sotto la sua tutela. Ma la verità, così evidente agli occhi di tutti e contestualmente tanto celata, è stata confessata solo lo scorso 11 ottobre, dopo nove anni  di estenuante lotta condotta dalla famiglia Cucchi, a cui non sono state risparmiate pesanti critiche, insulti, diffamazioni. È stato il carabiniere Francesco Tedesco a confessare quanto accaduto la notte del 15 ottobre nella caserma di Roma Casilina, dove Stefano era stato condotto immediatamente dopo l’arresto. Il pestaggio è avvenuto ad opera dei carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, imputati insieme a Tedesco per omicidio preterintenzionale. Il contenuto della deposizione, spaventosamente agghiacciante nella sua veridicità, è stato letto dalla docente Paola Di Mauro:

«Allora D’Alessandro diede un forte calcio a Cucchi con la punta del piede all’altezza dell’ano. Cucchi prima iniziò a perdere l’equilibrio per il calcio di D’Alessandro, poi ci fu una spinta di Di Bernardo in senso contrario, che lo fece cadere violentemente sul bacino. […] Io spinsi via Di Bernardo, ma prima che potessi intervenire D’Alessandro colpì Cucchi con un calcio in faccia (o in testa) mentre era sdraiato in terra».

La sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, che non sarebbe eccessivo definire l’Antigone dei tempi moderni, ha definito questa testimonianza il tassello mancante in grado di sgretolare quel muro di indifferenza costruito fino a quel momento dagli assassini di Stefano. Il film di Alessio Cremonini sembra conferire ancor più vigore a quel vento distruttivo che sta irruentemente intaccando questa fortificazione di omertà. Tale possibilità è offerta dalla spiazzante ma veritiera brutalità che caratterizza la pellicola definita da un esponente dell’Associazione Stefano Cucchi Onlus “vera, basata interamente sugli atti processuali”, ma soprattutto in grado di far emergere “la solitudine e la paura provate da Stefano e, dall’altro lato, l’indifferenza altrui”.

Questo film turba lo spettatore, lo destabilizza totalmente, lo colpisce con la stessa violenza usata contro Stefano. Durante la visione è impossibile non avvertire su di sé la crudeltà delle botte, l’impassibilità degli sguardi, la pressoché costante assenza di cura nei confronti di un essere umano privato della propria dignità. È impossibile, cioè, non avvertire sulla propria pelle ciò che Stefano ha provato e subito in ben sei giorni di agonia, condensati negli intensissimi 200 minuti che Alessio Cremonini e Alessandro Borghi ci regalano. Ma la sensazione di ossa rotte, la rabbia mista ad impotenza e il senso di colpa non devono sparire immediatamente dopo la visione del film, come si disperdessero nuovamente in quell’usuale noncuranza quotidiana. È necessario ricordare che, purtroppo, questo film è la trasposizione cinematografica di una triste realtà. È necessario assumere su di sé la consapevolezza che la pelle di Stefano è anche la nostra pelle, che la sua morte è la morte di ognuno di noi, che il lutto della famiglia Cucchi è un nostro lutto. Ogni singolo spettatore non può fare altro che provare la dovuta indignazione nel constatare che Stefano, ancor prima che dalle botte, è stato ucciso dall’omertà, da quel devastante silenzio avente in sé la carica distruttiva di un esplosione. È evidente allora che questo tragico epilogo non è stato conseguenza di eventi casuali o di giustificabile superficialità, bensì della volontà di rimanere sordi e mostrarsi cechi dinnanzi all’animalesco esercizio della violenza. Perché anche di essere indifferenti si è sempre pienamente responsabili.

©GIULIAGRECO per UniVersoMe – 2018

Giusy Mantarro

I 12 anni di Blood Diamond, mai stato così attuale

Si è discusso tanto delle grandi interpretazioni dell’attore di fama internazionale Leonardo Di Caprio ma, tra le tante, questa in Blood Diamond è sicuramente nella classifica delle più meritevoli, accompagnato dalla fantastica messa in scena del beninese Djimon Hounsou.

