Riforma Copyright

Alla vigilia l’esito del voto non era scontato, ma alla fine l’aula di Strasburgo ha approvato la legge sul copyright, con 348 sì (tra cui quelli di Pd e Forza Italia), 274 no (inclusi Lega e Movimento 5 Stelle) e 36 astenuti, dopo avere respinto la proposta di 38 eurodeputati di riaprire il testo, votando gli emendamenti che erano stati depositati.

La riforma è sostenuta da media e grandi editori, mentre i più piccoli potrebbero esserne danneggiati.

Avversi alla nuova normativa, che dovrà essere convertita da tutti i paesi Ue, i big della rete come Facebook, Google e Twitter, i quali dovranno concordare un equo compenso con i produttori dei contenuti e provvedere a sistemi di controllo automatici per evitare che sulle loro piattaforme sia caricato materiale protetto da diritto d’autore.

“La direttiva sul copyright è migliorata – ha commentato Google dopo l’approvazione -, ma porterà comunque ad incertezza giuridica e impatterà sulle economie creative e digitali dell’Europa. I dettagli contano e restiamo in attesa di lavorare con politici, editori, creatori e titolari dei diritti mentre gli Stati membri dell’Ue si muovono per implementare queste nuove regole”.

La disposizione intende garantire che diritti e obblighi del diritto d’autore di lunga data, validi nel mondo offline, si applichino ora anche online.

YouTube, Facebook e Google News sono alcune delle piattaforme online che saranno più direttamente interessate dalla nuova legislazione.

Queste ultime divengono direttamente responsabili dei contenuti proposti sui loro siti.

La riforma si pone infatti l’obiettivo di incrementare le possibilità dei titolari dei diritti, in particolare musicisti, artisti, creativi ed editori, di negoziare accordi migliori sulla remunerazione derivata dall’utilizzo delle loro opere diffuse sulle piattaforme web.

Gli editori di stampa acquisiscono inoltre il diritto di negoziare accordi sui contenuti editoriali utilizzati dagli aggregatori di notizie.

Ieri wikipedia in segno di protesta ha deciso di oscurare le sue pagine di ricerca.

Maurizio Codogno, portavoce di Wikipedia Italia, ha commentato gli obiettivi della protesta: «L’obiettivo che vogliamo raggiungere è che ci sia un numero sufficiente di eurodeputati che bocci per lo meno gli articoli 11 e 13 perché riteniamo che non siano utili né per gli autori né per lo scopo che, in teoria, la Direttiva si propone. Si vorrebbe creare un mercato unico per il copyright, in realtà, per come sono formulati gli articoli 11 e 13 si ottiene un guazzabuglio che ha poche possibilità di funzionare».

La libertà d’espressione, prerogativa identitaria del web e delle dinamiche sociali attuali, rischia di essere fortemente compromessa in un periodo storico dove ce n’è tanto bisogno.

C’è davvero la necessità che idee, prospettive alternative, concetti inediti smettano di veicolare non tutelando quell’equilibrio imprescindibile di moderna democrazia?

Antonio Mulone

L’infanzia e il pericolo web dei social

I tempi cambiano, si evolvono in fretta, modellano e plasmano le abitudini culturali, educative e di consumo che caratterizzano il nostro vissuto quotidiano.

Dunque le piattaforme social ( Instagram, Facebook), divengono lo specchio della realtà; gli account sono intasati di post e foto che documentano, come fossero la video-gallery della nostra vita, la quotidianità.

Dal primo respiro alla prima pappa, dal primo bagnetto alla prima volta sulla bicicletta, passando per il video che immortala i primi piccoli passi.

Protagonisti assoluti del teatro dei social media nonni orgogliosi, zii invasati ed infine mamme e papà, in cerca di tanti likes, di una soddisfazione apparente del proprio ego e di vanitosi compiacimenti.

Nasce da qui quindi l’allarme social contenuto nel report del Children Commissioner inglese:” In media all’età di 13 anni i genitori ed i parenti hanno già postato sul web circa 1300 tra foto e video dei propri figli su Facebook o Instagram – scrive Anne Longfield nel rapporto, dove continua – la quantità delle informazioni inserite aumenta esponenzialmente quando gli stessi bambini iniziano ad interagire con queste piattaforme”.

