Baustelle “El Galactico”: il viaggio del disincanto

El Galactico è un album lucidissimo e necessario, fotografia di una profondità esistenziale. I Baustelle raccontano la società moderna attraverso una serie di brani dall’alta caratura testuale e musicale. Voto UVM: 5/5

 

I Baustelle tornano con “El Galactico“, un album che non è semplicemente un disco, ma un teorema esistenziale.  Quest’opera, che si muove come una costellazione nello spazio della memoria collettiva e individuale, esplora l’inevitabile collisione tra passato e presente, tra illusioni e la cruda realtà del quotidiano, dei miti che ci siamo raccontati per sopravvivere.

Lo specchio della temporalità

Con un sound che richiama la psichedelia californiana degli anni ’60 e la tradizione cantautorale italiana, la band di Francesco Bianconi, Rachele Bastreghi e Claudio Brasini conferma ancora una volta la sua capacità di rinnovarsi senza perdere la propria identità.

El Galactico segue un dualismo quasi inconciliabile, un “viaggio senza meta” condotto su due binari diversi. Da un lato, la musica che si stratifica come la geologia di un pianeta abbandonato: troviamo tracce di glam rock, new wave, baroque pop, chansone francese e colonne sonore immaginarie. Dall’altro lato, grazie a una scrittura profondamente cinematografica, i Baustelle ci proiettano in un film esistenzialista, in cui i protagonisti si interrogano sulla natura del reale, del tempo che fugge e della memoria, vista non come mera riproduzione del passato, ma piuttosto nella sua reinvenzione.

In sostanza, il trio di Montepulciano intreccia la filosofia continentale al pop italiano, Godard alla nostalgia postmoderna, Pavese ai synth anni Ottanta, creando un tempo non lineare, ma circolare, o forse spezzato, dove ogni canzone sembra arrivare da un futuro che ha già fallito, una distopia malinconica in cui le macerie del vintage diventano materiale da costruzione per nuove utopie emotive.

   

Una poetica della disillusione…

C’è un istante, poco prima che parta la musica, in cui tutto è silenzio. È lì che comincia il viaggio. Non verso un luogo, ma verso una memoria che non abbiamo mai avuto eppure ci appartiene.

Il brano di apertura, Pesaro, riunisce in sé quell’atavico binomio eros-thanatos, che si mescola in un gioco di luci e ombre, alternando immagini potenti e contrastanti, e lo fanno con una liricità quasi pavesiana unita alla tragicità di Godard.

In Spogliami, il brano si carica di sensualità e disincanto, di echi elettronici e toni languidi che pongono il corpo al centro del brano, una discesa nei meandri della fragilità e della bellezza fisica. Il testo riflette sulla superficialità del desiderio in un mondo dove il corpo è diventato solo una merce di consumo, in cui spogliarsi diventa un atto simbolico di rivelazione e non di profonda intimità. La canzone si può leggere come una critica alla cultura postmoderna e al pensiero di Baudrillard sul simulacro: ci spogliamo degli strati esterni senza mai svelare il nostro vero io.

La Canzone verde, amore tossico è una riflessione politica mascherata da elegia postmoderna del disastro ambientale e morale. A tratti sembra di vedere un racconto di Pasolini, un paesaggio contaminato che perde la sua funzione poetica e diventa discarica del silenzio e dell’ipocrisia.

In Filosofia di Moana, la famosa pornodiva diventa musa e merce, corpo sacro e profanato, in una società che ha fatto dell’erotismo un atto automatico.

E non mi innamoro mai, Porno è la bellezza se lo sfascio va veloce

In questo testo viene evidenziata l’eleganza con cui Moana attraversa “l’Impero dell’Oscenità”, che può sostanzialmente paragonarsi alle figure della modernità di Benjamin, quali il flâneur, l’angelo della Storia o, come in questa in questa canzone, la pornodiva che osserva lo spettacolo del mondo che crolla, come un Ofelia postmoderna che affoga nel disprezzo altrui. La canzone è permeata da un’estetica tragica, simile a Diane Arbus, dove la bellezza è intrisa di malinconia e, il sesso, diventa un forma di linguaggio alienante.

Prosegue con Una Storia, titolo fortemente generico che dimostra la propria forza nel fatto che ognuno può facilmente identificarsi. Questo brano è il racconto di una violenza, ambigua e devastante, che si consuma nel silenzio, nella colpa, nella connivenza silenziosa dello sguardo pubblico. Il tema è attualissimo: la spettacolarizzazione del trauma e del dolore. La vittima involontaria diventa protagonista di una tragedia condivisa, ma al contempo banalizzata dal male mediatico, il circolo digitale che diventa mero contenuto social. In tutto questo c’è un’impotenza strutturale, una ballata di De André filtrata al contemporaneo, post-Instagram, post-TikTok.

                                 

…e dell’esistenza

L’imitazione dell’amore è una delle canzoni più sottili dell’album, forse la più politica in senso estetico. Qui, i Baustelle, smascherano l’industria culturale dell’amore, denunciando l’omologazione dei sentimenti.  L’amore non è più eroico, erotico, tragico o politico, ma banalmente un prodotto da consumare.

Con L’arte di lasciare andare si entra in una zona poetica classica, quasi montaliana. L’idea del viaggio, dell’irrequietezza , del girare a vuoto, evoca una condizione umana ancestrale: l’angoscia del tempo nell’uomo moderno che non trova pace nella lentezza. Sembra quasi che, in questo brano, venga svelato il vero problema moderno l’impossibilità di stare al mondo, ovunque, è questo sfiora il camusiano.

Una delle più emotive e immediate dell’album è Giulia come stai, che presenta una costruzione molto sofisticata e ricercata. Questa è una canzone d’amore universale per tutte quelle “Giulie” presenti nelle vite di ciascuno, quella persona importante da amare e proteggere. Sembra poco, ma è tutto. In un mondo in cui la parola è diventata rumore, la gentilezza diventa il vero atto rivoluzionario. Il testo non dice molto, ma ascolta, senza egoismo, diventando un abbraccio contro l’isolamento.

Infine Lanzarote, una Azzurro (di Celentano) disidratata, che è la rappresentazione dell’abbandono, ma senza il dramma conseguente. Il brano è esilio e spaesamento, il luogo lontano che si fa simbolo di mancanza, sia fisica che morale, in sostanza, la noia moraviana.

   

Fotografia del nostro tempo

Mi viene in mente un frammento di Borges: Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume.

Ecco, ascoltando El Galactico, mi sembra di scivolare dentro quel fiume, di diventare quel tempo. Ogni ascolto svela nuovi strati di significato, come se le canzoni fossero specchi deformanti attraverso i quali osserviamo noi stessi. I Baustelle non offrono risposte facili, né cercano di rassicurare,  al contrario, ci mettono di fronte alle nostre contraddizioni e ai nostri desideri irrisolti.

In un’epoca in cui la musica è spesso ridotta a mero intrattenimento, “El Galactico” è un’opera necessaria, un viaggio in cui ogni canzone è una tappa di un pellegrinaggio interiore, alla ricerca di quel senso che forse non esiste, ma che continuiamo ostinatamente a cercare.

 

Gaetano Aspa