Blood Diamond, diretto da Edward Zwick, non può non colpire, specie rivedendo i fatti più recenti di cronaca che riguardano tanto il nostro continente tanto quello africano.

Incentrato sull’intreccio delle vite del trafficante di diamanti Danny Archer, di un cittadino della Sierra Leone chiamato Solomon Vandy  e della giornalista Maddy Bowen, il film non fa altro che  sbattere in faccia la nuda e cruda realtà di tematiche dell’Africa del ventunesimo secolo.

Un susseguirsi di tragedie, contraddistinte dalla distruzione del villaggio del nostro co-protagonista e con esso il distaccamento dalla sua terra natia, richiamano quel sapore amaro di verità che il regista cerca di farci provare: non mancano atti di mutilazione, uccisioni e forse l’atto più sgradevole, la separazione dei bambini per mano di ribelli. Questi ultimi non faranno altro che, al soldo di multinazionali, alimentare la guerra, estrarre diamanti e obbligare alle armi migliaia di bambini.

Dall’incontro tra i due in avanti il rapporto non farà altro che migliorare, portandoli anche quasi forzatamente a instaurare una vera e propria amicizia.

Il regista sicuramente ci pone di fronte temi importanti che oggi sembra molti abbiano addirittura dimenticato. I motivi delle grandi migrazioni africane verso il vecchio continente, la sofferenza di interi popoli costretti alla miseria, la corsa allo sfruttamento delle risorse.

L’opera (perché solo cosi può essere definita)  in chiusura ci propone un tratto quasi stupefacente del rapporto di due uomini che nella difficoltà mettono da parte i colori della pelle e le origini per salvare ciò a cui tengono di più e il tutto si racchiude proprio nel momento nel quale Vandy porta sulle spalle Archer, nonostante sia lui una tra le tante cause della distruzione della propria terra.

E’ questo infatti che cerca di trasmetterci il regista: una grossa metafora, dalla quale prendere spunto, che forse è la spiegazione ai problemi della nostra distorta società.

Omar Bonavita

Klimt e Schiele: il film evento su scandali, sogni, ossessioni nella Vienna dell’epoca d’oro

Messina. Il 22-23-24 ottobre in occasione del centenario della morte di Gustav Klimt, presso il cinema Multisala Apollo, è stato possibile assistere al film evento nel quale Klimt e Schiele ci portano dritti nel loro mondo. Un mondo in cui regna la solitudine, l’erotismo, l’inquietudine ed il disordine. Negli stessi anni in cui il medico viennese Sigmud Freud comincia a studiare le leggi della psiche, Klimt e altri giovani artisti rompono con la tradizione, rinnegando l’arte ufficiale di cui non condividono gli ideali e lo stile.

Accademici, universitari e politici si schierano contro le opere di Klimt, ritenute intollerabili e oscene. Era un tipo strano Gustav Klimt, solitario e al tempo stesso magnetico. Copiava oggetti, stili pose, aiutandosi con le fotografie. I volti e le mani dei suoi personaggi sono vivi e reali, mentre lo sfondo e i vestiti appaiono decorati dal colore oro. È l’oro che nel 1901 avvolge Giuditta, sensuale e crudele. La protagonista di Klimt è una donna contemporanea, guarda in basso verso l’osservatore: le labbra semiaperte e la sua nudità l’hanno presto fatta diventare oggetto di uno scandalo. Tutti sappiamo che gli uomini possono essere aggressivi, ma di solito non si ritiene che anche le donne lo siano. È questo il motivo per cui Giuditta appariva sconvolgente all’epoca, ma ciò che la rendeva ancora più sconvolgente era il fatto che provasse piacere nel tenere la testa mozzata di Oloferne tra le mani. Desideri e pulsioni sono dentro di noi, anche se talvolta fatichiamo ad ammetterli e ogni tanto salgono alla superficie sotto forma di sogni, lapsus e nevrosi. L’inconscio parla una lingua che soltanto Sigmund Freud è in grado di decifrare. Alla fine del 1899 viene pubblicata L’interpretazione dei Sogni, ma il frontespizio porta una data simbolica: Vienna, 1990. E’ una guida per il tempo nuovo, perché con Freud l’uomo moderno scopre la propria irrazionalità. La stessa irrazionalità che viene rappresentata da Schiele, il quale per decenni è stato considerato il pittore del brutto, della sconcezza, dell’immoralità.