L’analisi presente in questo report in effetti evidenzia che in media un ragazzo interagisce circa 26 volte al giorno sui web-media, raggiungendo intorno ai 18 anni circa 70.000 interconnessioni.

Aggiunge Anne Longfield:” Dobbiamo fermarci prima di condividere dati personali, e pensare cosa significhi per i bambini oggi e come possa avere un impatto nelle loro vite da adulti”.

Spesso i genitori, che dovrebbero avere un approccio molto più cauto con l’imprevedibile mondo del web e, che dovrebbero educare i propri figli ad un atteggiamento moderato on-line, sono in realtà i primi a postare foto, video e materiale sensibile come localizzazione ed informazioni private.

E’ pertanto assolutamente fondamentale essere padroni dei meccanismi di funzionamento dei social e limitarne l’utilizzo in termini di tempo.

Cambiare spesso la password, aggiornare i programmi di sicurezza, leggere termini e condizioni delle App che si utilizzano, evitare di inserire sul web informazioni sensibili; questi i consigli della Longfield per un corretto uso del mondo social.

Pertanto parrebbe,ancora una volta, che buon senso, intelligenza e moderazione siano la chiave per una convivenza serena tra vita reale e vita social.

Antonio Mulone

Scontro sui vaccini: riflessioni di uno studente di medicina

Salvini, paura e populismo: non è il metodo Burioni che salverà i bambini italiani.

L’ultima entrata in scivolata contro il mondo dei vaccini risponde al nome del neoeletto Ministro degli Interni Matteo Salvini. Non è stata la prima “frase accalappia voti” e non sarà l’ultima sull’argomento. Ma nella disputa pro-vax vs no-vax, chi è davvero il peggior interlocutore?

E’ ormai da circa vent’anni che dilaga a macchia d’olio la paura del vaccino. Se prima rimaneva confinata tra mura domestiche, come un tarlo si insinuava nei genitori e ne nascevano discussioni più o meno convinte, da pochi mesi a questa parte l’argomento ha assunto dimensioni inimmaginabili.

Pochi comprendono il funzionamento di questa conquista scientifica, o che almeno era considerata tale quando ancora amici e parenti morivano di poliomelite, pertosse, morbillo e meningite. 

Si sa, noi italiani, siamo appassionati di storia solo quando si tratta di elencare i pregi del periodo fascista o quando elenchiamo tutti i goal segnati dalla squadra del cuore (sì, è una frase qualunquista, ma sfido chiunque a sfatarla).

La maggior parte ignora quanto il vaccino abbia fatto per i propri nonni, genitori, e connazionali. Ignoriamo, cioè, la storia dei vaccini, le personalità che vi hanno dedicato la vita, e ancor meno conosciamo la storia di chi ha avviato la lotta ai vaccini: Andrew Wakefield. E’ questo il nome del medico inglese che nel 1998 pubblicò uno studio in cui associava le infiammazioni intestinali all’autismo,  riferendo inoltre che alcuni dei bambini affetti da autismo avevano sviluppato i sintomi dopo la somministrazione del vaccino trivalente contro morbillo, parotite e rosolia (Mpr). 

La ricerca, pubblicata sul rinomato Lancet, concludeva dichiarando espressamente che non era ancora dimostrabile alcun legame tra vaccinazioni e sintomi manifestati in quei bambini. Tuttavia lo stesso Wakefield organizzò varie conferenze nelle quali sosteneva che tale legame fosse probabile, generando il panico generalizzato. La soluzione sarebbe stata quella di una somministrazione monovalente per i vari virus del trivalente, che però ancora non esisteva. Anzi, fuori il coniglio dal cappello! L’aveva appena brevettata!

Che colpo di genio, che coincidenza! No. Ovviamente la ricerca era stata falsata, mancavano i casi-controllo, alcuni reperti istologici erano stati manomessi, e venne anche fuori che la ricerca era stata commissionata da un avvocato che voleva intentare una causa miliardaria contro la casa di produzione del suddetto vaccino. Insomma, i no-vax lottano contro l’economia delle case farmaceutiche abbindolati proprio da chi era pronto ad intentare una truffa sulla salute della popolazione mondiale.

Il dubbio è da sempre linfa per l’uomo, perché conduce ad una ricerca che a sua volta porta al superamento di un limite, ad una conoscenza maggiore, all’acquisizione di un vantaggio evolutivo. Ma un dubbio non supportato da un metodo scientifico, può diventare qualunque cosa. E quando più persone con lo stesso dubbio e con la stessa mancanza di senso critico si incontrano, rafforzano le proprie convinzioni, il dubbio diventa paura. La paura alimenta se stessa, attecchisce senza destare sospetto. E quando la paura dilaga allora è utile strumentalizzarla, perché porta consenso. Da qui il suo sfruttamento dai vari politici di turno.

Viene montata ad hoc la guerra “popolo” contro “èlite”, dove èlite è chiunque faccia parte di un mondo visto inaccessibile, difficile, fatto di competenza, di dati, di razionalità; popolo è chi rifiuta l’esperto, chi si fida delle sensazioni, chi trova risposte semplici a problemi complessi. Ogni volta che un esperto si esprime, c’è una parte di paese che lo avverte come nemico, perché dati, prove e dimostrazioni negano propri i sentimenti. Perché la tua analisi dovrebbe valere di più di quello che io provo?

Ecco come medici, chimici, farmacisti, biologi, sono diventati bersaglio di biasimo, di rabbia da parte dell’opinione pubblica fino ad essere tacciati per servi del potere.

Fino ad oggi, lo staff medico ha combattuto questa guerra con le stesse armi degli oppositori, guerra combattuta nella piazza più grande e più complessa che esista: i social network. Allo scettico si è risposto con l’indisponenza, al dubbioso si è risposto con la superbia, alla “mamma informata” si è risposto con la derisione. Ecco perché il Dottor Burioni sbaglia, e con lui i suoi sostenitori. Il virologo marchigiano è probabilmente l’influencer pro-vax più conosciuto d’Italia, il punto di riferimento sui social per la fetta di utenti concordi con le sue idee e che rivedono in lui un porto sicuro quando, fuori, la tempesta no-vax inghiotte le navi solitarie. La preda perfetta per tutti gli hater, complottisti e no-vax che sotto ogni suo post scatenano le proprie battaglie. L’atteggiamento da lui assunto nel rispondere a tali critiche, che più spesso sono insulti, è comprensibile, ma del tutto inefficace. 

Ad esempio: se il signor Cocco Meningo sostiene di non voler vaccinare il proprio bambino per aver letto su www.ivaccinisonounatruffadellecasefarmaceutiche.org che il vaccino “x” causa la malattia “y” è sicuramente poco e male informato. Rispondergli che non capisce nulla, che “la scienza non è democratica”, che “dovrebbe studiare prima di aprir bocca” non farà altro che rafforzare nel signor Meningo la propria idea, aizzerà la rabbia sua e di chi la pensa come lui, a subirne le conseguenze sarà suo figlio che non verrà vaccinato.

Non basta, Dottor Burioni, riportare in interminabili post le prove dell’utilità dei vaccini, ciò che comporta il loro inutilizzo, i link delle fonti scientifiche da cui ha attinto, perché è pane solo per chi ha i “denti” del senso critico, della conoscenza della materia. Per tutta la restante popolazione, la maggioranza, il suo modus operandi non è commestibile, è benzina sul fuoco, parole che non verranno mai lette e comprese, coperte immediatamente dalla rabbia di chi ha paura e si sente preso in giro pubblicamente. 