Si dice che nessuna arte si sia occupata tanto dei sentimenti, delle paure, dei lati d’ombra della vita. Ad esempio l’abbraccio è stato dipinto in tutte le sue forme, ma lo stesso bisogno di abbracciarsi, la fragilità, la paura che questi gesti non siano sinceri, si trova dentro i disegni di Schiele. Negli occhi delle figure ritratte ci sono seduzione, sfida, ma anche angoscia, solitudine e soprattutto provocazione. Gli artisti sono sempre stati consapevoli che chi guarda un quadro vi sovrapponga il proprio stato emotivo, cognitivo, oltre alle proprie intuizioni. Ciò che gli artisti moderni hanno compreso è che chi guarda risponde con pulsioni e dunque l’arte suscita o provoca curiosità da parte dell’osservatore. Per questo motivo, esagerando le posture del corpo, i gesti delle mani e soprattutto l’espressione dei volti, Klimt e Schiele accendono l’empatia dello spettatore facendo sì che da questi particolari arriviamo a interpretare le emozioni che poi il nostro cervello, di riflesso, ci fa provare. Con Klimt e Schiele nell’arte a Vienna si vive un grande momento di incertezza, un momento in cui tutto viene messo in discussione.

Elena Emanuele

L’Avventura nel viale San Martino: sulle tracce di Michelangelo Antonioni

Messina mi ha colpito di più, come ha colpito tutti gli altri: è una città che si differenzia radicalmente da tutte le altre dell’isola” (Michelangelo Antonioni, La tribuna del Mezzogiorno, 8 dicembre 1958)

Prima di trasformarsi in fotogrammi le immagini del cinema prendono forma nel canovaccio della sceneggiatura. Partendo da questo presupposto, e da un incrocio attraverso i generi dell’arte, cercheremo di Leggere Messina con le inquadrature della macchina da presa.

È 1960. L’anno della Dolce Vita. L’immaginario è popolato di starlet e paparazzi. L’avanguardia sperimentale e l’esplorazione degli stati mentali sono un territorio vivo nelle mani dei cineasti. Fa sfoggio di sè un’Italia benestante, economicamente sicura, ma non per questo libera da inquietiduini e incertezze. Dieci anni prima Roberto Rossellini (clicca quì per il link all’articolo) aveva portato alle Eolie una troupe cinematografica, scontrandosi con l’asprezza delle rocce a picco e arrivando a inserire il paesaggio sullo stesso piano della solitudine esistenziale dell’attrice protagonista. Le difficoltà, non soltanto a livello di produzione, incontrare durante la realizzazione dell’Avventura (di cui ha parlato anche Antonioni, ad esempio nell’articolo apparso sul Corriere della Sera, Le avventure dell’Avventura) in un certo senso creano un sodalizio di emozioni con lo scenario con cui si scontrano: il mare perennemente scosso, gli ostacoli negli spostamenti e i problemi materiali durante le riprese sono stati un fattore non da poco nella riuscita dell’opera. Il film è il primo di una trilogia di lungometraggi che ha al centro il tema dell’incomunicabilità, seguito dal più noto La Notte (1961) con Marcello Mastroianni e L’Eclisse (1962). A questi può essere avvicinato Deserto Rosso, il capolavoro del regista, realizzato a colori nel 1964. I rapporti umani, specialmente quelli di coppia, sono attraversati dal tarlo del dubbio, dall’instabilità e dall’impossibilità di esprimersi, di confrontarsi realmente con i sentimenti. A una dimensione razionale, tipica del neorealismo, si oppone l’ombra dello smarrimento e dell’angoscia.