La vera soluzione sta nel rivedere il rapporto umano che il medico, quello di base ed il pediatra in primis, e in generale tutti i membri dello staff sanitario, devono instaurare con i pazienti ed i loro parenti. Oggi più che mai, il “rapporto umano” su cui si è costruita da sempre l’arte medica, deve trovare nuove vie per approcciare  chi ha paura e riconquistare la sua fiducia. La paura, l’ignoranza e la malattia sono cose intime: come si pensa di poterle sconfiggere sui social? Questi, semmai, possono tornare utili in un secondo momento, per eventuali approfondimenti, curiosità e confronti. Non possono e non devono essere la prima fonte di informazione, né sostituire la visita medica e il rapporto paziente-medico.

Oltre a ripartire da zero sul fronte del rapporto medico-paziente, occorre riorganizzare il fronte dell’istruzione, dalle scuole elementari alle superiori. Più che incentivare lo studio delle materie scientifiche, dovrebbe assumere primaria importanza l’acquisizione del metodo scientifico, del senso critico, di cosa vuol dire dimostrare una tesi, confutarla, costruire un esperimento, osservare e dedurre conclusioni. Un tipo di educazione che stimoli non a contenere informazioni, bensì  alla critica, alla creatività all’elaborazione attiva di ciò che si impara.

Il medico oggi deve accettare la realtà in cui è obbligato ad operare, non combatterla. Solo scendendo a patti con se stesso e con il paziente potrà rieducarlo. Non può più contare sull’autorità che un tempo il camice bianco conferiva a chi lo indossava: deve costruire il rapporto persona per persona, parola per parola, solo allora acquisterà un peso sostanziale ed un raggio di azione che il medico formale non ha mai avuto.

Antonio Nuccio

Facebook: solo la metà degli adolescenti lo usa

 Sempre più utenti giovani prendono le distanze dal social network Facebook, da sempre considerato il social più apprezzato e popolare.

I dati della ricerca condotta da Pew Research Center dal titolo ‘Teen, social media e Technology 2018’ mettono in chiaro che i millenials americani preferiscono di gran lunga Youtube, che in fondo è un social anomalo considerato che per guardare clip e video non serve un account, ed è frequentato dall’85% dei teenager. Vanno molto bene anche Instagram frequentato dal 72% e Snapchat  dal 69%, che è in fondo l’applicazione che, negli anni, ha condotto alla rivisitazione di tutte le altre con le recenti Stories e le Lens (filtri e maschere).

Secondo l’indagine, solo il 51% dei teenager statunitensi utilizza Facebook, seguito da Twitter e Tumblr, a loro volta 32% e 14% degli adolescenti.

Il gioco cambia quando viene chiesto “Qual è il social più volte aperto?” e la risposta più gettonata è Snapchat, seguito da Youtube, Instagram e Facebook.

Ci sono social network che ci accompagnano nel corso della giornata, social di cui non riusciamo a fare a meno, accumuliamo notifiche su notifiche e teniamo il cellulare a portata di mano anche quando dormiamo, e quella della sveglia è una scusa bella e buona. I giovani migrano verso altri social meno impegnativi dal punto di vista dei contenuti, questo perché Facebook ha perso la sua esclusività, non è più il luogo naturale di ritrovo.

Fra i giovani il 95% (nel 2015 era il 73%) dice di usare uno smartphone e quasi la metà (45%, il doppio di tre anni fa) di essere online “quasi costantemente”. Un altro 44% rivela di connettersi diverse volte al giorno. Insomma, nove su dieci vivono collegati ma i dati sulle ragazze sono più elevati. I ragazzi non hanno tuttavia un’idea univoca sui possibili effetti dei social su di loro. Il 45% crede per esempio che l’impatto non sia né positivo né negativo. Tre su dieci, invece, si ritengono convinti che le conseguenze siano positive (sottolineando la possibilità di collegarsi agli altri e di fare comunità ma anche di informarsi) e il 24% non è così fiducioso.

Serena Votano

Social networks e politica: il caso Facebook

“Più sono grossi, più fanno rumore quando cadono” diceva nel 1900 il pugile britannico Bob Fitzsimmons prima di salire sul ring per affrontare il suo prossimo match e credo non ci sia frase più azzeccata per sintetizzare l’enorme clamore provocato, negli ultimi giorni, dallo scandalo del social network americano Facebook.

Nel 2007, anno del lancio della piattaforma in Internet, il trentatreenne CEO del colosso di Menlo Park, Mark Zuckerberg, si era detto favorevole alla collaborazione con varie applicazioni che avrebbero reso maggiormente interattivo e dinamico il rapporto tra users – si vedano in merito: l’inserimento delle date dei compleanni degli amici sul calendario, la sincronizzazione tra rubrica telefonica e lista dei contatti, fino ad arrivare all’uso della geolocalizzazione per creare una mappa digitale delle abitazioni dei propri followers -. Tutto questo e molto altro venne introdotto dagli sviluppatori dando la possibilità ad ogni singolo utente di condividere con Facebook ed altre app abilitate nel farlo, alcuni dei propri dati personali e la propria lista amici, garantendo sempre il rispetto della privacy del sottoscrivente. Il sistema funziona, il “social in blu” guadagna sempre più in popolarità e ricchezza e gli iscritti si dicono contenti delle nuove migliorie.

Ma è nel 2013 che tutto cambia. Facebook è sulla cresta dell’onda, e alle applicazioni che vi collaborano è garantita una larga libertà per quel che concerne l’uso e l’archiviazione delle informazioni di utenti ed amici. È in questo panorama che nasce thisisyourdigitallife” app creata da Aleksandr Kogan, ricercatore russo-americano della prestigiosa Università di Cambridge, esperto di big-data e comunicazioni. Si trattava, sostanzialmente, di un semplice quiz di 61 domande destinato ad individuare a quale livello fossero diffusi i tratti della Triade oscura” (narcisismo, machiavellismo e psicopatia) sulla popolazione del web e quanto questi fossero importanti per comprendere i sempre più numerosi comportamenti violenti su Internet. A scaricarla furono circa 270mila persone che, involontariamente, hanno contribuito in maniera significativa ad influenzare i risultati di due eventi fondamentali per il panorama socio-politico mondiale: il referendum per la Brexit e le elezioni presidenziali americane del 2016. Secondo quanto rivelato da un’inchiesta del New York Times, questi utenti, scaricando il questionario online di Kogan, davano il loro consenso alla società produttrice dell’applicazione di entrare in possesso della loro lista contatti, un “patrimonio umano” di circa 51 milioni di profili che, se analizzati da professionisti del campo politico, potevano essere facilmente utilizzati per indirizzare gli elettori verso una scelta ben definita, mediante l’uso di messaggi mirati e banner pubblicitari costruiti ad hoc.

Mark Zuckerberg presso la sede di Facebook, in Menlo Park, California, il 27 settembre 2017.
foto: STEPHEN LAM/REUTERS

Solo un anno dopo, alla luce di una serie di attività sospette mosse da applicazioni abusive nei confronti del colosso social, Zuckerberg decise di rivoluzionare la propria piattaforma per garantire un maggiore controllo ed una più ampia sicurezza per i dati personali dei propri iscritti; ma è nel 2015 che, a detta dello stesso Zuckerberg, Facebook viene a conoscenza del fatto che Kogan avesse condiviso i dati ottenuti da “thisisyourdigitallife” con la società “Cambridge Analytica” specializzata nel supporto di grosse campagne elettorali mediante i social networks. 

Ciò che risulta essere veramente interessante in tutta questa vicenda lo si apprende, però, leggendo due dei nomi a capo di “Cambridge Analytica”: Steve Bannon, ex capo stratega del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, vice presidente della società in questione e grande amico di Nigel Farage, leader del partito Ukip che ha guidato il movimento per la Brexit; e Bob Mercer, miliardario, esperto di informatica, padre di Rebekah Mercer che è alla testa del più importante comitato elettorale dei repubblicani, nonché head funder di “CA”.