La sparizione di una ragazza appartenente alla borghesia benestante romana, Anna (Lea Massari), arrivata insieme a un gruppo di amici su uno yacht nell’isolotto di Lisca Bianca, vicino Panarea, è un espediente della trama che non incide sullo svolgimento complessivo del film, che si concentra tutto sull’amore tra Sandro (Gabriele Ferzetti) e Claudia (Monica Vitti),  infatuati l’uno dell’altra durante la ricerca, pretestuosa più che interessata, di Anna. Molte le riprese realizzate in Sicilia; dalle Eolie (a Lisca Bianca, Michelangelo Antonioni tornerà nel 1983, girando un corto in ricordo dell’Avventura), Noto, Bagheria, Milazzo, Taormina e Messina. Le scene riguarderanno esterni, come quelli a Noto e alla stazione di Milazzo, ma anche l’interno di un treno che va a Palermo e ferma a Castroreale. L’Hotel San Domenico di Taormina sarà al centro di una serata mondana dove si ritrovano gli altri protagonisti e dove si consumerà il tradimento di Gabriele (nella sceneggiatura con una ragazza messinese, poi sostituita da una escort straniera), mentre la scena finale sulla terrazza, in un certo senso il perno concettuale del film, girata nello stesso albergo, mostrerà alle spalle di Claudia l’Etna coperta di neve. La luce fredda e la desolazione delle ambientazioni, nonostante si aggirino sul fondo delle vicende psicologiche, sono un fattore preminente nel cinema di Antonioni, come lo stesso regista ha ammesso. Per Nino Genovese, che ha curato il volume Messina nella sua Avventura. Omaggio a Michelangelo Antonioni, i paesaggi non rappresentano un fondale scenografico, ma hanno una preminente funzione stilistico-espressiva.

Nella scena di quattro minuti girata a Messina appare un campo lungo sul viale San Martino. Le riprese iniziano il 9 dicembre 1959. La strada è affollata da centinaia di ragazzi elettrizzati dalla presenza di una bella donna in abiti succinti. Gabriele è andato lì per parlare con un giornalista de L’Ora e avere delle testimonianze sui diversi avvistamenti che hanno coinvolto la fidanzata Anna. La sequenza principale avviene nel bar Grotta Orione. Quì Gloria Perkins (Dorothy de Poliolo) viene accerchiata. Poco dopo, quando finalmente la ragazza riesce a liberarsi grazie all’intervento della polizia, l’inquadratura si sposta di nuovo sul viale San Martino, all’altezza del negozio Lisitano (ancora oggi esistente). Alla fine dell’inquaratura si vede in lontananza lo stretto e l’incrocio col Viale Europa (Quartiere Lombardo). Al posto del bar Grotta Orione – un ritrovo all’epoca – adesso c’è un palazzo moderno al cui piano terra si trova un altro bar. L’episodio girato a Messina si è realmente verificato a Palermo, tuttavia Antonioni preferì non ambientarlo nel capoluogo perché i palermitani erano considerati più irascibili dei messinesi, e si temeva potessero opporre una maggiore avversione alla troupe che alloggiava al Jolly Hotel. Tantissime le testimonianze dei giovani che per 3.000 lire vennero coinvolti come comparse. Tra queste è particolarmente curiosa quella di Francesco Cimino, riportata nel volume di Nino Genovese, che viveva nella Casa dello studente di Messina e parlò del film anche con il rettore Salvatore Pugliatti. Il giovane faceva allora parte del Senato goliardico Accademico dell’Ateneo ed entrò in contatto, nel bar Irrera di piazza Cairoli, con dei componenti della produzione che diedero appuntamento il giorno dopo per un colloquio con Antonioni per affidargli il ruolo di un farmacista nella scena a Casalvecchio Siculo. Cimino sarà in seguito anche uno degli organizzatori del Festival dello Spettacolo universitario messinese.