Dallo scoppio dello scandalo, Facebook ha già perso 7 punti percentuali in borsa, circa 40 miliardi di dollari in pochi giorni ed il fenomeno non sembra essere in calo. Zuckerberg si è prontamente scusato con un lungo e dettagliato post sul proprio profilo personale, cercando di spiegare meglio la situazione e di limitare, almeno in parte, le forti critiche che migliaia di utenti gli stanno quotidianamente recapitando; contemporaneamente in molti si sono mobilitati a favore della campagna #DeleteFacebook, nata su Twitter con il solo scopo di boicottare il gigante social colpevole di aver violato la fiducia di milioni di utenti.

Sembra essere un duro colpo quello che ha incassato il più importante social network del mondo, ma difficilmente sarà quello del K.O.

 

 

Giorgio Muzzupappa

 

Intelligenza artificiale ed androidi, cosa è fondamentale considerare.

E’ successo venti anni fa, più o meno in questo periodo: la prima “vittoria” del computer sull’uomo. Nel cuore di Manhattan il super computer Deep Blue progettato da IBM batteva in sole 19 mosse il più grande giocatore di scacchi, Garry Kasparov, chiudendo in modo sorprendente l’ultima di sei partite in un torneo combattutissimo, giocato proprio per dare alla macchina la possibilità di rivincita dopo la sconfitta subita appena un anno prima. Per non ripetere gli stessi errori al tavolo di gioco, i programmatori dell’azienda avevano potenziato il “cervellone” di Deep Blue rendendolo capace di analizzare 200 milioni di mosse al secondo.

Da allora, la cosiddetta intelligenza artificiale ha fatto passi da gigante, non solo nei giochi da tavolo: aziende come Google, Facebook, Amazon, Uber ed anche diverse case automobilistiche stanno investendo molte risorse e denaro per produrre software intelligenti ed abili nello svolgere compiti particolari. Non so se ricordate quanto fosse sgrammaticato il traduttore di Google fino a qualche anno fa, adesso non è perfetto, però, quantomeno, riesce a fornire una traduzione più o meno corretta.

Ma cos’è questa intelligenza artificiale e da dove è spuntata fuori?

Non è facile dare una definizione univoca di Intelligenza artificiale, perché nemmeno i cosiddetti addetti ai lavori riescono ad accordarsi a riguardo. In modo abbastanza prudente partirei col dire che per intelligenza, comunemente parlando, intendiamo l’insieme di capacità psichiche e mentali che permettono ad una persona di pensare, di comprendere azioni e fatti riuscendo a spiegarli tramite l’elaborazione di modelli astratti a partire dalla realtà. Questi processi, inevitabilmente, portano alla capacità di ottenere un qualche risultato, più o meno efficiente a seconda dei casi.

Ora, la prospettiva di riuscire, un giorno, a creare una macchina che potesse imitare il comportamento umano è emersa in diversi periodi storici, incrociando la mitologia, l’alchimia, l’invenzione degli automi e la fantascienza. E’ stato, però, il britannico Alan Turing nella metà del secolo scorso ad elencare i requisiti per definire “intelligente” una macchina. Nel suo “Macchine calcolatrici ed intelligenza” elaborò il test che oggi porta il suo nome, attraverso il quale un’intelligenza artificiale si rivelerebbe tale solo se riuscisse a convincere chi la sta utilizzando di avere a che fare con un persona e non con una macchina. Risulta evidente che da un test del genere l’osservatore può trarre una valutazione solo parziale; infatti un computer (come Deep Blue che ha battuto Kasparov) può essere considerato intelligente, ma al tempo stesso non avere le capacità di imitare in tutto e per tutto un essere umano ed il suo modo personalissimo di pensare.

Questa è un po’ la sfida (probabilmente “hybris”) della neo-robotica, di alcuni ingegneri cibernetici che nel mondo, lavorano per la realizzazione di robot che assomiglino sempre più a noi umani. Non solo li stanno dotando dei nostri sensi – comandi vocali, touch screen, naso e palato elettronici- ma pensano anche a realizzare degli inserti biologici. Sinapsi umane innestate nei loro hardware, tessuti epidermici creati in laboratorio con le staminali ( pratica già diffusa) con cui rivestire i nuovi robot che potranno essere chiamati a buon diritto (e certo!) androidi, cioè robot umanoidi. Una volta arrivati a questo punto, credo che il salto antropologico più inquietante sarà convincersi che gli androidi possano essere veramente delle persone.

Ma Boezio insegna che persona è “sostanza individuale di natura razionale”. Riescono a svolgere calcoli complicatissimi, a stoccare il campione mondiale di scacchi, ad eseguire azioni con possibilità di errore quasi infinitesimale. Non saranno forse meglio di noi?

In realtà i robot elaborano, non pensano. Ed elaborano perché è stato l’uomo prima a programmarli. Siri, software di assistenza e riconoscimento vocale di Apple, risponde alle tue domande su traffico, meteo, indicazioni stradali e altro ancora. Ma Siri pesca nel suo database l’informazione più corretta. Non può, per esempio, non risponderti e se non lo fa significa che qualche circuito è saltato, non certo per sua propria sponte! E’ una macchina e non può che obbedire alle leggi fisiche del determinismo meccanico che possono, però, essere manipolate dall’uomo. Quindi, per quanto si possa progredire e migliorare nella realizzazione di robot che mimino le capacità umane, essi non saranno altro che una copia di atti in cui brilla la scintilla dell’intelligenza umana. Inoltre, in quanto macchine, non potranno mai avere un’anima razionale perché l’anima è immateriale e, dunque, non può essere fabbricata artificialmente in laboratorio ed infusa in un robot.

Come al solito, si tratta di non assolutizzare mai le conquiste della ricerca e dei progressi tecnologici, perché altrimenti, quella che potrebbe essere un’opportunità per rendere più abitabile questa terra, potrebbe rivelarsi un disastroso tentativo di auto-affermazione da parte dell’uomo, l’ennesimo mito di Prometeo che, puntualmente, si ripete nella storia.

“Est modus in rebus; sunt certi denique fines quos ultra citraque nequit consistere rectum”

Orazio (68-5 a.C.), Satire I, 1, vv. 106-107 –

[Esiste una misura in tutte le cose; ci sono, cioè, dei confini ben precisi oltre i quali, mai, dovrebbe spingersi il giusto.]

Ivana Bringheli

Snapchat non si arrende e rilancia: avviato l’e-commerce con gli Spectacles

Prima Instagram, poi Facebook e a breve anche Whatsapp. Marck Zuckerberg non ci ha pensato due volte: le piattaforme di sua proprietà non potevano non offrire le Stories.

La novità chiamata Stories è stata introdotta per la prima volta da Snapchat, un servizio di messaggistica fondato nel 2011 apparentemente come tanti altri ma dotato di una peculiarità che in breve ha conquistato i giovani di tutto il mondo: le foto, i video e/o i messaggi che si condividono (si possono anche inoltrare in privato) su Snapchat, infatti, si cancellano dopo 24 ore dalla pubblicazione.

I più anziani e famosi social hanno dunque inglobato la funzione principale e caratteristica dell’applicazione creata da Bobby Murphy ed Evan Spiegel. Forte del record ottenuto nell’aprile 2016, quando sono stati visualizzati addirittura 10 miliardi di video, allora la Snap. Inc (società proprietaria del social) per affrontare la concorrenza ha deciso prima di percorrere due strade: quotarsi in borsa e gli Spectacles.

Per l’ingresso a Wall Street servirà ancora un pò di tempo, mentre l’e-commerce targato Snapchat è già realtà. La società a stelle e strisce, infatti, entra nel mercato delle vendite online con gli Spectacles, occhiali hi tech per adesso in commercio solo nel territorio statunitense.

Gli Spectacles sono stati lanciati lo scorso settembre e inizialmente potevano essere acquistati soltanto negli Snapbots, distributori siti nella città di New York. Gli Spectacles permettono agli amanti dei social di registrare e pubblicare video di alta qualità e con un formato vicino al fish eye, che garantisce un campo visivo di 115 gradi. Il costo del nuovo “giocattolino” è di 129,99 dollari, senza contare le spese di spedizione e i tempi di consegna, che attualmente si aggirano sulle quattro settimane.

Francesco Lazzarano