L’Avventura è il primo film importante di Monica Vitti che, dopo questa parte, accompagnerà Antonioni in alcune delle sue pellicole maggiori. L’attrice ha un filo più diretto che la lega a Messina, avendo vissuto l’infanzia in città fino all’età di 8 anni. L’opera trionferà al Festival di Cannes nello stesso anno, ottenendo il plauso della critica, nonostante i fischi da parte di alcuni spettatori presenti che non apprezzarono l’inchiesta del triller trasfornarsi in analisi dell’interiorità umana. A quasi 60 anni di distanza il bianco e nero delle increspature del mare e degli scogli dell’isola di Lisca Bianca, l’ambientazione urbana di Messina in un periodo di fervore sociale e culturale, il vacillare sottile dei sentimenti d’amore, sono ancora elementi intatti di un capolavoro che ha condizionato la storia del cinema e la carriera del regista. Per celebrare il passaggio di Michelangelo Antonioni e la sua Avventura messinese, tra viale San Martino e viale Europa nel 2007 è stata posizionata una targa.

Bibliografia:

Omaggio a Michelangelo Antonioni. Messina nella sua Avventura, a cura di Nino Genovese, 2007

L’Avventura ovvero l’isola che c’è, Edizioni del centro studi di Lipari, 2000

Eulalia Cambria

Eyes di Maria Laura Moraci: trenta attori recitano ad occhi chiusi

 

Eyes è un cortometraggio della durata di 13 minuti, nel quale la regista ha voluto mettere in luce un tema molto attuale, ovvero l’indifferenza.

La regista e sceneggiatrice Maria Laura Moraci, alla sua prima esperienza, è una ragazza 24enne, attrice, ha lavorato con registi come Pupi Avati e Bernardo Carboni; tratta di un documentario basato su una storia vera di immigrazione e integrazione.

Ha dedicato quest’opera al pestaggio di Niccolò Ciatti, ventiduenne picchiato a morte da tre coetanei nell’indifferenza generale ad agosto 2017 in una discoteca vicino Barcellona.

L’originalità è data dal fatto che 28 attori su 30 hanno recitato ad occhi chiusi per l’intero cortometraggio, con gli occhi dipinti sulle palpebre.

Inizialmente si vedono delle prostitute che parlano tra di loro, una delle quali si allontana, con le cuffie nelle orecchie ascoltando “Mad World”.

Poi si passa alla scena principale, nella quale dei personaggi attendono presso la fermata del bus, un bus che peraltro non arriverà mai, in chiaro riferimento ad “Aspettando Godot”.

Ad un tratto si sentono delle urla provenienti davanti a loro, ma nessuno si alza. Una ragazza ha le cuffie isolandosi dal mondo esterno, una coppia si bacia, due ragazze attendono giudicando i passanti, un uomo intento a disegnare una donna cancella le sue labbra con il rosso, con rabbia, intento a cancellare il rumore fastidioso che sente. Come se non volesse sentirlo.

Nessuno si alza nonostante le grida persistano. Ma passato un po’ di tempo tutti i personaggi aprono gli occhi contemporaneamente, e decidono di alzarsi andando verso la donna che continua ad urlare.

Emozionante e intenso, Eyes ci manda delle immagini di grande impatto e potenti in cui vediamo una società che non vuole vedere, non vuole ascoltare il mondo circostante, una società egocentrica se vogliamo, ma soprattutto incapace di avere empatia verso l’altro.

Solo alla determinazione della donna, che desidera essere salvata, che crede davvero che qualcuno possa venire ad aiutarla, le persone si alzano andando verso di lei.

La fotografia è stata curata da Daniele Ciprì, autore della fotografia che ha lavorato con Bellocchio. Risulta ben fatto, il colore è saturo, caldo, rimane impresso nella mente.

Le opere cinematografiche che vogliono fare denuncia sociale, verso temi delicati ed attuali (qui la violenza sulla donna e l’indifferenza) sono da ammirare e da prendere come modelli d’ispirazione.

Il cortometraggio ha ricevuto parecchi riconoscimenti e premi in festival di tutto il mondo.

Marina Fulco